Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


PADRE MATTEO, IL MISSIONARIO INNAMORATO

Carissimi amici,
ho in mano la rivista di aprile e sfoglio il dossier sulla chiesa a Dianra (Bellezza che evangelizza. Una chiesa inculturata in Costa d’Avorio), ricordando la gioia di padre Matteo Pettinari quando gliel’abbiamo inviata in anteprima.

Contemplo la Gerusalemme del cielo, dove la vita di comunione non ha fine, e chiedo aiuto al Signore per tutti noi, straziati dal dolore: padre Matteo, il 18 aprile scorso, ha avuto un tragico incidente stradale ed è entrato in quell’abbraccio d’oro. Ci siamo arrabbiati col Signore, ci siamo sentiti soli e persi, abbiamo pianto, di rabbia e dolore.

È il dolore della famiglia Pettinari per la perdita del caro Matteo, figlio e fratello amato, è il dolore della nostra Chiesa diocesana di Senigallia e di tutti gli amici di oggi e di sempre, è il dolore dei Missionari della Consolata, è il dolore di tutta la comunità di Dianra, mentre il volto di Matteo torna al cuore, con tutta la sua straordinaria bellezza di pastore innamorato: innamorato del Signore, della Chiesa, della sua missione, di ogni uomo e ogni donna che incontrava sul cammino. Il volto di Dio che si fa accanto, che dà la vita per tutti, che ci viene a cercare.

E allora attraversiamo con Matteo questo tempo di dolore, e dopo la rabbia e la disperazione, dopo l’assenza che sentiamo, piano piano arriva la Consolazione per ciascuno di noi. E Matteo manda segni in ogni momento tanto da farci esclamare: Matteo c’è! Continua a essere tra noi in modi e forme che scopriamo ogni giorno. Ci sorprende venendo ancora a «scomodare» le nostre vite e a non farci fermare.

È lui stesso a donarci parole per trasformare il dolore in una strada che ci fa sentire sorelle e fratelli del mondo intero. Condivido con voi uno stralcio di un audio che padre Matteo ha inviato a una amica per Pasqua.

«A me fa tanto bene sprofondarmi in questo pensiero:
Cristo ha trasformato la morte da un sepolcro chiuso, sigillato, in una porta spalancata.
La pietra che rotola via, quindi, il sepolcro aperto, sono il segno del fatto che con Lui, in Lui, e per Lui, per chi crede in Lui, per chi vive veramente gettando il cuore dentro la Sua vita, cercando di accoglierla giorno dopo giorno, la morte è una porta spalancata
verso un futuro tutto da scoprire, tutto da vivere.

Allora è bello pensare, e credere, e anche fare l’esperienza
che tutti i nostri cari che bruscamente o dopo una malattia,
in maniera per noi incomprensibile, ci hanno lasciato,
è bello sapere che per loro si è spalancata questa porta
ed è iniziato un nuovo percorso, una nuova vita, tutta da vivere,
da gustare, da scoprire, una vita che non muore, che non finisce.

Questo il pensiero in cui sprofondare.

È bello che Paolo dica (cfr. 1 Tess 4,13-18): “Non voglio fratelli che siate privi di speranza come tutti gli altri”.
Questo per noi è da sapere: che vivremo sempre con Cristo.

Questa speranza non ci cancella l’assurdità di questa vita in alcune sue sfaccettature, in alcune sue esperienze, però ci apre a un senso.
Anche dentro il sepolcro, da lì dentro, si può fare esperienza di un nuovo inizio: dentro le nostre paure, quindi, dentro quello che non
capiamo, dentro l’assurdo, c’è qualcosa che va aldilà di quello che ci è dato con la nostra testa di capire.
Anche lì dentro si può fare strada, si può fare spazio, anche in maniera non percettibile, non sensibile,
una possibilità nuova di amare. Non c’è da capire, c’è da amare, c’è da darsi tutto fino in fondo.

Pettinari p Matteo et deux jumeaux d’Étienne et Bernadette

La fede cristiana non dà
risposte razionali a certe domande.
La fede cristiana propone
di amare sempre,
amare comunque, amare per primi,
amare fino a dare tutto,
amare fin quando fa male,
amare anche quando non si capisce
perché si deve amare
o perché si è chiamati ancora
a riscommettere sul dono di sé.

Questo vorrei chiedere
come dono per me,
per te,  per le persone
che amiamo,
per le persone
che incontriamo».

padre Matteo


Grazie amico grande, portiamo con noi il tuo sguardo e il tuo sorriso, la tua energia, la fede in Dio Padre buono, che comunica la vita indistruttibile e l’Amore sempre. Ora rendici testimoni credibili del tanto amore che ci hai donato.

 Daniela Giuliani
Senigallia, 26/04/2024

 Lettera aperta

A partire dal mese di aprile, MC si è presentata ai lettori con una impaginazione, a primo impatto, più sobria e una qualità di carta differente. Marco Bello, direttore editoriale, ci ha spiegato che il cambiamento è dovuto, in termini di denaro, a favorire investimenti anche per la rivista online, che ultimamente compare settimanalmente, con aggiornamenti, sui nostri schermi dei computer. E che sicuramente è seguita più agevolmente da un pubblico di lettori giovani o comunque da chi ha dimestichezza con la digitalizzazione, se non addirittura la preferisce.

«Missioni Consolata» ha una sua storia importante, legata all’istituto missionario dell’Allamano, ed io, oltre che leggerla, ho avuto anche il privilegio di collaborarvi anni addietro. Sono quindi felice delle novità positive, che la rendono sempre più fruibile attraverso nuove rubriche, tenute da esperti dei diversi settori, e articoli che offrono la possibilità di argomentare con intelligenza soprattutto di politica estera. Questo è importante, a mio parere, perché i nostri missionari si calano, per svolgere il servizio, in parecchi Paesi del villaggio-mondo e noi che li seguiamo dall’Italia abbiamo così cognizione delle effettive problematiche che essi si trovano a dovere affrontare, giorno dopo giorno, e il nostro aiuto a loro diventa un aiuto mirato.

Inoltre «Missioni Consolata» offre molte letture di spiritualità che favoriscono la crescita interiore della persona in un panorama, per quanto riguarda la carta stampata, decisamente povero di questo genere di contenuti, se non rare eccezioni. E la guida del lettore avviene attraverso un linguaggio comprensibile ai più. E ciò non è poca cosa. È facile salire in cattedra, difficile è farsi comprendere da molti. Importante è il dialogo con i lettori (le lettere alla rivista) che, da sempre, è stato uno spazio privilegiato, molto curato dai direttori che si sono avvicendati. E continua a esserlo.

Interessante è anche la presenza delle diverse agenzie stampa che ci fanno conoscere gli eventi della Chiesa nel mondo ma ci fanno prendere dimestichezza con l’utilizzo delle stesse, in modo di avere a nostra volta, come lettori interessati, un’informazione puntuale in qualunque altro momento. Insomma «Missioni Consolata» è scuola se sappiamo leggerla. Un grande «grazie» a tutti coloro che vi lavorano e lo fanno senza mai risparmiarsi. Un «grazie» sentito, che può leggersi tranquillamente come gratitudine.

Marianna Micheluzzi
Olbia 26 aprile 2024

Grazie dell’incoraggiamento. Uno dei vantaggi della nuova carta è che la lettura dei testi è più facile, anche se la qualità delle immagini ne risente un po’, ma stiamo lavorando per ottenere i risultati migliori.

I tempi che viviamo richiedono vigilanza e discernimento per servire davvero la missione e i poveri anche con la comunicazione. A volte non è facile scegliere il meglio tra chi pensa che il digitale sia l’unica strada ormai da seguire e chi ritiene che la carta sia ancora lo strumento più efficace per una comunicazione profonda che stimoli la riflessione, il coinvolgimento, e aiuti le persone a una presa di responsabilità che vada oltre l’emotività di pochi momenti. Noi ci stiamo provando. È un’avventura interessante e sfidante. Grazie per il sostegno e l’incoraggiamento che riceviamo da molti. Benvenute anche le critiche che ci aiutano a riflettere e stimolano a cercare vie nuove.

Certo, il desiderio sarebbe che queste pagine restassero un luogo di incontro, di riflessione e di scambio, ma siamo anche coscienti che oggi il digitale esige immediatezza, cosa che qui non è possibile, avendo il processo di stampa tempi più lunghi. Buona lettura.

Eccezionale

Direttore buongiorno,
non trovo le parole per ringraziare Lei ed i suoi collaboratori per il numero di marzo della rivista. Quanta ricchezza di informazioni, quanti temi trattati, con la consueta competenza e passione, che non si leggono da nessuna parte.

Non che i precedenti fossero «scarsi», anzi, ma quello di marzo 2024 lo trovo davvero un numero eccezionale: Palestina, Brasile, Congo, Cina. Quante notizie sconosciute ci avete dato. E prezioso anche il dossier sulla rete di scuole con Penny Wirton (altro che le stupidaggini che continuiamo a sentire in questi giorni sul limite del 20% di alunni non italiani in classe).

Voglia il Signore dare a lei e ai suoi collaboratori tanta vita e tanta energia per continuare in questa vostra preziosa opera di informazione. E che la Madonna della Consolata vi assista sempre. Un grande Grazie, ma proprio grande.

Alfio Bolzonello
02/04/2024 (Treviso)

Il mistero della @

Buongiorno,
da parecchi anni sono un sostenitore della vostra rivista. Apprezzo in modo particolare servizi sulla socialità, rispetto dei diritti umani e l’obiettività dei queste informazioni. Mi incuriosisce il significato della chiocciolina (@) che ogni tanto viene inserita in certi articoli. Non ho ancora trovato qualcuno che me ne dia una spiegazione. Complimenti ancora per i contenuti sociali della rivista. Per certi versi la definirei, (come complimento) di una sinistra onesta e sincera. Grazie e Cordiali saluti

Sergio Lanfranconi
02/04/2024

Grazie di cuore del vostro incoraggiamento. Di questi tempi ne abbiamo proprio bisogno.
Quanto alla chiocciolina (@) che appare nella rubrica «Cooperando», è un simbolo per ricordare che c’è un link a un testo che si trova nell’internet, a cui uno può accedere, se interessato, dalla nostra edizione digitale. Mettiamo quel simbolino perchè i riferimenti sono così tanti che stampati occuperebbero diverse colonne di testo, mentre sul web sono lì, immediatamente accessibili.


Compleanno 100 di P Antonio Bianchi. 13 giugno 2022

Kwaheri Guka

In pochi giorno il Signore si è preso il più giovane e il più vecchio dei missionari della Consolata italiani, il 14 aprile padre Antonio Bianchi, classe 1922, da Verbania (Vco), e il 18 aprile padre Matteo Pettinari (vedi pagina precedente), nato a Chiaravalle (An) nel 1981.

Padre Bianchi, detto Guka (nonno), ordinato nel 1945, dopo essere stato diversi anni in Portogallo, era arrivato in Kenya nel 1955, all’età di 33 anni, durante la lotta per l’indipendenza. Lì ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, lavorando in varie missioni e dedicandosi soprattutto alla pastorale e all’evangelizzazione, facilitato da una memoria raffinata e dalla perfetta conoscenza della lingua kikuyu. Assegnato inizialmente a Ngandu-Murang’a, oggi diocesi, ma all’epoca terreno favorevole ai combattenti Mau Mau, in seguito, venne mandato a Ichagaki, sempre nella diocesi di Murang’a. Negli anni ‘90 è stato nella nuova missione di Rumuruti, nella diocesi di Nyahururu, e poi nella parrocchia di Makima, nella diocesi di Embu.

Ritirato ormai da diversi anni nella casa centrale di Nairobi, dove curava l’orto con passione e competenza, è morto due mesi prima del suo 102° compleanno, proprio nella III domenica di Pasqua, giorno in cui il Vangelo ci invitava a testimoniare il Cristo vivo, Cristo risorto. Questa è stata senza dubbio la sua vita missionaria e apostolica. Ha vissuto la sua vocazione in modo esemplare, tutto per Gesù, tutto per il Vangelo. Che riposi in pace, tra le braccia del buon Dio, che ha tanto amato e servito.

adattato da Cisa news, Nairobi

P. Antonio Bianchi con Gemma




La persona al centro

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in qualunque stato o situazione si trovi. Questo principio, che è pienamente riconoscibile anche dalla sola ragione, si pone a fondamento del primato della persona umana e della tutela dei suoi diritti. La Chiesa, alla luce della Rivelazione, ribadisce e conferma in modo assoluto questa dignità ontologica della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo Gesù. Da questa verità trae le ragioni del suo impegno a favore di coloro che sono più deboli e meno dotati di potere, insistendo sempre “sul primato della persona umana e sulla difesa della sua dignità al di là di ogni circostanza”».

È l’inizio di Dignitas infinita, la dichiarazione circa la dignità umana che papa Francesco ha rilasciato il 2 aprile scorso. È una forte provocazione a ripensare l’approccio che la nostra società ha oggi verso la persona. Un approccio che si rispecchia nelle scelte politiche che i nostri paesi stanno facendo in questi giorni.

Due sono le aree che destano in me particolare preoccupazione: la difesa della vita dal suo inizio alla sua fine, e la realtà dei profughi e migranti.

Migranti. Oggi, in tutta Europa, assistiamo a una progressiva chiusura sull’accoglienza dei migranti, con la scusa di difendere le frontiere e combattere i trafficanti. Senza andare alle vere cause delle migrazioni rischiamo di convincerci che le persone in fuga da paesi come Afghanistan, Eritrea, Siria, Pakistan, Ciad, Sudan e altri ancora, affidino «per sport o diletto» le loro vite alle promesse dei trafficanti, e non per le durissime condizioni di vita nei loro Stati dilaniati da guerre o segnati da ingiustizie, povertà croniche e mancanza di libertà.

La tristezza è vedere che, dopo aver buttato giù il muro di Berlino, abbiamo costruito nuovi muri e barriere (fisiche, sociali e virtuali) per difendere, si dice, la nostra cultura e identità. E ci si dimentica che da sempre il Mediterraneo e tutta l’Europa sono il crogiolo di popoli diversi: la nostra origine sta nell’India (siamo indoeuropei); dai tempi dell’Impero romano abbiamo importato centinaia di migliaia di schiavi dall’Africa e dall’Asia, non ultimi i molti figli che i nostri soldati hanno generato in Etiopia e Somalia. La nostra cultura è quella che è proprio perché abbiamo saputo assorbire valori e stimoli da tante civiltà diverse.

Difesa della vita. Questo è un altro tema caldo e conflittuale, con posizioni che vogliono far riconoscere sia l’aborto che l’eutanasia non semplicemente come azioni da depenalizzare ma come «diritti umani» da iscrivere in quella che dovrebbe divenire la Costituzione dell’Europa e quindi di ogni Paese, sull’esempio della Francia. Il tutto sostenuto da argomentazioni sofisticate e ammaliatrici, con accuse pesanti e anche minacce, soprattutto sui social media, contro chi la pensa diversamente. Dimenticando, per esempio, che per secoli noi abbiamo trattato da «selvaggi» quei popoli che abbandonavano nella foresta perché venissero finiti dalle fiere gli anziani ormai troppo vecchi e malati, o quei bambini che nascevano fuori da relazioni culturalmente approvate, da ragazze incirconcise o, addirittura, i gemelli che una madre da sola non avrebbe potuto nutrire.

Sono cresciuto con il sogno di un’Europa capace di rigettare il suo passato coloniale e razzista per impegnarsi nella costruzione di un mondo nuovo dove ogni persona fosse accettata per quello che è. Figlio del secondo dopoguerra, credevo avessimo imparato a rifiutare razzismo, autoritarismo, dittatura, etnocentrismo dopo aver sperimentato gli amari frutti dei sistemi dittatoriali che abbiamo avuto prima della nascita della nuova Europa.
Pensavo avessimo messo al centro la pace e il rifiuto della guerra. Che valori come la vita dal suo principio alla fine; la dignità della persona nella sua unicità e nei suoi diritti senza distinzione di genere, di età, di razza o di stato sociale; l’ambiente, «casa» comune, patrimonio e responsabilità di tutti; il lavoro, la salute e la libertà religiosa, fossero ormai nel nostro Dna. Invece, la ricchezza si accumula sempre di più nelle mani di pochi mentre aumentano povertà e sfruttamento, la cura della salute diventa ogni giorno di più un affare per i privati,
il lavoro è sacrificato al profitto, l’«io» prevale sul «noi».

E intanto non ci si sposa, non si fanno figli, si invecchia brontolando, cresce la violenza e il disagio, si svuotano le chiese, si dipende dai social, si ricorre al fentanyl. Dove vai Europa? Troveremo chi è ancora capace di farci sognare? Chi mette al centro la dignità della persona, ogni persona, ogni momento della sua vita?

 




Desert dumps: migranti come rifiuti

 

Il 21 maggio è stata pubblicata un’inchiesta giornalistica che porta diverse prove di come i finanziamenti dell’Unione europea ai paesi del Nord Africa siano utilizzati per perpetrare violenze nei confronti dei migranti subsahariani.

Nell’inchiesta sono coinvolte alcune delle più importanti testate internazionali come il The Washington Post, Le Monde, El Pais, Lighthouse Reports e altre che hanno lavorato insieme per un anno per mostrare al mondo intero come i fondi dell’Unione europea e dei suoi paesi membri siano utilizzati nel Nord Africa per portare avanti operazioni violente e aggressive.

Viene raccontata la storia di François, trentottenne camerunense che è stato intercettato, insieme alla moglie e al figlio di 6 anni, su un barcone che stava solcando le acque del mediterraneo. Era la quarta volta che provava a imbarcarsi ma la Guardia costiera tunisina li ha fermati e riportati sulla terra ferma. Sono poi stati caricati su un camion che li ha obbligati a scendere in una zona remota del deserto vicino al confine con l’Algeria.

È proprio questa la pratica che dà il nome all’inchiesta, intitolata «Desert dumps», ossia discariche nel deserto, a indicare il modo in cui spesso vengono trattati i migranti che sono scaricati come rifiuti in mezzo al deserto. L’obiettivo è, nel caso le persone non muoiano, che desistano dal riprovare la traversata.

È la complicità dell’Unione europea il fulcro dell’inchiesta, vengono portate alla luce diverse prove di come in queste operazioni repressive abbiano avuto un ruolo i fondi europei. In teoria ogni finanziamento di Bruxelles dovrebbe essere vincolato al rispetto di certi standard di diritti umani, in pratica i soldi dei cittadini europei sono stati usati per finanziare gli addestramenti del personale di polizia e per fornire mezzi di trasporto, terrestri e marittimi, utilizzati in diverse di queste operazioni violente.

L’inchiesta si concentra su tre paesi: Tunisia, Marocco e Mauritania. Attraverso accurate ricostruzioni con le testimonianze dei protagonisti di queste storie, i video fatti dagli stessi e poi verificati analizzando le tracce Gps degli smartphone sono emerse situazioni preoccupanti. Ad esempio, dai video girati da François in mare, si distingue l’imbarcazione della Garde nationale maritime tunisina che lo ha intercettato, è una motovedetta di un particolare modello che era menzionato espressamente in un accordo stipulato tra Italia e Tunisia.

I video provenienti dal Marocco mostrano invece dei Toyota Land Cruiser, veicoli donati al paese dall’agenzia governativa spagnola FIIAPP che finanzia nel paese un progetto per combattere l’immigrazione irregolare. E veicoli analoghi sono stati identificati in Mauritania.

Sono questi quindi i contesti in cui si inseriscono i diversi accordi che l’Unione europea e i suoi paesi membri continuano a stipulare con i paesi del Nord Africa. Uno degli ultimi è stato fatto proprio con la Tunisia, si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci principali, di cui due rese disponibili da subito, che comprendono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del paese nordafricano e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori.

Questi soldi dati, con scarsi controlli su come verranno utilizzati, a un governo sempre più autoritario e che fa del razzismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rischiano di diventare l’ennesima violazione dei diritti umani dei migranti portata avanti con la complicità dell’Unione europea.

Mattia Gisola




Sudafrica. Il tramonto dell’Anc?

 

Oggi in Sudafrica si tengono le elezioni nazionali e provinciali. Oltre a scegliere le autorità locali, i cittadini eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, ai quali spetterà scegliere il futuro presidente.

Il voto è considerato il più importante da quando il Paese è tornato alla democrazia nel 1994 dopo la fine dell’apartheid. Per la prima volta in trent’anni, l’African national congress (Anc), il partito di Nelson Mandela, rischia di perdere la maggioranza in Parlamento e di dover costituire un inedito governo di coalizione.

Gli schieramenti

Il leader dell’Anc e presidente uscente, Cyril Ramaphosa, è ancora il candidato di punta del partito. Se l’Anc dovesse superare il 50% dei consensi, Ramaphosa si confermerà alla guida del Paese anche per i prossimi cinque anni. In caso contrario (secondo i sondaggi l’Anc si fermerà al 40%), il partito di governo dovrà creare una coalizione con almeno un’altra tra le forze che siederanno nel nuovo Parlamento. Una prospettiva complessa, vista la distanza ideologica e politica con molte di esse.

Gli Economic freedom fighters (Eff) di Julius Malema sono un partito di sinistra dal programma radicale, stimato all’11,5%. Nonostante Anc ed Eff si siano già alleati in passato a livello provinciale, la distanza è forte, soprattutto per quanto riguarda le nazionalizzazioni su ampia scala al centro del programma degli Eff.

La Democratic alliance (Da), movimento di centrodestra dato al 22%, è l’attuale principale oppositore dell’Anc a livello nazionale. Il suo leader è John Steenhuisen. Durante la campagna elettorale, il partito ha rilasciato un video dove la bandiera sudafricana bruciava. Descritto come un avvertimento di quanto accadrà nel Paese se l’Anc dovesse creare una coalizione con altri partiti, il filmato mostra le profonde tensioni che attraversano il Sudafrica.

L’ultima forza principale dell’opposizione è l’Inkantha freedom party (Ifp). Il partito conservatore – che dovrebbe fermarsi al 4,5% – è guidato da Velenkosini Hlabisa. Espressione del nazionalismo zulu, l’Ifp ha la propria roccaforte nella regione del KwaZulu-Natal.

L’Mk e Zuma
A queste forze, che costituiscono la fetta maggiore dell’attuale opposizione parlamentare, si aggiunge un nuovo movimento che probabilmente si aggiudicherà una propria quota di seggi: l’uMkhonto we sizwe (Mk), attualmente all’8,5%. Il suo leader è Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica tra il 2009 e il 2018.
Il ritorno sulla scena di Zuma – figura tanto controversa quanto ancora apprezzata – ha creato scompiglio nel Paese e contribuito a erodere il consenso dell’Anc. Accusato di corruzione, nel 2018 Zuma era stato costretto a dimettersi da capo dello Stato e leader del partito. In entrambi i casi era stato sostituito da Ramaphosa. Condannato a quindici mesi di carcere, ne ha scontati tre prima di essere graziato dal suo successore.
La Costituzione sudafricana impedisce l’elezione di chi ha ricevuto sentenze superiori a dodici mesi. Per questo, il 20 maggio, la Corte costituzionale ha escluso Zuma dalla lista dei candidati dell’Mk. Il volto dell’ex presidente apparirà comunque sulla scheda elettorale in quanto leader del partito, ma non potrà essere eletto.

Trent’anni di speranze disattese
Nell’immaginario comune, le elezioni del 1994, vinte dall’Anc di Mandela, dovevano segnare la nascita di uno Stato dove tutti avrebbero avuto pari dignità e diritti, indipendentemente dal colore della pelle. Trent’anni dopo, molte speranze sono state disattese.
La corruzione dell’élite politica è un fenomeno endemico. Diversi leader dell’Anc – tra cui Zuma e lo stesso Ramaphosa – si sono appropriati di fondi pubblici, impedendo che venissero destinati a servizi, lotta alla povertà e riduzione delle disuguaglianze.
Nel 2022, la Banca mondiale aveva definito il Sudafrica lo Stato con la maggiore disuguaglianza nel mondo. Il 10% più ricco (perlopiù bianco) possedeva l’80% della ricchezza del Paese. Mentre la popolazione nera (l’80%) era ed è ancora oggi in condizione di forte svantaggio economico e sociale.
La disoccupazione, un problema strutturale, a fine 2023 riguardava il 32% dei sudafricani, la metà dei quali giovani. Mentre più del 60% della popolazione viveva al di sotto della soglia nazionale di povertà. Tassi elevati anche a causa della stagnazione economica (dal 2012, la crescita media del Pil è dello 0,8% annuo) e del debito in ascesa (stimato al 74% del Pil a fine 2024).
Elevati livelli di violenza, xenofobia nei confronti dei lavoratori stranieri e costanti blackout della rete elettrica sono altre problematiche del Paese.
Sono queste le reali questioni a cui la classe politica sudafricana dovrebbe porre attenzione.

Aurora Guainazzi




Israele-Palestina, Russia-Ucraina. La giustizia è una chimera

Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi. Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.

Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).

Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.

D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.

Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.

Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.

Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).

Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.

Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.

Paolo Moiola




Il santo che non faceva rumore

 

La notizia era nell’aria. C’era chi diceva entro l’anno. Ci si aspettava una conferma per il 20 giugno, la festa della Consolata. E invece, ieri 23 maggio, il Papa ha approvato il miracolo del beato Giuseppe Allamano. È stata una grande gioia, anche se, per molti di noi, il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, santo lo era già da un pezzo.

Adesso c’è l’ufficializzazione e «l’onore delle cronache». Ma Giuseppe Allamano, pur essendo un precursore nella stampa cattolica – aveva fondato «La Consolata» (1899), che ha dato origine alla nostra testata, «Missioni Consolata» -, non amava essere messo in prima pagina.

«Fai bene il bene e senza fare rumore», quindi senza mettersi in evidenza, era infatti il settimo dei suoi dieci «comandamenti». Ma un altro comandamento, il nono, era proprio: «Dai il primo posto alla santità». Realizzato, oggi, più che mai.

La redazione

Riportiamo qui parte dell’articolo di Jaime Patias, direttore del Segretariato generale per la comunicazione, pubblicato integralmente su consolata.org.

Nell’udienza concessa questo giovedì 23 maggio 2024 al cardinale Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del Decreto che attesta un miracolo attribuito all’intercessione del beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata.

Il Papa nello stesso tempo ha deciso di convocare un Concistoro, che riguarderà la canonizzazione dell’Allamano, insieme a Marie-Léonie Paradis, Elena Guerra e Carlo Acutis.

La missione, il sogno di Giuseppe Allamano

l miracolo che porterà alla canonizzazione il beato Giuseppe Allamano, è successo in Brasile, nello stato di Roraima, in piena foresta amazzonica, una delle frontiere della missione, dove dal 1948 i missionari e le missionarie della Consolata lavorano con la gente e annunciano il Vangelo, realizzando il sogno dell’Allamano, che dalla Consolata li aveva inviati nel mondo intero.

Nato a Castelnuovo Don Bosco (Torino) il 21 gennaio 1851 l’Allamano muore a Torino il 16 febbraio 1926.  Da ragazzino Giuseppe è cresciuto fra i salesiani, a 22 anni è sacerdote coltiva il sogno di partire in missione, ma la salute cagionevole non glielo permette. Alla età di 29 anni lo mandano a dirigere il più grande Santuario mariano di Torino dedicato alla Madonna Consolata che riporta agli splendori di un tempo. Il fuoco per la missione, ancora vivo nel suo cuore, l’Allamano lo trasmette a giovani preti che dovutamente formati alla scuola del loro rettore si preparano a salpare per le terre lontane.

Ai piedi della Consolata, in questo modo, l’Allamano getta le basi per una grande opera, l’Istituto Missioni Consolata (Imc), che fonda nel 1901 e su richiesta di Pio X ne costituisce anche un ramo femminile con le Suore Missionarie della Consolata (Mc) nel 1910.

Il miracolo dell’indigeno Sorino Yanomami

Il miracolo attribuita alla intercessione di Giuseppe Allamano riguarda la guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, popolo della foresta amazzonica nello stato di Roraima, Nord del Brasile. Sorino il 7 febbraio 1996 viene aggredito da un giaguaro che gli causa la frattura della scatola cranica. Sorino rimane in questa gravissima condizione per otto ore senza cure adeguate, finché un piccolo aereo bimotore riesce a trasportarlo all’ospedale di Boa Vista, la capitale dello Stato.

La scena per i medici è terrificante, l’indigeno viene operato di urgenza e poi ricoverato in terapia intensiva. Accanto a lui, oltre alla moglie, ci sono sei suore della Consolata, un sacerdote e un fratello missionario sempre della Consolata. Tutti invocano il beato Allamano e mettono una sua reliquia sotto il cuscino del letto di Sorino. Proprio in quel giorno inizia la novena del Beato. Sorino si risveglia dieci giorni dopo l’intervento senza mostrare nessuna conseguenza di carattere neurologico. Il 4 marzo viene trasferito presso una casa di cura e quattro giorni dopo è in grado di rientrare al suo villaggio completamente guarito, riprendendo la sua vita di un abitante della foresta, A tutt’oggi non ci sono conseguenze delle gravi lesioni subite.

Jaime C. Patias

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Congo Rd. Il missionario medico

Nella missione di Neisu a una trentina di chilometri da Isiro nel Nord Est della Repubblica democratica del Congo, il 18 maggio scorso, si è celebrato il venticinquesimo anniversario della morte di padre Oscar José Goapper Pascual, giovane missionario della Consolata e medico. Un missionario che «ha lasciato il segno».

Padre Oscar era figlio di José Elgasto e di Nelly Terma ed era nato il 25 settembre 1951 a Venado Tuerto, nella provincia di Santa Fé in Argentina.
Dopo le scuole secondarie, Oscar sente la chiamata a essere missionario e domanda di entrare dai missionari della Consolata presenti nella sua città. Viene accolto e inviato in Italia per continuare il cammino formativo. Terminato il cammino di formazione è ordinato sacerdote a Torino il 19 giugno 1976. Viene subito inviato in Argentina per essere animatore missionario e poi anche formatore. Nel 1981 scrive al superiore generale per chiedergli di poter finalmente andare in missione, anche se aggiunge: «Seguire il Signore fedelmente e senza mettere condizioni è vitale per me», manifestando la disponibilità che lo avrà sempre caratterizzato. Pensando che gli sarebbe stato utile in missione aveva seguito il corso per infermieri professionali. Diceva: «Aspetto con impazienza il giorno della partenza, ma sono cosciente che non si può improvvisare la missione».

Il 27 Aprile 1982 arriva finalmente nella missione di Neisu nel Nord Est dello Zaire. Padre Oscar si accorge subito della necessità di avere un luogo adatto per curare tanta gente ammalata. In un primo tempo trova aiuto occasionale da parte del dottor Leta direttore della clinica del Est a Isiro. Con l’accordo dei suoi confratelli, i padri Antonello Rossi e Richard Larose e con l’aiuto di fratel Domenico Bugatti decide di seguire la costruzione di un ospedale, ma ci vorrà un medico che sempre presente. Allora dice al suo superiore: «Se non ci sono dei medici laici che vogliano venire a Neisu, diventerò io stesso medico». Con il permesso del superiore generale si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Milano. Cominciano lunghi anni e padre Oscar divide il suo tempo, le sue energie e le fatiche tra Europa e Zaire. Finalmente dottore, resta definitivamente a Neisu tra i suoi ammalati.
A quei tempi mi trovavo a Kisangani, piuttosto distante da Neisu ma ho avuto modo di incontrarlo alcune volte in occasione di qualche viaggio a Isiro e ancora meglio quando venne a Kisangani assieme a suor Cristina per partecipare a giornate di formazione per dottori. Come tante persone, anch’io fui colpito dalla sua giovialità, apertura e capacità di instaurare subito bella amicizia.

Duilio Plazzotta

tratto da consolata.org . Continua a leggere qui.




Georgia. Dal sogno all’incubo

Si chiama «Sogno georgiano» ed è il principale partito della Georgia, piccolo stato del Caucaso meridionale con una sponda sul Mar Nero. Il nome del partito è sicuramente azzeccato ma, studiando con più attenzione la situazione dell’ex paese dell’Unione Sovietica, si cambia facilmente idea. Sogno georgiano è, infatti, proprietà di Bidzina Ivanishvili, oligarca che ha fatto fortuna in Russia e che la rivista Forbes colloca al posto 644 nella classifica 2024 dei miliardari del mondo.

Nonostante settimane di proteste di piazza, lo scorso 14 maggio il parlamento di Tbilisi ha approvato la legge che, per limitare l’influenza degli «agenti stranieri» sulla società civile georgiana, obbliga qualsiasi organizzazione – in primis, quelle non governative e i media – a registrarsi in un database pubblico e a rendere note le sue fonti di finanziamento. Qualora donazioni e fondi provenienti dall’estero superino il 20% del totale, l’associazione è equiparabile a un agente straniero. Insomma, si spaccia per ricerca della trasparenza una norma che metterà sotto il controllo del potere qualsiasi ente.

La presidente georgiana Salomé Zurabishvili, europeista, ha subito posto il veto sulla «legge russa». Tuttavia, Sogno georgiano, il partito dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, potrà cancellarlo e proseguire sulla strada che conduce nelle braccia di Mosca.

La presidente georgiana Salomé Zurabishvili – da sempre contraria alla norma – ha subito posto il veto bloccando la promulgazione della legge. Il partito di governo ha però una maggioranza tale da poter annullare il veto presidenziale. La norma è stata ribattezzata «legge russa» perché formulata sul modello di quella con la quale Mosca ha, di fatto, azzerato il dissenso interno. In generale, lo schema politico pare quello a cui gli osservatori esterni sono ormai abituati: da una parte un paese ex sovietico che vorrebbe avvicinarsi all’Occidente, dall’altra la Russia che si oppone con ogni mezzo.

La Georgia è indipendente dal 1991. Le sue relazioni con il potente vicino sono segnate soprattutto dalla guerra del 2008, quando Mosca decise di aiutare le regioni dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud – dagli anni Novanta in lotta con il governo di Tbilisi – a separarsi dal resto del paese. Quella guerra mostrò alla comunità internazionale l’obiettivo perseguito dal Cremlino: espandere la propria sfera d’influenza a qualsiasi costo. Come, infatti, ha dimostrato la storia successiva: dall’annessione della Crimea (nel 2014) all’aggressione dell’Ucraina (nel 2022).

A dicembre 2023 il Consiglio europeo ha concesso alla Georgia lo status di candidato per entrare nell’Unione europea. Il processo è però molto lungo e tutt’altro che scontato. La Russia, infatti, oltre a mantenere migliaia di soldati nei suoi protettorati dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, pochi mesi fa ha concordato con il presidente de facto dell’Abcasia, Aslan Bzhania, di aprire una base navale nel porto di Ochamchire, sul Mar Nero.

La Chiesa ortodossa georgiana, seguita dalla maggior parte dei cittadini, è considerata un possibile intermediario nella crisi del Paese. Tuttavia, fino a questo momento il suo apporto è stato negativo. Il patriarca Ilia II, eletto nel 1977, ha scelto la stessa strada del patriarca russo Kirill: a fianco del potere.

Paolo Moiola




Ucraina. Faccia a faccia con la guerra


30 aprile-5 maggio. Approfittando delle feste nazionali polacche, con don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, e di Rika Itozawa, ci mettiamo di nuovo in macchina per visitare alcune città al Sud dell’Ucraina e portare aiuti. Il nostro viaggio ci porta da Varsavia a Kiev e poi Odessa, Mikolajow e Cherson, con ritorno a Kiew e quindi a Varsavia. Dopo esserci fermati a Kiev per una sola notte, ci dirigiamo verso Odessa.

Odessa, città storica e strategica

foto 1

Ritorniamo in questa bella città costruita sul Mar Nero dopo circa un anno per una breve visita. Odessa oltre a essere una città storica e artisticamente ricca, è soprattutto il luogo da cui partono decine di navi che trasportano in tutto il mondo i raccolti di frumento e mais del Paese (foto 1). Per questo motivo strategico è una città presa di mira dall’esercito russo (foto 2). Nelle ultime settimane gli attacchi provenienti dalla vicina Crimea o dalle navi russe sono aumentati.

foto 2

Ci incontriamo con il cancelliere della diocesi, don Cristoforo. Ci racconta che gli aiuti sono diminuiti del 60% dall’inizio della guerra.

Mentre conversiamo, seduti in un ristorante tartaro accanto alla Cattedrale, le sirene iniziano a suonare. Non c’è alcuna reazione tra i clienti e i passanti. Questo può sorprendere, tuttavia occorre ricordare che da oltre due anni le sirene suonano quotidianamente. Dopo pochi minuti, si spengono.

Vediamo da un punto panoramico la città e il porto con i grandi silos. Ci sono almeno tre grandi navi nelle vicinanze. Ci raccontano che attualmente gli ucraini hanno un corridoio che permette alle imbarcazioni di dirigersi verso Istanbul e da lì proseguire per il canale di Suez.

Andiamo brevemente sulla spiaggia in una zona residenziale, una delle poche accessibili, e vediamo una casa, chiamata il castello di Potter a motivo della sua somiglianza con il castello del famoso film, con il tetto distrutto. Pochi giorni fa un missile dal mare ha colpito l’edificio causando delle vittime (foto 3 e 4).

foto 3

foto 4

foto 5

 

 

La chiesa distrutta di Koszeliwka

Prima di sera ci rimettiamo in macchina per dirigerci verso la vicina Mykolaïv dove abita don Alessandro, presso il Santuario di san Giuseppe. Dopo esserci riposati, al mattino visitiamo il villaggio di Koszeliwka, a distanza di circa un anno dall’ultima volta. La chiesa in questo villaggio è stata distrutta e oggi rimangono solo le macerie (foto 5). Da poco don Alessandro ha acquistato due container dal porto di Odessa e li ha posti nei pressi della chiesa distrutta. Un container serve come cappella, l’altro come centro medico.

foto 6

Il progetto per il futuro è quello di ricostruire la chiesa accanto a quella precedente, lasciando le rovine a ricordo. Anche le case duramente colpite iniziano a essere ricostituite dalle famiglie che lentamente provano a ritornare (Foto 6).

Cherson, sulla linea dei combattimenti

Nel pomeriggio ci viene a prendere, dalla vicina Cherson, don Massimo, il parroco, e ci guida attraverso i posti di blocco dei soldati fino alla sua parrocchia che si trova in prima linea in città.

Le nuove procedure impongono a noi stranieri di firmare una dichiarazione di responsabilità per poter entrare. La parrocchia del Sacro cuore di Gesù è l’unica romano-cattolica della città, e si trova vicina al fiume Dnepr in una zona abbandonata quasi da tutti. Se Cherson contava circa 300mila abitanti prima dell’invasione russa, oggi si stima abbia una popolazione di soli 20mila.

foto 7

È la terza volta che visitiamo questo luogo e, nonostante il lungo tempo trascorso, non si vedono cambiamenti. Le strade sono deserte e continui colpi, rompono il silenzio che qui avvolge tutto.

Il fiume Dnepr, in questo momento, è la linea di confine tra i due eserciti che occupano le rispettive rive: a Est i russi, a Ovest gli ucraini che si scambiano colpi giorno e notte in tutta la regione (foto 7).

foto 8

La città è fortemente segnata da questa situazione. Anche la parrocchia, il primo sabato di quaresima, è stata colpita per la seconda volta: quando, nel primo pomeriggio, un razzo è finito ai piedi della statua della Madonna che si trova davanti alla chiesa (foto 8).

Come la prima volta, quando un razzo entrò dal tetto della chiesa, anche questa volta non ci è stata l’esplosione. Le schegge dell’impatto hanno colpito la facciata della chiesa senza ferire nessuno nelle vicinanze.

Dopo qualche settimana, i soldati hanno messo in sicurezza il razzo che usciva dal terreno. Don Massimo vive qui con il vicario don Sergio e un aiutante, anche lui di nome Sergio. Senza nessuna costrizione, hanno scelto di restare per poter essere un segno di speranza non solo per le poche famiglie che qui sono rimaste ma anche per i tanti villaggi della regione che quotidianamente visitano portando aiuti, amministrando il sacramento della confessione e portando la santa comunione.

L’ospedale di Bilozerka

foto 9

La mattina successiva visitiamo Bilozerka, un villaggio a Sud lungo il fiume. Arriviamo nel piccolo ospedale che serve tutta la zona. Ci dà il benvenuto la giovane dottoressa chirurga Natalia che qui lavora (foto 9). Mentre ci mostra il primo piano di questo semplice edificio, ci racconta che, a motivo delle continue esplosioni, gli ammalati sono stati trasferiti dal primo piano al piano terreno.

foto 10

Tutte le finestre delle camere che vediamo sono state danneggiate dagli scoppi. L’unica attività rimasta al primo piano è quella della stanza operatoria che visitiamo notando i sacchi di sabbia a protezione dei vetri delle due stanze (foto 10).

La dottoressa Natalia ci racconta che per molti giorni l’ascensore è stata fuori servizio. Così le infermiere dovevano scendere le scale portando il paziente sdraiato sul letto. Oggi per fortuna l’ascensore è tornato in funzione. Raccontiamo che i prossimi giorni riceveremo dei farmaci dall’Italia e stabiliamo con la dottoressa quali sono quelli più necessari da far arrivare.

foto 11

Nello stesso villaggio incontriamo il signor Władek, 94 anni, di origini polacche. Ci racconta la sua storia e manda anche un video di saluti ai suoi connazionali (foto 11).

foto 12

Poi don Massimo ci accompagna dalla signora Lena che è paralizzata a letto da ben 29 anni (foto 12). Ci sorprende la sua vitalità e la sua energia. È molto contenta di accoglierci nella sua casa insieme al marito. Ci racconta che i due figli con le loro famiglie sono riusciti a scappare dal villaggio prima che venisse occupato dai soldati russi per alcuni mesi. Oggi ritornano spesso a visitare i genitori, ma le piccole nipoti hanno paura delle esplosioni che qui si sentono di continuo. Per questo le visite sono sempre brevi.

Ci raccontano che il tempo dell’occupazione è stato quello più difficile: i soldati passavo di casa in casa. Sono stati anche qui. C’era sempre paura, soprattutto quando erano visibilmente ubriachi.

Ci colpisce la vitalità del racconto di questa donna, che nonostante viva paralizzata a letto, nel mezzo di una guerra, trasmette la forza di vivere e un coraggio non comune. Spesso sorride e ha un timbro di voce forte e sicuro. Usciamo da questa casa edificati, e ringraziamo il Signore per questi esempi che ci pone di fronte.

Charkiv e le sue ferite

foto 13

La seconda parte della giornata la trascorriamo ritornando a Charkiv, dove siamo stati diverse volte nei mesi scorsi, per visitare alcuni quartieri della città. Passeggiamo per il parco giochi dei bambini completamente abbandonato. Forte è il profumo delle acacie e dei castagni in fiore che ci abbraccia. Per terra si trovano i resti dei razzi esplosi.

Incontriamo alcune donne che ci invitano a seguirle. Ci mostrano la cantina in cui vivono nei sotterranei del loro palazzo distrutto dopo tre giorni incessanti di bombardamenti.

foto 14

Ci fanno vedere i loro appartamenti dal cortile: i balconi sono devastati dalle esplosioni; penzolano i serramenti delle porte e delle finestre e i condizionatori appesi ai fili (foto 13-14).

Una improvvisa esplosione non lontana interrompe la nostra visita.

foto 15

Ci rechiamo per brevemente a Nord della città per vedere i resti del ponte Antonov, uno dei pochi che collegavano le due sponde. Il ponte è stato fatto saltare dai russi durante l’abbandono della città (foto 15).

 

foto 16

Don Massimo scrive una lettera di ringraziamento ai benefattori, molti sono tra voi lettori di Missioni Consolata. Con parte delle offerte raccolte abbiamo potuto finanziare il trasporto di aiuti giunti fino a qui (Foto 16).

I due giorni successivi sono impegnati per il ritorno a Varsavia passando da Kiev.

Gli aiuti che diminuiscono sono sempre più necessari. Per questo occorre non stancarsi e continuare a venire di persona per incontrare abitanti di questo Paese, ascoltare le loro storie, condividere del tempo e incoraggiare i confratelli sacerdoti, pregare con loro.

Luca Bovio

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Grazie da Cherson

A nome dei parrocchiani della Parrocchia del Sacratissimo Cuore di Gesù a Cherson, ringrazio i benefattori della Rivista Missioni Consolata per aver finanziato il costo del trasporto di aiuti umanitari.
Grazie al vostro aiuto e stato possibile ricevere materiale per pulizie e di igiene personale distribuito per i più bisognosi della città e dei villaggi.
Grazie per laiuto e la generosità. Un ricordo nella preghiera

don Massimo Padlewski
parroco

 

 


I viaggi precedenti su MC

 

 




Le università per Gaza

 

In Palestina le morti hanno superato le 35.000, c’è una generazione che non vuole più stare a guardare. Decine di migliaia di studenti in tutto il mondo stanno portando avanti proteste sempre più agguerrite per chiedere un cambio di rotta.

Il movimento globale è partito, nella sua forma più riconoscibile, dagli Stati Uniti dove le proteste stanno avendo modalità e risvolti che a molti ricordano quelle del ‘68 contro la guerra in Vietnam. I cortili dei campus universitari si sono riempiti di tende degli studenti che chiedono a gran voce un cambio di approccio nei confronti della questione palestinese. Si chiede il cessate il fuoco, la fine dei massacri, lo stop alle forniture di armamenti che l’amministrazione Biden continua a minacciare nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu ma senza poi tradurla in realtà.

Ma le richieste riguardano anche, e soprattutto, le stesse università. Disinvestire e fermare le collaborazioni, è questo che viene chiesto. Le amministrazioni degli atenei sono chiamate dagli studenti in protesta a rompere legami, chiudere progetti e fermare finanziamenti che le legano a Israele.

Negli Usa il fenomeno ha già coinvolto oltre 60 università e, secondo il «New York Times», oltre 2.800 studenti sono già stati arrestati dalla polizia che in molti casi ha cercato di reprimere le proteste con maniere definite spesso violente. Il caso più eclatante è avvenuto alla Columbia University di New York, dove i manifestanti avevano occupato uno degli edifici dell’ateneo dichiarando di voler continuare le proteste fino a quando l’amministrazione dell’università non avesse esaudito le loro richieste: interrompere il sostegno a Israele, annullare i provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti e migliorare la trasparenza finanziaria. Nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio la polizia ha sgomberato gli occupanti arrestando oltre 200 studenti.

Ben presto università di tutto il mondo hanno iniziato ad imitare il modello statunitense, le proteste sono arrivate in Europa, Canada, Australia, India, Libano e non solo. In ogni luogo con caratteristiche e risposte diverse, ma sempre chiedendo la stessa cosa: il disinvestimento e l’interruzione delle collaborazioni con Israele.

In Europa la prima contestazione ad attirare attenzione è stata quella alla Sciences Po di Parigi, università che ha formato un gran numero dei leader francesi, dove le proteste sono state stroncate in fretta da un dispiegamento delle forze di polizia definito da molti come esagerato.

Le reazioni istituzionali sono state molto variegate, tra le più dure vi sono state quelle di Amsterdam e Berlino, dove la polizia ha sgomberato con la forza accampamenti e proteste, e i governi hanno avanzato forti critiche ai movimenti pro Palestina. In altri paesi le risposte sono state più positive nei confronti degli studenti, il primo ministro belga De Croo si è detto solidale con gli studenti in rivolta e l’amministrazione del Trinity College di Dublino ha promesso di accogliere le richieste e disinvestire i fondi legati ad aziende nei territori palestinesi occupati.

In Italia le prime tende nelle università sono state piantate a Bologna, per poi diffondersi a Roma e in altre città. Ma i movimenti pro Palestina italiani si sono attivati già da tempo e al centro delle contestazioni c’è il bando di cooperazione scientifica Maeci (ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale) che comprende collaborazioni con lo stato di Israele per lo sviluppo di tecnologie definite dual-use, ossia che possono avere un doppio uso, sia civile ma che militare, rischiando quindi di sostenere la campagna militare israeliana dentro Gaza.

L’università di Torino è stata la prima ad accogliere, già a marzo, la richiesta di sospendere la partecipazione a questo bando, e nelle ultime settimane stanno unendo altri atenei come quello di Pisa e quello di Firenze.

Mattia Gisola