Mongolia. Il lievito della democrazia

 

In questo 2024 di elezioni, venerdì 28 giugno è andata al voto anche la Mongolia – estesa 1,6 milioni di km2, ma con solo 3,5 milioni di abitanti (2 per chilometro quadrato) -. Si è votato per eleggere i rappresentanti del «Grande Hural di Stato», il parlamento unicamerale del Paese asiatico.

Al potere si è confermato il Partito del popolo mongolo (Man), formazione socialdemocratica nata nel 1990 dalle ceneri del partito comunista. Il Man avrà ancora la maggioranza, avendo ottenuto 68 dei 126 seggi totali (numero innalzato con la riforma costituzionale del 2023). Al secondo posto il partito democratico e, a distanza, altre tre piccole formazioni.

Schiacciato tra la Russia e la Cina, all’inizio del 1992 la Mongolia ha approvato una nuova Costituzione che ha posto le basi di un sistema democratico: multipartitismo, separazione dei poteri, riconoscimento dei diritti dei cittadini (libertà di religione compresa). Nonostante la vicinanza con i due grandi regimi totalitari, i dati delle principali organizzazioni internazionali (Freedom House, ad esempio) confermano la sua svolta democratica.

Privo di sbocchi al mare e con pochissima terra coltivabile a causa del clima rigido, il Paese è soprattutto un paese di allevatori – di pecore, capre, yak, cammelli, cavalli – nomadi o seminomadi. Ricca di risorse minerarie (carbone, rame, uranio, tungsteno, molibdeno su tutte), la Mongolia risulta molto attrattiva per gli investitori stranieri, in primis quelli della confinante Cina.

I problemi sono principalmente tre: la precaria condizione economica della maggioranza dei cittadini, la corruzione degli organi statali e le (gravi) conseguenze del cambiamento climatico.

I primi due hanno portato alle proteste di piazza del dicembre 2022, mentre i mutamenti climatici hanno reso ancora più aspro il fenomeno meteorologico noto come «dzud», ovvero un inverno particolarmente rigido (anche meno 30 gradi) e nevoso che non consente al bestiame di sopravvivere. Si calcola che quest’anno lo dzud abbia ucciso 7,1 milioni di animali, più di un decimo dell’intero patrimonio zootecnico del Paese.

Stando ai dati 2022 dell’Asian development bank, il 27,1 per cento della popolazione mongola vive sotto la linea della povertà. La maggior parte dei poveri si trova nella capitale Ulaanbaatar, dove si concentra quasi la metà della popolazione complessiva e che è considerata una delle città più inquinate del mondo.

Paolo Moiola

 




Migranti in subappalto


L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.

Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.

I «patti» dell’Ue

Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.

Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.

Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.

La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.

Kigali, capitale del Rwanda.

Il punto di vista dell’Oim

Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.

L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.

Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?

«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.

Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Kais Saied e Giorgia Meloni durante l’incontro che ha portato al Memorandum con la Tunisia.

Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?

«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.

Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”.  Noi lo diciamo da tempo ormai.

Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.

Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».

Laurence Hart

Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?

«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.

Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.

Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.

Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.

Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».

Rifugiati in attesa di attraversare il confine serbo-croato tra le città di Sid (Serbia) e Bapska (Croazia). Sid, Serbia – 17 ottobre 2015.

In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?

«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.

Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.

Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.

Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».

Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?

«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.

Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.

Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.

Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.

Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.

Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».

Mattia Gisola

 




Allamano Santo il 20 ottobre 2024

Durante il Concistoro Ordinario Pubblico questo lunedì 1° luglio, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, si terrà domenica 20 ottobre 2024 a Roma, giornata missionaria Mondiale.

Il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano è avvenuto nella foresta amazzonica brasiliana, nello Stato di Roraima, dove Sorino, uomo dell’etnia Yanomami, fu attaccato da un giaguaro che lo ferì gravemente alla testa, aprendo la scatola cranica; era il 7 febbraio 1996, primo giorno della novena del Beato Giuseppe Allamano.

Trasportato all’Ospedale di Boa Vista, accudito dalle Missionarie della Consolata, che non cessavano di chiedere la sua guarigione per intercessione del Padre Fondatore, Sorino ha miracolosamente recuperato la salute in pochi mesi, e vive tutt’ora nella sua comunità indigena.

L’inchiesta diocesana per lo studio del presunto miracolo è avvenuta nel marzo 2021 a Boa Vista, mentre l’iter del Dicastero delle Cause dei Santi si è concluso il 23 maggio 2024, con l’approvazione del decreto di riconoscimento del miracolo.

È un momento molto significativo per la famiglia missionaria della Consolata, composta da Padri, Fratelli, Suore, Laici e Laiche.

Suor Renata Conti e Padre Giacomo Mazzotti, che attualmente accompagnano la postulazione, parlano sul significato della Canonizzazione del Beato Allamano.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=Gq5fQvOGPuM?feature=oembed&w=500&h=281]

In un messaggio i Superiori generali dei due Istituti, Padre James Lengarin, IMC, e Madre Lucia Bortolomasi, MC, scrivono:

“La sua Canonizzazione è per tutti noi un dono immenso che ci invita ad ascoltarlo, ad attingere sempre di più alla ricchezza della sua santità. Siano i nostri occhi e il nostro cuore fissi sul nostro Fondatore per ascoltarlo e guardare alla sua santità che ci stimola a continuare in modo serio e profondo la sua missione” (per il testo integrale della lettere delle due direzioni generali, rimandiamo al sito consolata.org).

di Suor Stefania Raspo e Padre Jaime C. Patias, comunicazione MC e IMC
da https://www.consolata.org




Santo (in punta di piedi)


Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, per intercessione di Giuseppe Allamano. Un passaggio che ha aperto le porte alla prossima canonizzazione, cioè alla proclamazione della santità del nostro fondatore (che avverrà il prossimo 20 ottobre, come deciso dal Concistoro del 1° luglio).

Questo atto del Papa è il coronamento di un lungo itinerario, durato parecchi decenni, che aveva trovato il suo culmine nella beatificazione di don Giuseppe Allamano, avvenuta il 7 ottobre 1990 in Piazza San Pietro a Roma, da parte del papa Giovanni Paolo II. Mancava ancora il riconoscimento da parte della Chiesa di un miracolo per poterlo infine proclamare «santo». Ora anche l’ultima meta è stata raggiunta.

Molte persone si interrogheranno sul perché di questo cammino durato tanti anni con la raccolta di testimonianze, documentazione, ricerca delle grazie ricevute in varie parti del mondo. Ne valeva la spesa? Altri ancora, in maniera forse più radicale, si potrebbero domandare: che bisogno ha la Chiesa di proclamare i santi? Essi hanno raggiunto felicemente il loro obiettivo e vivono nella pace del Paradiso. A questi interrogativi risponde in maniera magistrale papa Benedetto XVI che, dopo aver presentato parecchi profili di santi, il 13 aprile 2011, ha affermato: «Nelle udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti santi e sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del popolo di Dio” (Lumen gentium, 50)».

La storia, quella che troviamo scritta nei libri o illustrata in opere d’arte, dà importanza a chi conta nella produzione di beni materiali o a chi rende più bello il mondo con l’arte e la poesia oppure ha aiutato a sconfiggere epidemie. Similmente avviene anche con i santi che hanno arricchito la Chiesa con i loro scritti o la loro testimonianza di vita. La loro opera è a beneficio di tutti, tutti ne godiamo. I santi – possiamo affermare – sono uno scrigno di valori che ridondano a beneficio di tutta la cristianità. Quanto povera sarebbe la Chiesa se perdesse questi legami tra i santi in cielo e noi qui in terra. Per questo motivo essa ci esorta a non lasciare perdere questa comunione tra coloro che già hanno raggiunto il cielo e noi tutti ancora pellgrini qui in terra, ma desiderosi dello stesso traguardo. La ormai prossima canonizzazione, attraverso la voce del Papa, inviterà con forza tutta la Chiesa ad affidarsi con fiducia all’intercessione di Giuseppe Allamano e soprattutto a guardare al suo esempio di vita come faro che illumina e guida il cammino dei cristiani.

Quale messaggio ci possiamo aspettare dalla proclamazione di Giuseppe Allamano «santo»? Senza dubbio che venga rivolto un richiamo forte a ogni battezzato affinché metta sempre Dio al centro della propria vita per farlo punto di riferimento in ogni sua scelta, che aborrisca ogni chiusura per sentirsi quello che tutti noi siamo: famiglia di Dio, solidale e fraterna, aperta e attenta ai segni dei tempi.

Sono sicuro che quando papa Francesco proclamerà l’Allamano santo non mancherà di far riecheggiare ancora una volta uno dei suoi richiami più frequenti affinché la Chiesa sappia imitare i santi come il nostro fondatore per sentirsi «in uscita», aperta al mondo intero e nella predilezione per l’umanità più povera.

La Chiesa in uscita è quella che «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium 24).




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Un gigante della Missione

Gent.mo padre Gigi,
grazie per il ricordo di padre Oscar Goapper nel recente articolo (del sito rivistamissioniconsolata.it in occasione del 25° del suo passaggio al Cielo). Ricordo ancora quel pomeriggio del 1999 in cui mio papà, dispiaciuto e triste, mi comunicò la notizia, arrivata per telefono, della sua morte. Sapere che non c’era più, dopo così poco tempo da quella laurea con quegli anni di sacrifici e gioie che con amicizia avevo accompagnato come altri, era stato devastante.

Padre Oscar si era laureato in Medicina e chirurgia a Milano, Università degli studi, il 7 marzo 1994, con 110 e lode. Ricordo la commozione, non solo dei confratelli e amici presenti, ma anche dei professori che hanno ascoltato la sua tesi che parlava di Neisu.

Il 7 Luglio 1994 raccontava così il suo ritorno in Africa da medico e missionario: «Carissimi, alla fine sono tornato al punto di partenza, dopo viaggi con peripezie e qualche avventura che in Africa non mancano mai.

Il viaggio fino alla capitale Kinshasa, tutto regolare, il problema è l’aeroporto sommerso sempre nel caos, ma tutto è andato bene perché ci aspettava padre Celestino (Marandu) che ci ha accompagnato per fare tutte le pratiche, anche il visto d’ingresso dopo un’ora e mezza di attesa.

Dopo una settimana in capitale abbiamo preso il volo interno, in un altro piccolo aeroporto, dove tutto è calmo e tranquillo, un aereo a elica che ci ha portati attraverso il cielo africano fino a Isiro, dopo cinque ore di volo. Sull’aereo non si contano i 25 posti, ma i chili, così che più ne stanno e meglio è, la gente viaggia in piedi, accatastati uno sull’altro, tra le borse. Siamo in Africa e tutto è possibile.

Arrivati all’aeroporto nessuno ci aspettava, perché l’aereo era arrivato parecchie ore prima del previsto, poi il superiore ci ha dato l’auto e dopo qualche ponte avventuroso, dopo esserci fermati una ventina di volte lungo la strada per salutare la gente che accorreva dappertutto, siamo arrivati a 300 metri dalla missione. Qui la gente ha bloccato l’auto e sono sceso a piedi tra canti, urli di donne, lacrime, saluti, abbracci, spinte varie. Ho avuto paura e molta emozione allo stesso tempo. Vi confesso che in dieci anni non avevo mai visto i Mangbetu così, mi ha ripagato tanto delle pene, preoccupazioni, fatiche. Tutto, in un momento è stato cancellato».

Padre Oscar ha continuato ad operare e visitare fino all’ultimo giorno. Ha curato un orto di piante medicinali per sopperire ai medicinali che mancavano, ha dato tutto se stesso per la gente che passava per l’ospedale di Neisu, ha fatto crescere medici, infermieri che oggi continuano a dare aiuto, pace e speranza in quell’angolo di Africa dove è rimasto il suo cuore. Un grande grazie (come direbbe padre Oscar) a loro e a tutti coloro che permettono la continuazione di questa opera.
Grazie padre Oscar.  Grazie padri della Consolata per fare memoria e ricordare a tanti questo gigante della Missione.

Carlo
15/05/2024

 

Grazie del bel ricordo di un missionario che ha davvero dato tutto, anche la sua vita (1951-1999). È stato mio compagno di studi a Torino, l’ho visitato nell’83 a Neisu dove esisteva solo un centro di salute molto spartano (vedi le foto), che ha poi trasformato in un centro di eccellenza a servizio dei più poveri, nel cuore dell’Africa. Ricordarlo il 18 maggio è stato un momento bello anche per me mentre, con la memoria, visualizzavo quel posto così remoto trasformato da area di lazzaretti a centro che difende e promuove la vita.


A proposito di Beniamino

Ho letto con molto interesse l’articolo di Angelo Fracchia titolato: «Tamar, una palma nel deserto» (MC 04/2023). Se può avere un valore la mia opinione, condivido in toto il contenuto: bravo Angelo.

Mi permetto solo di suggerire una correzione descrittiva poiché, confrontando il testo biblico, risulta che Beniamino è nato durante il viaggio di ritorno di Giacobbe, nell’ultimo tratto prima di arrivare ad Efrata; il parto è stato drammatico per mamma Rachele perché lei morì subito dopo (Gen 35,16-20).

Questa precisazione mi permette di rilevare l’inesattezza della frase del testo di Angelo Fracchia dove scrive: «A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato)». In verità la testimonianza di Tamar è descritta sì al cap. 38, ma precedentemente Giacobbe con tutto il suo clan ha trovato residenza al di là di Migdal-Eder (Gen 35, 21) e subito dopo il narratore descrive tutta la famiglia di Giacobbe precisando che ha avuto 12 figli, compreso Beniamino (Gen 35, 22-26).

Il cap. 36 è tutto dedicato alla discendenza di Esaù e il 37 inizia con la storia di Giuseppe e i suoi fratelli tra i quali già vive Beniamino.

Storia che però viene interrotta, come scrive giustamente Angelo, col cap. 38 per fare spazio alla drammatica esperienza di Tamar e di Giuda, alla quale Angelo fa un commento che, a mio avviso, non fa una piega.

So che l’imprecisione descrittiva che mi sono permesso di sottolineare, non toglie nulla al bel commento di Angelo. Potrebbe anche essere che, non essendo io un biblista, mi sia lasciato sfuggire dei particolari che invece confermano che Beniamino non fosse ancora nato; casomai chiedo venia.

Comunque sia, il commento di Angelo è molto bello. Scusate il mio essermi intromesso. Buon lavoro.

Luigi Guarisco
13/05/2024

Bravo a Luigi Guarisco, e non solo in riconoscenza per i troppo generosi complimenti. Disattenzione mia abbastanza rilevante di cui chiedo scusa, ma che è anche l’occasione per ringraziare commosso per tanta delicata attenzione. Mi resta da capire come abbia potuto incorrere in una simile scivolata, ma sono veramente grato per la doverosa correzione.

Angelo Fracchia,
13/05/2024


Da semplice chiesa a cattedrale

Egregio direttore,
un saluto a lei, ai suoi lettori e un augurio di pace a tutti.

Mi chiamo Bertillo Possamai. Sono abbonato a MC da moltissimi anni. Inoltre, sono un ex allievo dei Missionari della Consolata, avendo frequentato la scuola media a Biadene (Treviso).

Dei missionari, miei educatori e professori, conservo un costante e riconoscente ricordo. I padri Tullio Bosello, Adolfo De Col, Domenico Pizzuti e altri, me li porto ancora nel cuore. Il loro esempio di dedizione mi accompagna ancora oggi, anziano di 84 anni.

Un detto latino recita: «Non scholae sed vitae discimus» (non si studia per la scuola, ma per la vita). È anche il mio caso. Questo grazie ai miei maestri missionari.

Porto nel cuore, in modo speciale, anche padre Angelo Pizzaia, mio compagno di scuola a Biadene. Dopo diversi anni ci siamo ritrovati, lui missionario in Tanzania ed io geometra a Vidor (Treviso). Un giorno padre Angelo mi disse:

– Bertillo, perché non manifesti il tuo spirito missionario con qualcosa di concreto.

– Che cosa intendi dire, Angelo?

– Tu sei un geometra. Perché non disegni una chiesa per il Tanzania?

Disegnai una chiesa da costruirsi nella modestissima missione di Mafinga, diocesi di Iringa. Sempre a contatto con i missionari della Consolata. Per diverso tempo ho fatto la spola tra il mio studio di geometra a Vidor e la chiesa in costruzione a Mafinga (vedi foto sotto). E non mancavo di incontrare il mio compagno di scuola, padre Angelo. Il nostro incontro era sempre una festa, dove non mancava una bottiglia di Prosecco, che mettevo in valigia per l’occasione. Ma, se io edificavo una chiesa, padre Angelo «edificava la mia persona» (insieme alla mia famiglia) con la sua generosità e la sua fede cristallina.

Quando nel 2018 padre Angelo Pizzaia morì, dopo aver annunciato per tanti anni il Vangelo nelle diocesi di Iringa e Dar es Salaam, il suo funerale a Onigo (Tv), suo paese natale, lasciò un segno profondo.

Sto scrivendo questa lettera a Dar es Salaam, mentre mi appresto a ritornare in Italia. Lo credereste? Quella stessa chiesa, che io terminai nel 2003, oggi è una cattedrale con un nuovo vescovo, Vincent Mwagala, la cui consacrazione è avvenuta il 19 marzo 2024. Ed io c’ero con mia figlia Simona, il genero Gianni e l’amica Ivana. Una celebrazione che dire solennissima è poco. Al termine il nuovo vescovo mi disse: «Geometra Possamai, grazie. Se non ci fosse stato lei, non ci sarebbe neppure questa cattedrale ed io non sarei vescovo».

Bertillo Possamai
25/03/2024, Dar es Salaam


Che possiamo fare?

Da quindici mesi sono nonna di un cucciolo, Jonatan, che è la gioia e l’interessamento di tutta la famiglia. La dedizione della sua mamma è totale e a volte a rischio della sua stessa salute.

Sarà forse per questo che i fatti di Alessia Pifferi e la sua condanna all’ergastolo mi hanno colpito in modo spropositato. E il mio cuore non trova pace: Alessia ha lasciato morire la sua bimba di 18 mesi, abbandonandola sola in casa, senza assistenza alcuna.

I neonati sopravvivono solo se attorniati dall’interessamento affettuoso di quelli che stanno loro intorno. La mamma e la sorella di Alessia hanno esultato per la sua condanna all’ergastolo. Non sta a me giudicare se sia una condanna esemplare, oppure no. Ma questi fatti chiamano in causa tutta la società. Possibile che nessuno si sia reso conto che questa mamma così insussistente rispetto ai propri doveri, avrebbe dovuto essere supportata? Poteva essere segnalata ai servizi sociali! C’è una dimensione di corresponsabilità che riguarda ognuno di noi!

Le nostre città nascondono persone fragili che possono far male a se stesse o agli altri. Sappiamo essere attenti a quelli che ci stanno attorno? A volte non conosciamo neanche il nostro vicino di pianerottolo. Passiamo indifferenti davanti al mendicante che porge il cappello per l’elemosina.

Siamo ancora cristiani? Siamo ancora umani? Chissà quanti altri casi simili nascondono le nostre anonime città: non è sufficiente scandalizzarsi quando diventano fatti di cronaca nera.

È necessario prevenire. Cosa possiamo fare nel nostro piccolo?

Mira Mondo,
maggio 2024

Cara Mira,
come lei sono anch’io pieno di domande e faccio fatica a trovare risposte. Nonno anch’io – almeno per età – vengo da un mondo dove la privacy non si sapeva cos’era, le case avevano le porte aperte, tutti sapevano tutto di tutti e i bambini giravano in libertà. Mi rendo conto che, invece, oggi abbiamo un sistema di vita che ci vuole isolare e tagliar fuori dalle relazioni di vicinato per trasformarci in un branco di consumatori anomini che riempiono i centri commerciali, gli stadi, le spiagge e le piste da sci.

Sono ammucchiate per poterci spremere, senza darci però il tempo di relazioni umane profonde, di interessarci gli uni degli altri o farci carico delle gioie e dolori reciproci. E così succedono fatti come quello di Alessia, ma anche come quelli di anziani che vengono trovati morti nella loro casa dopo giorni se non mesi. Che fare?

Come cristiani abbiamo un «luogo» che può aiutarci a guarire le nostre relazioni: la parrocchia, nel suo significato originale di «vicinato». Lì, celebrando davvero la «domenica» come famiglia di Dio, nell’ascolto della sua Parola e facendo festa insieme come fratelli e sorelle, possiamo trovare l’energia per rinnovare le nostre relazioni in una logica di amore e di cura reciproca.




Guatemala. Rompere il ciclo della miseria


C’è un altro modo per migrare dal Centro America agli Stati Uniti. E senza mettere i propri soldi e la propria vita nelle mani dei trafficanti. Ottenere un visto è difficile, ma possibile. E si crea un ciclo virtuoso, ma non senza sacrifici. Ecco alcune storie di successo.

Sumpango e Santiago Sacatepequez. In piedi nel suo campo di more, Arnoldo Chile Recopachí si toglie il cappello, con la manica della felpa si asciuga il sudore dalla fronte e poi si concede un momento per osservare il sole scomparire dietro il vulcano Agua.

Sorride con la serenità di chi si trova esattamente dove vuole essere.

Arnoldo ha 33 anni e nella vita ha già realizzato buona parte di tutto ciò che ha sempre sognato. Da qualche anno è proprietario di un vasto terreno coltivato a more ed è riuscito a costruirsi una casa nel piccolo villaggio di El Rejón nella zona periferica di Sumpango, dove vive con sua moglie a un’ora di strada da Città del Guatemala.

Con un visto per lavoratori agricoli H-2A in mano, dal 2016 per Arnoldo è stato tutto un andirivieni tra Stati Uniti e Guatemala. Da allora trascorre otto mesi in California, dove è impiegato come responsabile dei lavoratori guatemaltechi nella logistica di un’azienda agro- alimentare, e quattro mesi a Sumpango, in Guatemala, dove si occupa del suo campo di more acquistato con le rimesse.

Arnoldo nel suo campo di more, nei dintorni di Aldea El Rejon, Sumpagngo, Guatemala. Foto Simona Carnino

 

L’imprenditrice

Nel frattempo, dall’altra parte di Sumpango, nella piccola comunità di Rancho Alegre, Roselia Canel Tejaxún intercetta gli ultimi raggi di sole che entrano dalla finestra della sua camera e che le sono necessari per finire di ricamare un güipil (o huipil), la blusa tipica dell’abbigliamento femminile maya. Anche lei sorride, pensando che presto avrà abbastanza soldi per aprire il suo atelier di moda nel terreno che ha appena acquistato. A quel punto, nonostante abbia solo 22 anni, sarà un’imprenditrice e potrà costruire una casa per la sua futura famiglia con i proventi dell’investimento. Mentre Roselia sta pensando a tutto questo, Juan Pacache e sua moglie, con la zappa in spalla, stanno tornando a casa dal loro campo di taccole situato nella zona più periferica di Sumpango, dopo un’intera giornata trascorsa a concimare la terra e controllare la crescita delle piante.

A pochi chilometri di distanza, a Santiago Sacatepéquez, Vilma Lemus Chaval si occupa degli ultimi clienti della giornata nel suo negozio di frutta. Normalmente chiude le porte della frutteria intorno alle otto di sera, attraversa la strada e va a casa dove cena con sua madre, sua nipote e suo figlio di sette anni. Il giorno dopo si alza, si prepara e torna in negozio. Così fa tutti i giorni, almeno fino a quando non tornerà negli Stati Uniti.

Uscire dalla miseria

Roselia ricama un vestito tradizionale, a casa, RAncho Alegre, Sumpango, Guatemala. Foto Simona Carnino

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma hanno lavorato per circa quattro mesi come braccianti agricoli in una floricoltura del South Dakota, Usa. «Questo lavoro ci ha permesso di guadagnare circa 4mila dollari al mese – spiega Roselia -. Dopo quattro mesi di lavoro, io personalmente sono riuscita a risparmiare abbastanza da comprare una terra a poche centinaia di metri da casa dei miei. Inoltre, ho regalato parte dei miei guadagni agli anziani del villaggio che vivono in condizione di miseria e ne hanno davvero bisogno. Se riesco a farmi ancora tre o quattro stagioni di lavoro negli Stati Uniti, sono certa di poter mettere via i soldi necessari ad aprire il mio negozio di moda qui a Sumpango. Cucire mi rende felice ed è esattamente quello che voglio fare».

Arnoldo, Juan, Roselia e Vilma sono solo quattro delle migliaia di persone centroamericane costrette a migrare negli Stati Uniti per motivi economici, ma sono tra i pochi che hanno avuto la possibilità di farlo con i documenti regolari.

«Migrare con un visto in mano, ti salva la vita perché non sei costretto a viaggiare con un coyote (specie di trafficante, ndr) e non rischi di morire attraversando una frontiera o sequestrato da un narcos – spiega Arnoldo -. Io ho avuto questa fortuna perché sono stato coinvolto in un programma di invio di lavoratori agricoli temporanei di Cuatro Pinos, una cooperativa agricola di Santiago Sacatepéquez di cui mio padre è socio. Dopo un solo anno di lavoro negli Stati Uniti sono riuscito a comprarmi un campo di more qui in Guatemala. Normalmente un migrante non riesce ad avere delle rimesse utili prima dei due anni di lavoro, ma nel mio caso è stato possibile perché non avevo un debito da pagare a un coyote».

I numeri della migrazione

Secondo il Dipartimento di sicurezza interna degli Stati Uniti, nel 2022 circa 9mila persone provenienti dal Guatemala sono riuscite a entrare nel Paese con un contratto di lavoro temporaneo. Di queste, 2.982 sono arrivate con il visto agricolo H-2A e 5.999 con il visto H-2B per lavoratori temporanei non agricoli. In entrambi i casi i lavoratori sono stati selezionati da reclutatori privati, che fanno le veci del datore di lavoro statunitense, o attraverso il programma di mobilità lavorativa del ministero del Lavoro guatemalteco.

Nonostante negli ultimi anni si sia verificato un chiaro aumento dei visti temporanei regolari, questa tendenza contrasta con i dati della migrazione irregolare del 2023, per cui 55.302 persone guatemalteche sono state deportate via aerea dagli Stati Uniti, 19.665 via terra dal Messico e 222.085 sono state arrestate mentre tentavano di attraversare irregolarmente il confine con gli Usa. Sebbene mettersi in viaggio con un coyote abbia raggiunto il prezzo di circa 16mila euro per una traversata di sola andata attraverso il Messico fino alla frontiera Sud degli Stati Uniti senza nessuna garanzia di arrivo, questo continua a essere il modo più frequente per migrare verso il Nord America per un cittadino centroamericano, perché di fatto andarci in maniera regolare non è per nulla facile e tanto meno pubblicizzato né dagli Stati di origine né da quelli di destinazione.

Migranti regolari temporanei viaggiano in Messico per un periodo di lavoro, con intermediazione di Cierto Global. Foto Simona Carnino

Non è facile

Le principali difficoltà sono di tipo amministrativo e burocratico. In Guatemala, servono circa 120 giorni per richiedere un visto di lavoro temporaneo per gli Stati Uniti, e ottenerlo non è scontato.  Il procedimento inizia quando le grandi imprese agricole negli Usa richiedono al dipartimento del lavoro una certificazione che dimostri la necessità di assumere lavoratori stranieri a causa della mancanza di manodopera locale. Quando ottiene questo documento, il datore di lavoro deve comunque aprire le candidature prima ai possibili lavoratori locali e, se nessuno si candida per la posizione, allora può iniziare la selezione all’estero, facendosi aiutare dai reclutatori, organizzazioni che lavorano nei paesi di origine dei migranti e che si occupano di fare la prima scrematura dei profili.

«Ci occupiamo di selezionare la manodopera qualificata attraverso le organizzazioni contadine qui in Guatemala – spiega Johana Bustamante, direttrice di Cierto global, responsabile del reclutamento etico dei lavoratori agricoli -. Facciamo colloqui e valutiamo anche le competenze tecniche dei candidati. Per esempio, andiamo a vedere come se la cavano con la raccolta delle fragole o delle taccole. Poi, è sempre l’azienda negli Stati Uniti che fa la scelta finale dei lavoratori. Dopo questa fase, noi ci occupiamo di tutta la parte burocratica necessaria al rilascio dei visti».

Vilma nella sua cucina tradizionale. Guatemala. Foto Simona Carnino.

Evitare il «coyote»

Sebbene non ci siano limiti di numero per i visti agricoli H2-A, non si può dire lo stesso per il visto H2-B per lavoratori non agricoli. In questo caso ne sono previsti solo 66mila all’anno che in genere vengono concessi quasi esclusivamente a chi ha già avuto un’esperienza precedente negli Stati Uniti, in particolare proveniente dal Messico. Tutto ciò rende oggettivamente improbabile che una persona centroamericana ottenga questo tipo di visto, per cui alla fine preferiscono affidarsi a un coyote.

«La migrazione temporanea regolare dal Guatemala agli Stati Uniti è recente e ci sono pochi contratti con le aziende là – continua Johana Bustamante -. Le tempistiche per ottenere i visti sono molto lunghe, ma il problema più grave è che comunque tanti decidono di partire con il coyote perché ci sono parecchi reclutatori che truffano le persone, promettendo visti in cambio di denaro per poi sparire nel nulla».

Vilma Estela Lemus Chavac, 45 anni, di Santiago Sacatepéquez, è stata vittima di questa truffa. «Nel 2008, io e mia sorella abbiamo conosciuto una persona che ci ha promesso di darci un visto per lavorare negli Stati Uniti in cambio di diecimila quetzales a testa (circa 1.200 euro, nda) – racconta Vilma, guardando tristemente a terra -. Allora ho venduto l’unico pezzo di terra che avevo per racimolare i soldi necessari, ma alla fine quest’uomo è scomparso e io ho perso tutto. Per molti anni non ho pensato di partire, poi ho conosciuto Cierto global e ho ricominciato a credere nella possibilità di poter viaggiare regolarmente negli Stati Uniti senza indebitarmi e senza truffe».

Juan nel suo campo, Sumpango. Guatemala. Foto Simona Carnino

Pagare i debiti e investire

Così, nel marzo 2023, Vilma è partita alla volta degli Stati Uniti dove è rimasta quattro mesi a coltivare i fiori in un’azienda agricola del South Dakota. Ha dovuto pagare solo 400 quetzales (45 euro) per il passaporto, poiché il biglietto, il visto e l’alloggio sono stati coperti dal datore di lavoro, come avviene nella maggioranza dei casi di assunzione di lavoratori agricoli stagionali regolari. Una volta tornata a casa, Vilma è riuscita a pagare i debiti accumulati nel corso degli anni per tenere in piedi la casa che condivide con sua mamma di 83 anni, sua nipote e i suoi tre figli. «Grazie al denaro guadagnato negli Stati Uniti, sono riuscita a coprire le bollette e le spese necessarie alla nostra sopravvivenza. Inoltre, ho affittato un negozio dove vendo verdura, frutta e vestiti. Questo mi ha permesso di generare nuove entrate».

Tra i reclutatori riconosciuti dal ministero del Lavoro guatemalteco c’è la cooperativa agricola Cuatro Pinos, che dal 2016 gestisce un programma di migrazione regolare esclusivamente per i soci e i loro familiari. «Nell’ultimo anno abbiamo inviato 150 lavoratori, che insieme hanno accumulato un milione e mezzo di dollari in rimesse, reinvestite nella produzione agricola qui – spiega Vanessa García, direttrice esecutiva della Fondazione Juan García Comparini che si occupa della responsabilità sociale di Cuatro pinos -. La migrazione stagionale permette alle persone di migrare senza rischiare la vita durante il viaggio. Inoltre, non devono pagare il debito al coyote e possono mantenere i legami familiari perché tornano dopo pochi mesi».

Vilma nel suo negozio ei frutta e verdura e abiti. Santiago Sacatepéquez, Guatemala. Foto Simona Carnino

Non tagliare le radici

Secondo una ricerca del Pew research center, un migrante irregolare in media vive all’estero circa 13,6 anni, con il rischio di perdere i legami familiari e comunitari. La vita di Juan Pacache, però, mostra che è possibile vivere un’esperienza di migrazione lunga mantenendo gli affetti intatti. Gli ultimi 20 anni della sua vita li ha trascorsi andando e tornando più volte, inizialmente dal Canada, poi, negli ultimi anni, degli Stati Uniti. «La mia casa e il mio campo di taccole sono il frutto diretto delle mie rimesse – racconta Juan -. Dopo il primo viaggio in Canada, ho investito tutti i miei risparmi nell’istruzione dei miei figli, per cercare di rompere il circolo di povertà in cui eravamo e dare a loro una possibilità lavorativa migliore della mia. Ora che sono grandi, utilizzo le rimesse per comprare terra, fertilizzanti, sementi e per assumere persone che lavorino con me. Voglio reinvestire il denaro in un circolo economico virtuoso beneficiando chi della mia comunità non è potuto migrare come ho fatto io». In Guatemala, le rimesse sono aumentate dell’11,5% nei primi otto mesi del 2023 rispetto all’anno precedente e oggi rappresentano il 18,99% del Pil. Secondo l’ultimo report dell’Ong Acción contra el hambre realizzato in America Centrale, sia i migranti regolari che quelli irregolari inviano rimesse, ma i migranti regolari le inviano più frequentemente e con importi mensili più elevati.

Le donne sono un ridotto numero all’interno dei programmi di migrazione regolare, perché i datori di lavoro del settore agricolo normalmente preferiscono la manodopera maschile. «Mi sento fortunata a essere stata selezionata l’anno scorso – racconta Roselia -. Noi donne abbiamo dimostrato di poter lavorare anche più velocemente degli uomini. Per questo dovrebbero darci più opportunità di viaggiare, soprattutto perché per noi donne migrare con il coyote spesso significa subire violenza fisica e sessuale; quindi, darci un visto significherebbe salvarci la vita». Mentre Roselia sta aspettando che le venga rinnovato il visto per tornare negli Stati Uniti, Vilma e Juan sono nuovamente in South Dakota da marzo 2024, dove resteranno per alcuni mesi. Lavorano duramente tutta la settimana dal mattino alla sera e la domenica riposano. Ogni giorno chiamano le loro famiglie, per raccontarsi la giornata vicendevolmente e per sentirsi un po’ meno soli. Anche se a volte si sentono tristi perché lontani da casa, il pensiero di tornare presto e di migliorare la vita nel loro Paese d’origine li riempie di energia. «Le autorità guatemalteche dovrebbero considerare che le persone se ne vogliono andare dal Guatemala perché non c’è lavoro e quando c’è è mal pagato – conclude Juan -. Per questo motivo dovrebbero facilitare il processo di reclutamento in Canada e negli Stati Uniti, permettendo a tutti di migrare regolarmente. Stiamo costruendo il Guatemala con le nostre stesse rimesse, quindi lo Stato ha il dovere di rispettare i nostri diritti e darci la possibilità di viaggiare senza rischiare di morire».

Simona Carnino

Vilma con la sua famiglia. Guatemala. Foto Simona Carnino

 




Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace


È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

Virgilio Pante il giorno della sua consacrazione episcopale a Maralal

La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace.

Gigi Anataloni
(1 – continua)

Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione




Copti. Una Chiesa che resiste


I Copti sono la comunità cristiana più ampia del Medio Oriente. Da sempre si devono difendere dalle persecuzioni. Ultimamente il dialogo ha portato miglioramenti. Le discriminazioni persistono, ma i semi di speranza cominciano a dare i primi frutti.

Sono trascorsi nove anni dal 15 febbraio 2015, giorno in cui fu scritta dall’Isis, il sedicente Stato islamico, una delle sue pagine più crudeli: venti egiziani e un ghanese che lavoravano in Libia furono sgozzati sulla spiaggia di Sirte. Erano cristiani e morirono sussurrando il nome di Gesù. La loro morte ha segnato profondamente la vita della Chiesa copta e non solo.

L’11 maggio del 2023, durante un incontro e un momento di preghiera comune tra papa Francesco e il capo della Chiesa ortodossa copta di Alessandria, Tawadros II, il papa ha annunciato che quei 21 cristiani decapitati sarebbero stati inseriti nel Martirologio romano come segno di comunione spirituale.

Erano cristiani copti, perseguitati e uccisi all’estero, come è accaduto anche a marzo di questo 2024, quando tre monaci egiziani copti ortodossi sono stati accoltellati durante un attacco nel monastero di San Marco apostolo e San Samuele il confessore a Cullinan, città a una cinquantina di chilometri da Pretoria, capitale del Sudafrica.

Una Chiesa bimillenaria

È da sempre su una strada in salita la testimonianza di fede per questa comunità cristiana, la più grande tra quelle antiche del Medio Oriente, con i suoi dieci milioni di fedeli stimati nel Paese (su centoundici milioni di abitanti) e altre centinaia di migliaia all’estero.

L’Egitto è la terra nella quale nacque il monachesimo con Sant’Antonio Abate, a cavallo tra il terzo e il quarto secolo dopo Cristo. La tradizione evangelica di Matteo racconta in queste stesse terre l’unica «uscita» di Gesù dalla Palestina, quando da bambino fu portato da Maria e Giuseppe nella terra del Nilo per sfuggire alla furia di Erode.

Qui, per la precisione ad Alessandria, che è ancora oggi la sede principale della Chiesa copto ortodossa, arrivò anche San Marco, uno dei quattro evangelisti che, con la sua predicazione e il suo martirio diede vita alla comunità.

Nella Chiesa copta, che vuol dire proprio «egiziana», la maggior parte dei fedeli è ortodossa, ma c’è anche una minoranza di cattolici: cristiani che seguono riti e liturgia orientale, ma legati alla Chiesa di Roma. I sacerdoti cattolici copti, come succede in altri casi di cattolici orientali, possono sposarsi. Le liturgie sono in lingua araba, quella parlata dalla popolazione, ma nei monasteri si studia e si coltiva l’antica lingua e cultura copta, che risale ai tempi degli antichi egizi.

Perseguitati fin dalle origini

È una comunità che fin dalle origini ha subito persecuzioni.

Può essere interessante constatare che diverse chiese, come quella dedicata a Maria Vergine, nella vecchia Cairo, o quella dedicata anch’essa alla Madonna lungo la sponda del Nilo nel distretto del Maadi, abbiano da sempre una via d’uscita segreta: un percorso di cunicoli e ponti grazie al quale è possibile fuggire in caso di attacchi, «portando via l’Eucarestia e le reliquie più importanti», come spiegano i leader religiosi locali.

Tuttavia, l’Egitto si pone oggi tra i Paesi dove il dialogo tra i rappresentanti delle diverse religioni sta producendo frutti importanti. Pensiamo, per esempio, alla sintonia tra papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyebb che ha portato a documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi (Emirati arabi uniti) il 4 febbraio del 2019, che tanti semi di speranza sta spargendo nei Paesi vessati, negli anni passati, da persecuzioni e attentati.

Passi da fare

Se fino a qualche anno fa in Egitto si celebravano messe blindate, con esercito e finanche carri armati sulle porte delle chiese per difendere i cristiani dagli attacchi terroristici, oggi la situazione è migliorata, anche se un certo sentimento di discriminazione persiste. Meno morti, dunque, ma resta in alcuni ambienti l’aria di emarginazione (per i cristiani e le altre minoranze religiose) che si respirava negli anni passati.

Nel suo rapporto del 2023 sulla libertà religiosa, la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) spiega: «In effetti, sono stati compiuti passi positivi come l’incoraggiamento ad una maggiore unità nazionale tra musulmani e cristiani, il dialogo interreligioso e la tolleranza, la protezione dei siti appartenenti al patrimonio religioso e la legalizzazione di centinaia di chiese. Tuttavia, l’intolleranza sociale profondamente radicata e la discriminazione istituzionalizzata nei confronti dei non musulmani o di coloro che sono considerati musulmani devianti rimangono un grave problema sociale».

Acs sottolinea ancora che, «discriminati dalla legge e privi degli stessi diritti dei loro concittadini musulmani, i cristiani sono spesso oggetto di aggressioni e crimini. Le vittime riferiscono anche che, nella maggior parte dei casi, le forze di polizia non intervengono negli attacchi ai danni dei copti. Mentre i loro aggressori beneficiano dell’impunità legale, spesso sono i cristiani a essere incarcerati».

Nonostante alcuni miglioramenti, per la fondazione pontificia che si occupa di tutelare e sostenere i cristiani perseguitati nel mondo, «non è ancora dunque garantita la possibilità di godere di più aspetti relativi alla libertà religiosa».

Nella World watch list 2024 di Open doors, che ogni anno stila la classifica dei Paesi dove è più difficile la vita dei cristiani, l’Egitto si colloca al trentottesimo posto. È sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, confermando dunque un miglioramento della situazione della libertà religiosa. Ma anche oggi «i cristiani affrontano regolarmente discriminazioni a causa della propria fede in Gesù: licenziamenti o mancanza di opportunità professionali per gli uomini, molestie lungo le strade per le donne, bullismo a scuola per i bambini», nota la stessa Ong.

Gli incidenti sono più comuni nella regione dell’Alto Egitto, ovvero al Sud del Paese, a causa della presenza di integralisti islamici, specialmente nelle comunità rurali. «Il presidente Al-Sisi e il suo governo parlano positivamente della comunità cristiana egiziana, la quale, attraverso la Chiesa copta, è presente da lungo tempo. Egli include di proposito, all’interno di un’unica identità egiziana, tanto i musulmani quanto i cristiani. Tale posizione, tuttavia – spiega ancora Open doors -, non sempre viene riconosciuta e condivisa nelle aree al di fuori dei centri urbani principali: le autorità sono note per ignorare o sminuire le preoccupazioni dei cristiani egiziani». Ad esempio, «i cristiani incontrano difficoltà nel ricevere i permessi necessari alla costruzione di nuove chiese».

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/17154874181/in/album-72157651968786141/ – Chaoyue Pan_flickr – Un cristiano copto egiziano guarda un’icona sul muro del suo posto di lavoro ad Al-Mokkatam, o la città dei rifiuti, al Cairo, in Egitto, il 10 aprile 2015, in occasione del Venerdì Santo ortodosso. (Xinhua/Pan Chaoyue)

Donne rapite

Una delle situazioni emergenti in questi ultimi anni è quella delle donne rapite e convertite. Scompaiono nel nulla e poi si scopre, anche dopo anni, che sono state rapite, violentate e costrette a sposarsi e convertirsi all’islam.

È quanto avviene nelle zone rurali, nel Sud del Paese: un fenomeno più volte denunciato da leader e associazioni cristiane ma, di fatto, ignorato dalla comunità internazionale.

Parla di «incubo inimmaginabile» il rapporto Jihad of the womb: trafficking of coptic women & girls in Egypt (La jihad dell’utero: traffico di donne e ragazze copte in Egitto), pubblicato a settembre del 2020 da Coptic solidarity, un’associazione che da oltre due decenni si batte per la tutela e il rispetto della minoranza copta in Egitto.

Il rapporto fu presentato all’ufficio del Relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione e di credo e all’Ufficio per la tratta di persone del Dipartimento di stato degli Stati Uniti.

L’incubo è quello di non fare più ritorno a casa perché le donne cristiane vengono date in sposa a fondamentalisti islamici con l’obiettivo di partorire e crescere – questa l’accusa della Ong – bambini musulmani.

Le forze dell’ordine locali, anche in presenza di denunce da parte delle famiglie delle donne, quasi sempre derubricano le sparizioni a «fuga volontaria».

Per Coptic solidarity dal 2000 al 2020 sarebbero state almeno cinquecento le donne cadute in questa forma di tratta.

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/19573569096/in/datetaken/ – CC Chaoyue Pan_ flickr – Coptic Catholic Mass
Egyptian Coptic Catholic altar boys attend the Christmas Eve mass at a church in Nasr City of Cairo, Egypt, on Dec. 24, 2014.

Uomini discriminati

Secondo Open doors, nella comunità cristiana d’Egitto, le persecuzioni non riguardano solo le donne, che comunque restano la fascia più fragile. «Molti uomini cristiani, in Egitto – si legge in uno dei più recenti rapporti della Ong -, affermano di sentirsi cittadini di seconda classe. La disoccupazione è in generale un grave problema in tutto il Paese, ma in alcune aree viene del tutto negato il lavoro ai giovani cristiani, il che li rende particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Gli uomini possono sperimentare questo tipo di discriminazione lavorativa semplicemente a motivo dei loro nomi, dal momento che da essi è possibile desumere l’appartenenza religiosa». Il nome di battesimo è, infatti, un segno di appartenenza forte per i membri della comunità cristiana, come anche la croce tatuata sul polso che, negli attacchi terroristici degli anni passati, aiutava i fondamentalisti a distinguere tra cristiani e non. I primi venivano trucidati, gli altri erano risparmiati.

Lo statuto personale

Sono oltre dieci anni che si parla in Egitto di una legge sullo statuto personale dei cristiani e delle altre minoranze religiose. La questione è legata soprattutto al diritto matrimoniale e a quello di famiglia. In un Paese a stragrande maggioranza musulmana si attende una regolazione che possa tenere conto anche dei valori cristiani all’interno di una relazione e nella costituzione di un nucleo familiare. Nonostante il confronto in corso e le tante commissioni e riunioni che si sono tenute negli ultimi dieci anni, volute dalla presidenza di Al-Sisi, questa legislazione non è mai arrivata ad approvazione.

Il testo sarebbe pronto ma manca sempre un tassello per quel via libera definitivo atteso dalle minoranze.

https://www.flickr.com/photos/pan_chaoyue/17155536665/ – Chaoyue PAN_flickr – Cristiani copti egiziani assistono alla messa ortodossa del Venerdì Santo nella Chiesa pensile del Cairo copto, in Egitto, il 10 aprile 2015.

Il ruolo dei francescani

Il villaggio di Der Dronka, ventimila anime a una decina di chilometri da Assiut, Alto Egitto, è interamente cristiano, e rischiereb- be di sparire senza gli «abuna», come sono chiamati i padri francescani.

Tutto ruota intorno al piccolo convento di fra Paolo, fra Shenuda e fra Youssef: la scuola, il mulino, il panificio, la falegnameria, finanche la raccolta differenziata dei rifiuti.

Saio e Vangelo, breviario e croce, ma spesso anche scarpe comode al posto dei sandali, per percorrere in lungo e in largo le strade polverose d’Egitto.

I francescani, un centinaio di religiosi distribuiti in una trentina di conventi, sono un pezzo della storia di questo Paese. Sono qui da 800 anni, da quando Francesco d’Assisi nel 1219 prese la nave ad Ancona per sbarcare a Damietta e incontrare il Sultano Melek. Si sa poco di quel faccia a faccia, è noto però che da otto secoli i frati operano in questa terra a maggioranza musulmana, all’insegna del rispetto e del dialogo. E in molti casi offrono alla gente non solo messe e pane, ma anche qualcosa di più, a partire dalle loro venti scuole e dai presidi sanitari distribuiti ovunque.

Al Cairo, il quartier generale dei francescani è la chiesa di San Giuseppe. Un’entrata laterale conduce a un ambulatorio all’avanguardia nel quale si offrono diversi servizi: dalle analisi del sangue alle ecografie, dal dentista al pediatra.

C’è un grande cinema da 350 posti che ospita importanti rassegne. A Gyza, a due passi dalle piramidi, c’è il Centro culturale francescano, dove si studia coptologia, lingua, arte e liturgia dei cristiani.

Ma neanche i frati di san Francesco sono stati risparmiati dalla furia degli islamisti: il 14 agosto del 2013, una data che i cristiani d’Egitto hanno stampata nella memoria, infatti, in un solo giorno furono bruciate contemporaneamente oltre sessanta chiese, e toccò anche ai frati.

A Suez, per esempio, al convento dell’Immacolata concezione.

Lo stesso giorno bruciò una chiesa francescana anche ad Assiut, san Francesco stimmatizzato. Una stanza del convento oggi è dedicata alla memoria di quella giornata, ed espone talari e libri della preghiera con i segni delle bruciature.

Una storia dolorosa che non ha mai scoraggiato i frati. Continuano, infatti, a nascere vocazioni e la loro opera è un punto di riferimento in molti villaggi.

Il caso Zaki

In Italia si è parlato molto del caso di Patrick Zaki, il ricercatore e attivista per i diritti umani egiziano, che si è laureato all’Università di Bologna, incarcerato nel suo Paese per diverso tempo.

Nelle narrazioni che hanno riguardato il caso, molto spesso si è dimenticato che Zaki ha vissuto anni in carcere per avere scritto un articolo in difesa proprio dei cristiani copti.

«Non passa mese senza tragici episodi ai danni dei copti, dai tentativi di espatrio nell’Alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o agli attentati dinamitardi e simili», scrisse Zaki nell’articolo pubblicato sul sito Daraj nel 2019 sulla base del quale Patrick Zaki sarebbe stato rinviato a giudizio.

«Ogni mese si verificano tra gli otto e i dieci dolorosi incidenti a danno dei copti», sosteneva il cristiano Patrick prendendo spunto da «un gigantesco atto terroristico» che costò la vita a quattordici uomini delle forze di sicurezza egiziane: in quell’occasione gli abitanti di una città «protestarono contro la decisione dell’esercito» di intitolare una scuola a una recluta cristiana. «Un razzismo sistematico esercitato dagli abitanti del villaggio che i responsabili non hanno affrontato», cedendo alle pressioni della folla.

Zaki metteva a nudo uno dei problemi nel rapporto tra la maggioranza dei musulmani e le minoranze in Egitto: la debolezza delle autorità locali, soprattutto nelle zone rurali del Paese, di fronte alle pressioni degli islamisti.

Un atteggiamento di debolezza che il presidente Al-Sisi, forse anche per accreditarsi presso la comunità internazionale, ha cercato di smorzare.

La cattedrale della Natività nella nuova capitale amministrativa, la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente capace di ospitare ottomila fedeli, inaugurata il 7 gennaio (data del Natale copto) 2019 proprio dal presidente egiziano con il capo della Chiesa copto ortodossa, Papa Tawadros II, ne è in qualche modo la prova.

La fratellanza umana

Un segnale di speranza arriva dai primi frutti concreti che, proprio al Cairo, stanno nascendo con la fondazione per la Fratellanza umana che si ispira all’accordo di Abu Dhabi e alla successiva enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Un lavoro condotto in prima persona da monsignor Gaid Yoannis Lazhi che per anni è stato segretario di Bergoglio e che ora, tornato nel suo Paese natale, è impegnato a tradurre in opere concrete lo spirito di fratellanza, con un’attenzione particolare per le fasce più deboli della società.

Si tratta di strutture caritative rivolte a tutti, senza distinzione di fede. C’è allora il ristorante «Fratello» che offre pasti ai più bisognosi, l’orfanotrofio «Oasi della pietà», ma soprattutto il progetto dell’ospedale Bambino Gesù del Cairo del quale monsignor Gaid è presidente: il sogno è quello di portare le cure di altissimo livello dell’ospedale pediatrico del Papa anche in Egitto. Opere che guardano alle persone, dunque, al di là di ogni appartenenza, e che costruiscono allo stesso tempo ponti, occasioni di dialogo, vie per una convivenza sempre più pacifica e rispettosa delle diverse anime che da sempre abitano nel Paese.

Manuela Tulli

https://www.flickr.com/photos/catholicism/33685860823/in/photostream/ – Catholic Church England and Wales_flickr.com – 7 maggio 2017 Vespri con e in onore di Sua Santità Papa Tawadros II




I costi della carne


Dalle stalle ai laboratori: è la carne cosiddetta «artificiale». In Italia è vietata da una legge ad hoc. Eppure, la carne «normale» ha ormai costi insostenibili. Ambientali ma non solo.

Già prima che i trattori invadessero le strade d’Europa, gli allevatori italiani si erano fatti sentire presso il nostro governo con una richiesta singolare. Chiedevano una legge per proibire la produzione della carne detta «artificiale». Che significa? Da quando in qua la carne si produce nei laboratori invece che nelle stalle? In realtà, succede già negli Stati Uniti e a Singapore, mentre l’Unione europea ci sta pensando. Con grande preoccupazione degli allevatori di tutto il mondo che ovunque si battono contro la carne di laboratorio. Come andrà a finire dipende dalla forza che ogni categoria economica coinvolta nella partita sarà capace di mettere in campo nei confronti della politica. Al momento, in Italia hanno vinto gli allevatori che il 1° dicembre 2023 hanno ottenuto una legge, la numero 172, che vieta la produzione e la vendita di carne da «colture cellulari» nel nostro paese. Il futuro rimane, però, una questione ancora tutta aperta.

Allevamenti, metano e cereali

L’interesse degli studiosi per la carne prodotta in laboratorio è di vecchia data, ma ha avuto un’accelerazione da quando abbiamo capito che i cambiamenti climatici sono una cosa seria e che sono dovuti in gran parte all’agire dell’essere umano. Una responsabilità che risiede nella produzione eccessiva di gas a effetto serra. Di quei gas, cioè, che, accumulandosi in atmosfera, intrappolano i raggi solari provocando un surriscaldamento della superficie terrestre. Il gas maggiormente responsabile del fenomeno è l’anidride carbonica, ma ce ne sono anche altri come il protossido d’azoto e il metano. Ed è proprio quest’ultimo a chiamare maggiormente in causa la responsabilità degli allevamenti.

La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano a livello mondiale. In sintesi, un settimo dei gas serra proviene dagli allevamenti animali principalmente come metano, prodotto non tanto dalle deiezioni, quanto dalla digestione dell’erba. Più precisamente il metano si forma nell’apparato digerente dei ruminanti: mucche, bufali, pecore, capre, cammelli, che passano ore e ore ogni giorno a ruminare l’erba che altrimenti non potrebbe essere digerita. Il processo di digestione è coadiuvato da batteri anaerobi produttori di una grande quantità di metano che l’animale espelle attraverso la bocca e la via intestinale.

Nel conteggio della Fao, tuttavia, oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, sono comprese anche le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali.

Si stima che tra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato l’aumento del consumo di carne.

Suoli, falde, acqua

Per di più i problemi ambientali creati dall’allevamento animale riguardano anche altri ambiti, come testimonia il territorio della Lombardia, dove suoli e falde sono contaminati dall’alta concentrazione di allevamenti. Altrettanto catastrofico è l’impatto sul consumo di acqua (ne servono 15 tonnellate per ogni chilo di carne), sul consumo di terre agricole e sulle foreste eliminate per fare spazio ai pascoli e alla produzione di soia.

Un insieme di problematiche destinate ad aggravarsi considerato che, nel Sud del mondo, c’è una classe media in crescita che pretende di mangiare carne nella stessa quantità del Nord del mondo.

In effetti esistono ancora profonde differenze nel consumo di carne a livello mondiale. L’istituto Our world in data informa che si va da un consumo pro-capite di 136 kg l’anno a Hong Kong, a 3 kg nel Burundi, passando per i 126 degli Usa, i 65 della Cina e i 70 dell’Italia.

In ogni caso, negli ultimi sessant’anni, si è assistito a un aumento considerevole di animali allevati: se nel 1960 si contavano bovini per un miliardo di capi e ovini-caprini per 1,3 miliardi, nel 2020 il numero di bovini è passato a un miliardo e mezzo, mentre quello degli ovini-caprini a due miliardi.

Carne, alimento critico

I costi ambientali della carne sono insostenibili. Foto Harlie Solozano – Unsplash.

Che la carne sia ormai diventata un alimento critico è fuori discussione, ma sulla questione di cosa fare per porre rimedio alle sue criticità esistono esistono varie posizioni perché, in economia, più che la razionalità vale l’interesse, per fortuna con qualche eccezione. Fra gli allevatori stessi ci sono dei genuini ambientalisti che propongono di ridurre il numero di capi allevati utilizzando i pascoli come principale fonte di alimentazione. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte degli allevatori vuole andare avanti come sempre, ossia badando solo a costi, ricavi e rese monetarie, tutt’al più facendo qualche ritocco d’immagine piuttosto che di sostanza.

Ad esempio, succede, che la brasiliana Jbs, fra le più grandi multinazionali dedite alla macellazione animale, pur vantandosi di impegnarsi nella sostenibilità ambientale, continua a essere accusata dalle associazioni ambientaliste di acquistare bestiame allevato su tratti deforestati dell’Amazzonia.

Al di là dell’immobilismo contrapposto dagli allevatori più conservatori, tre soluzioni sono oggi sul tavolo: una di tipo esclusivamente tecnologico, una di tipo comportamentale, l’ultima di tipo misto.

Cellule in laboratorio

La soluzione di tipo esclusivamente tecnologico è quella che propone di ottenere bistecche e fettine in laboratorio, tramite un processo che inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi (bovini, maiali, polli) per poi farle moltiplicare in laboratorio attraverso complesse metodiche di nutrimento e di divisione cellulare.

Il paese più avanzato in questo genere di sperimentazione è rappresentato dagli Stati Uniti, dove la produzione è stata ammessa dalla Food & drug administration, l’organo di vigilanza alimentare e farmaceutica.

Una ventina di società, all’apparenza tutte start-up di giovani imprenditori, si sono già lanciate nel settore ottenendo un fatturato, nel 2023, pari a 121 milioni di dollari. Una somma a sei zeri che può fare una certa impressione, ma che rappresenta appena lo 0,11% di quanto è stato ricavato nello stesso anno dalla vendita di carne tradizionale sul mercato statunitense. In effetti la produzione di carne sintetica è ancora un’iniziativa in germe con molti nodi da sciogliere, non ultimo quello dei costi. Per diventare competitiva, la carne sintetica dovrebbe essere venduta sul mercato finale a non più di 10 dollari al chilo; in realtà produrla oggi costa ancora fra i 22 e i 120 dollari al chilo, a seconda del tipo di carne. Ma gli operatori del settore sperano di riuscire a dimezzare i costi per il 2030.

Gli allevamenti producono metano, uno dei gas serra responsabili della crisi climatica. Foto Iomig – Unsplash.

Abitudini alimentari

La carne sintetica piace a vari ambiti della società civile. Piace alle associazioni animaliste perché elimina la sofferenza animale. Piace a certi sanitari perché annulla l’uso di antibiotici oggi abusati nel mondo della zootecnia. Piace a chi si occupa di ambiente perché contribuisce ad abbattere i gas serra e a ridurre il consumo di terre fertili. Ma i risvolti sanitari possono essere molti e solo il tempo potrà dirci se la carne di laboratorio possa nascondere qualche proprietà mal tollerata dal nostro organismo, che oggi ignoriamo. In altre parole, ci vorrebbe maggiore prudenza in nome del principio di precauzione.

Quanto all’aspetto ambientale, una piena valutazione deve anche considerare l’aumento di materiale richiesto dalla costruzione di nuovi impianti industriali e l’incremento di energia elettrica richiesta per farli funzionare. Energia elettrica neutra o a forte impatto ambientale a seconda della fonte primaria utilizzata.

All’opposto della soluzione tecnologica c’è quella di tipo comportamentale secondo la quale il problema non è sostituirsi alla natura, ma inserirsi nel suo corso. In altre parole, ciò che bisogna fare è cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna avere l’accortezza di cercare le proteine che ci servono in alimenti di tipo vegetale in modo da consumare meno carne e quella poca produrla in maniera sostenibile.

La carne – si sa – è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea che i medici non mancano mai di raccomandarci. Una dieta buona per la salute umana e per la sostenibilità del pianeta.

Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista Climatic Change, ha mostrato, ad esempio, che se tutti gli americani sostituissero la carne bovina con fagioli, ceci e altri legumi, il paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra che Barack Obama aveva indicato per il 2020.

Dieta vegetariana

Fra queste due posizioni si inserisce una terza proposta che offre un cambio alimentare in salsa tecnologica. Che si può riassumere nel tentativo di convertire le masse a una dieta vegetariana tramite un processo di finzione. Il ragionamento dei proponenti è che la gente è troppo attaccata alla carne per abbandonarla, per cui va fatta passare alla dieta vegetariana con l’inganno. Ossia, facendole credere di stare addentando un hamburger mentre mangia un pasticcio di fagiolini, cavoli, piselli, che – per forma, colore e sapore – assomiglia in tutto e per tutto a un hamburger fatto di carne. Un prodotto da non confondersi con il tofu o e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi «carne dei vegetariani», non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.

Varie imprese hanno subito sentito odore di soldi nella «carne vegetale» e vi si sono buttate a capofitto, compresi miliardari come Bill Gates e colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Jbs. Oggi il mercato della carne vegetale a livello mondiale vale 6,1 miliardi di dollari, non molto rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che girano attorno alla carne vera e propria, ma pur sempre un ammontare interessante.

La deforesazione per far posto alle cotivazioni cerealicole e agli allevamenti sono sempre più frequenti e devastanti. Foto James Baltz – Unsplash.

Quale strada?

In conclusione, delle tre proposte, quella che personalmente ritengo meno risolutiva è la terza, che anzi mi pare dannosa per la sua connotazione consumistica. Meglio investire in risorse educative per cambiare le abitudini dei consumatori piuttosto che sprecare risorse materiali per manipolare prodotti che la natura rende già pronti all’uso in forma diretta. Anche la prima proposta mi genera scetticismo, quasi spavento, per l’avanzare eccessivo della tecnologia che da serva rischia di trasformarsi in padrona. Per non parlare dei suoi effetti di lungo periodo di cui non sappiamo niente. Alla fine, rimane in piedi solo la seconda proposta, quella della riduzione e della semplicità. La strada che ci rifiutiamo di imboccare, ma l’unica che potrà salvarci.

Francesco Gesualdi

 

 

 




Un malato alla piscina di Betzatà (Gv 5,1-9)


L’evangelista Giovanni ci dice che a Gerusalemme c’era una piscina dove si radunavano tanti malati. Si credeva, infatti, che la sua acqua potesse compiere guarigioni miracolose. Il primo che vi si fosse immerso quando l’acqua prendeva ad agitarsi, sarebbe stato guarito.

Già guardando questo quadretto, potremmo fare qualche considerazione. Intanto, non siamo nella crema della società: storpi e zoppi non possono entrare nel tempio, e non hanno solitamente corpi da copertina… Gesù si trova qui, non alle terme o in palestra, tra i rifiutati della società civile e religiosa.

Sapendo già quello che sta per accadere, potremmo essere tentati di domandarci per quale motivo Gesù guarirà uno solo tra tanti malati. E poi, ancora, perché Gesù si scomoda se lì c’è già l’acqua che guarisce? Il malato, prima o poi ce la farà a immergersi per primo.

Ma intanto concentriamoci su Gesù che, arrivato alla piscina, si guarda intorno, e vede. Chi ama le persone, non potrà che amarne qualcuna, quelle che vede e incontra. È la prima obiezione che si muove a chi si sforza di alleviare le sofferenze altrui: «Non puoi farlo per tutti». Gesù pare pensare che però è sempre meglio farlo almeno per qualcuno. Lo sguardo di Gesù, lo sguardo di Dio, è quello di chi vede che cosa ha davanti, e non se ne tira fuori, si lascia coinvolgere. Anche se questo significa rassegnarsi a non raggiungere, contemporaneamente, tutti.

La prima reazione (Gv 5,9-18)

Come reagiremmo di fronte a una guarigione inattesa? Come reagiamo davanti ai salvataggi dei migranti nel Mediterraneo? L’umanità rimane simile a sé stessa, chi si mette in gioco è come se costituisse una implicita provocazione o rimprovero per chi avrebbe potuto fare e non ha fatto.

E uno dei modi per lasciarsene disturbare meno è trovare delle obiezioni: «Non avrebbe dovuto». Le obiezioni più solide, poi, sembrano essere quelle che hanno ragioni legali, meglio ancora se la legge viene da Dio.

Gesù ha guarito di sabato! E allora la prima reazione di alcuni di fronte a un paralitico che non solo cammina, ma si porta in giro la propria misera brandina, è di fargli notare che sta svolgendo un lavoro proibito in quel giorno.

Essi non vedono la persona, la sua situazione, la sua gioia e vita capace di esprimersi ora appieno, ma solo il caso legale. E siccome il guarito spiega che cosa gli è successo, il nuovo e più importante bersaglio diventa Gesù, che inizia a essere perseguitato (v. 16).

Gesù viene quindi interrogato, e lui risponde sostenendo di fare semplicemente ciò che fa il Padre. Gesù si conferma immagine di Dio, testimone affidabile del cuore del Padre, di ciò che Dio pensa e prova. Quel creatore che potevamo conoscere nella sua legge, nelle testimonianze antiche, scende nelle vie polverose e tra le malattie che sono tipiche del nostro vivere.

Ma di fronte a questa rivelazione, quella di un cuore di Dio che si commuove per le sofferenze dei suoi figli, la reazione è una feroce difesa delle regole che pure dovrebbero parlare di Dio. Davanti a un uomo che «si mette alla pari con Dio» (v. 18) ci si poteva stupire, di certo anche interrogare e mantenersi scettici, provare a vagliare e capire. Ma ai Giudei non succede niente di tutto questo: «Cercavano di ucciderlo» (v. 18). L’incontro con l’umanità, che stimola e risana, va semplicemente rimosso.

Destino di vita (Gv 5,26-30)

Quando si leggono brani biblici, come quando si segue un romanzo o un film, sarebbe opportuno andare secondo l’ordine pensato da chi ha scritto, in quanto esso veicola un senso preciso. Per una volta, però, anticipiamo la lettura di alcuni versetti per poi tornare indietro, perché questo aiuta a capire meglio. Partiamo, infatti, da ciò che per noi è forse più facile da comprendere.

Come capita spesso nel Vangelo di Giovanni, e in misura sempre maggiore andando avanti con la lettura, Gesù prende spunto da episodi di vita per ragionarci sopra e approfondirne il senso.

Di fronte alle contestazioni dei suoi oppositori, scandalizzati dal fatto che si «mettesse alla pari con Dio», Gesù ribadisce che quella è la sua condizione. Anzi, insiste sul fatto di fare precisamente ciò che fa il Padre. E il cuore dell’attività del Padre, e quindi anche del Figlio, è dare la vita.

Dio vuole la vita, una vita piena, e già questo non era scontato per gli interlocutori di Gesù. Potevamo trovarci di fronte a un Dio tiranno capriccioso che gode nel farci soffrire. Invece no, l’intenzione ultima del creatore è che chiunque lo incontri viva, e viva bene.

Per questo anche Gesù, che condivide lo stesso cuore del Padre, vuole che chi lo incontra viva, e viva bene.

E siccome tutta la nostra esistenza si gioca sul rischio di una morte che incombe su di noi sempre (nelle malattie, nei limiti, persino nelle incomprensioni…) e che si fa inevitabile e definitiva alla fine della vita, Gesù mostra il volto di un Dio che ama la vita umana tanto da portarla a una risurrezione alla fine dei tempi. Altrimenti la promessa di vita sarebbe soltanto provvisoria e quindi illusoria.

E poiché, però, la risurrezione non è un semplice esito «naturale» della vita umana, bensì un dono ricevuto da Dio nel momento in cui la storia, lasciata libera di esprimere anche tutto il proprio male, non poteva più aggiungere niente a ciò che aveva fatto (dopo aver ucciso e fatto dimenticare una persona, non si può più aggravarne la sorte), anch’essa non sarà semplicemente un neutrale ritorno alla vita, ma un sottoporsi a un giudizio.

Dio, infatti, restituendo la vita potrebbe limitarsi a riportare la storia indietro, mettendoci in un circolo da cui non riusciremmo più a uscire. Oppure, nel risuscitare, Dio può offrirci un’esistenza secondo i nostri sogni più autentici, confermando la nostra tensione al bene e alla vita, alcuni atteggiamenti, alcune scelte. Nel venire alla vita definitiva, alcuni si troveranno quindi confermati nei loro desideri, per loro quella risurrezione sarà di vita, mentre per altri sarà di condanna. Il criterio di valutazione di questo processo sarà la storia di Gesù, uomo e Dio pieno, così che sarà anche lui il giudice, colui che farà da discrimine tra i buoni e i cattivi, e lo farà semplicemente rispecchiando l’intenzione del Padre.

Il giudice Gesù, essere umano capace di compassione e di vedere l’umanità all’opera, pare qui concentrarsi semplicemente sull’amore della vita umana. Chi ama la vita come Dio, verrebbe da dire, non può che trovarsi dalla stessa parte di Gesù, di chi sarà risorto.

Solo nel futuro? (Gv 5,19-25)

«So che risorgerà nell’ultimo giorno» (Gv 11,24), dice Marta a Gesù parlando del fratello Lazzaro morto da quattro giorni. Quella fiducia nella risurrezione alla fine della storia, pur nota e relativamente diffusa, non era condivisa da tutti i credenti al tempo di Gesù. Aveva senso, quindi, per Giovanni, ribadirlo.

Prima di questa frase di Marta, però, l’evangelista spiega l’amore divino per la vita degli uomini parlando di una risurrezione presente: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (v. 21).

La risurrezione che noi potremmo dare per scontata riguardo al futuro (anche se non ci pensiamo molto) è una realtà già oggi. Già adesso risorgiamo.

Potremmo dirlo così: ora sappiamo che la nostra vita è nelle mani di un Padre che la vuole tutelare. Egli se ne prenderà cura fino alla fine. Anzi, oltre la fine, aggiunge Giovanni in un passo di cui noi abbiamo anticipato la lettura (cioè, ai vv. 26-30).

Perché la morte non è solo quella della vita biologica. Muore, pur restando in vita, anche chi non vede un senso nelle cose che fa e nel suo impegno e fatica, chi si sente abbandonato e solo e destinato all’oblio. Anche su questo Gesù e il Padre intervengono, sanando e offrendo la possibilità di credere che la mia vita sia significativa, utile, e destinata a restare.

Dopo duemila anni di cristianesimo, siamo «abituati» alla promessa della risurrezione, ma quella prospettata dopo la nostra morte ha senso a partire dalla nostra «risurrezione» quotidiana, dalla nostra percezione che per Dio ciò che noi viviamo sia prezioso: «I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime» (Sal 55,9).

C’è chi ha discusso se Gesù avesse parlato solo della risurrezione futura o anche di quella attuale, interrogandosi se per caso qualcuno abbia aggiunto ai suoi detti un aspetto che per lui non c’era. È però chiaro che la risurrezione futura e quella attuale si danno in sintonia, l’una non solo non esclude l’altra, ma in qualche modo la esige perché la vita sia autentica.

Se dovessi elemosinare un po’ di vita e felicità in questo tempo sapendo che tutto sarà cancellato dalla morte, come potrei goderne appieno? Al contrario, se dovessi aspettarmi gioia e vita piena solo nell’aldilà, cosa vivrei a fare?

Il discorso che Giovanni mette in bocca a Gesù, nella sua apparente ripetizione ci dice esattamente che i due aspetti si danno insieme, e stanno ugualmente a cuore a Gesù e al Padre.

Il desiderio del Padre

Il discorso di Gesù prosegue (da Gv 5,31) insistendo sul fatto che lui e il Padre dicono la stessa cosa, e che è Dio stesso a dargli testimonianza. Da una parte questa è una pretesa da dimostrare: che, cioè, il Dio dell’Antico Testamento sia coerente con Gesù. Dall’altra e insieme, però, è un invito a leggere la Bibbia con lo sguardo di Gesù: non è forse vero che tutto, in quegli strani, incoerenti, a volte fastidiosi libri, parla dell’amore di Dio per la vita e della sua intenzione di tutelarla?

Il messaggio del Vangelo di Giovanni è questo: Gesù si mostra una persona amante della vita, di quella vera, autentica, concreta, che quindi è anche fatta di scelte (perché vedere proprio quel malato? Perché guarire lui?), precisamente perché è situata nella storia, come siamo noi. Ma Gesù, amando la vita, perché manifesta in modo trasparente il volto di Dio, che è innanzi tutto un innamorato dell’esistenza.

E anzi, si mostra amante di una vita che si esprime soprattutto nelle relazioni. Ecco perché Gesù parla di testimonianza, che comporta di suo le relazioni personali, in quanto nessuno può testimoniare su qualcuno che non conosce.

Ecco perché Gesù interviene a liberare una persona da un male che le impedisce di entrare in relazione non solo con le altre persone, ma persino con Dio, in quanto come paralitico non poteva entrare nel tempio.

Ed è qui l’ultima suggestione del brano che abbiamo provato a leggere: l’impossibilità di accedere a Dio non è un impedimento, perché sarà il Padre stesso a trovare le strade per farsi incontrare da coloro che al tempio non possono entrare.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 06-continua)