Israele-Palestina. Quando il dolore unisce due padri in lutto
Due padri, uno israeliano e uno palestinese, hanno perso entrambi una figlia nel conflitto. Ora testimoniano che l’unica via è quella dell’amicizia e del dialogo. Lo hanno detto anche in un incontro in Vaticano con Papa Francesco.
C’è un grande dolore a unire un padre israeliano e uno palestinese: la perdita di una figlia nel conflitto. Uno strazio che li ha portati a tramutare l’odio in testimonianza.
Sono Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese. Li incontriamo in Vaticano dove sono stati ricevuti da Papa Francesco. La giornata è piovosa, cercano riparo sotto lo stesso ombrello, si stringono, come fanno da anni per gridare al mondo che nella loro terra si può vivere insieme.
«Volevamo raccontargli che anche noi possiamo vivere in pace, da fratelli nella stessa terra. È stato un incontro straordinario», dicono parlando del Pontefice.
Gli hanno mostrato le fotografie delle loro amate figlie cadute in questa guerra israelo-palestinese che da decenni sembra non trovare via d’uscita. «Io sono ebreo, lui – dice Rami indicando l’amico Bassam – è musulmano, il Papa è cristiano. Ma in fondo siamo tutti umani e possiamo essere fratelli invece di continuare a ucciderci a vicenda». E questo Bassam e Rami lo mettono in pratica non solo nell’amicizia personale ma anche nel loro impegno in due associazioni che nella dilaniata terra del Medio Oriente perseguono la via del dialogo: Il Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso i propri familiari a causa del conflitto, e i Combatants for Peace. «Combattenti, sì, perché, una volta, io e lui combattevamo su fronti opposti», dice Bassam. Lui nella milizia palestinese, Rami nell’esercito israeliano. Ora «combattono» invece dalla stessa parte.
Dal 7 ottobre dello scorso anno il loro impegno ha assunto un maggiore significato: «Noi conosciamo esattamente il sentimento delle altre famiglie, in Israele e a Gaza. Dobbiamo continuare a parlare, a incontrarci e ad agire insieme per una educazione alla non violenza. Significa fare eco in tutto il mondo e comprendere – dicono i due padri – che con questo spargimento di sangue non si andrà da nessuna parte, che il diritto all’autodifesa non dà il diritto alla vendetta».
La loro storia è stata raccontata in un libro, «Apeirogon», con cui l’autore irlandese Colum McCann ha vinto il Premio Terzani 2022.
Era il 1997 quando Smadar Elhanan, una ragazzina di 14 anni, fu uccisa durante un attacco suicida di Hamas a Gerusalemme. Qualche anno dopo, nel 2005, suo padre, Rami, conobbe Bassam Aramin in una manifestazione organizzata dal movimento Combattenti per la pace.
«Per i palestinesi non è un onore avere un amico israeliano, perché li considerano come occupanti, ma io mi sono subito affezionato a Rami e abbiamo scoperto di avere gli stessi valori, alla fine siamo tutti esseri umani», ribadisce Aramin.
Due anni dopo quel primo incontro, il 16 gennaio 2007, anche Bassam avrebbe scoperto il dolore per la perdita della propria bambina: Abir aveva 10 anni, quando un agente di frontiera israeliano le sparò alla nuca. Rami corse al capezzale della figlia dell’amico e ci restò per i due giorni nei quali lei lottò tra la vita e la morte: «È stato come perdere mia figlia una seconda volta», commenta con gli occhi, ancora oggi, velati dalla commozione. «È stato doloroso – spiega Bassam – vedere il senso di colpa sul viso di Rami perché israeliano».
Da quel giorno, Rami e Bassam raccontano la loro storia e l’hanno voluta far conoscere anche a Papa Francesco. Il motivo? «Lanciare il messaggio che c’è un’altra possibilità, un’altra strada. E che questo conflitto non finirà mai se continuiamo a non parlarci».
Manuela Tulli
Accordo UK-Rwanda: deportare i richiedenti asilo
Dopo mesi di scontri politici, il 22 aprile il Parlamento britannico ha approvato una legge che permette la deportazione in Rwanda dei richiedenti asilo. Il provvedimento riguarda chi è giunto illegalmente nel Regno Unito dopo il primo gennaio 2022 (secondo la Bbc, circa 52mila persone di origine asiatica e africana).
Il primo accordo tra i due Paesi era stato siglato ad aprile 2022, ma nessun volo era mai decollato alla volta di Kigali a causa dei numerosi ricorsi delle organizzazioni per i diritti umani. Nel giugno 2022, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), garante della Convenzione europea per i diritti umani di cui il Regno Unito è firmatario, era riuscita a bloccare all’ultimo il primo volo in partenza per il Rwanda.
Dopo la giustizia europea, a novembre 2023, anche quella britannica aveva rigettato il provvedimento. Secondo i giudici, lo Stato africano non poteva essere considerato un «Paese terzo sicuro» a causa di autoritarismo, repressione del dissenso e continue violazioni dei diritti umani. Infatti, il testo della sentenza riportava: «Il Rwanda ha fatto grandi progressi sul piano economico e sociale […] ed è un importante partner del Regno Unito. Tuttavia, la situazione del rispetto dei diritti umani nel Paese è molto controversa».
Mandare i richiedenti asilo in Rwanda sarebbe stata una violazione della Cedu perché li avrebbe esposti al rischio di torture e trattamenti disumani.
Nel frattempo, l’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) aveva ricordato di aver documentato maltrattamenti delle autorità rwandesi nei confronti di richiedenti asilo provenienti da Siria, Yemen e Afghanistan. I migranti erano arrivati a Kigali a seguito di un accordo di trasferimento firmato da Rwanda e Israele nel 2018.
Dopo la sentenza della Corte suprema, il governo britannico ha promosso un nuovo provvedimento – quello approvato a fine aprile – che stabilisce che, per il Regno Unito, il Rwanda è un «Paese sicuro».
La legge ha spianato la strada al progetto di deportazione. Giunti a Kigali, i migranti potranno chiedere asilo in Rwanda. Nel caso in cui la richiesta sarà accettata, otterranno lo status di rifugiati e il permesso di restare nel Paese. In caso contrario, potrebbero chiedere di rimanere in territorio rwandese per altri motivi o domandare asilo in un altro «Paese terzo sicuro». In nessun caso potranno tornare nel Regno Unito.
Subito dopo l’approvazione del provvedimento, numerose organizzazioni per i diritti umani (tra cui Amnesty international) e l’Unhcr hanno chiesto a Londra di riconsiderare il piano. Freedom from torture, Amnesty international e Liberty hanno definito la legge una «disgrazia nazionale che minaccia significativamente lo stato di diritto». Inoltre, hanno denunciato che la disposizione viola alcuni diritti fondamentali dei richiedenti asilo contenuti in documenti nazionali e internazionali (come la garanzia di non respingimento assicurata dalla Convenzione di Ginevra).
Nel frattempo, il premier britannico, Rishi Sunak, ha comunicato che i primi voli per Kigali partiranno entro luglio.
Di fronte all’annuncio di ricorsi da parte delle organizzazioni umanitarie alla Corte europea per i diritti dell’uomo, Sunak ha rincarato la dose: «Questa è una svolta destinata a cambiare l’equazione globale dell’immigrazione e nessun tribunale fermerà i trasferimenti». La legge addirittura prevede che il Governo possa ignorare eventuali sentenze della Corte europea.
Nei fatti, il piano è già operativoa. Il governo britannico ha affittato gli aerei charter per deportare le prime 350 persone: uomini di più di 40 anni, entrati illegalmente nel Paese. Molti sono già in detenzione preventiva dal 29 aprile. A Kigali invece è già arrivata la prima tranche di ricompense: 290 milioni di euro. Altri 140 milioni saranno versati una volta che il Rwanda avrà ricevuto i primi 300 richiedenti asilo.
A dispetto di quanto sostiene il Governo britannico, per il quale il piano sarà economicamente vantaggioso per il Regno Unito, l’Institute for public policy research (un ente di ricerca indipendente) ne ha denunciato i costi elevati. Secondo i ricercatori, infatti, potrebbero servire fino a 4,6 miliardi di euro per deportare le sole 20mila persone arrivate illegalmente tra luglio e dicembre 2023. Tra il 2022 e il 2023, invece, il sistema di asilo britannico era costato meno di 4,5 miliardi di euro.
Nelle intenzioni di Londra, la minaccia di deportazione dovrebbe agire da deterrente per scoraggiare futuri arrivi illegali. Per il momento però i flussi non accennano a fermarsi: mentre i parlamentari approvavano la legge, nella Manica annegavano tre uomini, una donna e una bambina.
L’introduzione del piano costituisce senza dubbio un importante tassello per i conservatori inglesi. Con l’avvicinarsi delle elezioni – si voterà entro gennaio 2025 -, Sunak e il suo partito avevano bisogno di un successo da vantare di fronte all’elettorato, tanto più che i sondaggi danno i laburisti in testa. Ora i tory avranno qualcosa su cui puntare. Anche a costo di ignorare i diritti umani.
Aurora Guainazzi
Kenya. Sotto l’acqua
Da quando è iniziata la stagione delle piogge, nel marzo scorso, il Kenya ha subito diverse inondazioni, che hanno causato crolli di ponti, interruzioni di strade, e sfondamenti di dighe. Ad oggi il bilancio delle vittime è di 210 morti e 200mila sfollati. Al momento sono circa 90 i dispersi. Oltre la metà dei quali, a causa del cedimento della diga di Mai Mahiu, contea di Nakuru, nella notte tra il 28 e il 29 aprile, a un centinaio di chilometri a Nord della capitale Nairobi. Qui il conto provvisorio delle vittime è di 50.
Le piogge hanno riempito la diga fino a farla cedere. I villaggi a valle sono stati investiti da una massa d’acqua e fango che ha portato via tutto, comprese le abitazioni. Il presidente William Ruto, il primo maggio, in visita al sito, ha detto che è necessario evacuare gli abitanti rimasti. Diverse sono le dighe a rischio a causa delle violente piogge. Il ministro dell’Interno ha annunciato un’ispezione a 178 dighe per verificare il loro stato.
Particolarmente importante è stata l’inondazione causata dalle piogge iniziate lo scorso 24 aprile. Diverse località del Kenya e la capitale sono state allagate. A Nairobi i quartieri popolari di Kibera e Mathari hanno subito inondazioni, con diverse decine di vittime, mentre 60mila sarebbero le persone colpite. Si ricorda che molti di questi quartieri, noti come slum, non hanno sistemi fognari o di scarico delle acque.
L’oppositore Raila Odinga ha subito chiesto che fosse dichiarato lo «stato di emergenza» il che permetterebbe di usare misure eccezionali, come ad esempio l’intervento dell’esercito.
Gli abitanti dei quartieri, soprattutto poveri, se la prendono con il governo che non ha fornito loro aiuto e attrezzi per cercare i sopravvissuti e i cadaveri.
Il presidente William Ruto, accusato di inefficienza, il 3 maggio ha annunciato che interverrà con misure adeguate.
La causa delle volenti piogge è attribuita al fenomeno climatico conosciuto come «El niño», che si sviluppa nel Pacifico. Intanto, sabato 4 maggio era previsto l’arrivo del ciclone Hdaya a lambire le coste di Tanzania e Kenya, ma fortunatamente si è depotenziato all’avvicinarsi delle coste. Il governo aveva ordinato l’evacuazione di tutte le zone a rischio, comprese diverse aree della capitale. In alcuni quartieri popolari, lungo le rive dei fiumi, i bulldozer hanno raso al suolo le abitazioni per favorire il percorso delle acque. La popolazione, però, non è stata ricollocata e molte famiglie si sono trovate all’improvviso senza casa. Si parla di un migliaio di persone. I residenti protestano anche per non aver ricevuto nessun tipo di soccorso o di aiuto (come cibo o acqua) da parte delle autorità.
Secondo l’istituto nazionale meteorologico le piogge potrebbero continuare nei prossimi giorni. Intanto, le scuole restano chiuse fino a nuovo ordine, con evidente preoccupazione dei genitori.
Marco Bello
Brasile. Un indigeno in meno
Si chiamava Hariel Paliano ed era un indigeno di soli 26 anni. È stato assassinato nella Terra indigena Ibirama – abitata da Guarani, Kaingang e Xokleng – nello stato di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, lo scorso 27 aprile. Il corpo del giovane è stato trovato ai margini di una strada e presentava segni di percosse e bruciature.
La notizia dell’omicidio è stata annunciata al termine della ventesima edizione di «Acampamento terra libre» (21-27 aprile), l’annuale incontro organizzato dall’«Articulação dos povos indígenas do Brasil» (Articolazione dei popoli indigeni del Brasile, Apib) sulla situazione dei diritti degli indigeni (1,7 milioni di persone, secondo il Censimento 2022). Quest’anno a Brasilia sono arrivati in ottomila in rappresentanza di oltre 200 popoli sui 305 totali. Un successo di partecipazione al quale non è corrisposto un successo politico. Tanto che Kleber Karipuna, coordinatore esecutivo di Apib, durante la marcia per le vie della capitale brasiliana ha gridato più volte: «Lula, creare semplicemente un ministero dei Popoli indigeni non risolve nulla».
La tragica fine di Hariel Paliano s’inserisce nell’infinita diatriba sulla legge del «marco temporal» (secondo la quale sono da considerare terre indigene soltanto quelle occupate fino al 1988) che, al momento, ha visto la vittoria della folta compagine anti indigena e l’umiliazione di Lula per mano del Congresso brasiliano.
Nonostante la sentenza di incostituzionalità da parte del Supremo tribunale federale (settembre 2023) e il veto parziale del presidente Lula (ottobre 2023), il Congresso – dominato dalla «bancada ruralista» (Frente parlamentar da agropecuária, Fpa) legata ai latifondisti e all’ex presidente Bolsonaro – ha proseguito sulla propria strada approvando il «marco temporal» (dicembre 2023) con la legge 14.701/2023.
L’«Articolazione dei popoli indigeni del Brasile» ha presentato un’Azione diretta di incostituzionalità (Adi) al Supremo tribunale federale per chiedere l’annullamento della legge, da essa ribattezzata «Legge del genocidio indigeno». Finché l’Adi non sarà giudicata dai ministri del tribunale, i popoli indigeni si troveranno ad affrontare invasioni dei loro territori, omicidi e devastazione dell’ambiente.
Secondo il Conselho indigenista missionário (Consiglio indigenista missionario, Cimi), organizzazione da 52 anni in prima fila nella lotta a fianco dei popoli indigeni, le conseguenze derivanti dall’approvazione della legge saranno disastrose.
Per parte sua, il Fronte parlamentare dell’agricoltura (Fpa) ha gioito per la promulgazione della legge che – sostiene – difende il diritto di proprietà in Brasile e l’eguaglianza di tutti i brasiliani. Affermazioni incredibili da parte di chi, attraverso il latifondo, vuole soltanto mantenere i propri privilegi ai danni dei popoli indigeni e dell’intero paese.
In tutto questo, a oggi c’è una sola certezza: la legge del «marco temporal» è entrata in vigore e, come temuto, sta già facendo danni.
Paolo Moiola
Vite contro Hitler
Storie di cristiani nonviolenti tedeschi e austriaci oppositori del regime nazista ce ne sarebbero molte da raccontare. Il libro di Francesco Comina ne raccoglie alcune note e altre sconosciute. Tutte esemplari.
È esistita un’opposizione tedesca a Hitler? Certamente sì, in Germania e in Austria sono state scritte pagine ammirevoli di resistenza al regime nazista.
Il recente libro del giornalista e scrittore di Bolzano, Francesco Comina, La lama e la croce, fa emergere tracce significative di tali storie: «In queste pagine, che non vogliono essere né un’opera storiografica né una galleria esaustiva di cattolici antinazisti, si ricordano alcune vite, solo alcune fra le tantissime vicende di uomini, donne, ragazzini rimasti fedeli alla coscienza in nome del Vangelo». Non è un saggio storico critico, dunque, ma un resoconto memorialistico appoggiato su una solida base documentaria che ricostruisce il nucleo essenziale di vite, in genere giovani, illuminate dalla volontà di opporsi alla crudeltà della tirannia.
Una varietà di storie
Alcune di queste storie godono di una certa notorietà, come quella di Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che rifiutò di far parte dell’esercito di Hitler.
Altre sono pressoché sconosciute, come quella di Heinrich Dalla Rosa, giovane prete della zona di Merano.
In queste vicende possiamo rintracciare differenti modalità di contrapposizione al regime hitleriano: ci sono «i casi di testimoni “solitari”», come Max Josef Metzger o suor Angela Autsch, l’angelo di Auschwitz, oppure quelli di resistenti inseriti in un gruppo, come Eva-Maria Buch e Maria Terwiel, che erano parte dell’organizzazione della «Rote Kapelle», o Walter Klingenbeck e i suoi amici a Monaco di Baviera. C’è anche un esempio di disobbedienza di massa: le duemila reclute di Bressanone che nel febbraio del 1945 non pronunciarono la formula canonica del giuramento a Hitler, «l’unico gesto – scrive Comina – di ribellione da parte di una compagnia di soldati di cui si è a conoscenza sotto il nazionalsocialismo».
Comune a tutti è stata la concreta spinta ad agire, l’«obiezione di coscienza», l’insopprimibile necessità di disobbedire e di non essere complici di chi calpestava la dignità e i diritti fondamentali di altri uomini.
Visioni di mondi futuri
Dei personaggi di cui racconta la vita, Comina aiuta a cogliere, oltre alla centralità dell’obiezione di coscienza, la capacità di leggere alcuni segni del mondo futuro, sia in senso drammatico, come l’affacciarsi di una nuova guerra mondiale, intravisto da Max Josef Metzger già nel 1929, sia in direzione opposta, come i germi di novità politica e religiosa, intravisti sempre da Metzger, che saranno alla base della costruzione di un’Europa più giusta e pacifica e di una Chiesa cattolica meno ripiegata su se stessa. Ecco allora la sua prefigurazione di una Confederazione europea e l’aspirazione a un dialogo ecumenico fra Chiese d’Oriente e d’Occidente.
In padre Dalla Rosa e in altri, invece, Comina trova le anticipazioni di istanze che saranno alla base del Concilio Vaticano II, un cattolicesimo più aperto al mondo moderno e capace di innovare la propria liturgia e azione pastorale.
Mayr-Nusser e Jägerstätter
Alcune delle figure ricordate in questo libro possono essere approfondite grazie ad altri studi dello stesso Francesco Comina. È il caso, ad esempio, di Josef Mayr-Nusser che, da recluta delle SS, decise di non giurare ad Adolf Hitler e, accusato di «disfattismo», fu processato e condannato a essere internato nel campo di Dachau, dove Mayr-Nusser non arrivò mai, perché morì prima di raggiungerlo di broncopolmonite e stenti (L’uomo che disse no a Hitler, Il Margine, 2014).
Comina ha dedicato un libro anche a Jägerstätter, il cui caso è stato poco conosciuto fino alla sua beatificazione nel 2007.
Con il tempo la bibliografia su di lui è cresciuta, e la sua storia è stata raccontata anche nel film di Terrence Malick, La vita nascosta – Hidden Life (2019).
Oltre a quello di Comina (Solo contro Hitler, Emi, 2021), in lingua italiana sono disponibili diversi altri testi che ricostruiscono la biografia di questo straordinario obiettore, condannato a morte e ghigliottinato per avere rifiutato di prestare il servizio militare nell’esercito nazista. «Besser die Hände als der Wille gefesselt», ha scritto Jägerstätter negli ultimi giorni della sua vita, «meglio avere incatenate le mani piuttosto che la volontà». L’esito della sua breve vita si è rivelato una testimonianza altissima in omaggio a questo principio. Chi volesse confrontarsi direttamente con le sue parole, può farlo grazie a un libro che raccoglie le lettere che scrisse in carcere (Scrivo con le mani legate, Berti, 2005).
Le due storie più note
Come si diceva, in La lama e la croce, Comina ha ripercorso soltanto alcune delle vite dei molti resistenti al nazismo. Molte altre ne esistono, e forse non poche attendono di essere portate alla luce ed esplorate. Tra quelle note, nelle pagine del libro viene citata, anche se non narrata, quella che probabilmente è la storia di opposizione al nazismo più celebre: l’azione di controinformazione che vide protagonisti i ragazzi della Rosa Bianca e che ebbe come epicentro Monaco di Baviera tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943. In tanti ne hanno scritto ma forse la prima testimonianza da leggere è quella lasciataci da Inge Scholl, sorella di Sophie e Hans, i due componenti più noti del gruppo (La Rosa Bianca, Itaca, 2006).
Altra vicenda molto conosciuta è quella del grande teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di Flossenbürg perché coinvolto nel complotto per uccidere Hitler. Resistenza e resa, che raccoglie le lettere e altri scritti composti nel carcere di Tegel, nel quale Bonhoeffer fu rinchiuso tra il 1943 e il 1945, è un libro indispensabile, un classico del Novecento che non si può evitare di leggere.
Francesco Comina, L’uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe solitario, Il Margine, Trento 2014, pp. 179, 14 €.
Francesco Comina, Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza, Emi, Verona 2021, pp. 173, 16 €.
Franz Jägerstätter, Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti dell’obiettore-contadino che si oppose ad Adolf Hitler, Berti, Piacenza 2005, pp. XXXV, 231, 13 €.
Inge Scholl, La Rosa Bianca, Itaca, Castel Bolognese 2006, pp. 190, 12 €.
Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2024, pp. 688, 23 €.
Terrence Malick, La vita nascosta. Hidden Life, Germania-Stati Uniti, 2019.
La Pentecoste di Maria
Il suo volto ti abita, Maria, ora che non puoi più toccarlo.
Lo vedi ogni momento.
È tranquillo mentre, neonato, si addormenta attaccato al tuo seno.
È sorridente a due anni tra le braccia di Giuseppe.
È serio tra i maestri nel tempio in adolescenza.
È il volto del tuo Signore, il viso bello di tuo figlio.
Lo scruti tra la folla che lo ama.
Lo contempli sporco di polvere e sangue.
Lo abbracci nell’orto degli ulivi, quando vi ordina di rimanere a
Gerusalemme per ricevere lì lo Spirito Santo, poco prima che venga elevato in alto e sottratto al tuo sguardo da una nube.
Erano quaranta giorni che stava con voi, e pronunciava parole di consolazione, e compiva prodigi. Ora ne sono trascorsi nove senza vederlo più, e tu custodisci tutto nel tuo cuore.
Oggi il tuo popolo celebra la Pentecoste, il memoriale della consegna a Mosè della Legge sul Sinai, del momento in cui Israele è diventato il popolo di Dio e il Signore suo Dio. La Città Santa è in fermento. Anche gli amici di Gesù lo sono. Si domandano che fare, cosa celebrare.
E all’improvviso viene dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempie la casa dove state tutti insieme. Vedi lingue come di fuoco che si dividono e si posano su ciascuno. Anche su di te. E tutti venite colmati di Spirito Santo (cfr. At 2,1-11).
A quel rumore, la folla multietnica di Gerusalemme si raduna. E tutti rimangono stupiti nel sentire gli apostoli parlare delle grandi opere di Dio nelle loro lingue native.
Oggi la Chiesa nasce dallo Spirito, e nasce missionaria. Nasce da una Legge scritta sul cuore, capace di parlare di vita piena ed eterna alla vita di ogni donna e ogni uomo.
Anche tu rinasci Maria.
Forse speravi che lo Spirito promesso ti avrebbe chiarito tutto. Quello che da più di trent’anni in qua è accaduto in te e attorno a te e che ancora oggi accade.
Invece hai ricevuto la chiarezza definitiva che, semplicemente, tutto sta in modo saldo nelle mani amorevoli del Padre, che tutto viene da Dio e a Dio torna. Anche tu, anche tutto ciò che hai meditato e mediterai nel tuo cuore.
Oggi sei consolata, Maria, sorella e consolatrice.
Consolati dal Consolatore,
buon cammino sulle strade del mondo,
da amico Luca Lorusso
In questo inserto:
Bibbia on the road: Inni cristologici /1
Parole di corsa: Dio ha il suo piano per noi
Amico mondo: Laudate Deum, il creato chiama
Progetto Mongolia: Per i ragazzi di Zuunmod
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Ict4d e sviluppo, una continua evoluzione
Il dibattito sul contributo che i sistemi integrati di telecomunicazione possono dare allo sviluppo economico, sociale e culturale dei paesi impoveriti va avanti da decenni: il loro utilizzo può aiutare, ma a condizione che sia inclusivo ed equo.
In Ghana, la coltivazione dell’anacardio è la fonte di reddito per centinaia di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie. Essa garantisce la sussistenza a circa due milioni di persone. Il settore deve però affrontare problemi come la diffusione di malattie parassitarie, ad esempio l’antracnosi, e il deperimento delle piante, che causano perdite stimate fino al 40% del raccolto.
Il progetto Cashew disease identification (Cadi Ai), realizzato dall’azienda ghanese KaraAgro con il sostegno dell’agenzia tedesca per la cooperazione, Deutsche gesellschaft für internationalezusammenarbeit (Giz), aiuta a individuare l’insorgere delle malattie e degli stress nutrizionali nelle piante di anacardio già nelle fasi iniziali, attraverso l’analisi con l’intelligenza artificiale di immagini registrate dai droni sui campi. Un’app fornisce poi ai coltivatori una mappa con la geolocalizzazione delle piante interessate, in modo da permettere un intervento tempestivo.
È, questa, la sintesi del progetto Cadi Ai fornita dalla consulente tecnica di Giz, Mary Afram, che si legge sul sito di Ict4d conference, la conferenza che si occupa dell’uso delle tecologie di informazione e comunicazione (Tic, o Ict, information communication technology nell’acronimo inglese) nello sviluppo e nella risposta alle emergenze umanitarie@.
La Conferenza, avviata nel 2010 dall’Ong internazionale Catholic relief service@, è arrivata lo scorso marzo alla sua dodicesima edizione e si è svolta ad Accra, in Ghana, Paese che – nelle parole della sua ministra per le Comunicazioni e la digitalizzazione, Ursula Owusu-Ekuful – aspira a essere «l’hub delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’Africa occidentale»@.
La prima, denominata Ict4d 0.0, va dagli anni Sessanta agli anni Novanta del Novecento e vede la nascita di Internet, ma senza grandi applicazioni al di fuori del settore pubblico.
Nella seconda fase, Ict4d 1.0, a partire dai tardi anni Novanta, si combinano invece l’ampliarsi dell’accesso a internet e la formulazione degli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite. Lo studio cita due iniziative, simboliche di questa fase e anche dei suoi insuccessi: i telecenter, spazi pubblici dove gli utenti possono usare un computer, internet e altre tecnologie digitali, e l’iniziativa One laptop per child (un computer portatile per ogni bambino), lanciata dall’architetto e informatico statunitense Nicholas Negroponte del Massachusetts institute of technology – Mit di Boston.
I risultati di queste iniziative non sono stati ovunque all’altezza delle aspettative, anche a causa di alcuni limiti nella progettazione, che avveniva nei paesi industrializzati, lontano dalle realtà nelle quali le soluzioni proposte dovevano applicarsi. Erano infatti troppo concentrate sugli aspetti tecnici e non abbastanza sui contesti sociali, culturali e istituzionali in cui si inserivano, e si scontravano spesso con delle condizioni concrete sfavorevoli, come la mancanza di infrastrutture adeguate.
Ict4d oggi
La successiva fase, Ict4d 2.0, va da circa metà degli anni Duemila a oggi e segue il passaggio dal cosiddetto Web 1.0 al Web 2.0, quindi da una tecnologia digitale i cui utenti si limitavano a fruire passivamente dei contenuti a una che permette agli utenti di partecipare, collaborare, interagire per creare contenuti. E i modelli di sviluppo, spiega la ricerca citando un articolo del 2010 di Richard Heeks, dell’università di Manchester, si sono trasformati per adattarsi a questo cambiamento.
Alcuni esempi citati da Heeks permettono di capire meglio: dal 2001, il progetto Bhoomi@ ha introdotto un software che fornisce servizi amministrativi nello stato indiano del Karnataka, ad esempio, rilasciando certificati di proprietà fondiaria agli agricoltori che ne hanno bisogno per ottenere prestiti bancari. In questo modo, i contadini hanno potuto liberarsi dalle pressioni di funzionari locali corrotti che chiedevano denaro per fornire quei servizi.
Un altro esempio, questa volta per illustrare l’adattamento delle tecnologie ai bisogni locali, è quello del beeping, o flashing – in italiano: chiamata persa, squillo – che in alcuni contesti è diventato un sistema di messaggistica alternativo e gratuito: ad esempio, un cliente può usare questo metodo per avvisare un venditore ambulante quando è pronto per fare un acquisto.
La quarta fase, Ict4d 3.0, che, secondo alcuni studiosi, è iniziata nel 2019, va di pari passo con il Web 3.0 e le sue cosiddette tecnologie di frontiera – blockchain, intelligenza artificiale, Internet delle cose, big data – e con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Agenda 2030 dell’Onu, che nel 2015 sono succeduti agli obiettivi del millennio.
Rischi e opportunità mancate
La ricerca di Salaj prova a definire a che condizioni la tecnologia può davvero aiutare a raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. In sintesi: occorre assicurarsi che le soluzioni offerte da queste tecnologie migliorino le condizioni di vita delle comunità del Sud del mondo, riducendo la povertà, promuovendo il rispetto dei diritti umani e permettendo a sempre più persone di accedere a servizi e beni primari.
Senza queste attenzioni, avverte Salaj, il rischio è quello di cedere al tecno soluzionismo, cioè all’idea che la tecnologia basti, da sola, per risolvere i problemi. A contraddire questa idea, la ricerca cita l’esempio di un’app per trovare persone migranti di cui i congiunti hanno perso le tracce: a volte, la persona che migra sta scappando proprio da familiari che vogliono fare loro del male e che per questo forniscono all’applicazione la foto per il riconoscimento facciale. Il paradosso è quindi che la soluzione tecnologica può aiutare a trovare una persona, ma facendo questo metterla in pericolo.
Un altro rischio è quello di promuovere un colonialismo dei dati: il risultato della diffusione degli strumenti digitali nei Paesi meno sviluppati può essere infatti quello di permettere a colossi tecnologici del Nord globale di raccogliere anche dalle comunità del Sud del mondo grandi quantità di dati – secondo diversi osservatori, il petrolio del XXI secolo@ – per trarne profitto, estraendo informazioni da gruppi vulnerabili, come i rifugiati o le persone colpite da una catastrofe naturale, che usano app o servizi digitali per cercare di uscire da una situazione di difficoltà.
Il lavoro di Salaj include anche un’analisi sull’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte delle Ong italiane che fanno cooperazione allo sviluppo. Su 195 Ong interpellate, solo 26 hanno risposto, e questo – notava durante l’evento di presentazione@ la professoressa Elisa Bignante, anche lei dell’università di Torino – «è un dato sul quale riflettere».
Praticamente tutte le organizzazioni che hanno risposto confermano di usare le Ict, ma concentrandosi sui social media: il 96% utilizza infatti queste piattaforme, mentre il 40% usa le applicazioni per dispositivi mobili e una Ong su tre si serve di strumenti di visualizzazione dei dati.
Nessuna ricorre invece alle tecnologie emergenti come blockchain, machine learning, big data e realtà virtuale, né conosce i principi digitali@, cioè le nuove linee guida per l’integrazione delle Ict nella cooperazione, approvati e adottati da 200 enti fra organizzazioni internazionali e governative, Ong, fondazioni e centri di ricerca. Eppure, concludeva Bignante nel suo intervento, il 43% delle Ong intervistate definisce sostanziale l’impatto delle Ict nel loro lavoro: occorre chiedersi allora che cosa impedisce loro di utilizzare in maniera più articolata le tecnologie disponibili.
Rapporto con donatori e beneficiari
L’uso preferenziale di social network e applicazioni di messaggistica per i dispositivi mobili si conferma anche nell’esperienza dei Missionari della Consolata e questi strumenti hanno cambiato la relazione sia con i donatori che con i beneficiari.
Padre Gigi Anataloni, direttore responsabile di MC e missionario in Kenya dal 1988 al 2009, ha visto evolversi le Ict e il loro impatto in missione. Oggi, in contatto con i confratelli in Kenya, raccoglie fondi per garantire istruzione e cure mediche a bambini e ragazzi in difficoltà. Così sintetizza l’evoluzione nei modi di comunicare con i donatori: «Prima siamo passati dalle lettere all’email e, dopo un breve periodo nel quale abbiamo usato gli sms, siamo entrati nei social per arrivare a WhatsApp, lo strumento che oggi uso di più per aggiornare e ringraziare amici e benefattori, inviando loro notizie e immagini delle attività realizzate con i fondi raccolti tramite Missioni Consolata onlus».
Questi strumenti facilitano molto il contatto e lo rendono più immediato, conferma il missionario, ma forse c’è il «rischio di diventare più superficiali nella comunicazione».
Anche il rapporto con i beneficiari si è modificato, continua padre Gigi: «Un papà o una mamma che si ammalano in Kenya, il figlio studente che si fa male o che deve rientrare dal collegio a fine trimestre per le vacanze, il padrone di casa che dà lo sfratto perché il o la capofamiglia non ha pagato l’affitto, i ladri che rubano le divise scolastiche messe a stendere dopo essere state lavate… questi e molti altri problemi si riversano come un fiume in piena sul tuo cellulare e ti spiazzano. Allora devi valutare quali sono i problemi più urgenti, prendere una difficile decisione e poi fare come faceva il nostro fondatore, Giuseppe Allamano: dire alla nostra Consolata “pensaci tu”».
Un altro cambiamento che padre Gigi rileva è nella programmazione delle spese scolastiche: quando in Kenya si poteva pagare solo con denaro contante o trasferimento bancario, la scuola mandava alle famiglie una lista di ciò che serviva agli alunni e gli acquisti venivano fatti tutti in una volta, all’inizio del trimestre. Oggi i genitori pagano anche le spese scolastiche con Mpesa, il servizio di trasferimento di denaro via cellulare attivo in Kenya dal 2007: sapendo che le famiglie hanno uno strumento immediato per pagare, gli istituti propongono iniziative come gite, gare canore, tornei, nuovi libri o altro anche nel corso del trimestre. Questo però a volte mette in difficoltà chi, come padre Gigi, riceve richieste di aiuto per coprire queste spese in qualunque momento dell’anno.
Le Ict nelle missioni
A rendere invece più organizzato il lavoro del Consolata Ikonda hospital, in Tanzania, contribuisce il sistema informatico che, riferisce uno dei responsabili della struttura, padre Marco Turra, «da anni governa l’ospedale, registrando entrate e pagamenti in contanti, iscrizioni e dati clinici dei pazienti: va migliorato continuamente, ma è chiaro che la via da seguire è questa».
Per le diagnosi e per la chirurgia Ikonda si avvale della telemedicina, grazie al contributo di medici che, da Italia, Spagna, Germania o da altre zone della Tanzania, forniscono letture dei risultati di Tac e risonanze magnetiche, degli esami istologici del laboratorio di anatomia patologica o delle analisi per la diagnosi dell’anemia falciforme. Inoltre, conclude padre Marco, grazie ai cellulari, i nostri chirurghi possono comunicare con dei colleghi durante gli interventi per ricevere consigli e indicazioni.
Anche al Catholic hospital di Wamba, in Kenya, le Ict hanno migliorato le cose: «Attraverso WhatsApp, YouTube, Zoom», spiega fratel Severino Mbae, missionario della Consola responsabile dell’ospedale, «posso vedere quale farmaco o macchinario sto per comprare, o monitorare le condizioni dei pazienti. Lo smartphone per me è un ufficio mobile: ha sostituito il registratore, la segreteria, la macchina da scrivere, la calcolatrice, la macchina fotografica».
Ci sono anche molti altri ambiti in cui le Ict facilitano il lavoro dei missionari della Consolata nello sviluppo. Scrive la responsabile dell’ufficio progetti dei missionari della Consolata in Kenya e Uganda, Naomi Nyaki: «Le istituzioni formative, come le scuole Consolata e Kiambu, o il seminario, utilizzano queste tecnologie per garantire agli studenti accesso alle informazioni necessarie per le loro ricerche e alcune lezioni si svolgono online.»
«Le persone possono pagare le bollette dell’acqua tramite i loro telefoni cellulari,», aggiunge la responsabile dell’ufficio progetti in Tanzania, Modesta Kagali, «e questo, soprattutto nelle zone remote, dà loro la possibilità di garantirsi il servizio idrico senza dover percorrere lunghe distanze per cercare un intermediario che possa fare il pagamento per loro».
Diffusione disomogenea
Ma ci sono ancora zone del mondo in cui l’uso di queste tecnologie non è possibile: «Un donatore ci aveva proposto una collaborazione con un ospedale in Camerun con il quale lui era in contatto», spiega dal nord della Repubblica democratica del Congo il laico missionario della Consolata Ivo Lazzaroni, responsabile dell’ospedale di Neisu, «ma purtroppo qui la connessione internet non permette di fare videochiamate o videoconferenze. È un peccato, ci aiuterebbe a migliorare le competenze dei nostri medici». L’ospedale di Neisu, inoltre, non è informatizzato e questo rende più laborioso gestire conti e dati clinici dei pazienti.
Se è vero che ci sono stati miglioramenti nei Paesi di missione, non va dimenticato che molte zone di questi c’è una connettività ridotta: secondo i dati forniti dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni nell’Ict development index 2023@, nei paesi a basso reddito in media solo il 21,7% delle persone usa internet, mentre poco meno di un nucleo familiare su quattro ha una connessione in casa, contro una media mondiale intorno al 70% per entrambi gli indicatori. I possessori di cellulare sono in media il 45,8% nei paesi a basso reddito, cioè meno della metà rispetto ai paesi ad alto reddito, i quali hanno anche 117 abbonamenti alla banda larga mobile ogni 100 abitanti, a fronte di 29 abbonamenti nei paesi a basso reddito.
Chiara Giovetti
Madagascar. Mission impossible (o quasi)
La «grande isola» è come un ponte tra l’Africa e l’Asia. Porta in sé contrasti e difficoltà, oltre a tanta bellezza. Iniziamo questa serie dall’ultimo paese nel quale hanno messo piede i «figli» di Giuseppe Allamano.
«Ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’essere che sul fare» (cfr. dalla presentazione degli atti del capitolo generale dei Missionari della Consolata del 2017).
La genesi
Nel 2012 il vescovo di Abanja, monsignor Rosario Vella, salesiano, passa alla casa Generalizia a Roma. Mi cerca perché le suore Battistine gli hanno parlato bene di noi. Io all’epoca ero superiore generale dei Missionari della Consolata. Mi dice: «perché non venite ad aprire in Madagascar, è una missione ad gentes, adatta a voi. Venite nella nostra diocesi».
Io gli rispondo: «È una bellissima idea, ma noi stiamo lavorando a livello continentale, per cui per aprire una missione in un nuovo paese, mi piacerebbe sentire cosa pensa il consiglio continentale dell’Africa dell’istituto». «Ma come, un generale non può decidere?», dice lui. Io presento l’idea al consiglio, che ci lavora quasi due anni.
Nel 2016, una prima delegazione va in Madagascar a incontrare il vescovo e vedere il possibile luogo di missione. Ne fanno parte il vice superiore generale padre Dietrich Pendawazima, il consigliere per l’Africa padre Marco Marini, e padre Hyeronimus Joya, all’epoca superiore del Kenya, a rappresentare il consiglio d’Africa.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010, quando ero vice superiore generale, io ero andato a trovare il nostro confratello padre Noè Cereda (recentemente scomparso, ndr) nella capitale Antananarivo. Lui era lì perché aveva lavorato come responsabile all’Emi (Editrice missionaria italiana), e aveva avuto un contratto per pubblicare i libri per le scuole elementari e medie dello Stato. Quando ha lasciato l’Emi, dati i suoi contatti, si è trasferito in Madagascar, a lavorare con delle suore. Mi ero dunque fatto un’idea del Paese.
Motivazioni
Ma perché il Madagascar? Per noi rispondeva a una delle nostre inquietudini come missionari della Consolata. Oggi tutto è missione e il significato dell’«ad gentes» è in crisi. Non si capisce più esattamente quale sia l’identità concreta dell’andare «alle genti». Diciamo che sono i luoghi dove bisogna annunciare il Vangelo per la prima volta. In Madagascar i cattolici sono una minoranza (circa il 16%, ndr).
Una seconda motivazione era che questo Paese è un ponte che unisce l’Africa all’Asia. La popolazione è in parte di origine africana e in parte austronesiana (come i popoli di Malaysia e Indonesia, ndr).
Il terzo elemento di interesse era quello dare occasione ai nostri missionari africani di realizzare una missione tutta africana.
Difficoltà
Quando i nostri primi tre sono partiti nel marzo 2019, sono andati dal vescovo di Ambanja e hanno iniziato a imparare la lingua. Si trattava del congolese Jean Tuluba, l’ugandese Kizito Mukalazi e il keniano Jared Makori. Come africani non hanno avuto grosse difficoltà a comprendere la cultura. Ma dopo qualche mese il vescovo è cambiato, monsignor Vella è stato trasferito e siamo rimasti per un paio di anni con un amministratore apostolico, che però stava in un’altra diocesi e aveva molto altro da fare. I nostri sono stati lasciati un po’ soli. Questo aspetto ha penalizzato la nostra missione. Quando abbiamo fatto la visita con la nostra delegazione si è dunque pensato di aprire nel Nord del Paese, a Beandrarezona, dove i nostri sono arrivati nell’ottobre 2020. Abbiamo subito visto che si tratta di una missione puramente ad gentes: è proprio un luogo fuori dal mondo.
Durante la stagione delle piogge, per sei mesi all’anno, non si può neppure arrivare con la macchina. Inoltre, l’unica auto che c’è in zona è la nostra. Nella cittadina dove stiamo, le case sono molto vicine tra loro, perché chi vi abita non aveva mai pensato che potesse passare un mezzo, quindi non c’è una vera strada. Anche le comunicazioni sono difficoltose: per usare il telefono cellulare, i missionari devono andare su una montagna.
Inoltre, la nostra è stata la prima presenza missionaria straniera in assoluto. Prima c’era solo un gruppo di suore malgasce che, ancora oggi, gestiscono una scuola. Forse come prima apertura in un paese nuovo è stata un po’ un azzardo.
Quando ho fatto la mia ultima visita canonica, nel luglio 2022, abbiamo confermato che la missione di Beandrarezona è quella dove vogliamo stare. Allo stesso tempo abbiamo rinforzato l’idea di aprire una nuova comunità nella capitale Antananarivo. Abbiamo infatti visto che in Madagascar, tutto si gioca in capitale, quindi una nostra presenza lì è fondamentale. Non soltanto per gli aspetti pratici ma anche per essere riconosciuti e significativi. Molte congregazioni presenti nel Paese non sanno neppure che esistiamo.
Missione povera
È una missione povera, le entrate sono limitate, anche per mantenere il minimo di strutture non è facile. I tre missionari sono rimasti per tre anni in una famiglia il cui papà era direttore della scuola. Loro si sono ristretti e ci hanno lasciato due stanze con una specie di cucina. Solo recentemente abbiamo fatto fare una casa e poi anche una scuola, che potrebbe dare un senso alla missione e una piccola entrata economica. Il luogo ci definisce, ovvero certe scelte ci definiscono. Essere in Madagascar in questo momento storico è una scelta di campo, da ad gentes, tra i più poveri e abbandonati. La forza di questo Paese è il turismo, ma si concentra sulle coste mentre all’interno la popolazione vive in una povertà estrema.
Adesso padre Kizito ha cambiato destinazione, mentre due padri giovani si stanno preparando per integrare il gruppo.
Provocazione
Questa nuova modalità di missione, si presenta con pochi mezzi. Si esplicita in tre punti: stare con la gente, avere meno potere e più condivisione. Il missionario non deve essere il solito straniero potente che risolve tutto. Questa è però una fatica per i giovani, che sono portati a essere protagonisti.
Bisogna trovare le condizioni per riuscire a stare o, al contrario, capire le condizioni che ti obbligano ad andare via.
La missione oggi chiede una grande conversione: si fa fatica a individuarla, è diversa da quella di una volta, ed è difficile portarla avanti.
Stefano Camerlengo
Clima: ultima occasione
In attesa delle elezioni europee, il cui risultato sarà decisivo per contrastare la crisi climatica, ripercorriamo l’evoluzione del movimento «Fridays for future» e di come ha cambiato il dibattito sul clima.
Il 20 agosto del 2018 una ragazza svedese ha innescato la scintilla che avrebbe cambiato il dibattito mondiale sul clima in maniera irreversibile.
Stiamo parlando di Greta Thunberg che, all’età di15 anni, ha iniziato la sua protesta per il clima, e per tre settimane ha saltato la scuola recandosi invece di fronte al parlamento del suo Paese. Indossava un iconico impermeabile giallo e reggeva un cartello che recitava «Skolstrejk for klimatet», sciopero della scuola per il clima.
Una semplice ragazza angosciata per il futuro incerto del suo pianeta chiedeva alla classe politica svedese, che si stava avvicinando a nuove elezioni in quel periodo, di attuare azioni rapide e concrete di contrasto alla crisi climatica. Greta Thunberg ha iniziato sola, ma presto i media hanno incominciato a darle attenzione, ragazzi e ragazze da ogni luogo hanno iniziato a emulare le sue azioni e il mondo si è accorto che le sue preoccupazioni erano condivise da una massa di persone, giovani e non solo, in tutti i paesi.
Molti hanno iniziato a seguire il suo esempio, e quella protesta individuale ha assunto una dimensione globale prendendo il nome di Fridays for future, venerdì per il futuro, in riferimento al giorno della settimana scelto da Greta e i suoi compagni per continuare i loro scioperi anche dopo le elezioni svedesi.
Il neonato movimento portava avanti istanze precise, a partire dalla richiesta alla comunità internazionale di sviluppare politiche definite per rispettare l’impegno preso con l’Accordo di Parigi del 2015. Il trattato, sviluppato con la partecipazione di 196 paesi alla Cop21, fissava come obiettivo il mantenimento «dell’aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l’azione volta a limitare tale aumento a 1,5°C, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici».
Una rapida crescita
Per approfondire incontriamo Luca Sardo, 24 anni, torinese, neolaureato in economia dell’ambiente e attivista per il clima già da prima dell’arrivo di Fridays for future nel capoluogo piemontese. Ci racconta come lui e i suoi compagni abbiano visto nel nuovo movimento uno spazio entusiasmante, giovane e fluido nel quale impegnarsi per essere protagonisti del cambiamento. Racconta: «Questo ti faceva sentire che, anche se avevi 17-18 anni, potevi comunque fare la differenza e sentirti parte di qualcosa di molto più grande».
Secondo il giovane attivista, uno dei principali pregi del movimento nato da Greta Thunberg è stato quello di aver aumentato la consapevolezza pubblica sul tema, offrendo «un’inquadratura diversa della crisi climatica: essa non è solo un problema di natura scientifica, ma anche di giustizia climatica, di impatti differenti che la crisi ha sulle diverse fasce della popolazione».
Grazie a queste caratteristiche Fridays for future si è espanso in fretta in tutto il mondo, approdando in Italia con l’iniziativa di Bruno Fracasso, giovane studente di biologia che il 30 novembre 2018 ha indetto il primo sciopero per il clima di fronte alla sede del comune di Pisa. Dopo la sua iniziativa, il movimento ha raggiunto presto anche altre città.
2019, l’anno verde
Dopo le prime manifestazioni organizzate localmente, gli esponenti del movimento hanno capito di poter mobilitare grandi masse e di poterlo fare in molti paesi contemporaneamente provocando un impatto maggiore sull’opinione pubblica. Così Fridays for future, insieme ad altre organizzazioni ambientaliste, ha organizzato per il 15 marzo 2019 il primo Global strike for future, uno sciopero globale che, secondo le stime degli organizzatori, ha portato oltre un milione di studenti per le strade di 125 paesi.
Da quel momento i movimenti ambientalisti hanno vissuto la loro età dell’oro, le manifestazioni si sono susseguite una dopo l’altra e con una partecipazione oceanica. Tra il 20 e il 27 settembre 2019 la Climate action week ha visto la realizzazione di più di 6.100 manifestazioni in 185 paesi, coinvolgendo un numero record di persone, che gli organizzatori hanno stimato di 7,6 milioni. Altre fonti hanno riportato cifre leggermente più basse, ma in ogni caso è stata la manifestazione globale per il clima più partecipata di sempre e una delle più grandi proteste della storia. L’Italia, con un milione e mezzo di partecipanti, è stata uno dei paesi più attivi.
Il clima è così entrato con una nuova forza nel dibattito pubblico e si è fatto largo nelle agende mediatiche e politiche. Le posizioni e le affermazioni sui problemi ambientali sono diventate il metro per giudicare politici, partiti, influencer e aziende. Tanta è stata anche la disinformazione in questi anni, dalle prime pagine del giornale Libero che parlavano dei «gretini» alle dichiarazioni negazioniste di Matteo Salvini, ma ormai il tema era sul tavolo, e non se ne sarebbe andato facilmente.
Sardo ci racconta: «Il principale successo ottenuto a livello europeo, anche se ora è in grande discussione, è stato l’approvazione del Green deal. Rappresenta un punto di non ritorno nelle politiche per il clima a livello dell’Unione, ha segnato una svolta importante».
Il Green deal è stato presentato dalla Commissione europea ai cittadini a fine 2019 con l’obiettivo, tanto ambizioso quanto necessario, di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Tra i passi da fare vi è la riduzione delle emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990, da attuarsi entro il 2030. Le iniziative da mettere in campo includono la decarbonizzazione del settore energetico e l’introduzione di forme di trasporto pubblico e privato più pulite.
Lo stop e la ripartenza
Con la diffusione, a inizio 2020, della pandemia da Covid-19, l’onda di mobilitazione scatenata da Thunberg ha subito un brusco arresto. Di colpo il mondo si è bloccato, le manifestazioni sono state vietate e l’emergenza climatica è passata in secondo piano rispetto alla crisi sanitaria e alle sue disastrose conseguenze.
«Nel 2021 abbiamo ricominciato a manifestare – spiega Luca Sardo – ma la copertura mediatica era molto scemata rispetto ai livelli pre pandemia e anche quell’aria di novità, di moda e di tendenza che avevamo era scomparsa».
Nel 2021 ci sono stati alcuni grandi eventi degni di nota, come la mobilitazione di migliaia di attivisti arrivati da tutto il mondo a Glasgow in occasione della Cop26. Tra essi era presente anche un’importante rappresentanza dei Mapa (dall’inglese Most affecteed people and areas), ossia le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. L’interesse, però, era scemato e il movimento non avrebbe ritrovato la stessa forza di prima.
Tuttavia, erano ancora in molti i giovani che sentivano l’urgenza di affrontare la crisi climatica. Un’urgenza definibile come vera e propria «ecoansia» per il proprio futuro.
«Questo ci ha trasformati – continua l’attivista torinese -: da essere sulla cresta dell’onda siamo passati a essere un movimento meno grande, con meno copertura mediatica, però fatto da persone che erano rimaste lì perché ci credevano davvero. È questo che ci ha permesso di portare avanti cose che prima non saremmo riusciti a fare».
Nuove radici
A quel punto, a livello italiano, è iniziato un processo di consolidamento, di radicamento nel territorio e di approfondimento delle relazioni con altri attori sociali. Si sono stabilite e rafforzate collaborazioni con Extinction rebellion, movimento fratello, con associazioni storiche come Greenpeace e Legambiente, e oggi si esplorano possibili legami con Ultima generazione, movimento più recente che porta avanti azioni di rottura e disturbo, come gli imbrattamenti di monumenti ed edifici tanto ripresi dalla stampa.
Luca Sardo spiega che la lotta per la giustizia climatica è una battaglia «intersezionale» che riguarda la giustizia sociale a 360 gradi, dal clima, alle migrazioni, dall’innalzamento dei mari alle guerre per l’acqua. Per questo, racconta, a Torino il movimento ha «sviluppato molto i rapporti con i sindacati della città, perché la crisi climatica si interseca con le tematiche di tutela dei diritti dei lavoratori, visto che spesso si usa la transizione ecologica come una scusa per delocalizzare, tagliare posti di lavoro, chiudere fabbriche».
Il radicamento sul territorio ha portato il movimento a molti risultati locali: Luca Sardo ci fa l’esempio del gruppo torinese, il quale nel giugno 2023 ha trovato la sua prima casa; a Torino è stato infatti inaugurato il Kontiki, prima sede fisica di Fridays for future in Italia. Un luogo dove mettere radici, coltivare relazioni e costruire cultura. Oltre a essere la sede dei loro incontri e delle associazioni amiche, il Kontiki in questi primi mesi di vita ha già ospitato decine di eventi culturali, conferenze, presentazioni di libri, diventando un vero e proprio punto di riferimento per i giovani che vogliono attivarsi.
Prospettive europee
La battaglia per la giustizia climatica è ben lontana dal raggiungere i suoi obiettivi, nonostante i rischi siano gravi e accertati dalla comunità scientifica. Il dibattito fatica ad attecchire su alcune fasce della popolazione e a tradursi in iniziative politiche concrete.
Come sottolinea Sardo, il problema dell’attivismo per il clima è che, almeno in Europa, i problemi ambientali non hanno ancora palesato conseguenze particolarmente drammatiche, e le persone faticano a considerare urgenti problemi che si verificheranno tra alcuni anni. Il mondo sta attraversando una molteplicità di crisi e gli europei sono più preoccupati per i costi della spesa, del carburante e delle bollette.
Ci stiamo avvicinando a uno dei banchi di prova più importanti per il nostro pianeta, tra il 6 e il 9 giugno 2024, infatti, i cittadini dell’Unione europea voteranno il loro nuovo Parlamento. L’obiettivo principale per contenere le conseguenze della crisi climatica è mantenere l’aumento della temperatura media entro gli 1,5°C entro il 2030, e i parlamentari che eleggeremo staranno in carica fino al 2029. Potrebbe quindi essere l’ultima opportunità per fare davvero la differenza, in un senso o nell’altro, e le prospettive attuali non sono incoraggianti vista la scarsa sensibilità ecologica tipica della classe politica di molti paesi.
Al centro del problema ci sono sicuramente i combustibili fossili sui quali l’ultima Cop di Dubai ha definito ufficialmente la direzione, che comporta una progressiva ma decisa uscita dal loro utilizzo. I principali settori su cui bisognerà intervenire saranno quello dei trasporti, dell’agricoltura, e soprattutto dell’energia. Abbiamo visto negli ultimi mesi come e quanto sia difficile portare avanti azioni significative in questi settori ma, continua Sardo: «L’elefante nella stanza sono le lobby e le multinazionali del settore energetico. Fortissime e inscalfibili, determinano gran parte dei conflitti che viviamo nel mondo. È quello il principale nemico da aggredire». È stato quindi questo l’obiettivo di Fridays for future durante i mesi precedenti alle elezioni europee: cercare di riportare per le strade cortei e manifestazioni – come ha fatto con lo sciopero globale organizzato lo scorso 19 aprile – e contemporaneamente sviluppare azioni specifiche indirizzate a minare gli interessi delle lobby del fossile.
Il nostro pianeta ha bisogno di azioni rapide e concrete per sopravvivere, la lotta continua e, come sottolinea Luca Sardo, va «declinata in un’ottica di giustizia climatica per permettere alle persone di affrontare questa transizione senza accrescere le disuguaglianze, ma anzi cercando di ridurle contemporaneamente».
Mattia Gisola
Il vocabolario dell’attivista
Mapa: è una sigla che sta per «Most affected people and areas». Indica le persone e le aree più colpite dagli effetti della crisi climatica. Spesso viene utilizzata come alternativa a «Sud globale» per riferirsi a tutte le popolazioni e i paesi che pagano il maggior prezzo dei cambiamenti climatici pur avendo le minori responsabilità nel provocarli. Sono incluse le popolazioni indigene, che è stimato proteggano l’80% della biodiversità del pianeta.
Intersezionalità: ogni tipo di attivismo può essere intersezionale, significa essere consapevoli che le diverse forme di diseguaglianza che affliggono le nostre società sono interdipendenti tra loro. In quest’ottica battersi per la giustizia climatica significa perseguire una giustizia sociale a 360 gradi, che non lasci indietro nessuno.
Ecoansia: forma di ansia e paura per il futuro legata alla consapevolezza dei disastri che i cambiamenti climatici provocheranno.
Cop: Conferenza delle parti organizzata ogni anno dalla Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) dove i leader di tutto il mondo si riuniscono per decidere insieme come contrastare l’emegenza climatica.
1,5 gradi: durante la Cop21 di Parigi è stata per la prima volta scelta come obiettivo la soglia limite di 1,5 gradi di riscaldamento globale rispetto al periodo pre industriale. è ritenuto il limite per contenere conseguenze disastrose dei cambiamenti climatici.
Trent’anni di missione
Un’esperienza di un mese nel paese saheliano è stata per lui una «folgorazione». Da allora non ha più smesso di viaggiarci e ne ha fatto il suo Paese di adozione. Fino ad andarci a vivere. La sua è, in tutti i sensi, una famiglia missionaria. Paolo ci racconta la sua storia.
«Io sono tornato molto fiducioso da questo viaggio in Burkina Faso, con tanta voglia di ripartire e fare investimenti nel Paese». Chi parla è Paolo Turini, classe 1969, di Montevarchi (Arezzo). È tornato da qualche settimana dal paese saheliano. Ma la sua non è una butade, è una constatazione suffragata da una lunga esperienza.
Il primo viaggio come esperienza di missione lo ha fatto nel 1994, proprio in Burkina Faso. È successo quasi per caso. Poi si è creata una profonda relazione con quei luoghi.
Lì ha conosciuto Caterina Piu, pure lei volontaria, e da quel momento il rapporto con i burkinabè è stato prima di coppia e poi di famiglia.
Ma andiamo con ordine.
1994. L’inizio di tutto
«Don Gabriele Marchesi era il mio parroco, ma anche il responsabile dell’ufficio missionario diocesano di Fiesole – ci racconta Paolo -. Il 2 novembre del 1994, dopo la messa dei morti gli chiesi: “Come posso fare una esperienza missionaria?”. Lui mi parlò dei corsi di preparazione dei giovani che poi ad agosto avrebbero fatto un’esperienza di missione. Ma mi disse anche: “Però ho un biglietto per un muratore, per andare a posare delle piastrelle in un dispensario in Burkina Faso. Chi doveva andare si è infortunato, e devo trovare qualcuno per il 10 dicembre”».
Il giovane pensò subito al suo capo scout che faceva quel mestiere. «Corsi da lui, ma mi disse che aveva molto lavoro e non poteva partire. Gli chiesi se mi avrebbe insegnato a posare le piastrelle se fossi andato tutti i sabati e le domeniche a lavorare con lui. Si mise a ridere, ma annuì». Paolo fece subito la proposta a don Gabriele, non c’era un minuto da perdere. E il sacerdote: «Guarda che poi là sei da solo, devi essere bravo!». Ma gli diede fiducia, e Paolo, in alcuni fine settimana, imparò a fare il lavoro.
«Una settimana prima della partenza facemmo una riunione con altri due ragazzi che sarebbero pure partiti e con don Carlo Donati, sacerdote fidei donum, che seguiva questa missione. Fui presentato come muratore esperto!».
Arrivati a Ouagadougou, la capitale, il giorno dopo si trasferirono nella città di Koupela. Il lavoro da fare era in un villaggio, Kanougou. «Eravamo su un fuoristrada su una pista di terra e don Carlo mi disse: “Guarda: a questo sasso svolti a destra e a quell’albero a sinistra. Impara perché da domani ci vieni da solo”. E così è stato. Per venti giorni da solo, prima a portare tutti i materiali e poi a posare piastrelle. Con i bambini che venivano a prendere i ritagli per fare i presepi. Altri dieci giorni sono andato in motorino, perché l’auto non era più disponibile». Paolo conclude: «Come prima esperienza in Africa è stata folgorante».
Quell’esperienza, Paolo l’aveva cercata intensamente, ma non sa neppure lui perché. Inoltre, aveva dovuto rinunciare allo stipendio in Italia, perché aveva già fatto le ferie. Il datore di lavoro lo aveva aiutato, tenendogli il posto.
Oltre a un primo assaggio di Africa, Paolo conobbe così il gruppo missionario di don Carlo con il quale iniziò a fare volontariato. Ogni anno tornava in Burkina a svolgere compiti diversi. Nei restanti mesi, in Italia, era attivissimo: usava il suo tempo libero per le diverse attività di promozione della missione sul territorio.
1977. Un’infermiera
«Nel 1997 ero in Burkina per il mese di missione che facevo tutti gli anni. Mi dissero di andare all’aeroporto a prendere tre volontari. Scesero dall’aereo una signora, una ragazza e un ragazzo. La giovane aveva l’orecchino al naso e i tacchi alti. Ho subito pensato: ma chi l’ha mandata in Burkina? Poi iniziai a interessarmi, mi piaceva l’attenzione che dava ai malati. Così ho approfondito la conoscenza».
Caterina è un’infermiera di Nuoro, ed era andata a fare un’esperienza da una suora sarda in missione a Koupela.
«L’anno successivo siamo riusciti a fare insieme due mesi in Burkina, accumulando ferie e altri permessi. Due anni dopo ci siamo sposati».
Fu in quel periodo che Paolo e Caterina maturarono l’idea di passare più tempo nel Paese. «Quando abbiamo deciso di partire per un tempo più lungo, è stato perché, dopo tanti anni di permanenze di un mese, avevamo capito che, se ci si voleva immedesimare nella cultura e aiutare meglio, occorreva vivere sul posto. Una volta compreso questo, abbiamo cercato in tutti i modi di realizzare il nostro sogno, mettendo a disposizione i nostri talenti».
1999. Il primo anno
Il primo passo è stato ottenere per entrambi un’aspettativa di un anno dal lavoro. Paolo nel 1999 lavorava per le ferrovie come manutentore (aveva passato il concorso pubblico), mentre Caterina faceva l’infermiera.
«Io ho sempre creduto nella formazione tecnica dei giovani – continua Paolo -, affinché abbiano le competenze per realizzare essi stessi il cambiamento. Ero in linea con il metodo dei Fratelli della Sacra famiglia, e c’era il modello di Goundi (villaggio nel centro ovest del Paese) di fratel Silvestro Pia: formare i giovani e dare loro gli strumenti per iniziare l’attività».
Quell’anno di aspettativa lo passarono proprio con fratel Silvestro, con l’intento di costruire una permanenza più stabile.
«Cercammo diverse possibilità: congregazioni religiose, Ong. Nessuno si interessò al nostro progetto. A un certo punto ci eravamo accordati con il gruppo missionario di don Carlo: saremmo rimasti nel Paese a seguire i suoi progetti. Il gruppo aveva aperto tre centri per bambini malnutriti e creato diversi orti moderni. Era quasi tutto pronto, ma una telefonata che ci raggiunse proprio in Burkina durante l’anno di aspettativa ci gelò: “Mi dispiace, non possiamo permettercelo economicamente”.
Don Gabriele conosceva tutta la questione. Ci disse: “Se mi garantite di rimanere cinque anni, trovo una formula”. E trovò quella dei missionari laici, che all’epoca era molto complicata. La diocesi di Fiesole ci avrebbe dato un rimborso per pagarci i contributi, circa 500 euro a testa al mese. Avremmo pagato solo i miei, perché gli altri ci sarebbero serviti per vivere. Non possiamo smettere di ringrazialo perché ci permise di partire».
2001. E missione sia
Paolo e Caterina partirono nel marzo del 2001. Iniziarono dando un aiuto ai padri Camilliani, alla periferia di Ouagadougou, in un centro dove accoglievano malati di Aids. Si occupavamo di completare la formazione degli infermieri neo diplomati e di altre attività. «Non era esattamente il nostro sogno, ma ci permise di partire. Prendemmo un impegno di un anno, poi ci saremmo spostati».
Arrivò la soffiata che una sezione dei Lions (organizzazione filantropica, ndr) voleva finanziare progetti di formazione professionale nel Sud del mondo. Paolo, preso a modello il centro di formazione professionale di Goundi, scrisse un documento da presentare all’associazione. La cifra necessaria era di 75mila euro: «Volevamo realizzarlo nella diocesi di Koupela, perché c’era l’accordo con la diocesi di Fiesole. Parlando con il vescovo, questi ci suggerì proprio Kanougou, perché c’era una struttura, il dispensario delle suore dove anni prima avevo messo le piastrelle, che aveva alcune stanze libere. Inoltre c’era il pozzo per l’acqua».
Le cose non andarono bene: «Anche questa volta arrivò una telefonata che ci lasciò di stucco: i Lions stavano ristrutturandosi e non avrebbero finanziato alcun progetto».
Ma la coppia missionaria era tenace. Lavorando dai Camilliani avevano conosciuto un medico italiano, che si impegnò a trovare loro un primo finanziamento. «Abbiamo deciso di cominciare con una cifra molto più bassa, poi via via si sono aggiunti altri contributi: dal centro missionario di Montevarchi, dallo stesso gruppo di don Carlo e da tanti altri ancora. Lavorando un po’ alla volta, siamo riusciti a realizzare tutto, tranne la sala polivalente, che avevamo capito non essere necessaria. Ci abbiamo messo più tempo, ma abbiamo avuto una spesa totale di 65mila euro».
Riflessioni
I due missionari laici si resero conto che vivere sul posto la missione ha un valore aggiunto molto importante: «L’idea di missione che si ha facendo viaggi periodici nel paese per brevi periodi non sempre è adattata al contesto. Per questo io e Caterina abbiamo deciso di stare a vivere in Burkina. Gli anni passavano, il Paese cambiava, cresceva, ma in Italia era rimasta l’idea dell’Africa dei container. Vivendo lontani si rischia di avere un approccio di aiuto di vecchio stile». Certo, lasciare tutto e partire è molto più complicato che mettere a disposizione le proprie ferie ogni anno: «Abbiamo dovuto entrambi licenziarci dal lavoro. Devo dire che le nostre famiglie ci hanno sempre supportati. A Caterina hanno detto: “Basta che tu sia felice”. E mia mamma ha chiosato: “Tanto tu alle ferrovie non sei mai andato volentieri”».
Ripensando al periodo di residenza in Burkina, Paolo ricorda che non era sempre tutto facile, anzi: «Qualche batosta c’è stata. Alcuni problemi che ti fanno dire: ma chi me lo ha fatto fare. Ma poi ci sono le motivazioni di fondo che ti aiutano ad andare avanti».
Nel frattempo arrivarono i primi due figli, Samuele e Francesco, e la famiglia missionaria si era allargata.
2006. Il ritorno
Il 12 agosto del 2006 arrivò una di quelle telefonate che impongono decisioni importanti. «Il provveditorato agli studi mi informava che ero passato di ruolo. Avevo dato il concorso per la scuola molti anni prima. In 48 ore avrei dovuto decidere se prendere il posto o lasciare. Partire o restare in Burkina.
Quella notte non riuscivo a dormire. Mi giravo e mi dicevo: ma chi ce lo fa fare di tornare in Italia? Stiamo qui. Poi mi rigiravo: abbiamo già due figli e quando cresceranno cosa si farà? Don Gabriele era andato in missione in Brasile. Non si sapeva se la diocesi ci avrebbe rinnovato il contratto. Le incognite erano tante. Apro gli occhi e vedo una lucina rossa nel buio della stanza. Penso al tabernacolo. Sento che mi dice: torna in Italia poi semmai ritorni in Burkina.
Al mattino mi sveglio e dico a Caterina: si è deciso, si riparte. Poi mi accorgo che la lucina era lo zampirone contro le zanzare. Ma oramai si era deciso».
In Italia Paolo e Caterina diventarono l’anima del centro missionario Bakonghe, che si costituì come associazione. Furono, inoltre, nominati entrambi responsabili del Centro missionario diocesano di Fiesole, primi laici a svolgere questo servizio. Paolo continuava a seguire il progetto di Kanougou e, una volta all’anno, andava in Burkina.
Ma ci confessa: «Non sempre siamo contenti della scelta di tornare in Italia. Adesso Samuele ha 20 annie sta già lavorando. Francesco e all’ultimo anno delle superiori, e Petra, nata dopo il rientro, al terzo. Vediamo quando saranno autonomi se tornare in Burkina».
2024. Nuove idee
Nel gennaio di quest’anno Paolo è tornato dall’ultimo viaggio missionario con una nuova idea. «Voglio realizzare una fabbrica di motozappe. Se funziona, può migliorare la vita dei contadini burkinabè, e anche darci un piccolo introito che ci permetta di tornare a vivere in Burkina per seguire le attività del centro di formazione a Kanougou».
Paolo ci dice che l’attuale governo vuole favorire l’agricoltura e quindi cercherà di contattare il ministero. «Prevedo una parte per l’assemblaggio delle motozappe e una parte per la vendita. Il prezzo deve essere accessibile a una famiglia del posto. Servono circa 50mila euro, ma non tutti insieme, si può iniziare con una prima parte e poi andare avanti. Ma in tre anni la fabbrica deve essere produttiva. Devo iniziare a cercare i finanziamenti».
Nel frattempo Paolo sta contattando aziende italiane produttrici di motozappe per proporre eventuali collaborazioni, sia tecniche che finanziarie. Intanto con Caterina continua l’attività missionaria con il centro Bakonghe e con la diocesi.
«Lascerei il Cmd anche ad altri, ma purtroppo in Italia adesso c’è poco interesse per la missione», si lamenta. E fa un commento su come è stato vissuto il loro rientro dalla missione: «Quando siamo venuti via dal Burkina, temevo che i burkinabè ci accusassero di essere dei traditori. Cosa che non è mai accaduta. Piuttosto, ci hanno sempre detto: “Voi potrete aiutarci anche dall’Italia”. Invece qui da noi c’è gente che ci ha detto: ma cosa siete tornati a fare, abbiamo bisogno di voi in Burkina. Voglio dire che abbiamo avuto più difficoltà da parte degli italiani che dagli africani».
Dopo trent’anni di missione in Burkina Faso, seppure con modalità diverse, Paolo è più motivato che mai. Neanche la difficile situazione sociopolitica del Paese lo scoraggia. E con lui, la sua famiglia missionaria.