El Salvador: Il caffè secondo Bukele


Mani di fatica piene dei frutti del caffè, uno dei principali prodotti agricoli di El Salvador. Foto di Rodrigo Flores – Unsplash.

Sommario

 

La mappa illustra l’estensione dell’Impero maya in America Centrale.

Parabola discendente

Il passato / dai fasti alla caduta

La storia di El Salvador, il più piccolo Paese dell’America Centrale, ha conosciuto i fasti della civiltà maya, la conquista spagnola e, in epoca recente, una sanguinosa guerra civile.

El Salvador è il più piccolo paese dell’America Centrale, con una superficie di circa 20mila chilometri quadrati, paragonabile come dimensioni a poco più della Puglia. Nell’affascinante mosaico storico del continente americano, il paese spicca per una storia unica, profondamente radicata nelle civiltà precolombiane, in particolare in quella dei Maya.

Questo antichissimo popolo, noto per le sue raffinate conoscenze in vari campi del sapere (astronomia, matematica, arte, architettura), ci ha lasciato un’eredità indimenticabile che ha influenzato la cultura di El Salvador.

Le scoperte archeologiche di vasi, gioielli e utensili – ancor oggi sottovalutate rispetto a quelle dei vicini di casa Honduras, Guatemala, Belize e Messico – raccontano la storia di una società con ricche tradizioni artistiche e una profonda spiritualità, intrisa di rituali e miti, strettamente legata alla comprensione dell’astronomia e dei cicli naturali.

Eccezionali osservatori del cielo, la loro capacità di calcolare complessi cicli astronomici è testimoniata dal famoso Calendario maya, sistema che combinava un calendario solare con un intervallo rituale di 260 giorni alla base della pianificazione delle semine, dei raccolti e dei momenti più propizi per le cerimonie religiose.

La civiltà maya

I Maya non erano organizzati in un’unica entità politica, bensì in una rete di città stato, ognuna con la propria gerarchia sociale e politica. I re erano considerati intermediari con il mondo degli dei, governavano su una élite di nobili, sacerdoti e guerrieri, ed erano sostenuti da agricoltori, artigiani e commercianti, ciascuno con un ruolo ben definito nella società. Abili urbanisti, utilizzavano tecniche di costruzione delle città assai efficaci e rispettose dell’ambiente, attente ai frequenti terremoti della regione e adottando metodi avanzati di gestione delle risorse idriche e agricole, tra le quali quella del pregiato «nettare degli dei» giunto sino ai nostri giorni, il cacao.

La civiltà maya si sviluppò lungo un periodo di circa 2.300 anni, dal 900 a.C. fino all’arrivo degli spagnoli che ne segnò il declino definitivo. Lungo tale arco temporale luoghi come Chalchuapa, importante centro cerimoniale e di scambio culturale influenzato dalla grande città di Teotihuacán in Messico, Tazumal e San Andrés raggiunsero il loro massimo splendore, ma il sito forse più famoso ed emblematico in El Salvador è Joya de Cerén, spes-so paragonata alla Pompei delle Americhe per la maniera in cui tutto si è conservato a causa di un’eruzione vulcanica avvenuta intorno al 600 d.C. In seguito, il movimento della popolazione e delle attività verso Nord, lungo la penisola dello Yucatán, unito all’arrivo degli spagnoli con le malattie da essi portate, nonché le politiche coloniali, contribuirono al collasso di quanto restava della struttura sociale e politica nel Paese.

Ciononostante, il lascito maya – evidenziato dalle continue scoperte archeologiche e storiche – è tutt’oggi palpabile in El Salvador: i discendenti dei Maya – riconoscibili dai tratti somatici – mantengono viva la lingua, le tradizioni e le usanze, collegando passato e presente del Paese.

L’arrivo degli spagnoli

Il 31 maggio 1522 sbarcò nella baia di Chorotega – oggi Golfo di Fonseca – lo spagnolo Andrés Niño, dando avvio alla conquista coloniale del Reino de España in El Salvador. Due anni più tardi Hermán Cortés inviò il suo feroce luogotenente Pedro de Alvarado alla conquista di un Paese che, all’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, terminata la dominazione maya, era occupato da due grandi gruppi etnici: i Pipil, che occupavano la regione centrale e occidentale del Paese, e i Lenca, che vivevano nelle terre orientali. I Pipil erano un popolo di origini nahua che, in seguito alla caduta di Teotihuacán in Messico, si trasferirono verso Sud portando con sé la lingua nahuatl, idioma ancora parlato in El Salvador sotto forma di varianti locali spesso chiamate pipil o nawat.

Spinti dalla ricerca di oro e dalla volontà di espandere l’impero spagnolo, i conquistatori trovarono una forte resistenza indigena guidata da leader come Atlácatl – ancor oggi studiato con orgoglio a scuola per la «battaglia delle montagne» che mise in fuga gli Alvarado – ma, infine, la superiorità militare e le malattie portate dall’Europa ebbero il sopravvento, con conseguenze devastanti per la popolazione indigena, una drastica riduzione demografica e profondi cambiamenti sociali, con l’imposizione di nuovi costumi, di una nuova religione e l’inizio di un’economia basata sulle piantagioni.

la cattedrale (in stile gotico) di Santa Ana. Foto Paolo Rossi.

Il cristianesimo e la gerarchia sociale

La conversione al cristianesimo fu forzata e i centri religiosi indigeni furono distrutti o trasformati in chiese cristiane: tale processo non solo cambiò le credenze religiose, ma anche le pratiche culturali, l’arte e l’architettura.

Dalla società coloniale fortemente stratificata, vennero istituite grandi piantagioni, soprattutto di caffè, che divennero presto il fulcro dell’economia salvadoregna, gestite attraverso un sistema di encomienda, che concedeva ai colonizzatori spagnoli il controllo delle terre e la manodopera indigena. In cima alla gerarchia vi erano gli spagnoli nati in patria, seguiti dai creoli, discendenti di spagnoli nati in America. Gli indigeni e gli africani schiavizzati occupavano gli strati più bassi della struttura sociale che, ancora oggi, sopravvive in varie forme nella società salvadoregna contemporanea.

L’era coloniale fu scandita dall’ascesa e declino dei tre principali prodotti ancora oggi coltivati in El Salvador: il cacao, il balsamo e l’añil – o indaco – richiestissimo dall’industria tessile europea per tutto il Settecento.

Gli spagnoli introdussero nuovi stili architettonici, mescolando elementi europei con influenze locali: città come San Salvador e Santa Ana furono fondate e costruite secondo il tipico modello spagnolo, con una piazza centrale circondata da edifici governativi e religiosi, con uno stile ancora ben visibile nei centri storici delle città salvadoregne. Sebbene l’accesso all’educazione fosse limitato principalmente ai figli dei coloni spagnoli, furono fondate scuole e università, importanti per la diffusione delle idee dell’illuminismo che, in seguito, influenzarono la lotta per l’indipendenza e la formazione dell’identità nazionale salvadoregna.

L’indipendenza

La lotta per l’indipendenza di El Salvador e il successivo processo di formazione della repubblica sono eventi cruciali che hanno modellato la storia e l’identità nazionale del Paese, segnando la transizione da una colonia spagnola a una nazione indipendente attraverso un percorso turbolento e complesso.

L’insoddisfazione per il dominio coloniale crebbe tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, con le idee dell’illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese che influenzarono le élite criolle, già tormentate dalle riforme economiche spagnole che minacciavano gli interessi dei proprietari terrieri locali.

Figure come il sacerdote intellettuale José Matías Delgado (1767-1832) emersero come leader del movimento indipendentista: la sua leadership, insieme ad altri come Manuel José Arce, giocò un ruolo fondamentale nel mobilitare il sostegno alla causa indipendentista. Il 5 novembre del 1811 lanciò il primo grido di indipendencia, al quale rispose tutto il Paese. Ci vollero però dieci anni per proclamarla, l’11 settembre del 1821, come parte di un movimento più ampio che coinvolse l’intera America Centrale. Tuttavia, ciò non significò immediatamente la fine dell’influenza spagnola o una transizione fluida al governo autonomo poiché, inizialmente, El Salvador divenne parte dell’impero messicano di Agustín de Iturbide prima di unirsi alla Federazione delle province unite dell’America Centrale nel 1823, segnata però da tali tensioni interne e lotte di potere che alla fine portarono al suo dissolvimento.

La nascita della repubblica

Dopo il dissolvimento della federazione, El Salvador proclamò la propria sovranità e si costituì come repubblica indipendente (1841). Sforzi significativi per costruire le istituzioni di un nuovo stato, tra cui la creazione di un governo, un codice legale, e l’organizzazione di un esercito furono le sfide che affiancarono la definizione di una politica agraria e la gestione delle tensioni tra diverse classi sociali. Le piantagioni di caffè divennero centrali, con una crescente dipendenza da tale singolo prodotto per le esportazioni, sino a portare a una maggiore disuguaglianza e conflitti di proprietà sulla terra.

Al contempo, il periodo post indipendenza vide anche un’espansione della vita culturale e intellettuale: la stampa libera e la letteratura fiorirono, contribuendo a formare una nuova identità nazionale salvadoregna. Furono fondate nuove scuole e istituzioni educative, rendendo l’istruzione più accessibile e contribuendo a plasmare la futura classe dirigente del Paese.

Andavano però gestite anche la diversità etnica, la disuguaglianza economica e la creazione di un sistema politico stabile, questioni mai veramente affrontate che portarono alla Rivolta di Izalco del 1932 quando i jornaleros, i braccianti a giornata, dissero basta ai capataces, i guardiani della produttività. Guidata dal contadino pipil José Feliciano Ama (1881-1932), l’insurrezione sfociò in quello che viene ricordato come la masacre indigena del ‘32, aprendo la strada ad anni di dittatura militare che, più che reprimere i campesinos, voleva sradicare ogni fermento comunista nel Paese.

La guerra civile e gli accordi di pace

Dagli anni 40 ai 70 seguirono assassini politici, lotte ideologiche, repressioni politiche ed elezioni contestate, che portarono a frequenti scontri tra governi di destra e movimenti di sinistra e al conflitto che esplose nel 1980, quando gruppi di guerriglieri di sinistra, uniti nel Frente Farabundo Martí para la liberación nacional (Fmln) iniziarono una lotta armata contro il governo che durò dodici anni, caratterizzata da una violenza brutale, massacri, scomparse forzate e violazioni dei diritti umani commesse da entrambe le parti. La situazione attirò l’attenzione internazionale, in particolare degli Stati Uniti, che videro il conflitto come parte della più ampia lotta contro il comunismo in America Latina e che per questo fornirono un significativo supporto militare ed economico al governo del Paese. Si stima che, durante la guerra civile salvadoregna, oltre 75mila persone siano morte e migliaia scomparse, interi villaggi siano stati distrutti, causando massicce ondate di rifugiati e sfollati.

Dopo anni di combattimenti le pressioni internazionali e la stanchezza della popolazione portarono ai negoziati di pace del 1992, con la firma degli accordi di Chapultepec, che posero fine al conflitto.

Essi prevedevano riforme democratiche, la dismissione delle forze guerrigliere e la creazione di una Commissione per la verità per indagare sulle violazioni dei diritti umani. A quel punto la società salvadoregna dovette affrontare il difficile compito di integrare gli ex combattenti, risarcire le vittime e costruire un sistema politico e legale più equo e inclusivo. Ad oggi, disuguaglianze economiche, ingiustizie e diritti umani violati costituiscono ancora questioni aperte.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Mons. Oscar Romero tra la sua gente. Foto Equipo Maiz-CNS-CAFOD.

Nel segno di Romero

Chiesa e missionari

L a storia dei missionari in El Salvador è un complesso intreccio di fede, conflitti e cambiamenti sociali: dall’arrivo dei primi missionari spagnoli fino alla tragica morte di monsignor Óscar Romero nel 1980, la presenza e l’attività della Chiesa cattolica hanno giocato un ruolo cruciale nella formazione della società salvadoregna. Prima dell’arrivo degli spagnoli nel XVI secolo, El Salvador era abitato da diverse culture indigene, tra cui i Pipil, discendenti dei Nahua. L’arrivo degli spagnoli portò i primi missionari cattolici che introdussero il cristianesimo, trasformando radicalmente le strutture religiose e sociali preesistenti.

Durante il periodo coloniale la Chiesa cattolica stabilì una forte presenza nel Paese, diventando uno dei principali strumenti di colonialismo spagnolo: i missionari si concentrarono sull’educazione e la conversione delle popolazioni indigene, la costruzione di molte chiese e la diffusione della fede cattolica. Fu anche un’epoca di grande sofferenza per i popoli indigeni a causa delle malattie, della violenza e dello sfruttamento. Dopo l’indipendenza del 1821, El Salvador affrontò periodi di instabilità politica nei quali la Chiesa giocò un ruolo assai importante, talvolta al fianco dei potenti, talvolta come voce di chi non ne aveva.

Nel XX secolo, la Chiesa iniziò a prendere una posizione più attiva contro le ingiustizie sociali, in particolare sotto la guida di figure come il vescovo Óscar Romero, la «voce dei senza voce».

Nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, Romero divenne presto una figura chiave nella lotta per i diritti umani e la giustizia sociale durante il periodo di crescente violenza e repressione politica. La sua predicazione e le sue azioni erano incentrate sulla difesa dei poveri e degli oppressi, con aspre e aperte critiche contro la violenza generalizzata e le violazioni dei diritti umani da parte del governo e dei gruppi paramilitari. Fu a causa di tali forti condanne verbali che, lunedì 24 marzo 1980, fu assassinato mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale La Divina Providencia: la sua uccisione scosse la comunità internazionale e divenne un simbolo della lotta per i diritti umani e la giustizia sociale, sia in El Salvador che all’estero.

L’omicidio fece di monsignor Romero un martire, al punto di essere santificato il 13 maggio del 2015 da papa Francesco. Come San Romero d’America, i suoi devoti lo celebrano ogni 24 marzo. Secondo molti, la sua uccisione fu il preludio a una guerra fratricida, che sarebbe durata 12 anni.

La storia dei missionari in El Salvador è intrinsecamente legata alle vicende politiche, sociali e religiose del Paese. Dall’era coloniale fino alla tragica morte di monsignor Romero, i missionari hanno avuto un impatto profondo, fungendo sia da agenti di cambiamento sia da custodi della tradizione, in una storia segnata da conflitti e ricerca di giustizia. La loro eredità continua a influenzare la società salvadoregna, ispirando nuove generazioni a lottare per un futuro più equo e pacifico.

P.R. e J.L.H.D.

22 maggio 2015, San Salvador, una folla enorme saluta la beatificazione di mons. Romero. Foto: Luis Astudillo C. – Cancillería.

Un ricco mosaico di etnie e culture

I popoli indigeni

El Salvador è un Paese con un patrimonio culturale indigeno profondamente radicato, testimonianza di una storia ricca e complessa. Oltre ai Maya e agli Xinca, le principali culture precolombiane includevano i Pipil, discendenti dei Nahua, e i Lenca. Ciascuna di queste culture – con proprie lingue, tradizioni e pratiche spirituali – ha contribuito al mosaico etnico e culturale del Paese. Anche gli idiomi indigeni, un tempo parlati diffusamente, stanno oggi vivendo un periodo di rivitalizzazione: numerosi progetti educativi e culturali mirano a preservare e promuovere queste lingue come parte integrante del patrimonio nazionale, riconoscendone il valore per la conservazione della diversità culturale e la trasmissione di conoscenze tradizionali.

Le pratiche spirituali delle culture indigene salvadoregne, profondamente connesse alla terra e ai cicli naturali, sono sopravvissute nonostante il sincretismo con il cristianesimo portato dalla colonizzazione spagnola. I rituali indigeni spesso comprendono offerte alla terra, danze rituali e cerimonie di guarigione, tutte pratiche che non sono solo espressioni religiose, ma anche modi per mantenere una relazione equilibrata con la natura e per conservare la coesione comunitaria. Molti festival tradizionali combinano elementi indigeni e cristiani – ad esempio, il Dia de los muertos è una celebrazione che fonde riti indigeni con la tradizione cattolica dove si onorano gli antenati con offerte di cibo e preghiere, così come nella Danza de los historiantes, eseguita durante le feste di paese, costumi colorati e maschere elaborate narrano storie locali di miti e leggende – e le cerimonie indigene spesso coinvolgono rituali che cercano di stabilire una connessione con il sacro, che sia rappresentato dagli antenati, dagli spiriti della natura o da altre divinità.

Spesso, inoltre, i rituali includono danze, canti, l’uso di piante medicinali e offerte di cibo e bevande. I riti di guarigione e la medicina tradizionale giocano, infatti, un ruolo vitale nella comunità indigene: guaritori e sciamani usano erbe, preghiere e riti per curare malattie fisiche e spirituali, mantenendo viva una tradizione di conoscenze mediche tramandate di generazione in generazione, sottolineando l’importanza di vivere in armonia con l’ambiente e ricordando l’interdipendenza dell’uomo con la natura.

Il patrimonio indigeno e le tradizioni spirituali di El Salvador sono ricche di storia, cultura e significati. La loro conservazione non è solo una questione di mantenere vive le tradizioni, bensì un modo per celebrare e riconoscere la diversità culturale del paese, offrendo preziose lezioni sulla sostenibilità, la comunità e il rispetto per l’ambiente.

P.R. e J.L.H.D.

Un sorridente Nayib Bukele con la moglie Gabriela Rodriguez mostra il certificato del Tribunale elettorale che attesta la sua vittoria: sarà presidente del Salvador fino al 2029 (San Salvador, 29 febbraio 2024). Foto Marvin Recinos – AFP.

Dalle «maras» al «bitcoin»

IL presente / la rinascita del paese centroamericano

I salvadoregni hanno rieletto in massa Nayib Bukele, personaggio controverso ma carismatico. Al suo governo si deve sia la sconfitta delle bande criminali (le terribili «maras») che l’introduzione del «bitcoin». Ma non tutto è bello come sembra.

Nel corso degli ultimi decenni, El Salvador ha vissuto profondi cambiamenti, culminati con l’elezione a presidente di Nayib Bukele. Lo scorso 3 febbraio 2024 il politico – figlio di un uomo d’affari di origine palestinese – è stato riconfermato nella carica, ottenendo l’approvazione di oltre l’84% dei cittadini votanti.

Entrato in carica nel 2019 con il partito da lui stesso fondato (Nuevas ideas), Bukele si è fatto subito notare per il suo stile carismatico e un utilizzo intensivo dei social media.

Già sindaco di Nuevo Cuscatlán e poi di San Salvador, ha catturato l’attenzione dell’elettorato giovane e urbano con la sua retorica anti establishment e il suo impegno a combattere la violenza, la corruzione e a modernizzare il Paese.

Il presidente Bukele con alle spalle un ritratto di mons. Romero. Foto Secretería de comunicación de El Salvador.

Dopo Arena e Farabundo

Primo presidente dopo la fine della guerra civile a non appartenere a uno dei due principali partiti politici, Frente Farabundo Martí (Fmln) e Arena, ha affrontato di petto questioni critiche come la bassa crescita, l’alta disoccupazione e l’emigrazione, divenendo subito idolo delle masse. Una delle sue mosse più audaci è stata l’adozione, nel 2021, del bitcoin come moneta legale (accanto al colón salvadoregno e al dollaro statunitense), decisione controversa che ha attirato l’attenzione internazionale e che ha anche sollevato preoccupazioni sulla stabilità finanziaria del Paese (pure nell’Fmi, il Fondo monetario internazionale).  Uno dei principali problemi affrontati da Bukele è stato il tasso di criminalità, dovuto alle maras, le pandillas che da lungo tempo affliggevano il Paese. Le azioni di contrasto messe in campo dal presidente sono largamente sostenute dalla popolazione, nonostante le serie preoccupazioni espresse da organizzazioni per i diritti umani riguardo alle violazioni dei diritti fondamentali (detenzioni arbitrarie e condizioni di carcerazione dure). Sotto la presidenza di Bukele, El Salvador ha sperimentato un approccio più assertivo nelle relazioni internazionali, una politica estera che ha spesso portato a tensioni con gli Stati Uniti e altri partner tradizionali, e il tentativo (ben riuscito) di attrarre investimenti stranieri con l’istituzione delle zonas francas, aree designate a promuovere l’investimento estero attraverso incentivi fiscali e doganali – per aziende del comparto manifatturiero, tessile, elettronico e dei servizi, come call center, che appartengono a investitori stranieri – tra cui esenzioni da alcuni tipi di tasse e agevolazioni per l’importazione ed esportazione di merci.

Un uomo passa davanti a un murale contro il bitcoin, la moneta virtuale adottata dal presidente Bukele nel settembre del 2021. Foto Marvin Recinos – AFP.

I motivi della rielezione

Il massiccio sostegno della maggioranza della popolazione salvadoregna nelle votazioni dello scorso febbraio è stato dovuto non solo alla lotta vittoriosa di Bukele contro le maras, ma anche a una serie di azioni da lui intraprese durante il primo mandato presidenziale. Alcuni esempi concreti sono gli investimenti nella realizzazione di infrastrutture stradali, la ristrutturazione e la costruzione di nuovi ospedali, scuole, parchi e piazze – attraverso un’apposita istituzione governativa chiamata Dom, «Direzione dei lavori comunali» – in diverse parti di un Paese convertito di colpo al turismo, attraverso la trasformazione del centro storico di San Salvador, il recupero e la ristrutturazione dei centri turistici a vocazione familiare, lo sviluppo di un vero e proprio concept turistico chiamato Surf City.

Come in tutto il mondo, il governo di Bukele ha dovuto anche affrontare la pandemia di Covid-19. La risposta del Paese è stata lodata per la sua efficienza in alcuni aspetti, come la rapida implementazione di misure di lockdown, la massiva campagna di vaccinazione e la conversione delle strutture del Centro internazionale di fiere e convegni di San Salvador a «Hospital El Salvador», attrezzato in pochissimo tempo con oltre 400 posti letto, inclusi 105 posti in unità di terapia intensiva.

Al contempo, non è stata altrettanto lodata la velocità delle misure repressive e l’uso dell’esercito per far rispettare le quarantene: le politiche di Bukele hanno da sempre sollevato questioni riguardanti la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura e i diritti umani e le sue mosse per consolidare il potere, inclusa la controversa sostituzione di giudici della Corte suprema, hanno suscitato timori di un’erosione della democrazia in El Salvador.

La sua riforma amministrativa del 2024 è stata una pietra miliare nel processo di modernizzazione del Paese, che ha comportato una ristrutturazione delle istituzioni governative, l’introduzione di nuove tecnologie per rendere il governo più efficiente e trasparente, la decentralizzazione di alcuni servizi per renderli più accessibili ai cittadini.

Il Paese oggi si posizione come un hub innovativo in America Centrale e la società salvadoregna odierna si trova in un delicato punto di equilibrio tra le sfide poste dalla modernizzazione, le pressioni economiche globali e la necessità di preservare la democrazia e i diritti umani. La popolazione giovane e dinamica è al centro di tali trasformazioni, portando nuove idee e aspirazioni, mentre si confronta quotidianamente con l’eredità del suo passato turbolento, alla ricerca di un suo percorso nel contesto globale.

Bukele, apprezzato e temuto

La percezione pubblica di Bukele è complessa e varia: molti lo apprezzano per il suo approccio diretto, la sua capacità di comunicare attraverso i social media e le sue politiche volte a combattere la corruzione e migliorare l’efficienza del governo. Tuttavia, esistono anche preoccupazioni riguardo al suo stile di leadership e alle sue mosse per consolidare il potere, inclusa la sostituzione di giudici della Corte suprema e la rimozione, a fine maggio, del murales di San Romero all’aeroporto di San Salvador, sostituito da pubblicità. In ogni caso, la storia di El Salvador è una vera e propria testimonianza di resilienza e capacità di adattamento, con lezioni importanti sia per la regione centro americana sia per la comunità internazionale.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

L’arrivo di un gruppo di appartenenti alle maras 13 e 18 nella mega prigione chiamata «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot), che si trova a 74 chilometri dalla capitale San Salvador (15 marzo 2023). Foto El Salvaodr’s Presidency Press Office – AFP.

Le maras e il pugno duro del presidente

Regime d’eccezione

La guerra civile degli anni Ottanta causò una forte emigrazione verso gli Stati Uniti d’America, generando nel contempo lo smembramento di molte famiglie salvadoregne. Fuori del paese si cercavano sicurezza e migliori condizioni di vita. Non solo negli Usa, ma anche in altri stati che avevano aperto le porte ai migranti: Canada, Australia, Svezia e, in misura minore, Messico, spagna e Italia.

Il fenomeno delle bande – chiamate maras (pandillas) – prende avvio negli Usa, dove i figli dei salvadoregni privi di documenti, vivendo o studiando in quartieri difficili, soprattutto latinoamericani, sono facile preda della delinquenza locale. Si formano la «mara Salvatrucha» (MS-13) e la «mara Barrio 18». A poco a poco, i gruppi criminali salvadoregni crescono e si organizzano in maniera autonoma. Commettono ogni tipo di atto criminale, spingendo molti giovani nei riformatori o nelle carceri. Al contempo, non avendo lo status di residenza legale negli Usa, tantissimi vengono rimandati al loro Paese d’origine: in questo modo in El Salvador confluiscono i membri delle maras senza che il Paese abbia adottato alcun tipo di controllo o alcuna misura per contenere la loro presenza. Nel corso degli anni seguenti, queste bande riescono a costituire vere e proprie strutture di potere criminale, generando terrore tra la popolazione. Nessuno osa denunciare per timore delle conseguenze per se stessi e per la propria famiglia. Mentre nei quartieri a basso reddito cresce il timore che i figli siano attratti dalle maras e da esse reclutati, in quelli ricchi, dove la gente vive in complessi residenziali privati e protetti da mura, le famiglie pagano un pizzo per la propria incolumità.

La situazione degenera a un punto tale che i poveri si vedono costretti a pagare la protezione a una banda o all’altra per non essere obiettivo delle pandillas dei quartieri vicini, mentre i ricchi iniziano a assoldare agenzie private per la sicurezza dei loro quartieri. In conclusione, nella società salvadoregna sia i poveri che i ricchi sono costretti a sottostare a un sistema in cui la sicurezza è un bene raro e comunque molto caro.

Per diversi decenni, la vita dei salvadoregni di ogni classe sociale è stata dura. Famiglie e generazioni di giovani hanno vissuto nel terrore di essere vittime dirette o indirette della violenza criminale, con una economia sommersa generata dalle maras e da loro soci (spesso appartenenti ai partiti politici al potere). Un’esistenza di terrore e ansia vissuta per molti anni, fino all’arrivo del nuovo presidente Bukele e al varo della sua strategia della «mano dura». La proclamazione dello stato d’emergenza (régimen de excepción), con la sospensione di alcune garanzie costituzionali, ha portato a un drastico calo del tasso di omicidi, ma è tuttora oggetto di aspre critiche per le violazioni dei diritti umani e l’aumento delle detenzioni senza processo, denunciate ad esempio da Amnesty international.

A livello internazionale, la sua azione più nota è stata la costruzione del mega carcere noto come «Centro di confinamento del terrorismo» (Cecot). Progettato per ospitare fino a 40mila prigionieri, al momento ne ospita più di 65mila.

Oltre alla repressione, il governo bukele cerca di promuovere iniziative di prevenzione del crimine, come programmi educativi e di sviluppo delle comunità, per ridurre l’attrattiva delle gang tra i giovani. Allo stesso tempo, sono in atto sforzi per facilitare la reintegrazione degli ex membri delle bande nella società, sebbene tale aspetto riceva meno attenzione mediatica rispetto alla repressione. Il governo ha riconosciuto che, per combattere in modo efficace le pandillas, è necessario affrontare le cause alla base del loro potere, inclusa la povertà. Tuttavia, le modalità e l’efficacia delle politiche volte a mitigare tali cause rimangono oggetto di discussione. Non c’è dubbio che l’azione politica di Bukele continuerà a essere argomento di acceso dibattito dentro e fuori di El Salvador, dove – non va dimenticato – il régimen de excepción viene prorogato ogni mese.

P.R. e J.L.H.D.

 

San Salvador, il palazzo nazionale che un tempo ospitava l’assemblea legislativa del Paese. Foto Edilberto Santana Suarez – Unsplash.

La (solita) strada lastricata di insidie

I migranti

La situazione dei migranti che attraversano El Salvador per raggiungere il Messico, generalmente come tappa verso gli Usa, è complessa e piena di sfide. Il flusso migratorio è costituito principalmente da individui e famiglie provenienti da varie parti dell’America Centrale e del Sud America, che affrontano numerosi pericoli durante il loro viaggio attraverso El Salvador, inclusi i rischi legati al passaggio in zone controllate dalle maras, oltre a possibili abusi da parte di contrabbandieri e forze dell’ordine.

Spesso i migranti viaggiano in condizioni precarie, senza accesso adeguato a cibo, acqua, riparo e cure mediche, tutte condizioni difficili che possono avere gravi ripercussioni sulla loro salute fisica e mentale. El Salvador, come altri paesi dell’America Centrale, ha le proprie politiche e leggi sull’immigrazione che possono influenzare il trattamento dei migranti, in un complesso ecosistema di norme di cooperazione regionale sulle questioni migratorie, spesso ostacolate dalle singole politiche nazionali. Lungo il percorso, i migranti devono navigare attraverso i controlli di frontiera che possono essere imprevedibili e spesso pericolosi, soprattutto se viaggiano senza documentazione adeguata. Molto spesso, i migranti dipendono dai trafficanti di esseri umani per attraversare le frontiere, il che può esporli a rischi di sfruttamento e violenza, lungo percorsi che possono cambiare rapidamente in risposta alla presenza di polizia, alle politiche di immigrazione e alle condizioni di sicurezza lungo la strada.

Le comunità lungo le rotte migratorie sono spesso coinvolte, da un lato offrendo supporto umanitario ai migranti e, dall’altro, affrontando sfide relative alla sicurezza. Numerose Ong e organizzazioni Internazionali operano in El Salvador e lungo le rotte migratorie per fornire aiuto essenziale ai migranti – cibo, alloggio, assistenza legale -. La situazione dei migranti che attraversano El Salvador verso il Messico resta un problema umanitario complesso, che richiede una risposta coordinata e compassionevole a livello regionale e internazionale. Mentre gli sforzi per regolamentare e controllare il flusso migratorio sono importanti, appare fondamentale garantire che i diritti e la dignità dei migranti siano rispettati in tutto il processo.

P.R. e J.L.H.D.

Due surfiste sulla spiaggia El Tunco, a Tamanique. Foto Eduardo Iraheta – Unsplash.

Contro la povertà, il turismo sostenibile

IL futuro / quale strada per l’economia?

Un alto numero di salvadoregni vive in povertà. Ma il piccolo territorio del Salvador offre una varietà di ambienti naturali che ne fanno una grande attrazione turistica.

In El Salvador i poveri sono ancora tanti e addirittura in aumento (più 4,4% dal 2019, anno d’insediamento di Bukele). È da poco che il Paese ha puntato sul turismo come volano per la rinascita economica. In questo senso, in un periodo di generale trasformazione, il Paese sta reinventando la propria offerta turistica, enfatizzando la protezione delle proprie risorse naturali e culturali, nonché promuovendo l’interazione con le comunità locali. La recente pandemia ha portato a una seria riflessione su come il turismo possa essere più sostenibile e rispettoso dell’ambiente: con una ripresa significativa nel 2022 e un boom nel 2023, il settore turistico ha adottato nuove pratiche, tra cui offerte innovative che si allontanano dai percorsi più tradizionali, puntando su esperienze autentiche e sul coinvolgimento delle comunità locali.

El Salvador offre una ricchezza unica di attrazioni turistiche. Noto per la sua intensa attività geologica, ospita circa venti vulcani, molti dei quali sono considerati attivi e potenzialmente pericolosi. Tra questi vulcani, i più noti includono il San Salvador, il Santa Ana (o Ilamatepec), e il San Miguel (o Chaparrastique) a causa della loro storia eruttiva e della loro vicinanza ad aree densamente popolate. Boschi, cascate e laghi pittoreschi formano una vasta gamma di ecosistemi che vanno dalle foreste nebbiose montane alle zone costiere. Posizione geografica e varietà di ambienti naturali favoriscono una notevole diversità biologica che include oltre tremila specie di piante, tra cui numerosi tipi di orchidee e alberi come balsa e ceiba, specie arboree endemiche e rare, oltre 500 specie di uccelli osservate, compresi molti migratori che fanno sosta nel Paese durante i loro spostamenti stagionali.

Anche le «pupusas»

La gastronomia del paese e le sue tradizioni culturali rappresentano un altro punto di forza.  Le esperienze che combinano natura, cultura e gastronomia stanno crescendo in popolarità. Celebrate addirittura attraverso il «Día nacional de la pupusa» ogni seconda domenica di novembre, le pupusas sono il piatto nazionale di El Salvador. Queste tortillas spesse, fatte di farina di mais o di riso, sono uniche per il loro metodo di preparazione e varietà di ripieni: a differenza di altri tipi di tortillas riempite, vengono farcite prima di essere cotte e il ripieno viene inserito al centro di un impasto di farina, poi l’impasto viene chiuso e appiattito in un disco spesso. Le pupusas sono più di un semplice piatto, in quanto rappresentano un elemento di orgoglio nazionale e un simbolo di identità culturale salvadoregna. Originarie delle tribù indigene Pipil nell’ovest di El Salvador, sono state adattate e amate attraverso generazioni, diventando un piatto apprezzato tanto a livello locale quanto internazionale.

Nonostante l’interesse crescente per un turismo più responsabile, non mancano le sfide da affrontare. Il governo deve favorire sinergia tra gli operatori turistici e tentare di migliorare l’accesso ai finanziamenti per le infrastrutture turistiche. In tal senso, la promozione digitale appare fondamentale per raggiungere un pubblico più ampio, così come servono più formazione ed empowerment di microimprese, essenziali per lo sviluppo locale del settore. Gli operatori turistici di El Salvador stanno puntando a creare esperienze uniche che riflettano la cultura e le tradizioni del Paese: esperienze agroturistiche, che combinano la visita di piantagioni di caffè e cacao con la conoscenza della produzione locale, sono un esempio di come il turismo possa beneficiare l’economia locale rispettando l’ambiente.

Un piatto di pupusas, il cibo più tipico del paese centroamericano. Immagine sbs.com.

La Strada dei fiori

La «Ruta de las flores» è una strada panoramica di El Salvador famosa per la sua bellezza naturale e la ricchezza culturale. Il percorso si snoda attraverso una serie di pittoreschi paesini e cittadine nella regione occidentale del paese, lungo la catena montuosa di Apaneca-Ilamatepec, e deve il suo nome alle numerose specie di fiori che sbocciano lungo la strada, specialmente tra ottobre e febbraio.

Lungo montagne lussureggianti, vulcani, caffè e piantagioni di zucchero, il clima fresco di montagna, con la nebbia mattutina che avvolge dolcemente le colline, offre una piacevole pausa dal clima tropicale del resto del Paese. Il percorso, di circa cinquanta chilometri che va dalla città di Sonsonate alla città di Ahuachapán – entrambi capoluogo di dipartimento – include diverse cittadine coloniali affascinanti, ciascuna con un proprio carattere unico: ne sono il cuore Nahuizalco, Salcoatitan, Juayua, Apaneca e Ataco.

Per città e cittadine

In lingua nahuat-pipil, Apaneca significa «fiume dei venti», dovuto alla sua posizione geografica situata dove una costante corrente di vento leggero produce un perfetto microclima. Il merito è della catena montuosa Apaneca-Ilamatepec, un complesso vulcanico dalla disposizione a forma di semicerchio quasi perfetto: è in questa zona che cresce il migliore caffè d’alta quota, tra gli 800 e i 1.800 metri di altitudine, di cui tutti i salvadoregni vanno orgogliosi.

Nahuizalco conta oggi oltre cinquantamila abitanti, per lo più discendenti dagli indigeni. Il suo mercato diurno e notturno rifornito di frutta, verdura e ortaggi, prodotti sulle pendici delle montagne circostanti, viene riconosciuto come vivace centro culturale e la sua eccellenza artigianale vive nella produzione di mobilia prodotta con legname locale quale alloro, cedro e cipresso. La città possiede un piccolo museo dedicato alla cultura nahuat-pipil, che vale la pena visitare, e la natura offre escursioni alle cascate La Golondrinera.

Salcoatitan è la cittadina della zona più ricca di storia e architettura coloniale, che dai suoi circa mille metri di altitudine permette di raggiungere il fiume Monterey. Conosciuta soprattutto per la vendita dell’ottima yucca fritta o bollita, prodotto che si trova nella piazza turistica della città, il parco cittadino recentemente ristrutturato offre un magnifico squarcio della chiesa coloniale e, nei fine settimana, si riempie di vita fino a tardi.

Juayua vive della produzione e lavorazione del caffè, una delle maggiori fonti di occupazione del territorio, anche se negli ultimi anni è diventata famosa per il suo Festival gastronomico, dove numerose aziende locali espongono i vari piatti tipici fuori dai loro negozi, davanti agli occhi dei turisti, che vi si deliziano prima di recarsi alle numerose cascate presenti nella zona.

Ataco è forse la cittadina più conosciuta della Ruta a livello nazionale, per la sua varietà di negozi colorati e opzioni gastronomiche di tutti i tipi di cibo. Con una popolazione costantemente in crescita, vive dei diversi impianti di lavorazione del «chicco d’oro», i mulini necessari alla trasformazione del caffè.

Il turismo del futuro

La Ruta de las flores è un esempio di turismo sostenibile, con molte iniziative volte a preservare la natura e promuovere un turismo responsabile e rispettoso delle comunità locali. Offre un’esperienza turistica diversificata e arricchente, che combina bellezze naturali, cultura, gastronomia deliziosa e un forte impegno per la sostenibilità. Nonostante questi aspetti positivi, c’è ancora la necessità di migliorare e diversificare i prodotti turistici per attirare un maggior numero di visitatori, prolungare i soggiorni e ridurre la povertà.

Paolo Rossi e J.L.Herrera Diaz

Panoramica sul vulcano Santa Ana, il più alto del paese (2.400 metri). Foto Ramon – Flickr.

La scommessa delle riserve

Apaneca

El Salvador, il più piccolo paese dell’America Centrale, è testimonianza di una intensa attività per preservare il suo patrimonio naturale. Ciò si nota in particolare nella Reserva de la biosfera Apaneca-Ilamatepec, un’area caratterizzata da un ricco mosaico di ecosistemi, ma sempre minacciato dalla deforestazione e dall’espansione agricola. Progetti di conservazione e sostenibilità ambientale sono in atto per proteggere e preservare questo ambiente unico per le generazioni future.

È una delle aree naturali più affascinanti di El Salvador. Situata nella catena montuosa di Ilamatepec, nella parte occidentale del Paese, la riserva fa parte della più ampia regione ecologica conosciuta come la Ruta de las flores, famosa per i suoi scenari pittoreschi e l’ampia biodiversità. La riserva si caratterizza per un terreno montuoso e una serie di vulcani estinti o dormienti, inclusi i vulcani di Santa Ana e Izalco. L’area è nota per le sue lussureggianti foreste nebulose, le quali ospitano una grande varietà di specie di piante, molte delle quali sono endemiche della regione. Le altezze variano notevolmente, il che contribuisce a un clima relativamente fresco e umido rispetto alle regioni costiere del Paese.

El Salvador ha istituito diverse aree protette per preservare la sua biodiversità, incluse riserve della biosfera e parchi nazionali. Tuttavia, la deforestazione e la conversione dei terreni per l’agricoltura e l’urbanizzazione continuano a minacciare gli habitat naturali e la conservazione delle aree naturali rimane una sfida critica, data anche la pressione antropica intensa e l’inquinamento che ne deriva.

La riserva di Apaneca-Ilamatepec è un «modello di sostenibilità», vero rifugio per una ricca varietà di flora e fauna, dove gli amanti della natura possono trovare diverse specie di orchidee e altre piante esotiche. La fauna include una varietà di uccelli, come il quetzal, che è spesso considerato il simbolo dell’America Centrale, oltre piccoli mammiferi e una vasta gamma di insetti e rettili. Sentieri ben curati offrono agli escursionisti l’opportunità di esplorare la foresta e godere di bellezze naturali. Inoltre, l’area è rinomata per le sue piantagioni di caffè e molti visitatori partecipano a tour del caffè nel parco cafetalero per imparare sulla produzione di uno dei principali prodotti di esportazione del paese.

P.R. e J.L.H.D.

Il lago Coatepequer, formatosi in una caldera vulcanica. Foto Margarita Cisneros – Unsplash.

Hanno firmato il dossier:

PAOLO ROSSI
È professore a contratto di Intelligenza artificiale e strategia d’impresa presso l’Università del Piemonte Orientale e fondatore di una B Corp che si occupa di valutazione di impatto per il mondo profit e non profit (Promos Srl Sb). Da venti anni è alla guida di «Col’or», Ong impegnata in progetti di sviluppo sostenibile in diversi paesi del mondo, tra cui El Salvador. Come volontario, scrive progetti e cerca fondi per i numerosi enti missionari con i quali collabora. Sito: colorngo.org.

José Luis Herrera Diaz
Salvadoregno, per 40 anni è stato guida per turisti di idioma spagnolo che visitavano il Canada. Attualmente vive in El Salvador, avendo avviato una propria attività ecoturistica ad Apaneca, lungo la Ruta de las flores, dove offre ai turisti esperienze immersive nella biosfera del paese. Contatto: jlherrera@improntaturistica.com.

A CURA DI:
Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. El Salvador, «Il caffè è sempre amaro», MC febbraio 1996).

Monumento al Divino Salvatore del mondo a San Salvador, capitale del paese. Foto di Ricardo Ardon – Unsplash.




Con l’odore delle pecore. Padre Gazzera, nuovo vescovo coadiutore di Bangassou


Lui è un innamorato del Paese. Ma la nomina a vescovo non se l’aspettava. La crisi storica in Centrafrica colloca questo Stato in fondo a tutte le classifiche di sviluppo. La ricetta, per padre Aurelio, è investire nell’educazione dei  giovani. Per un futuro di pace.

Un missionario in prima linea. Un sacerdote che ha vissuto gran parte della sua vita in uno dei Paesi più instabili al mondo. Aurelio Gazzera, religioso dell’ordine dei Carmelitani e oggi vescovo di Bangassou, è uno di quei «pastori con l’odore delle sue pecore addosso», che piacciono tanto a papa Francesco. A testimoniarlo è la sua stessa biografia. Nato a Cuneo, ha lasciato ben presto la provincia Granda per entrare giovanissimo nel seminario minore dei Carmelitani scalzi di Arenzano. Già nella sua formazione di sacerdote (sarà ordinato nel 1989) trascorre un anno nella delegazione carmelitana centrafricana. Ma è dal 1992 che il suo destino si lega più strettamente al Centrafrica dove ricopre diversi incarichi: assistente al seminario minore della missione Yole (1992-1994), direttore del primo ciclo del medesimo seminario minore (1994-2003) e poi parroco di San Michele di Bozoum (2003-2020) e superiore della delegazione dei carmelitani scalzi (2014-2020).

Dal 2003 diventa responsabile della Caritas di Bouar e, dal 2020, è membro della comunità di Baoro, incaricato dei cristiani dei villaggi della savana e direttore della scuola meccanica di Baoro.

La «fiera» di Bozoum

A Bozoum crea un evento unico per tutto il Paese: la fiera agricola. «Vengo dalla provincia di Cuneo, una terra contadina, e in Africa ho incontrato contadini – spiega padre Aurelio -. Qui coltivano manioca, fagioli, arachidi in piccoli campi. Si tratta di un’agricoltura di sussistenza che permette di raccogliere il minimo per la sopravvivenza delle famiglie. Esistono però coltivazioni più estese di riso. Ed è un elemento positivo perché il riso ha un buon mercato, si vende bene e può garantire entrate alle famiglie di coltivatori». E proprio per creare un mercato, padre Aurelio nel 2004 si inventa, insieme a Secours Catholique (Caritas francese), la fiera. Una iniziativa che, da allora, si è ripetuta ogni anno, nonostante le difficoltà che il Paese stava attraversando.

«Nel 2024 – osserva padre Aurelio -, la fiera agricola e pastorale di Bozoum si è tenuta dal 26 al 28 gennaio. Siamo arrivati alla 19a edizione. La fiera è un unicum in Rca: non c’è niente di simile in tutto il Centrafrica. È uno spazio di esposizione e vendita di prodotti agricoli, cui partecipano le cooperative della regione. I più lontani sono venuti da Ngaundaye, Ndim e Bocaranga: regioni molto toccate dalle violenze. Ed abbiamo voluto a tutti i costi aiutarli a venire».

La fiera è un’occasione per vendere e acquistare prodotti agricoli, macchinari e sementi. Il giro d’affari di quest’anno è di 80 milioni di franchi cfa (120mila euro). «È una cifra considerevole – continua padre Aurelio -, in un Paese dove il reddito pro capite è intorno ai 400 euro annui».

Repubblica centrafricana. Fedeli durante una messa a Bema, Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Socialità e dialogo

«La fiera non è solo un evento commerciale. Gli stand sono una festa di colori e di sorrisi. Il lavoro di tanti mesi trova qui la bellezza dei prodotti, la gioia di esporre (e di mostrare l’aspetto positivo dell’agricoltura) e la soddisfazione di vendere tanto in poco tempo.

Qui non c’è differenza tra cristiani o musulmani, tra persone di diverse etnie. C’è uno splendido clima di amicizia e di confronto».

La guerra e papa Francesco

La Repubblica Centrafricana è un Paese senza sbocco sul mare che, da anni, lotta contro conflitti e instabilità. La nazione è stata scossa da molte guerre civili e colpi di stato, causando una crisi umanitaria che ha colpito milioni di persone. Il conflitto più recente è iniziato nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli conosciuta come Seleka ha rovesciato il governo del presidente François Bozizé. La Seleka, composta principalmente da musulmani, ha iniziato a prendere di mira le comunità cristiane, tra le quali sono nate in risposta le milizie note come «anti balaka».

Il conflitto è stato caratterizzato da violenza diffusa, violazioni dei diritti umani e lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone.

Nel 2015, papa Francesco ha aperto la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, la capitale centrafricana, dando il via all’anno Santo. «Bangui diviene la capitale spirituale del mondo – ha detto Francesco -. In questa terra sofferente sono rappresentate tutte le sofferenze del mondo. Per Bangui, per tutti i Paesi che soffrono la guerra, chiediamo la pace: tutti insieme chiediamo amore e pace». E ha poi aggiunto: «A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace».

La visita di papa Francesco e l’apertura della Porta Santa a Bangui avevano fatto sperare in una svolta, ma le tensioni sono continuate.

Gruppi di ribelli oggi controllano quasi i due terzi del territorio nazionale, mentre le risorse naturali (legname, oro, uranio, ecc.) hanno attirato le attenzioni di numerose potenze straniere. «A pagare questa situazione di incertezza è la popolazione civile che vive nel terrore che si possano ripetere le tensioni e, con esse, possano tornare violenze, saccheggi, distruzioni – spiega padre Aurelio. Gli ultimi dodici anni sono stati terribili per il Centrafrica e le persone non vogliono rivivere quello stato di devastazione e timore continui. Qui da noi le autorità sono già fuggite in zone più sicure. La popolazione si sente abbandonata».

Il Paese è tra i più poveri al mondo, con alti livelli di insicurezza alimentare, malnutrizione e malattie. Il conflitto ha interrotto la produzione agricola e il commercio, portando a un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari e della fame diffusa. «Il governo centrale non è in grado di sostenere l’economia – continua padre Aurelio -. Manca la sicurezza, mancano le infrastrutture. Ricche piantagioni di caffè, tabacco e pepe sono state abbandonate perché è impossibile portare i prodotti sui mercati. I contadini sono così costretti a vivere con quel poco che coltivano vicino a casa».

Aurelio vescovo in Rca

padre Aurelio con monsingnor Juan Josè Aguirre, in visita in Spagna.. Foto Aurelio Gazzera

Il 23 febbraio scorso padre Aurelio è stato nominato vescovo coadiutore di Bangassou da papa Francesco. Una notizia che lo ha sorpreso. «Più leggo e studio, e più mi sento piccolo e incapace, e non all’altezza – ha scritto in una lettera inviata al vescovo di Cuneo-Fossano, diocesi da cui proviene -. Il ministero episcopale è un affare serio! […] Ho accettato per amore di Dio. E mi vengono alla mente le parole tra Gesù e Pietro, dopo la Risurrezione: “Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle (Gv. 21,17)”. Ho accettato per amore della Chiesa. L’anello che il vescovo porta, è segno di questa fedeltà. Dalla Chiesa ho ricevuto tutto: la Fede, la Speranza, la Carità».

Padre Aurelio ha accettato anche per amore del Centrafrica: «È un Paese “non facile” (qui usa un eufemismo, nda). Sono 33 anni che il Signore mi ha fatto la grazia di viverci. Non ho ancora capito tutto. Anzi. Ma lo amo, come amo la diocesi di Bangassou che mi è affidata, data in sposa. Momenti di gioia, momenti di dolore. Un mosaico di bellezza e di sofferenza, di semplicità e di complicazioni. Di volti, di sorrisi, di bambini, di giovani e di adulti».

Una zona complessa

La diocesi di Bangassou si trova in una regione molto difficile, scossa ancora da forti tensioni. «Dopo il referendum costituzionale (del 30 luglio 2023, ndr) – continua padre Aurelio -, a livello centrale si è affermata un po’ di stabilità. Nel Nord Ovest e nel Sud Est, anche se i combattimenti si sono fatti un po’ più radi, le tensioni non sono scomparse.

Nella mia diocesi ci sono due aree particolarmente rischiose: una è Bakouma, nei pressi di un importante sito di uranio, dove a inizio aprile sono state uccise decine di persone; l’altra è Mboki, attaccata e occupata dai ribelli e dove si sono registrati scontri con gli anti balaka Azande a Ni Kpi Be.

Queste tensioni hanno profonde conseguenze sulla popolazione. Non parlo solo dei problemi economici. Adulti e bambini vivono nella costante paura di attacchi e massacri. Lo stress legato a questi fatti è alto e incide anche sulla psiche delle persone».

Repubblica centrafricana. una classe della scuola primaria di Nyakari (Bangassou). Foto Aurelio Gazzera

Russi e cinesi

In tutto il Centrafrica è molto forte la presenza straniera. Esaurita l’influenza francese, ex potenza coloniale, hanno preso gradualmente spazio i russi e i cinesi. Entrambi hanno una forte presenza nel Paese. Pechino è più discreta ed è interessata soprattutto alla gestione e allo sfruttamento (spesso selvaggio) delle risorse naturali (legno, oro, uranio, ecc.). Mosca invece ha una presenza più evidente soprattutto in campo militare. Di fronte alla crescente insicurezza, il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra ha offerto ai russi ampie concessioni sulle miniere in cambio della protezione militare dei mercenari di Mosca. «La loro presenza è molto evidente – osserva padre Aurelio -. Nel Paese si vedono un po’ ovunque sia tecnici sia militari russi. Non si nascondono e conducono politiche e alleanze locali che, spesso, non sono allineate alle strategie del governo centrafricano».

Secondo padre Aurelio, «bisogna disarmare i cuori e le mani. E poi questo è un Paese che ha bisogno di infrastrutture, di sviluppo. Invece non si vede nessun impegno. Le strade sono sempre più disastrate, nella capitale stessa. Se si pensa che per percorrere 750 chilometri ci vogliono un paio di settimane in macchina, nella stagione secca, vuol dire che la carenza è grande. Ci vorrebbe un impegno più serio, non tanto da parte della comunità internazionale quanto dalle autorità locali». Padre Aurelio, però, è ottimista. «Lavoriamo molto attraverso l’educazione dei giovani. Siamo convinti che è proprio attraverso la formazione delle nuove generazioni che si può costruire un futuro migliore. È un cammino lungo, ne siamo convinti, ma è l’unica strada per cambiare davvero, nel profondo».

I fedeli sono molto legati alla Chiesa cattolica. La devozione è forte. «Come Chiesa cattolica – conclude padre Aurelio – cerchiamo di stare sempre a fianco delle persone, di essere presenti e di condividere le loro sofferenze. La Chiesa cattolica lavora per incoraggiare tutti i tentativi di soluzione pacifica dei conflitti e per portare una parola di speranza in un Paese che pare avere perso la fiducia nel futuro».

Enrico Casale

Repubblica centrafricana. Strada nella diocesi di Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Archivio

Marco Bello, Centrafrica, Regioni contro la guerra, MC aosto 2022

 




Bosnia. Memorie della guerra


È stata l’ultima guerra in Europa del XX secolo. Con episodi di genocidio. Il conflitto degli anni 90 in ex Jugoslavia pare lontano. Ma i popoli che ne sono stati coinvolti hanno costruito i loro memoriali. La nostra collaboratrice li ha visitati.

«Sarajevo ha due parvenze e due volti: uno oscuro e severo, l’altro luminoso e amabile». Così il premio Nobel Ivo Andrić descriveva nel racconto «Uno sguardo su Sarajevo» la capitale della Bosnia-Erzegovina.

Esistono luoghi nel mondo che portano impressi i segni di ciò che è stato. Segni non cancellabili o che, più semplicemente, non si vogliono cancellare.

Questo è sicuramente il caso della città di Sarajevo. Per abbracciare tutta con un solo sguardo basta salire in cima al Trebević, il monte che la sovrasta. Pochi minuti dal centro città alla cima della montagna. Giunti al belvedere si può comprendere come questo luogo, nascosto fra i monti, fosse un luogo perfetto per un assedio: nessuna via di scampo, se non i boschi attorno all’abitato, che ancora oggi rappresentano un rischio. Non tutte le mine antiuomo, infatti, sono state rimosse.

L’assedio di Sarajevo, da parte delle forze serbe, durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. È stato il più lungo della storia bellica del XX secolo.

Sarajevo, ponte tra oriente e occidente, era una città nella quale le culture cristiana, musulmana ed ebrea si amalgamavano in un mix pacifico. Un mix che i sarajevesi, abituati alla convivenza, vedevano come normale. Una realtà scomparsa negli anni Novanta, quando il feroce assedio delle forze serbe pose fine alla pace.

Memorie

Oggi camminando per le vie di questa vivace città (con circa 320mila abitanti, ndr) non si può fare a meno di notare come, a fianco di locali alla moda e negozi scintillanti, i palazzi presentino ancora i segni della guerra.

Segni che nessuno vuole cancellare a imperitura memoria di un passato di sangue, e che anzi, vengono esaltati così da renderli più evidenti, come fossero monumenti.

Sui marciapiedi, sulle mura, è facile vedere le cosiddette «rose di Sarajevo», (in bosniaco sarajevske ruže). Si tratta di simboli commemorativi realizzati riempiendo di resina rossa i fori dei proiettili di mortaio che, durante l’assedio, hanno colpito la città.

Ancora oggi all’interno di Markale, il mercato all’aperto tristemente noto per due attentati nei quali persero la vita più di cento persone, si può vedere a terra l’enorme foro di un colpo di mortaio, al cui interno si scorge ancora una parte dell’ordigno. I bordi frastagliati del foro sono dipinti di rosso, come le rose di Sarajevo.

Se il museo dei Crimini contro l’umanità, presente in questa città e a Mostar, è una visita doverosa, altrettanto potente e commovente è la galleria fotografica «Galerija 11/07/95».

Si tratta della prima galleria d’arte in Bosnia-Erzegovina dedicata alla memoria delle 8.372 persone che persero la vita nel genocidio di Srebrenica. Aperta simbolicamente il 12 luglio 2012, un giorno dopo l’anniversario della strage, contiene un’esposizione permanente di ciò che è rimasto. Immagini dal campo dei sopravvissuti, ritratti di famiglia, ritrovamenti di ossa nelle fosse comuni, foto di graffiti offensivi e scritte dei Caschi blu dell’Onu sulle mura del complesso della «Forza di protezione delle Nazioni Unite». Il tutto per ricordare come un monito quello che fu e che si spera non debba accadere di nuovo.

Autori dell’esposizione sono il Centro memoriale di Srebrenica-Potocari, l’Associazione movimento delle madri delle enclavi di Srebrenica e di Zepa, l’Istituto per le persone disperse della Bosnia Erzegovina, l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani Yihr/Fama, il Cinema for peace foundation, il Video archivio del genocidio, il Genocide film library Bosnia-Herzegovina e il fotografo Tarik Samarah.

Poco fuori dalla città, vicino all’aeroporto, si trova il cosiddetto «Tunnel della speranza»: costruito dagli assediati bosniaci a partire dal gennaio del 1993 per collegare la città a un’area del territorio bosniaco molto più estesa passando al di sotto dell’area neutrale dell’aeroporto istituita dalle Nazioni Unite.

La galleria permise ai bosniaci di oltrepassare l’embargo internazionale di armi e di fornire ai combattenti le armi necessarie, oltre a far arrivare cibo e medicinali a chi era bloccato nella città sotto assedio. Con i suoi ottocento metri di lunghezza e solo 1,60 di altezza, il tunnel rappresentò per molti l’unica via di salvezza.

Oggi è possibile visitarne una parte: percorrendone circa venti metri, si può avere un’idea di cosa voleva dire avere come unica via di fuga un luogo tanto angusto.

Il Ponte vecchio (Stari most) di Mostar, ricostruito. Bosnia. Foto Valentina Tamborra

Srebrenica

Uno dei più terribili eccidi dai tempi dell’Olocausto avviene nella piccola cittadina di Srebrenica, lungo la valle del fiume Drin, le cui acque segnano il confine tra la Bosnia e la Serbia.

È l’11 luglio del 1995: le truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladić – soprannominato in seguito «il boia di Srebrenica» – invadono la città, dichiarata «zona protetta» nel 1993, e uccidono più di 8mila persone del gruppo etnico bosgnacco (bosniaci musulmani). La popolazione della piccola enclave in territorio bosniaco viene decimata. Un detto locale recita: «Chi è sopravvissuto non può avere sentimenti in corpo».

Oggi arrivare a Srebrenica da Sarajevo significa compiere un viaggio in una memoria viva: a gestire e fare da guida al Memoriale, ci sono alcuni dei sopravvissuti al genocidio.

I locali di quella che un tempo era la base dei Caschi blu delle Nazioni Unite sono oggi sede di un museo che porta il visitatore all’interno di quello che fu uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale.

Alle pareti, fotografie e installazioni video raccontano l’inazione dei Caschi blu dovuta al fatto che le risoluzioni Onu, votate sino a quel momento, non davano ai militari i mezzi e il benestare per agire. I Caschi blu assistettero impotenti alla cattura, attorno al compound, di circa duemila uomini tra i 12 e i 70 anni che vennero destinati all’esecuzione. Donne, anziani e bambini, in tutto circa ventimila, furono deportati e subirono stupri e violenze.

Ancora oggi molti sono i corpi non ritrovati e si procede alla ricerca e alla successiva verifica tramite esame del Dna. Il cimitero che fronteggia l’ex base delle Nazioni Unite sembra estendersi all’infinito: file e file di lapidi bianche in marmo, le più vecchie, interrotte da quelle più nuove, verdi, di legno.

Una distesa di morti che finalmente hanno un nome, un luogo dove piangerli. L’11 luglio di ogni anno una lunga processione parte da Sarajevo per raggiungere Srebrenica: si seppellisce ciò che è stato ritrovato negli ultimi dodici mesi – siano poche povere ossa o i resti di abiti o oggetti personali -, si dà loro degna sepoltura affinché ancora una volta resti viva la memoria di ciò che è stato.

Sarajevo, le rose, ovvero dipinti nati dai danneggiamenti delle bombe. Foto Valentina Tamborra

Dove il tempo si è fermato

Se si vuole avere un’idea dello straordinario paesaggio che circonda Sarajevo e se si vogliono «dimenticare» per un attimo i segni della guerra, è d’obbligo una visita a Lukomir. Si tratta dell’unico villaggio non toccato dalla guerra dei Balcani. Si trova a 110 km da Sarajevo e a 1.469 metri sul livello del mare, vicino al monte più alto del paese, il Bjelašnica. Affascinante ma insignificante da un punto di vista strategico, è riuscito a non veder sconvolta la propria esistenza e ancora oggi ospita quella che è una delle ultime comunità di pastori musulmani.

Il paesaggio è straordinario: un canyon profondo quasi 800 metri fa da sfondo a un villaggio che sembra fermo nel tempo. Casupole a pianta quadrata sormontate da tetti aguzzi, Lukomir è uno dei villaggi d’Europa ininterrottamente abitati da più anni.

Fra i viottoli di sassi e terra, vivono circa sessanta persone che si prendono cura dei propri animali, per lo più pecore e galline, difendendoli dagli attacchi dei lupi che da queste parti sono tutt’altro che rari. Raggiungere Lukomir comunque, è possibile solo per circa tre o quattro mesi l’anno. Durante il lungo inverno, infatti, la strada che conduce a questo luogo remoto rimane chiusa per neve.

Il Ponte vecchio, Stari most, di Mostar, bombardato nel novembre 1993 e sostituito da una passerella. Qui nell’agosto 1994. Foto Marco Bello

Lo Stari moste il cimitero violato

Il ponte di Mostar è forse uno dei simboli più dolorosi e vivi nella memoria di chi ha vissuto o visto – anche solo dal soggiorno di casa propria seduto davanti alla tv – la guerra dei Balcani. È il 9 novembre del 1993 quando, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, crolla lo Stari most, il Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico ottomano – oggi riconosciuto come patrimonio Unesco – che unisce le due rive del fiume Neretva.

Oggi ricostruito, fa da sfondo al paesaggio da cartolina che Mostar offre a chi vi arriva per la prima volta.

Eppure basta guardarsi intorno, parlare con gli abitanti, soffermarsi nelle vie periferiche della cittadina, per ritrovare, come a Sarajevo, colpi di proiettile sulle mura delle abitazioni o segni di mortaio a terra.

Oggi a preservare la memoria di ciò che è stato, esistono dei «free walking tours», nei quali guide locali raccontano la città e ciò che ha subito.

La ferma volontà di non dimenticare è una legge non scritta in Bosnia-Erzegovina dove persino nella periferia di Mostar le vecchie case abbandonate e disastrate sono diventate monumenti alla memoria.

Opere d’arte, installazioni permanenti – come quella che rappresenta un bimbo che si dondola su un’altalena appesa a un vecchio palazzo crivellato dai colpi dei proiettili -, riportano costantemente alla memoria ciò che è stato.

Purtroppo, però, nonostante gli sforzi e il continuo parlare di pace e di convivenza fra culture, il seme della violenza non è ancora stato estirpato e ne è triste prova il cimitero partigiano che sorge alle porte di Mostar. Creato dall’architetto belgradese Bogdan Bogdanovic, il monumento eretto per accogliere le spoglie degli antifascisti jugoslavi morti durante la Seconda guerra mondiale, è oggi un cumulo di macerie. Nel giugno del 2022 infatti, le oltre 600 steli dell’opera monumentale sono state fatte a pezzi.

Molte le manifestazioni antifasciste che si sono mosse in difesa di questo luogo. Le accuse che vengono rivolte alla politica locale sono quelle di aver lavorato negli anni alla riabilitazione di episodi e personaggi storici del periodo fascista. Forte la denuncia dell’attivista Samir Beharic: «Generazioni di giovani croati sono state cresciute in un ambiente dove i collaboratori nazisti venivano onorati, in alcune parti di Mostar, le strade sono dedicate ai responsabili dei massacri contro gli ebrei bosniaci».

Ciò che rimane di un viaggio in Bosnia-Erzegovina oggi, è l’impressione di un paese ferito ma dignitoso e fiero della propria resistenza. Un paese che, pur guardando avanti, non vuole lasciarsi alle spalle il passato e resta deciso a fare del dolore memoria viva e potente.

Valentina Tamborra

Sarajevo, Bosnia. Musici in un locale notturno. Foto Valentina Tamborra.

 




La liberazione continua


La presenza della Consolata a Roraima ha una portata di livello storico. Nonostante questo, non riusciamo ancora ad averne una visione globale. Le fasi dell’evangelizzazione e le idee per il futuro.

La missione che i nostri due istituti dei missionari e delle missionarie hanno portato avanti a Roraima ha un valore enorme a livello storico. Si tratta del lavoro con gli Yanomami, i Wapichana, gli Ingarikó, i Wa-Wai e diversi altri.

Ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma secondo me non abbiamo ancora la visione generale della profezia che è questa esperienza, sia per la storia del Brasile sia della missione stessa. Forse è la missione più completa che abbiamo realizzato.

Le fasi

Parlando di evangelizzazione in generale, la possiamo suddividere in tre fasi. Le prime due sono l’annuncio e l’adesione personale all’annuncio di chi lo riceve, ovvero il cammino di fede. La terza, che spesso manca, è il cambiamento sociale che la buona novella deve indurre. Il Vangelo, infatti, deve portare una rivoluzione sociale, un miglioramento della condizione umana.

A Roraima siamo riusciti ad andare avanti anche su questa terza fase e per questo la ritengo una missione completa.

Questa parte io la chiamo «cammino di liberazione». Anche questo percorso mi piace dividerlo in tre momenti. C’è il progetto di liberazione, ovvero il progetto di Dio, come quando chiedeva al suo popolo ebreo di uscire dall’Egitto e liberarsi dalla schiavitù.

Poi c’è la stabilità, una volta raggiunti gli obiettivi di liberazione del popolo: vuol dire che il cammino ha portato i suoi frutti.

Infine, l’ultimo passaggio: una volta arrivati alla terra promessa cosa si fa? Anche questa è una grande sfida.

Il cammino di liberazione

Applichiamo questo percorso a Roraima. Questo cammino è stato fondato su un progetto fatto insieme, missionari e missionarie con i capi dei vari gruppi indigeni. Un cammino che toccava non solo la promozione umana ma anche la spiritualità.

L’obiettivo era l’omologazione della terra (registrazione ufficiale di area protetta), ovvero gli indigeni avrebbero potuto dire «questa è casa nostra». E, sappiamo, la terra è davvero importante per i popoli indigeni. Fa parte dei diritti dell’uomo.

È stato un percorso di assemblee con i vari gruppi, con tutti i leader indigeni. Lo hanno chiamato «O la va, o la spacca». Ad esempio, hanno deciso che dovevano smettere di bere alcol. Se nella comunità qualcuno avesse bevuto, il missionario non l’avrebbe più seguita, non avrebbe più officiato battesimi e matrimoni, nulla, e la comunità sarebbe rimasta isolata.

Anche l’adesione ad alcuni progetti, come «Una vacca per l’indio», senza egoismi o protagonismi. Erano posizioni molto forti. Si creava un controllo sociale per portare avanti il cammino di liberazione. Questa era la prima forza di quel momento.

La seconda forza di questo primo periodo è stato il gruppo di missionari presenti. Erano molto uniti e solidali tra loro. Avevano tutti sposato la causa indigena, certo ognuno con la sua caratteristica, ma l’hanno portata avanti insieme. In una zona immensa come quella dove operavamo, se ci sono poche missioni isolate che portano avanti il progetto, si fa fatica. È l’unità d’intenti che fa parte dello stile di Giuseppe Allamano.

La terza forza è stata il metodo, ovvero il coinvolgimento diretto della gente e dei suoi leader.

In sintesi: progetto chiaro e condiviso; unità dei missionari che lo portano avanti; coinvolgimento della popolazione.

Un altro punto importante era che fosse un cammino in comunione con la chiesa locale. È vero che in quel periodo i missionari della Consolata erano anche la chiesa locale. Eravamo gli unici e avevamo anche il vescovo.

All’epoca i missionari hanno avuto anche un’altra intuizione. Si sono detti: «Finché la lotta resta interna, difficilmente saremo ascoltati, perché restiamo una minoranza. Dobbiamo portare questa lotta al mondo. In questo modo il governo riceverà pressioni dalla comunità internazionale». È il concetto di lobbying, che per quel tempo, gli anni 80, era una novità. Questo, talvolta, ha attirato critiche perché poteva sembrare segno di protagonismo. Ma occorreva uscire dal cortile, e in questo caso ha pagato.

La terra promessa

L’omologazione è stata raggiunta e i garimpeiros (minatori illegali, ndr) cacciati, almeno in un primo momento. E adesso? Il popolo ha raggiunto la terra promessa, si sono innescate delle nuove dinamiche. Ci sono quelli che si dimenticano il cammino di sofferenza fatto, arrivano altri che proprio non lo conoscono.

A livello delle persone, c’è chi ritorna a bere l’alcol, altri si mangiano tutte le vacche.

C’è una seconda questione: i missionari non sono più gli stessi. La maggioranza di quelli che si trovano a portare avanti la seconda fase del cammino di liberazione non sono quelli che lo hanno compiuto. Se non hai fatto il cammino è difficile poi vivere la liberazione.

Molti dei nuovi missionari arrivano da un altro continente, l’Africa, dove ci sono dimensioni di lotta diverse. Molti di loro sono alla prima esperienza missionaria e forse non hanno ancora chiaro cosa sia la missione.

Manca la memoria, e non è facile recuperarla dagli anziani.

padre Corrado Dal Monego, con due Yanomami, in una maloca nei pressi di Catrimani (2011). Foto Archivio MC

Un nuovo percorso

Abbiamo iniziato a impostare un nuovo percorso, quando ancora ero superiore generale. La domanda di base era: «Con i missionari attuali come possiamo continuare ad accompagnare questo popolo nel proprio cammino di liberazione?».

Adesso a Roraima c’è una pluralità di situazioni. Ci sono molti missionari di altri istituti. Le priorità della diocesi sono cambiate: l’appoggio ai popoli indigeni non è più esclusivo.

Dalle ultime riunioni che abbiamo fatto a Roraima, sono state suggerite due azioni importanti.

La prima: costruire dei locali e valorizzare il Centro di documentazione indigena (realizzato negli anni da fratel Carlo Zacquini, ndr). Esso aiuta a recuperare la memoria, quindi prendere decisioni condivise da tutti e coinvolge la diocesi.

La seconda: partecipare – come semplici membri, non come responsabili -, ai movimenti indigeni nati per la difesa dei valori e delle conquiste fatte.

Provocazioni

Infine, voglio lanciare tre provocazioni. Quale preparazione occorre, come missionario, per condurre un popolo alla liberazione? Dopo gli studi, abbiamo gli strumenti e l’umiltà di metterci a camminare con la gente?

Il missionario, oggi più che mai, deve essere compagno di viaggio, colui che «condivide il pane con».

Il Vangelo deve avere una forza eversiva, cambiare la vita. Altrimenti che Vangelo è, se non porta vita migliore?

Stefano Camerlengo

 




House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




Il pastore bello


Il pastore conosce le sue pecore ed è conosciuto da loro.
Il mercenario non conosce le sue pecore e non si lascia conoscere.
Il pastore, se vede il lupo, si mette in mezzo tra il lupo e le pecore per proteggerle.
Il mercenario, se vede il lupo, manda avanti le pecore perché lo proteggano.

Il pastore dà la sua vita per le sue pecore (Gv 10,11-16), perché le sue pecore sono la sua vita, la sua gioia.

Il mercenario salva la propria vita. Non vorrebbe sacrificare le pecore, perché gli sono utili,
ma se è necessario per mettersi al sicuro, lo fa.

Quando il pastore è assunto in cielo, le sue pecore diventano pastore le une per le altre
e, tutte insieme, pastore per quelle che non sono ancora con loro.

Quando il mercenario muore, le sue pecore gareggiano per prendere il suo posto, il suo potere.
E calpestano le altre. Vogliono le altre con loro solo per se stesse.

Tu, Signore sei il nostro pastore. Non manchiamo di nulla.
Noi siamo le tue pecore, ci chiami per nome, ci custodisci, non lasci che nulla ci colpisca,
non lasci che moriamo in eterno.
Raccogli ogni minuto di ogni ora di ogni giorno delle nostre vite.
E tieni tutto con te.

Inviati come pastori,
raduniamo in Lui la vita nostra e di chi ci è affidato,

buona estate missionaria
da
amico

Luca Lorusso


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L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.



Kenya. Il Paese in subbuglio

 

Da dieci giorni, il Kenya è attraversato da incessanti proteste contro l’aumento delle tasse previsto dalla nuova legge finanziaria e, dopo il ritiro del provvedimento, contro il presidente William Ruto. A protestare sono soprattutto i giovani, tra i quali la disoccupazione è estremamente diffusa (67% nella fascia 15-34 anni).

Le proteste
L’intensità delle manifestazioni è cresciuta il 25 giugno. Dopo l’approvazione della legge in Parlamento, i manifestanti hanno forzato il cordone della polizia e attaccato la struttura. Mentre i parlamentari venivano evacuati, un’ala dell’edificio andava in fiamme. Così come sono stati incendiati gli uffici del governatore di Nairobi e la sede del partito di Ruto.

La reazione della polizia – affiancata poi dall’esercito – è stata violenta. Secondo la Kenya national commission on human rights (organizzazione autonoma per il monitoraggio dei diritti umani) almeno 23 persone sono state uccise. Amnensty international invece ha segnalato più di cinquanta arresti e decine di persone «rapite o scomparse per mano di agenti in uniforme e non». Soprattutto giovani attivisti e influencer che sui social media si erano schierati a favore dei manifestanti.

I social – soprattutto X e TikTok – sono stati il principale mezzo di mobilitazione. Tanto che, con l’intensificarsi delle manifestazioni, l’accesso alla rete è diventato sempre più difficile, nonostante pochi giorni prima le autorità avessero detto che non avrebbero limitato la libertà di navigazione sul web in caso di proteste.

Mentre il Paese era sempre più in subbuglio, Ruto ha annunciato l’intenzione di non firmare la legge e rinviarla al Parlamento. «Le persone hanno parlato», ha detto il presidente in conferenza stampa la sera del 26 giugno, dopo ventiquattr’ore di proteste incessanti. Un dietrofront inaspettato, soprattutto dopo che il capo dello Stato aveva definito i manifestanti dei «sovversivi che tentano di minare sicurezza e stabilità del Paese».

Ma a rischio era l’immagine del presidente come leader democratico in Africa orientale e alleato dell’Occidente (soprattutto degli Stati Uniti che recentemente hanno attribuito al Kenya il titolo di “major non-Nato ally”). Oltre al timore di attirare nuovamente l’attenzione internazionale sulle violenze della polizia keniana, proprio mentre i suoi primi contingenti sbarcavano ad Haiti nell’ambito di una missione internazionale per ristabilire l’ordine nel Paese.

Cosa prevedeva la legge
La controversa disposizione prevedeva l’incremento di diverse tasse già esistenti e l’introduzione di nuove. Alcune in particolare – particolarmente gravose – hanno acceso la rabbia della popolazione.
Come quelle sul settore digitale, sempre più cruciale per la vita quotidiana. Il governo infatti aveva previsto una nuova imposta sulla creazione di contenuti digitali monetizzati e aumentato del 5% la tassa sui pagamenti digitali. Soprattutto quest’ultima era stata particolarmente criticata dato che buona parte dell’economia del Paese si basa su trasferimenti digitali di denaro.

Ma ciò che più aveva scatenato il malcontento popolare era stata l’introduzione di tasse sul pane (pari al 16% del suo valore) e sull’olio vegetale da cucina (25%). Entrambe erano poi state eliminate dal testo definitivo della legge, ma ormai le proteste si erano accese, arrivando a chiedere il ritiro totale del provvedimento.

Le voci di dissenso
Nel chiedere il ritiro della legge, i manifestanti hanno denunciato il tentativo del governo di compensare la cancellazione di alcune tasse con l’aumento di altre (come il rialzo del 50% dell’imposta sul carburante). Disposizioni particolarmente gravose in un Paese con un’inflazione annua del 5,1%.

La piazza inoltre ha accusato Ruto di corruzione: a fronte delle crescenti tasse ha denunciato il mancato miglioramento dei servizi pubblici e l’aumento del benessere della cerchia presidenziale. Il presidente ha invece risposto che le imposte erano necessarie per pagare il debito pubblico del Paese (82 miliardi di dollari), dovuto soprattutto alla Cina per la costruzione di diverse infrastrutture (come la linea ferroviaria tra Nairobi e il porto di Mombasa).

A rifiutare la legge è stata anche la coalizione di opposizione One Kenya. Nel ritirare i 13 emendamenti proposti, il suo leader in Parlamento, Opiyo Wandayi, ha detto che «emendare una “cattiva” legge era futile» e ne ha chiesto la cancellazione. Mentre la Conferenza episcopale ha invocato il dialogo e criticato la disposizione in quanto insostenibile per molti cittadini keniani.

In effetti, la legge è tornata in Parlamento. Ma, nel frattempo, le proteste non si sono fermate. Anzi, ora l’obiettivo dei manifestanti sono le dimissioni del presidente. I giovani keniani – che alle scorse elezioni non hanno in buona parte votato – ora sono scesi in strada e sembrano volersi riappropriare del loro Paese. E del loro futuro.

Aurora Guainazzi




Haiti-Kenya. Al via la missione di «salvataggio»

 

Con l’arrivo a Port-au-Prince dei primi 400 poliziotti keniani, lo scorso 25 giugno, è partita ufficialmente la Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) per Haiti con lo scopo di aiutare a ristabilire l’ordine.

La Mmas non è una missione delle Nazioni Unite, è stata però autorizzata dal Consiglio di sicurezza con una risoluzione dell’ottobre 2023. (per approfondire leggi qui)

Dopo mesi di negoziazioni, e la firma di un accordo tra Haiti e il Kenya da parte dell’allora primo ministro a interim Ariel Henry lo scorso febbraio, il paese africano ha finalmente preso il comando della missione.

Oltre al Kenya, parteciperanno Benin, Ciad, Bangladesh, Bahamas e Barbados, per un totale di alcune migliaia di poliziotti.

Gli Stati Uniti, storicamente impegnati nel Paese, in questa occasione hanno preferito non intervenire direttamente (a causa della già complicata situazione internazionale e delle prossime elezioni di novembre), ma hanno fatto pressioni sull’alleato africano e finanziato la missione con circa 300 milioni di dollari.

Ad Haiti, dal 12 giugno scorso è insediato il nuovo governo di transizione con il primo ministro Garry Conille. Al posto del presidente della Repubblica c’è un inedito Comitato presidenziale di transizione, composto da sette membri e due osservatori, presieduto da Edgar Leblanc fils.

Ricordiamo che il Paese versa in uno stato di caos, con il controllo di gran parte del territorio da parte di gruppi criminali (le gang), e l’impossibilità da parte delle forze di polizia di garantire la sicurezza e il funzionamento delle istituzioni, ma anche la stessa normalità della vita della popolazione. Attualmente si contano circa 600mila sfollati nella capitale.

La Mmas ha come missione principale quella di appoggiare la polizia nazionale haitiana (Pnh), e in particolare mettere in sicurezza le infrastrutture strategiche (aeroporti, porti, strade principali, palazzi istituzionali, ecc.), attualmente alla mercé delle bande criminali organizzate.

I poliziotti keniani sono scesi dall’aereo della Kenya Airways in tenuta antisommossa, con tanto di giubbotti antiproiettile, casco indossato e mitragliatore imbracciato. Le immagini dell’arrivo hanno fatto il giro del web tra gli haitiani in patria e all’estero.

L’avvio della missione trova il Kenya in un momento particolarmente delicato. Mentre partiva il primo contingente, a Nairobi, la gente manifestava contro la nuova legge finanziaria voluta dal presidente William Ruto per lottare contro la crisi economica. Tale legge impone tasse più elevate anche su beni sensibili come il pane. La popolazione, già stremata dall’aumento dei prezzi ha preso d’assalto il Parlamento, e la polizia ha sparato sulla folla causando almeno tredici morti.

I sentimenti degli haitiani sulla Mmas sono discordanti. Molti ricordano i fallimenti di altre missioni internazionali, in particolare dell’Onu, ma i più sperano comunque che sia d’aiuto per tornare a una vita normale.

Marco Bello




Mondo. Conflitti in aumento

 

Gli studiosi dell’istituto indipendente Peace research institute Oslo (Prio), analizzando i dati pubblicati annualmente dall’Uppsala conflict data program, hanno pubblicato il report Conflict Trends. A Global Overview, 1947-2023 sullo stato dei conflitti nel mondo.

Il 2023 è stato identificato come il terzo anno più violento dalla fine della Guerra fredda, superato solo da 2021 e 2022. Le numerose vittime provocate dai conflitti, negli ultimi tre anni, sono riconducibili soprattutto a tre contesti: la guerra civile nel Tigray in Etiopia, l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflitti statali
Nel corso del 2023, i ricercatori hanno individuato 59 conflitti statali – scontri dove almeno una parte era governativa – in 34 Paesi del mondo. In un apparente controsenso, lo scorso anno è stato registrato il maggior numero di conflitti dal 1946, ma in un numero minore di Stati. In realtà la spiegazione è semplice: è aumentato il numero di Paesi con due o più conflitti. Nel 2023, dieci Stati ne registravano due, mentre otto, tre o più.

Il già elevato numero di decessi del 2023 (122mila), secondo i ricercatori, aumenterà ulteriormente nel 2024 a causa del conflitto israelo-palestinese (che già lo scorso anno ha provocato 23mila vittime in soli tre mesi) e della prosecuzione della guerra tra Russia e Ucraina (71mila decessi nel 2023). Si aggiungono poi le 5mila morti per la guerra civile sudanese, che ha generato anche una delle peggiori crisi umanitarie mondiali.
I tre conflitti appena citati sono annoverati anche tra le nove guerre in atto nel mondo nel 2023, assieme alle violenze in Burkina Faso, Etiopia, Myanmar, Nigeria, Somalia e Siria. Perché un conflitto sia classificato come guerra è infatti necessario che in un anno causi almeno mille vittime.
Come si può intuire già dall’elenco delle guerre, l’Africa è la regione mondiale con il maggior numero di conflitti statali (28, in aumento rispetto ai 15 di dieci anni fa), seguita da Asia (17) e Medio Oriente (10).

Conflitti non statali
Se negli scontri non sono coinvolti attori governativi, i conflitti sono classificati come non statali. Per la prima volta dal 1946, le Americhe hanno registrato il maggior numero al mondo di questa tipologia di conflitti, scalzando l’Africa dalla testa della classifica.
Un incremento dovuto soprattutto alla crescente violenza tra i cartelli della droga in Messico e Brasile dove si sono verificate 19mila delle 21mila morti registrate in tutto il mondo. Il Messico, in particolare, continua a essere il Paese più violento del globo per questa tipologia di conflitti.

Violenza unilaterale
L’ultima forma di conflitto che i ricercatori hanno analizzato è la violenza unilaterale, cioè atti di violenza realizzati unilateralmente – sia da attori statali che da gruppi formalmente organizzati – nei confronti dei civili.
Nel caso dei governi, è stato individuato un netto declino nei decessi tra il 2021 (5.600) e il 2023 (2mila), dovuto soprattutto alla fine della guerra civile nel Tigray. Al contrario, sono invece aumentate le morti causate da attori armati non statali: 8.200, il picco dal 2015.
Buona parte della violenza unilaterale avviene in Africa subsahariana. In particolare, nell’Est della Repubblica democratica del Congo – dove operano numerosi movimenti armati – e in Africa occidentale – a causa della presenza di diversi movimenti jihadisti.

Conflitti senza fine
La fotografia che emerge è abbastanza drammatica, soprattutto se si volge lo sguardo al futuro. Lo scoppio del conflitto israelo-palestinese infatti rischia di far impennare il numero di morti nel corso del 2024, rendendolo l’anno più violento dalla fine della Guerra fredda. Anche perché la guerra russo-ucraina è ancora ben lontana da una risoluzione, così come le violenze in Sudan.
In un mondo sempre più complesso – dove le potenziali micce di conflitto sono estremamente diffuse – il rischio è che la violenza possa solo aumentare, con un impatto drammatico sui civili.

Aurora Guainazzi