India. Meno Modi, più laicità

 

Narendra Modi è stato ridimensionato. Il leader induista con ambizioni di autocrate ha vinto ma non stravinto le elezioni indiane. Salito al potere nel 2014, questo sarà il suo terzo mandato come primo ministro, ma il suo partito, il nazionalista Bharatiya janata party (Bjp), ha ottenuto molti meno seggi del previsto: 240 (63 in meno delle precedenti consultazioni), insufficienti per governare il paese in autonomia. Dovrà farlo in accordo con i partiti dell’Alleanza democratica nazionale di cui il Bjp è parte.

In prospettiva, una buona notizia e non la sola. Ce n’è una di carattere generale: il paese asiatico, il più popoloso del mondo (in luogo della vicina Cina), ha retto l’urto di elezioni extra large (lunghe 44 giorni e con la bellezza di 640 milioni di votanti) dimostrando di essere una democrazia, anche se fragile. La seconda buona notizia è internazionale: l’India ha mostrato al Sud globale (di cui è uno dei leader) che la strada corretta non è quella indicata da Mosca e Pechino.

Viste le tante variabili in gioco, è difficile dire con certezza perché Modi abbia perso per strada molti voti e seggi rispetto al 2019. Probabilmente hanno avuto un peso sia la sua deriva confessionale sia i problemi sociali ed economici di una parte della popolazione indiana.

Ayodhya, Uttar Pradesh: inaugurazione del tempio dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo. Il tempio è stato costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da estremisti hindù. (Screenshot)

Per quanto concerne la religione, nei suoi dieci anni di potere Modi ha spinto sempre più per un rafforzamento dell’identità induista (quasi un miliardo di persone) a scapito delle minoranze, in particolare di quella musulmana (200 milioni) e di quella cristiana (30 milioni), spesso fatte oggetto di violenza (con linciaggi e incendi).

Lo scorso gennaio, il primo ministro ha deciso di recarsi a Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, a inaugurare un tempio indù (Ram Mandir, dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo) costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da fanatici induisti. Inoltre, in una recente intervista televisiva, il leader del Bjp è arrivato ad affermare: «Paramatma (il dio della teologia induista, ndr) mi ha scelto e mi ha mandato per uno scopo». Con ciò cancellando il confine tra stato laico e stato confessionale.

Con riferimento alla condizione socioeconomica degli indiani, i dati sono oggetto di controversia. Secondo i report governativi, la povertà si è infatti ridotta a un modesto 11 per cento con una caduta di ben 18 punti percentuali rispetto al periodo pre Modi (2013-’14). Questo significa che, negli ultimi nove anni, quasi 250 milioni di persone sono usciti dalla povertà (cosiddetta «multidimensionale» perché considera 12 parametri, dal tipo di nutrizione al conto bancario). Per converso, l’India si colloca al 111.esimo posto su un totale di 125 paesi nell’Indice globale della fame (Global hunger index, Ghi) del 2023. Il governo di Nuova Delhi contesta però questa classificazione.

Pur con meno potere, Narendra Modi si appresta a guidare il Paese per altri cinque anni. Di sicuro, l’India rimarrà centrale nel complicato scenario geopolitico del mondo odierno.

Paolo Moiola




Burkina Faso. Il capitano Traoré si rielegge presidente

 

Le «assises nazionali» – incontro di rappresentanti della società burkinabè –, tenute il 25 maggio scorso, hanno approvato il prolungamento di cinque anni della transizione in corso.

La riunione, che era prevista della durata di due giorni, con lo scopo di fare un bilancio del lavoro della giunta militare, ha votato in tutta fretta una nuova «Carta», che mantiene al potere il capitano Ibrahim Traoré, l’uomo forte del momento. Traoré non sarà più il «Presidente di transizione», ma il «Presidente della nazione», che è il nome ufficiale della carica elettiva. Resterà in carica fino al 2029 e potrà candidarsi a future elezioni.

Il capitano ha preso il potere il 30 settembre 2022, deponendo con la forza un altro militare, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva sua volta fatto un golpe nel gennaio dello stesso anno ai danni del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré.

Escluse le voci critiche

Alle assises, che dovrebbero raggruppare le diverse forze della società burkinabè per trovare un consenso durante un periodo crisi, in questo caso non sono stati invitati svariati movimenti della società civile, associazioni, sindacati con voci discordanti da quelle del regime.

Il giornalista Newton Ahmed Barry denuncia ha dichiarato ai microfoni di Radio France intérnationale che l’incontro non era dunque per riflettere, ma per dare ufficialità a un prolungamento della giunta al potere e che il Burkina è gestito da un regime militare, e non è più in una transizione.

In effetti, le voci non allineate con il regime sono messe a tacere. Come nel caso dell’avvocato Guy Hervé Kam, noto esponente del movimento della società civile, arrestato segretamente e tenuto nascosto per quattro mesi. Finalmente lo scorso 30 maggio, i suoi avvocati hanno potuto visitarlo in cella e capire il controverso capo di accusa.

Consenso popolare

Nonostante la deriva autoritaria del regime di Traoré e la stretta sui diritti civili, il presidente gode di una grande popolarità tra la popolazione.

Il pretesto della presa del potere con la forza era stata la situazione di grande insicurezza causata da gruppi jihadisti attivi in gran parte del Paese.

Il regime di Traoré, affiancato da milizie civili chiamate «Volontari della patria», difficilmente controllabili, non ha tuttavia migliorato le cose.

Campione di sfollati

Il Consiglio norvegese dei rifugiati (Nrc) ha pubblicato un rapporto nel quale classifica gli spostamenti di popolazione nel mondo a causa dei conflitti. Il Burkina Faso, nel 2023 per il secondo anno consecutivo, si trova al primo posto, seguito da Camerun, Repubblica democratica del Congo, Mali, Niger, Honduras, Sud Sudan, Centrafrica, Ciad e Sudan.

In Burkina si contano circa due milioni di persone sfollate interne, con oltre 707mila spostamenti solo nel 2023 (un incremento del 61% rispetto al 2022), su una popolazione di circa 23 milioni. I rifugiati burkinabè in altri paesi sono tra il 60 e i 150mila. Gli abitanti in fuga dagli attacchi degli islamisti sono dunque in aumento.

L’Alto rappresentati dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, il 31 maggio scorso, si è detto molto preoccupato sottolineando un incremento del 65% (tra novembre 2023 e aprile 2024) delle uccisioni di civili nel Paese. Vittime causate, oltre che dai gruppi armati jihadisti, anche dalle forze di sicurezza e dai Volontari della patria. Turk chiede un’inchiesta internazionale indipendente sulle violazioni e gli abusi, e che lo Stato assicuri la protezione dei propri cittadini.

Intanto il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, nella sua tourné africana, è stato il 5 giungo scorso a Ouagadougou dove ha incontrato il presidente Ibrahim Traoré, fresco di conferma fino al 2029. Traoré aveva partecipato al summit Russia-Africa del luglio 2023, dove si era distinto per un discorso zeppo di demagogia. Diversi accordi di tipo militare e tecnico sono, da allora, stati firmati tra i due paesi, compreso l’invio di istruttori russi per l’esercito, arrivati nel novembre scorso. L’ambasciata di Russia a Ouagadougou è stata riaperta nello stesso periodo, a sottolineare relazioni sempre più strette. Tratto questo che il Burkina Faso ha in comune con Mali e Niger, con i quali ha creato, nel settembre dello scorso anno, l’Alleanza degli stati del Sahel.

Marco Bello




Mondo. La geometria variabile dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.

«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.

Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?

In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.

Il complimento dell’ayatollah Kamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, agli studenti statunitensi.

Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).

Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.

«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».

John Lee, ex poliziotto, è il «chief executive» che Pechino ha messo alla guida di Hong Kong. (Foto GovHK)

Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.

A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.

Paolo Moiola




Sudafrica. Sconfitto l’Anc

 

Il 1994 fu un anno storico per il Sudafrica. Con la fine dell’apartheid e l’apertura democratica, l’African national congress (Anc), il vecchio movimento di liberazione nazionale guidato da Nelson Mandela, vinse le elezioni con il 63% dei consensi.

Trent’anni dopo, il partito è sceso per la prima volta al di sotto della maggioranza assoluta. Un declino che era in atto da tempo, quantomeno dalla presidenza Zuma, caratterizzata da continui scandali di corruzione e da una cattiva gestione delle risorse statali.

I risultati
Come previsto dai sondaggi, l’Anc si è fermata al 40%, crollando nettamente rispetto al 57% del 2019. Il colpo si è sentito anche a livello provinciale: il partito ha perso la maggioranza assoluta nel KwaZulu Natal, Gauteng e Northern Cape. L’Anc ha pagato le accuse di corruzione che hanno colpito i suoi membri, la disoccupazione dilagante e la stagnazione economica.
Ma soprattutto ha sofferto l’ascesa di un nuovo movimento politico: l’uMkhonto we Sizwe (Mk), fondato a fine 2023 da Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica (2009-2018). L’Mk ha avuto successo a livello nazionale con il 14,6% dei consensi e ha sfiorato la maggioranza assoluta (45%) nella sua roccaforte, il KwaZulu Natal. L’Mk ha eroso voti all’Anc ma anche agli Economic freedom fighters (Eff), fermatisi al 9,5% (10,8% nel 2019).
La Democratic alliance (Da) si è invece confermata il maggiore partito di opposizione con il 21,8% e si è assicurata per un altro quinquennio il governo della provincia del Western Cape.

Gli scenari futuri
L’assenza della maggioranza assoluta impone all’Anc di creare un governo di coalizione. Un qualcosa di mai visto finora a livello nazionale, ma che localmente si è già verificato più volte. Dalla pubblicazione ufficiale dei risultati (2 giugno), i partiti hanno quattordici giorni per tentare di costituire delle alleanze e individuare il futuro presidente. Il 16 giugno infatti, il nuovo Parlamento si riunirà e il suo primo compito sarà nominare il capo dello Stato.
Un punto sembra fermo: l’Anc – in quanto partito che ha ricevuto la maggioranza dei voti – sarà il leader della nuova coalizione e molto probabilmente esprimerà il futuro presidente. Un governo che non la includa è altamente improbabile, oltre che complesso da costituire.
La questione quindi è con quale o quali partiti l’Anc deciderà di allearsi. Secondo alcuni osservatori, il suo alleato naturale sono gli Eff di Julius Malema, ex leader dell’ala giovanile dell’Anc. Ma i rapporti tra gli esponenti dei due partiti sono tesi e manca un’intesa sulla riforma della terra, questione centrale per gli Eff. La proposta avanzata da Malema in campagna elettorale – alleanza in cambio del ministero delle Finanze – è già stata rifiutata dall’Anc. Inoltre, questa coalizione avrebbe comunque bisogno del supporto di almeno un altro partito per garantirsi la maggioranza.

L’opzione più caldeggiata dai mercati e dal mondo imprenditoriale è un’alleanza tra Anc e Da. La coalizione includerebbe i due maggiori partiti del Paese ed escluderebbe le formazioni più radicali. Anc e Da condividono posizioni conservatrici sull’economia, ma divergono nettamente in politica estera: se l’Anc ha accusato Israele di genocidio dei palestinesi; la Da rigetta le accuse. Tuttavia, il leader della Da, John Steenhuisen, ha annunciato di voler fare tutto il possibile per evitare la “doomsday coalition” (la coalizione della fine del mondo) tra Anc, Mk ed Eff.

Zuma, il reale vincitore
A emergere come reale vincitore delle elezioni è stato Zuma. Il suo Mk ha superato ampiamente le previsioni dei sondaggi, ponendosi come interlocutore significativo per il nuovo governo. Infatti, con l’eccezione di un’alleanza tra Anc e Da, in tutti gli altri casi l’Mk potrebbe portare i voti necessari per arrivare alla maggioranza.
Nonostante abbia denunciato che le elezioni sono state rubate, Zuma ha in effetti aperto a negoziati con l’Anc. Ma ha anche posto una condizione: sostituire l’attuale presidente, Cyril Ramaphosa.

Democrazia che funziona
Il voto ha confermato il funzionamento delle istituzioni democratiche sudafricane: l’Anc ha accettato i risultati annunciati dalla Commissione elettorale e invitato gli altri partiti a collaborare per dare un governo al Paese. Non ha tentato di mantenere il potere, sconfessando o manipolando i risultati, come avviene in altri Stati della regione (ad esempio, Zimbabwe e Mozambico).
Il Sudafrica quindi è il primo Paese dell’Africa australe dove l’erede di un movimento di liberazione nazionale ha accettato la sconfitta elettorale e si è reso disponibile a creare una coalizione. Confermando la forza delle sue istituzioni democratiche.

Aurora Guainazzi




Cosa non si vede in Oppenheimer


Nel film di Christopher Nolan colpisce tutto quello che non viene rappresentato: ad esempio, le conseguenze delle bombe sul Giappone, le alternative alla guerra, l’opposizione della scienza al potere militare.

A cosa serve recensire un film uscito quasi un anno fa? Serve a riflettere sui temi che propone, analizzando il film alla giusta distanza emotiva.

Il tempo, le riflessioni altrui, le cose che accadono, possono cambiare molto la prospettiva.

«Oppenheimer» è un film magniloquente. Maestoso, sì, ma non vuol dire che mi sia piaciuto.

È una biografia divisa arbitrariamente in tre fasi. E dura tre ore.

La prima ora è dedicata a spiegarci che Julius Robert Oppenheimer era un genio (nel famoso libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, sarebbe identificata come la «certificazione dell’eroe»). La seconda parte è dedicata alla costruzione e all’impiego della bomba atomica. La terza è centrata sul processo subito da Oppenheimer per essersi rifiutato di proseguire gli studi sulle armi nucleari.

Morti invisibili e guerra ineluttabile

Quello che colpisce di più di questo film è quello che non si vede.

Certo, il fisico nucleare non è mai stato a Hiroshima. Ma nel film non c’è una sola inquadratura dedicata all’utilizzo finale del lavoro fatto da lui e dal suo imponente seguito di scienziati.

Questa è forse la critica più netta, che viene, tra l’altro, proprio dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki: perché nel film non viene mostrata neanche un’immagine dell’inferno scatenato sulle due città giapponesi? E non si dice mai, aggiungo io, che il vero obiettivo era quello di compiere un’azione dimostrativa nei confronti dell’Unione Sovietica, il nemico numero uno degli Usa nei quarant’anni successivi.

Inoltre, non viene mai messa in dubbio la necessità della guerra come soluzione dei conflitti, neanche con un’espressione dubitativa sul volto di qualche comparsa. La guerra c’è, e basta.

Una prospettiva insostenibile, tanto più oggi, quando i governanti del mondo parlano di nuovo di ineluttabilità della guerra: allora, almeno in un film, un accenno alle vie alternative, alla diplomazia, alla nonviolenza, si sarebbe potuto inserire.

Di fronte al rischio per la stessa sopravvivenza della comunità umana, è oggi di vitale importanza aprire a visioni diverse.

Scienza sottomessa

Il secondo elemento riguarda il rapporto tra gli scienziati e l’apparato industriale militare.

Quegli anni furono il punto di svolta per l’Occidente: la scienza si sottomise all’esercito, e da allora divenne la sua ancella. Questo è accennato nel film, ma non è approfondito, mentre invece è uno dei cardini su cui si basa l’intera storia del Novecento.

E poi la pellicola di Christopher Nolan si sarebbe potuta soffermare sulla grande tensione che ci fu dopo il 1933 tra gli scienziati di tutto il mondo: essi si trovarono divisi, per la prima volta, da valutazioni politiche.

Gli anni 30 segnarono, infatti, il primo momento in cui la comunità scientifica internazionale smise di essere coesa, di scambiarsi informazioni, di condividere esperienze, e cominciò a guardarsi con sospetto.

Il ciclo del nucleare

Terzo elemento, quello più nascosto: nel film mancano totalmente i riferimenti al ciclo del reperimento e dell’arricchimento del materiale radioattivo necessario per la costruzione della bomba atomica. Manca quindi una visione sistemica di tutto il ciclo del nucleare: da dove viene l’uranio? Quali conseguenze hanno gli esperimenti sulle persone? Cosa è successo alle popolazioni attorno al sito della prima detonazione nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945? Bisogna sapere, bisognava dirlo, che i primi a subire gli effetti prodotti dalle bombe atomiche non furono i giapponesi, ma molti degli abitanti dell’area di Alamogordo, Usa.

Movimenti contro l’atomica

La terza parte del film si concentra sul processo maccartista a Oppenheimer, che si era rifiutato di proseguire con le ricerche sulla bomba all’idrogeno, avendo, presumibilmente, considerato già abbastanza devastante quella convenzionale (a fissione di plutonio). Di tutto quel periodo storico, successivo alle esplosioni in Giappone, però, non si citano mai le grandi organizzazioni e i movimenti nati contro l’atomica negli anni 50.

Si pensi al Bulletin of the atomic scientists fondato proprio da Oppenheimer già nel Dicembre 1945. Si pensi alle Pugwash conferences on science and world affairs fondate da Joseph Rotblat e Bertrand Russell, nate nel 1957 e che hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1995.

Associazioni e movimenti che si sono battuti per sessant’anni, fino ad arrivare al fondamentale risultato di tutte queste lotte: il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel gennaio 2021, preceduto dal Premio Nobel per la pace del 2017 conferito alla Campagna internazionale contro le armi nucleari (Ican).

Neanche nei titoli di coda si riconosce l’importanza di queste associazioni.

Film militarista?

Dunque? Oppenheimer è un film che si concentra sulla vicenda di un uomo e dell’apparato gigantesco che ha diretto, ma non sottolinea quanto in essa si sia sviluppato l’evento che più di ogni altro ha contribuito ad avvicinare l’umanità alla propria fine.

C’è una scena che mi ha fatto pensare: quando il protagonista vede il lampo accecante della bomba che scoppia, nel silenzio che ne segue, mormora: «Ora sono divenuto morte». Ma le immagini dicono tutt’altro: la nuvola dell’esplosione è fiammeggiante, imponente, devastante e… affascinante. Come l’eruzione di un vulcano.

Questa scena mi ha ricordato quella di Salvate il soldato Ryan alla fine della lunga rappresentazione dello sbarco in Normandia: guardando la spiaggia, le decine di navi e di mezzi, la distesa di morti, il protagonista dice, «però, che spettacolo».

Sottolineare l’aspetto epico di un evento, non significa forse legittimarlo? Oppenheimer, in definitiva, credo sia un film militarista.

Un’ultima cosa: che relazione c’è tra questo film e il documentario uscito in contemporanea: Nuclear now, di Oliver Stone?

Forse è solo una coincidenza che Christopher Nolan e Oliver Stone si siano occupati di nucleare. Forse. Oppure bisogna rendersi conto che c’è un tentativo di rilanciare la «normalità», la «necessità» dell’energia atomica.

Dario Cambiano




Allamano. Il dono della vocazione


Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».

Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».

La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.

Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.

La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.

«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».

Sergio Frassetto

Seminatori di consolazione

Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.

Dal «coretto» il fondatore la contemplava

Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.

Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.

Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.

Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.

Come davanti a uno specchio

Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».

Essere «conche» per essere «canali»

Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.

Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.

I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.

Seminare la buona notizia

Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.

E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».

Suor Maria Luisa Casiraghi

Ho speso tutto

Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.

Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -,  il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.

All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».

«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».

La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».

Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».


POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org
https://giuseppeallamano.consolata.org

 




Sudafrica, trent’anni dopo Mandela


Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.

«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994@.

Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.

«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).

Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica»@. Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».

L’ultimo miglio della long road to freedom

Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.

Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».

Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan@, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994@, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.

Aiuto ai migranti in Eswatini durante il Covid. (AfMC)

Dopo Mandela

La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.

Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.

L’attuale non rosea situazione del Sudafrica, scriveva lo scorso anno Roger Southall, dell’Università di Witwaterstand, sul giornale online The Conversation@, ha spinto diversi sudafricani a tentare di far ricadere sulle scelte di Mandela le responsabilità per i fallimenti successivi.

Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo@.

Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.

Lavoro minorile nelle miniere di Blaauw Bosh Kloof nell’Eastern Cape del Sudafrica (AfMC)

La xenofobia degli ex oppressi

In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022)@, i migranti presenti in Sudafrica sono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila@, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.

Rispetto al totale della popolazione sudafricana, che nel 2022 è arrivata a 62 milioni, i migranti quindi sono quattro ogni cento persone. Eppure, un sondaggio del 2021, riportato da Bbc lo scorso settembre@, mostrava che metà degli intervistati era convinta che i migranti presenti nel Paese fossero fra i 17 e i 40 milioni.

Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.

Nel settembre dell’anno scorso, spiega padre Samuel, a Dennilton, uno dei villaggi seguiti dai missionari, gli abitanti hanno cacciato diversi stranieri accusandoli di stregoneria@.

Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).

Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.

Periferia della città di Merrivale (AfMC)

Migranti per strada

«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.

Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.

«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».

Chiara Giovetti

Danza tradizionale degli Zulu (AfMC)

 




Trattori selvaggi


Quella che oggi prevale è l’agricoltura industriale: a monte le multinazionali dei fertilizzanti, a valle quelle commerciali. Con una dinamica dei prezzi che premia quelle stesse aziende mentre penalizza produttori e consumatori finali. Dopo le proteste e i successivi compromessi al ribasso, a perdere sono l’ambiente e i cittadini.

I trattori che, fra gennaio e febbraio 2024, si sono visti sfilare per le vie di varie città europee, non erano macchine vecchie e di piccola taglia, ma imponenti e di alto valore economico. Segno che, a scendere in piazza, non erano tanto i piccoli coltivatori, magari dediti all’agricoltura biologica, ma i produttori di medie e grandi dimensioni pienamente inseriti nella filiera agricola industriale. Quei produttori, cioè, che si pongono l’obiettivo di ottenere rese quanto più alte possibili tramite l’impiego di macchinari sofisticati e l’uso indiscriminato di ogni tipo di sostanza chimica. Rappresentanti di un’agricoltura che, oltre ad avere pessime ricadute sull’ambiente, è anche estremamente rischiosa per i produttori stessi, perché impone l’esborso di grandi quantità di denaro senza nessuna certezza rispetto ai ricavi. I raccolti, infatti, sono sempre un grande punto interrogativo, specie di questi tempi: con il sopraggiungere dei cambiamenti climatici, di raccolti che vanno male ce ne sono sempre di più. Ma il clima che cambia è solo una delle minacce che condizionano i ricavi degli operatori del settore. L’agricoltura industriale è dominata da pochi sciacalli posizionati sia a monte che a valle della filiera. A monte ci sono le multinazionali dei fertilizzanti, dei pesticidi e dei carburanti, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopolio per imporre prezzi di vendita più alti possibili sui propri prodotti. A valle ci sono le multinazionali commerciali, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopsonio, ossia di acquirente unico, per imporre prezzi di acquisto più bassi possibili. Così i produttori dell’agricoltura industriale lamentano di sentirsi in una morsa che li impoverisce sempre di più.

Costi, ricavi, prezzi finali

Negli ultimi anni vari elementi hanno influito negativamente sia sul fronte dei costi che dei ricavi, mettendo in difficoltà i produttori dell’agricoltura industriale che hanno cercato di rimediare producendo ancora di più, ossia costringendo la terra a dare rese sempre più alte. Sul piano dei costi, sappiamo tutti che, nel corso del 2022, la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto impennare i prezzi del gas e più in generale dei carburanti. Una crescita che, se per le famiglie si è tradotta principalmente in aumento delle bollette elettriche e del gas, per i produttori agricoli ha significato aumento oltre che dei carburanti anche dei fertilizzanti azotati considerato che la materia prima da cui si ottengono questi ultimi è il metano. L’Istat certifica che nel corso del 2022, in Italia, i prezzi dei beni e servizi utilizzati in agricoltura sono cresciuti del 25,3 per cento con rincari guidati soprattutto dai prodotti energetici (+49,7%) e fertilizzanti (+63,4%). Gli aumenti hanno investito tutti i settori, seppur con diversa intensità, a seconda della combinazione dei fattori produttivi. I più colpiti sono stati i produttori di semi oleosi e cereali senza risparmiare la zootecnia. Gli esborsi degli allevatori sono aumentati di media del 16,6% e più precisamente del 9,8% per l’acquisto degli animali da allevamento, del 25% per i mangimi, del 61,5% per i prodotti energetici. Incrementi di costo che non sono stati compensati da uguali aumenti di prezzo alla vendita. L’Istat informa che, sempre nel 2022, in Italia il prezzo dei beni agricoli è aumentato mediamente del 17,7% con una differenza negativa, rispetto ai costi, di circa il 7%.

Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, è più pessimista. Basandosi sui dati Fao a livello globale, forniti nel gennaio 2024, l’associazione sostiene che a volare sono stati i prezzi del cibo al consumatore finale, mentre ai contadini i prodotti agricoli sono stati pagati il 10,4% in meno rispetto all’anno precedente. Più precisamente meno 18% per il latte alla stalla e meno 19% per i cereali nei campi. E pensare che, nel 2022, tutto il mondo era in apprensione per l’aumento del prezzo internazionale dei cereali cresciuto di oltre il 20% come conseguenza della mancata commercializzazione di quelli provenienti dall’Ucraina. Ma i guadagni sono stati intascati tutti dalle grandi multinazionali commerciali. In particolare, Archer Daniels, Bunge, Cargills, in sigla Abc, che dominano il mercato internazionale delle derrate agricole.

Il prezzo dei cereali e quello del pane. Foto Mp1746-Pixabay.

Pane e finocchi

Del resto, che esista un’ampia sfasatura fra prezzi pagati al produttore e quelli pagati al consumo finale, è cosa risaputa. Coldiretti cita il caso della filiera del pane, facendo notare che in Italia il prezzo finale di questo prodotto cresce anche di venti volte rispetto al grano. Un chilo di grano che viene pagato oggi agli agricoltori attorno a 24 centesimi di euro serve per fare un chilo di pane che viene venduto ai consumatori a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città.

Le anomalie – continua la Coldiretti – sono evidenti anche nei prodotti freschi come gli ortofrutticoli che dai campi agli scaffali dei supermercati vedono salire i prezzi di tre-cinque volte. Il tutto benché non debbano subire trasformazioni. Come esempio vengono citati i finocchi.

Secondo i calcoli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) del gennaio 2024, per produrre un chilo di finocchi il contadino deve spendere 18 centesimi di euro, ma riesce a venderli a 12 centesimi, mentre al supermercato sono venduti ai consumatori finali a 1,69 euro, il 1.308% in più. E pensare che i finocchi non necessitano neanche di imballaggio: sono venduti sfusi. Ulteriore conferma di come la filiera agricola sia dominata da posizioni di abuso al cui apice si trovano i signori della grande distribuzione che contribuiscono a ridurre i guadagni degli agricoltori. Signori evidentemente considerati troppo forti per essere presi di petto dalle istituzioni, per cui vengono lasciati in pace. E, infatti, è successo che gli agricoltori hanno diretto la propria protesta verso il soggetto pubblico ritenuto più malleabile. Con richieste sia nei confronti dei rispettivi governi che dell’Unione europea. Ai primi per ottenere abbattimenti fiscali e contributi ai carburanti; alla seconda per ottenere modifiche a certe sue scelte riguardanti sia il commercio internazionale che le condizioni imposte per avere accesso ai suoi contributi.

Il prezzo dei finocchi è basso per i produttori, alto per i consumatoeri finali. Foto Ylanite-Pixabay.

Accordi e concorrenza

Un fenomeno fortemente sostenuto dall’Unione europea (Ue), che alcuni agricoltori del continente considerano lesivo dei loro interessi, è rappresentato dagli accordi di libero scambio. Questi consistono in contratti fra due paesi per facilitare i reciproci scambi commerciali. Di norma le facilitazioni consistono nell’abbattimento reciproco delle barriere doganali e nell’accettare le caratteristiche produttive dei prodotti importati anche se non in linea con la legislazione del paese importatore.

Parlando di prodotti alimentari, un’eccezione ammessa di frequente dalla Ue è quella di importare prodotti ottenuti con metodiche proibite nell’Unione europea: ad esempio con l’impiego di particolari farmaci o sostanze chimiche. Pratica contestatissima dai nostri produttori che si sentono penalizzati rispetto a quelli esteri.

A gennaio 2024 l’Unione europea risultava avere ben dodici accordi di libero scambio in ambito agricolo. E non tanto con paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quanto con paesi dell’Estremo Oriente e d’oltre oceano, come Canada, Messico, Cile, Giappone, Vietnam, addirittura la Nuova Zelanda. L’Unione europea sostiene di averli stipulati perché procurano un vantaggio ai consumatori europei e agli stessi agricoltori. Ai consumatori perché possono garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, magari a prezzi più bassi di quelli interni; agli agricoltori perché ampliano i loro sbocchi di mercato con le esportazioni.

E può darsi anche che sia così. Ma solo per i grandi produttori che possono permetterselo, metre quelli piccoli, più orientati al mercato interno, si lamentano perché subiscono la concorrenza sleale di prodotti provenienti dai paesi agevolati dagli accordi di libero scambio. Un esempio è rappresentato dall’accordo recentemente stipulato con la Nuova Zelanda: gli allevatori europei dediti al latte e agli ovini temono di essere danneggiati dai prodotti lattieri e animali provenienti da questo paese che, in virtù degli abbattimenti tariffari, potrebbero entrare a prezzi più bassi di quelli esistenti internamente. Lo stesso vale per alcuni prodotti provenienti dall’Ucraina. In particolare, gli agricoltori di Polonia e Francia, grandi produttori di cereali, hanno chiesto che venisse rivisto l’accordo di libero scambio stipulato con l’Ucraina già nel 2016, perché la guerra ha alterato tutti i flussi commerciali creando una situazione di concorrenza sleale in seno all’Unione europea. Richiesta accolta dalla Commissione europea che, nel marzo 2024, ha introdotto restrizioni alle importazioni agricole provenienti da questo paese.

Le regole della Ue

I produttori si lamentano anche delle regole ambientali imposte dall’Unione europea per poter godere dei contributi agricoli. Il sistema di sostegno all’agricoltura oggi previsto in ambito europeo prevede sia forme di agevolazione finanziaria per specifici investimenti, sia contributi a fondo perduto in rapporto alla quantità di terra posseduta.

In ogni caso i meccanismi di godibilità sono tutti organizzati affinché i beneficiari principali siano le grandi aziende. Ciò nonostante, sono soprattutto i piccoli produttori a lamentarsi delle condizioni da rispettate per potere accedere ai contributi e alle agevolazioni. In particolare, sono messe sotto accusa alcune regole che l’Unione europea ha imposto a tutela della biodiversità e della salvaguardia dei suoli.

Le più odiate sono quelle che limitano l’uso di pesticidi e che prevedono l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei propri terreni.

I piccoli produttori sostengono che si tratta di condizioni capestro che riducono la loro capacità produttiva e quindi i loro già magri guadagni. Richieste di nuovo accolte dalla Commissione europea che, nel febbraio 2024, ha reso più blanda la regola di messa a riposo delle terre e ha ritirato la proposta di regolamento tesa a ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030.

Nelle campagne i braccianti agricoli sono spesso sottopagati. Foto Tim Mossholder-Unsplash.

Ambiente e cittadini

Gli agricoltori industriali tireranno un respiro di sollievo: nell’immediato i loro guadagni sono salvaguardati. Ma per la collettività nel suo insieme si tratta di una disfatta perché continuerà ad aggravarsi il degrado ambientale di cui l’agricoltura industriale è una forte responsabile.

Quello che servirebbe è una profonda revisione del modello economico che seguiamo, un radicale ripensamento del modo di produrre e consumare per fare finalmente pace con la natura. Non per amore disinteressato verso il pianeta, ma per amore di noi stessi, per garantirci un futuro meno problematico.

La grande sfida è avviare questo processo di cambiamento senza lasciare indietro nessuno. Ma, per riuscirci, bisogna cominciare a prendere consapevolezza che cambiare è necessario e che occorre farlo con spirito di solidarietà. Ossia sapendo soccorrere coloro che maggiormente sono investiti dai mutamenti, ma al tempo stesso sono troppo deboli per affrontarli da soli.

Fra essi ci sono sicuramente anche gli agricoltori, specie quelli di piccola taglia, che vanno aiutati a passare a pratiche di tipo biologico senza subire contraccolpi eccessivi.

Francesco Gesualdi




Terre rare. Corsa globale


Sulla Terra si moltiplicano le «zone di sacrificio» dove, in nome di un supposto bene comune (tecnologico), si calpestano persone e ambiente. Le terre rare, minerali cruciali per ogni prodotto, dagli smartphone ai missili, sono contese dai grandi del mondo.

Forse state leggendo questo articolo nella versione cartacea della rivista, oppure dallo smartphone, o da un computer. In ambedue i casi, lo leggete grazie alle tecnologie che fanno funzionare i nostri apparecchi elettronici e le loro batterie, oltre ai sistemi di stoccaggio di dati e ai vari cloud. Queste tecnologie utilizzano una grande varietà di materiali. Tra essi, fondamentali sono le cosiddette terre rare. Non le vediamo a occhio nudo, ma sono cruciali. Impiegate nelle auto elettriche, in apparecchi medici di precisione, laser, schermi, lampadine led. Persino nella raffinazione del petrolio.

La tecnologia fa passi da gigante, e ne abbiamo bisogno. Tuttavia, alcune domande dovremmo porcele. Soprattutto alla luce dei cambiamenti tecnologici promossi, ad esempio, dall’Unione europea. E, di questi tempi, anche alla luce degli enormi investimenti in armamenti e tecnologie nucleari.

Da dove provengono le terre rare? Quanto rare sono? Come si ottengono e come si processano? Chi lo fa, e dove?

Per provare a rispondere a queste domande, il gruppo di ricerca dell’EJAtlas (l’Atlante della giustizia ambientale), insieme alla catalana Observatori del deute en la globalització (Odg), allo statunitense Institute for policy studies e al Craad-oi del Madagascar, membri del Global rare earths element network, hanno condotto una ricerca e documentato i conflitti socio ambientali in relazione alla filiera delle terre rare. Dalla ricerca sono nati un rapporto e una mappa che documentano più di venticinque casi in Cina, Cile, Brasile, Finlandia, Groenlandia, India, Kenya, Madagascar, Malaysia, Malawi, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Svezia.

Ma cerchiamo di rispondere alle domande passo a passo.

Terre rare ovunque

Oggi, quasi tutta la tecnologia utilizza le terre rare. La loro pervasività è esemplificata dall’automobile, uno dei prodotti che ne consumano maggiori quantità. La sua parte elettronica, per esempio, così come gli altoparlanti del sistema audio che utilizzano magneti permanenti al neodimio-ferro-boro. I sensori elettronici che utilizzano zirconio stabilizzato con ittrio per misurare e controllare il contenuto di ossigeno nel carburante. I fosfori dei display ottici che contengono ossidi di ittrio, europio e terbio. Il parabrezza e gli specchietti sono lucidati con ossidi di cerio. Anche i carburanti sono raffinati utilizzando lantanio, cerio o ossidi misti di terre rare. Le automobili ibride sono alimentate da una batteria ricaricabile all’idruro metallico di nichel-lantanio e da un motore di trazione elettrico, con magneti permanenti.

Anche dispositivi come telefoni, televisori e computer impiegano terre rare per i magneti degli altoparlanti, i dischi rigidi, i display. Le quantità di terre rare utilizzate, pur ridotte (tra lo 0,1 e il 5 per cento del peso), sono essenziali per farli funzionare.

Cosa sono e dove si trovano?

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici. Il loro nome è piuttosto fuorviante perché non si tratta di «terre» e non sono neppure così rare.

I Ree – Rare earth elements – sono lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio, ittrio e scandio.

Siamo a conoscenza della loro esistenza dal 1787, quando il tenente dell’esercito svedese Carl Axel Arrhenius scoprì un minerale nero in una piccola cava di Ytterby (vicino a Stoccolma). Il minerale era una miscela di terre rare dalla quale il primo elemento isolato fu il cerio nel 1803. Allora sembravano degli ossidi rari. Da qui il loro nome. In seguito, invece, sono stati trovati in molti paesi.

Secondo l’Us geological survey (Usgs), nel 2022 la Cina ha fornito il 70% della produzione globale di Ree (210mila tonnellate metriche), seguita da Stati Uniti (14,3%), Australia (6%), Myanmar (4%), Thailandia (2,4%), Vietnam (1,4%), India (0,96%), Russia (0,86%), Madagascar (0,32%) e Brasile.

Le riserve sono invece documentate in oltre trentaquattro Paesi. Dopo la Cina (44 milioni di tonnellate), c’è il Vietnam (22 milioni), seguito da Russia e Brasile (21 milioni ciascuno).

La loro lavorazione avviene per l’87% in Cina, il 12% in Malaysia (dall’australiana Lynas rare earths) e l’1% in Estonia (dati della Agenzia internazionale dell’energia, Aie, del 2022).

Come abbiamo visto, le terre rare hanno proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche che le rendono cruciali per molti usi civili, tuttavia, esse sono strategiche anche per l’industria della difesa e aerospaziale: per produrre aerei, missili, satelliti e sistemi di comunicazione.

Infatti, la proposta della Commissione europea per la legge sulle materie prime critiche dell’Ue, pubblicata nella primavera del 2023, menziona la necessità strategica di questi minerali per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e l’industria aerospaziale.

L’Aie suggerisce che, per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, l’estrazione di terre rare dovrebbe aumentare di dieci volte entro il 2030. In realtà, è già cresciuta di oltre l’85% tra il 2017 e il 2020, soprattutto per la domanda di magneti permanenti per la tecnologia eolica e i veicoli elettrici.

Tuttavia, serve sottolineare l’assurdità della speranza di arrivare a zero emissioni. Infatti, anche se le emissioni per combustione di gas o petrolio non avverranno nelle centrali elettriche o nei motori delle auto, ci saranno nelle miniere e nelle fabbriche di lavorazione di pannelli fotovoltaici o di turbine eoliche.

Se non in Europa o altri paesi opulenti, le emissioni avverranno laddove le imprese delocalizzano e producono con minori costi e controlli.

Come si estraggono?

Come già detto, le terre rare sono abbondanti. La loro disponibilità, però, è limitata, soprattutto perché i livelli di concentrazione sono bassi (meno del 5% in media).

Una fonte, per essere economicamente redditizia, dovrebbe contenere più del 5% di terre rare, a meno che non siano estratte assieme ad altri metalli, ad esempio zirconio, uranio o ferro. In questo caso avviene il recupero economico anche di corpi minerari con concentrazioni addirittura dello 0,5%.

La concentrazione bassa e spesso combinata rende l’estrazione delle terre rare molto costosa. Richiede grandi quantità di energia e acqua, e anche la generazione di molti rifiuti.

Inoltre, le terre rare sono spesso mescolate con diversi elementi pericolosi, come uranio, torio, arsenico e altri metalli pesanti che comportano elevati rischi per la salute e l’ambiente.

L’estrazione avviene a cielo aperto o in miniere sotterranee, tramite un processo chimico e fisico spesso attuato in situ.

Le terre rare non si possono riciclare da prodotti vecchi. Nonostante le grandi aspettative sul riciclo, esso rimane una fonte marginale (meno dell’1%): la difficoltà di separare i singoli elementi gli uni dagli altri è elevata. Inoltre, quella del riciclo è ben lontana dall’essere un’industria pulita, poiché richiede grandi quantità di energia e genera rifiuti pericolosi.

Le miniere di terre rare

I casi di conflitti socio ambientali per l’estrazione, lavorazione e riciclaggio delle terre rare documentati nel report citato, indicano tendenze preoccupanti per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e sui diritti umani. Le preoccupazioni denunciate dalle comunità locali prossime a questi stabilimenti riguardano l’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria e il suo impatto sulla salute.

Le proteste sono generate anche dalla mancanza di trasparenza e di partecipazione alle procedure decisionali e ai controlli, compreso il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene.

Molti dei casi documentati dal report riguardano abusi dei diritti umani tramite diverse forme di violenza (repressione, persecuzione legale, criminalizzazione, violenza fisica) esercitate contro le comunità locali, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.

Cina, Usa e Malaysia

Il più grande sito di estrazione e lavorazione al mondo si trova in Cina, a Bayan Obo, nella provincia della Mongolia interna.

Decenni di attività hanno prodotto un massiccio inquinamento di terreni e acque con metalli pesanti, fluoro e arsenico che hanno avvelenato gli abitanti e gli ecosistemi locali.

L’inquinamento si è poi diffuso lungo il bacino idrografico del Fiume Giallo, da cui dipendono quasi 200 milioni di persone per l’acqua potabile, l’irrigazione, la pesca e l’industria.

In Cina sono anche attivi centri di riciclaggio dei rifiuti elettronici, come quello di Guiyu (Guangdong), nel cui territorio si sono registrati livelli preoccupanti d’inquinamento da metalli pesanti nel suolo, nell’acqua e persino nel sangue umano.

Negli Stati Uniti, la miniera Mountain Pass, chiusa negli anni 2000 per l’inquinamento (e per la concorrenza cinese), è stata recentemente riattivata per l’approvvigionamento di terre rare negli Stati Uniti.

In Malaysia, dal 2011, le comunità del distretto di Kuantan combattono contro lo stabilimento di Lynas Rare Earths Ltd e l’inquinamento associato, nonché i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Myanmar e Madagascar

In Myanmar, principale esportatore verso la Cina, la miniera è controllata dal regime militare che ne beneficia. Le violazioni dei diritti umani, i danni agli ecosistemi locali e alle condizioni di vita degli abitanti della regione sono grandi. Precedentemente rinomata per le sue foreste incontaminate, la ricca biodiversità e i corsi d’acqua puliti, la regione di Kachin si sta ora trasformando in un paesaggio segnato dalla deforestazione e dalla presenza di pozze turchesi tossiche. Le attività estrattive stanno contaminando i corsi d’acqua, causando la fuga degli animali selvatici, incidendo sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e causando molteplici problemi di salute.

Quando i leader dei villaggi hanno cercato di denunciare l’impatto dell’estrazione di terre rare sulla loro terra e sui loro mezzi di sostentamento, hanno ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle milizie, o hanno subito arresti e omicidi.

In Madagascar, dal 2016, le comunità locali si oppongono al progetto minerario Tantalus rare earths malagasy in quanto violerebbe molti dei loro diritti, compresi quello alla terra e ai mezzi di sostentamento, dato che la maggior parte di loro vive di pesca e agricoltura. Fin dall’inizio del progetto, acquisito da Reenova e poi da Harena resources Pty Ltd nel 2023, le comunità locali hanno denunciato la natura irregolare dei permessi di estrazione, la trascuratezza dei lavori di riabilitazione dei pozzi, la mancanza di partecipazione dei locali e del loro consenso libero, preventivo e informato, nonché la mancata considerazione degli impatti sociali, sui diritti umani e sull’ambiente.

Il caso Lynas in Malaysia

In Australia occidentale, Lynas Rare Earths Ltd estrae minerali di terre rare dalla miniera semiarida di Mt Weld e li trasporta per processarli nello stato di Pahang in Malaysia. Qui, dal 2011, le comunità di Kuatan hanno lottato contro l’inquinamento e i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi della multinazionale. Le loro azioni hanno ottenuto il riconoscimento e il sostegno di alcune organizzazioni internazionali.

La Lynas ha promesso di rimuovere i rifiuti per ottenere la licenza dal governo, ma ha poi rinnegato l’impegno legale.

Mentre in Australia occidentale lo stesso tipo di rifiuti deve essere smaltito sottoterra, isolato dalla biosfera per mille anni, in Malaysia questo materiale radioattivo (ad oggi 1,5 milioni di tonnellate) è stato ammassato in una discarica priva di misure di sicurezza, vicino a complessi residenziali e località costiere.

La campagna «Stop Lynas», promossa dalla comunità, denuncia il green washing dell’azienda e la mancanza di applicazione della legge da parte dei governi, i rischi delle scorie radioattive, la riduzione di disponibilità di acqua e dei mezzi di sussistenza, e il rischio di cancro.

Svezia e India

Il continente europeo non è esente da simili preoccupazioni. È il caso di Norra Kärr, in Svezia. Nel progetto minerario vicino al lago Vättern, l’acido solforico viene utilizzato per separare le terre rare dagli altri minerali. I materiali di scarto vengono poi stoccati in bacini di decantazione. I gruppi ambientalisti temono che gli acidi e i minerali (tra cui uranio e torio) possano contaminare l’ambiente e in particolare il lago Vättern, inquinando l’acqua potabile di centinaia di migliaia di persone.

L’estrazione di terre rare è anche legata alla distruzione delle aree costiere e degli ecosistemi, ad esempio in India, dovuta all’estrazione intensiva di sabbia da cui vengono poi separate le terre rare, e ai potenziali impatti sugli oceani. In Nuova Zelanda e in Norvegia esistono progetti di estrazione in acque profonde, attualmente sospesi a causa degli incerti e gravi rischi ambientali e biologici che questa nuova frontiera mineraria comporta.

Le maggiori aziende

Le imprese estrattive hanno sede principalmente in Cina, Stati Uniti, Canada e Australia. La mega azienda China rare earths group controlla il 70% della produzione del Paese. Le altre principali società che estraggono terre rare a livello globale sono: Lynas Rare Earths Ltd (coinvolta nel più grande impianto di lavorazione delle terre rare al di fuori della Cina, in Malaysia e presto anche nel nuovo grosso impianto statunitense del Texas, con incarico diretto dal dipartimento di Difesa degli Stati Uniti), Iluka, Alkane resources (le tre con sede in Australia), Shenghe resources (con sede in Cina) e Molycorp (Stati Uniti).

Una corsa globale

Il dominio cinese del mercato suscita timori negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Nel contesto delle crescenti tensioni tra Cina e Occidente, la guerra fredda dei minerali trasforma la geopolitica delle terre rare.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento diversificando le proprie fonti. Ciò ha comportato un aumento dell’attività estrattiva nazionale – il rilancio del sito di Mountain Pass in California e la lavorazione del minerale in loco anziché in Cina – nonché l’esplorazione di nuovi giacimenti in luoghi come Bear Lodge nel Wyoming.

Anche l’Unione europea sta promuovendo lo sviluppo di progetti di estrazione in Svezia, Finlandia, Spagna e in Serbia.

Tra le altre politiche, l’Us inflation reduction act richiede che i produttori di auto elettriche si riforniscano dagli Stati Uniti o da paesi alleati (leggi: non dalla Cina) di almeno il 40% del contenuto minerale delle batterie. Questa percentuale dovrà salire all’80% entro il 2027.

Washington non sta solo cercando di assicurarsi i propri minerali critici, ma sta anche costringendo gli alleati a ridurre gli scambi con Pechino.

Allo stesso modo, la Commissione europea ha presentato la legge sulle materie prime critiche nel 2023. Essa ha obiettivi ambiziosi per il 2030: raggiungere il 10% dell’estrazione di minerali critici, il 40% della lavorazione in Paesi europei, un’importazione diversificata che preveda un tetto massimo di minerali provenienti da un unico Paese pari al 65%.

La Cina, nel frattempo si sta assicurando la fornitura tramite progetti di estrazione in Asia, Africa e America Latina e nell’estate del 2023 ha imposto controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, componenti fondamentali delle celle solari, delle fibre ottiche e dei microchip utilizzati nei veicoli elettrici, nell’informatica quantistica e nelle telecomunicazioni.

Le esportazioni della Cina di questi minerali sono scese da quasi nove tonnellate metriche a zero. Questo sforzo per «garantire le catene di approvvigionamento» viene presentato ai Paesi del Sud globale come un’opportunità per loro di aumentare il proprio reddito e persino ottenere vantaggi nello sviluppo di ulteriori processi di lavorazione e produzione, cosa che permetterebbe loro di richiedere maggiori diritti di proprietà intellettuale nei futuri accordi. Tuttavia, gli impatti e i conflitti evidenziano un modello industriale basato su vecchie e nuove «zone di sacrificio», dove le comunità e gli ecosistemi sono distrutti per un supposto bene comune superiore.

Pensiamoci quando ci confortiamo con soluzioni, come la transizione energetica, basate su fonti che non mettono in discussione il livello di consumo e le priorità produttive.

Daniela Del Bene

 


Il rapporto e la mappa da cui sono ricavati i dati riportati in questo articolo sono disponibili al sito:
https://ejatlas.org/featured/rees-impacts-conflicts-map

 




Haiti. Lo Stato «bandito»


Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.

«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.

«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».

Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.

«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».

In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».

Trenta mesi disastrosi

Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.

Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).

Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.

Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.

Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.

La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.

Accelerazione

Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.

La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.

Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.

Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.

In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.

Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.

Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.

Chi tira le fila

Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.

Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.

Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».

I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.

«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».

Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».

L’ultima speranza

Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.

«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».

Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».

L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.

Marco Bello


Per aggiornamenti si segua MCnotizie sul sito della rivista.


Persone e famiglie in fuga dalla trovano rifugio nel cortile della scuola dei Vincenziani a violenza  Port-au-Prince, Haiti, 30 agosto 2023. (Photo by Richard PIERRIN / AFP)

Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana

Il «pane» della guerra

Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.

Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.

I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.

I fattori ambientali

Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.

Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.

La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.

In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.

Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.

Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.

Armi e munizioni

Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).

La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.

Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.

Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.

Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.

Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.

Droga

Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.

La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.

La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.

L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.

L’anello debole

La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.

È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.

Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.

Ma.Bel.

(Photo by Clarens SIFFROY / AFP)