Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.

 




La santità che scuote


Il 20 ottobre scorso Giuseppe Allamano è diventato ufficialmente santo. Pellegrini da 35 paesi hanno raggiunto Roma per l’evento. Missionarie e missionari della Consolata di tante nazionalità erano presenti. È stata una grande festa di famiglia. Reportage.

Roma, 19 ottobre. È già buio quando fuori dalla Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, a pochi passi da piazza Navona, incontriamo un brulicare di gente. A guardare bene, e ad ascoltare la cacofonia di voci, ci sono persone da diverse parti del mondo. Si abbracciano, parlano, cercano qualcuno di conosciuto, prima di entrare alla veglia che inizierà tra poco. È il popolo di Giuseppe Allamano, che si è riunito da 35 paesi di quattro continenti, perché il 20 ottobre, il sacerdote torinese fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato da papa Francesco, ovvero, diventerà ufficialmente santo.

Intanto la chiesa si riempie, è stracolma e molti sono in piedi o seduti per terra nell’area davanti all’altare. I cori Tatanzambe di Nervesa (Tv) e Massawe di Bevera (Lc), uniti per l’occasione, suonano e cantano in kiswahili.

Verso le 20 suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, prende la parola per spiegare il programma della serata. Con lei, condurrà padre Edwin Osaleh, missionario in Marocco.

 

La veglia abbia inizio

Il benvenuto è di suor Lucia Bortolomasi, madre generale delle missionarie della Consolata, anche a nome di padre James Lengarin, superiore generale dei missionari. Di colpo la chiassosa e variopinta assembela si zittisce. «Che gioia indescrivibile, quanti sentimenti abitano il nostro cuore. […]

Alcuni di noi hanno varcato oceani, attraversato continenti, viaggiato giorni per arrivare qui. […] è necessario fermarci tutti insieme a preparare il cuore. per sintonizzarci a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e coglierne il senso più profondo».

Suor Lucia ricorda la beatificazione di Allamano, nel 1990 e riflette sul significato di essere riconosciuto santo: «Questo riconoscimento ufficiale varca i confini della nostra famiglia, diventando un modello rivolto ai fedeli della Chiesa tutta. Da domani Allamano è un po’ meno nostro e sempre più di tutti».

Suor Lucia richiama la santità che il fondatore chiedeva ai suoi: «Non miracoli, ma fare tutto bene. Farci santi nella via ordinaria» e ricorda i tanti missionari e missionarie che sono rimasti ai loro posti, in missione, e quelli che non sono potuti venire perché impediti dall’età o dalla malattia. Suor Lucia fa, infine, un richiamo alla responsabilità: «siamo tutti chiamati a operare con sempre maggiore dedizione».

Dopo di lei, parla monsignor Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata doi Torino, che ricorda i 47 anni a guida di Giuseppe Allamano.

Per ogni intervento lei due guide della veglia, fanno sintesi in inglese, spagnolo, portoghese.

Raccontare il miracolo

Viene il momento di parlare del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. La guarigione di Sorino Yanomami, nella missione di Catrimani, a Roraima, in Brasile, nel 1996. Sorino, a caccia nella foresta, era stato aggredito da un giaguaro, che aveva causato gravi ferite alla scatola cranica.

La dottoressa Roberta Barbero ha seguito dal punto di vista medico la vicenda. Racconta come abbia vissuto il contrasto tra il ruolo di medico, che ha bisogno di osservare, misurare, e il suo essere donna di fede, alla quale bastano le testimonianze.

Racconta, ad esempio, come a volte si sia sentita isolata dalla comunità scientifica, quando raccontava il caso, perché lo scienziato fa fatica ad andare oltre a quello che si può misurare: «Le guarigioni inspiegabili avvengono, e l’atteggiamento della medicina è quasi come quello di chi subisce un affronto». Ma «la fede può fare la differenza. Questa guarigione ha cambiato il mio modo di vedere le cose, e anche di testimoniare la mia fede all’interno di un ambiente che non sempre permette questa apertura».

Si alza poi suor Felicita Muthoni Nyaga, la testimone più diretta dell’evento occorso nel febbraio 1996 a Roraima. Prende il microfono e va verso la gente. Tra le centinaia di persone, adesso, cala un silenzio assoluto: sono tutti con il fiato sospeso per ascoltare la sua storia (vedi dossier MC ottobre 2024). Quando conclude dicendo che Sorino «è un uomo che non è registrato all’anagrafe, né nei nostri registri di battesimo, ma c’è, Dio lo ha visto», scoppia un lungo applauso. L’atmosfera è diventata caldissima.

Parlano ancora i vescovi di Roraima: quello attuale, monsignor Evaristo Spleger, e alcuni predecessori e vicari, monsignor Roche Paloschi, e monsignor Raimundo Vanthay Neto.

Gli interventi sono intervallati da canti del coro in diverse lingue.

Testimonianze

Dopo un breve saluto di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo ausiliario dell’arcidiocesi di Torino, si susseguono alcune testimonianze di laici e laiche.

Toccante è quella di Nadia, ragazza marocchina musulmana di Oujda, dove è operativo il centro per migranti coordinato da padre Edwin.

Una preghiera del cardinale Giorgio Marengo conclude la serata.

Sono le dieci passate, i pellegrini chiassosi defluiscono lentamente dalla Chiesa Nuova. Si vede la stanchezza di chi è arrivato da lontano, ma si sente l’entusiasmo, e molta attesa per quello che avverrà domani.

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Piazza san Pietro, 20 ottobre

È festa grande

Fino dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia necessari per entrare nella piazza.

Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma c’è anche l’Asia, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune asticelle viene issata l’immagine di Giuseppe Allamano, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati» anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni). Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con il volto di Allamano e l’immagine della Consolata. L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato specificamente per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo con il metal detector. La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.

I pellegrini sono assonnati, ma nei volti si nota la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.

È un momento di attesa, e si approfitta per farsi foto, video, scambiarsi un contatto o un sorriso. Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio. A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte alcune migranti subsahariane.

Vediamo il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità. Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.

Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Francesco accolto dai suoi

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcuni canti diffuse con i potenti altoparlanti. L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone venute da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «papa Francisco», per culminare con un grande applauso. Nel frattempo è comparso un pallido sole.

Scorgiamo evidente, in prima fila nel gruppo delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno (Mc 10,35-45).

«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere». E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».

Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.

«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

Allamano e gli Yanomami

All’Angelus il pontefice mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si accalcano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Dopodiché, inizia il lento deflusso di migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della basilica di san Pietro sulla cui facciata spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

Chiediamo a padre James Lengarin, superiore dei missionari della Consolata, le sue impressioni: «È stata una bellissima giornata. Quando si nominava san Giuseppe Allamano, dalla piazza si alzava un urlo di gioia. Il Papa ha ancora parlato di lui all’Angelus, sottolineando il suo spirito missionario: oggi è anche la Giornata missionaria mondiale».

«Poi ci siamo trovati tutti al Teresianum (la Pontificia università teologica), per festeggiare. Eravamo più di 1.300 persone da tutto il mondo. Questo ci fa vedere come il cuore della Consolata sia vivo». Gli chiediamo come si sente a essere il successore di un santo: «Mi sento come uno dei suoi figli, ma anche come frutto della missione. Io vengo da una popolazione di pastori nomadi. Vuole dire che Allamano aveva questa attenzione per le persone che di solito sono emarginate, alla periferia del mondo. Io adesso mi sento animatore dei miei fratelli».

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Roma, 21 ottobre

«Coraggio, avanti»

Lunedì pomeriggio i pellegrini di san Giuseppe Allamano si trovano nuovamente tutti insieme per una celebrazione di ringraziamento nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura.

La messa inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Giorgio Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione. Mi ha colpito, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

Continua il cardinale: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Tra questi spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili da una maglietta fatta per l’occasione, con la scritta in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard della canonizzazione.

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera soave: «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musici – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma praticamente balla. Una danza contagiosa, che in pochi secondi prende tutti i presenti e, chi più chi meno, inizia a muoversi a ritmo di musica. E parte l’entusiasmo della grande festa.

Un punto di partenza

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco. La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo che i giovani non siano più costretti a partire.

Durante la cerimonia di ringraziamento, come nei giorni precedenti, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si è soffermato sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa per il nuovo santo.

Marco Bello

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Noie e voi, dialogo lettori e missionari


Una nuova Tac per Ikonda

Caspita, 316mila euro non sono noccioline. Anche se, per chi sfreccia con i bolidi di «Formula uno», o chi batte e ribatte le palline gialle da tennis, o chi rincorre il variopinto pallone da calcio, 316mila euro sono quasi quisquilie. Ma quisquilie non sono né noccioline per il Consolata hospital Ikonda in Tanzania.

L’ospedale conta 404 posti letto, sei sale operatorie e cura le principali patologie con la presenza di 349 persone: medici, farmacisti, infermieri, tecnici di laboratorio, addetti alle pulizie, ecc. Gli ammalati provengono soprattutto da Morogoro, Iringa, Njombe, Songea, Mbeya, Rukwa, Katavi, ma qualcuno viene anche da più lontano, persino dall’isola di Zanzibar. I bambini del distretto di Makete fino ai 10 anni vengono curati gratuitamente, mentre i pazienti Hiv ricevono alcune prestazioni gratuite, così come le partorienti del distretto.

Il centro sanitario è dei Missionari della Consolata. Fu costruito nel 1962, e successivamente ampliato. Venne inaugurato ufficialmente un anno dopo l’indipendenza del Tanzania con Julius Nyerere presidente, il quale affermava: «I nemici del nostro paese sono la povertà, l’ignoranza e la malattia».

Il Consolata hospital Ikonda affrontò subito «il nemico» malattia.

L’ospedale sorge fra le montagne dell’Ukinga a 2.050 metri di altitudine. Dista circa 800 chilometri da Dar Es Salaam, la capitale del Tanzania. Fino a tre anni fa, gli ultimi 90 chilometri da Njombe a Ikonda erano in terra battuta, una salita scivolosa durante le piogge, rasente precipizi. Oggi da Mbeya giunge ogni giorno un autobus stracolmo di ammalati: affronta nebbie fitte, pantani traditori, pietre massacranti, buche da sprofondare. Il tutto per 7-8 ore, se non capitano guasti meccanici.

Quante volte i missionari della Consolata si sono detti: «Ah, se avessimo costruito l’ospedale altrove, i pazienti l’avrebbero raggiunto più facilmente, e la gestione sarebbe stata più economica». Già. Ma non sarebbe stato l’ospedale dei poveri di Ikonda e dintorni, sferzati dal vento e dal freddo, tagliati fuori dal mondo. È vero, tuttavia, che la lontananza da insediamenti urbani rende più costosa la conduzione della struttura. Alcuni medici e tecnici di laboratorio, dopo aver acquisito una buona esperienza, abbadonano Ikonda; sono attratti da una vita più agiata altrove. L’ospedale cerca di fronteggiare l’esodo con stipendi migliori, mentre investe sulla specializzazione di medici locali in radiologia, medicina interna e medicina d’urgenza. Così è nata pure l’Unità di emergenza.

Un aiuto significativo è la presenza di medici stranieri: italiani, soprattutto, ma anche spagnoli e di altre nazionalità. Sono volontari che si pagano persino il viaggio. Frequentano Ikonda nonostante due «tristezze». La prima tristezza è la povertà di molte persone che non hanno denari per una degenza in ospedale. Seconda tristezza: non raramente i pazienti arrivano «fuori tempo massimo», quando non c’è più nulla da fare.

Ma proprio per tali tristezze i medici volontari ritornano, perché hanno il Tanzania nel cuore. «Tanzania nel Cuore» è anche un’associazione di medici italiani, animati da solidarietà e generosità.

La strumentazione del Consolata hospital Ikonda è apprezzabile. Da anni opera la Risonanza magnetica, mentre dal 2014 è in funzione la Tac, benemerita ma oggi obsoleta. Non si trovano più i pezzi di ricambio. Di qui l’urgenza di un nuovo impianto.

Ed eccola la nuova Tac, fiammante e moderna. L’inaugurazione è avvenuta il 20 settembre 2024 con la presenza dei missionari della Consolata, del direttivo dell’ospedale, del dottor Gian Paolo Zara (di «Tanzania nel Cuore») e del Nunzio apostolico, l’arcivescovo Angelo Accattino (foto qui sotto).

La presenza del Nunzio non è stata una formalità, bensì la testimonianza che i 316mila euro, per acquistare la Tac sono un dono della Conferenza episcopale italiana: euro raccolti attraverso l’8 per mille degli italiani. Ebbene, manciate e manciate di «noccioline» di tante persone, divenute «un ricco raccolto». Perché l’unione fa la forza.

Dante Alighieri direbbe: «Poca favilla gran fiamma seconda». E Gesù: «Il minuscolo granello di senapa diventa un albero imponente».

Grazie, vescovi e amici italiani, della vostra straordinaria generosità.

padre Francesco Bernardi,
Torino 27/09/2024


A proposito di IA

Ho letto con interesse l’articolo di Chiara Giovetti sull’intelligenza artificiale (IA) pubblicato nel numero di ottobre 2024.

Vi sono molte considerazioni importanti, tra le quali in particolare ho colto la domanda se l’intelligenza artificiale ci aiuterà a trovare soluzioni o se sarà parte dei problemi che si vogliono affrontare.

Resta per me, comunque, un argomento di fondo, non affrontato nell’articolo, il fatto che la cosiddetta «intelligenza» artificiale non è in effetti «intelligenza», ma una serie di algoritmi e istruzioni date alle macchine per conferire loro capacità di analizzare enormi quantità di dati per elaborare documenti (testi, tabelle, progetti, immagini e altro) in tempi brevissimi, a partire da questi dati e da domande poste dagli utenti in modo discorsivo. E fin qui mi è chiaro e l’ho provato anche personalmente.

Ma per far sì che le macchine facciano queste elaborazioni è necessario che abbiano a disposizione i dati necessari.

Mi sono soffermato quindi sulla lista ricavata dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni, che include servizi di telemedicina, ottimizzazione dell’uso dell’acqua in agricoltura, riduzione della corruzione negli appalti pubblici, miglioramento della salute e del benessere degli animali in allevamenti, prevenzione di incendi e altro.

Per nessuno di questi esempi nell’articolo si spiega «come» possano essere ottenuti questi risultati.

Riesco da una parte ad immaginare come l’intelligenza artificiale possa essere d’aiuto ad esempio nel caso specifico della telemedicina, dove l’analisi di enormi quantità di cartelle cliniche e/o immagini radiologiche raccolte per tanti anni in tanti archivi medici del mondo certamente può dare informazioni importanti e in tempo immediato e, laddove una ricerca senza intelligenza artificiale richiederebbe tempi lunghi incompatibili con le esigenze di intervento sanitario.

Ma in nessuno degli altri casi portati ad esempio mi pare che si possa fare a meno di dati rilevati in tempo reale, con strumenti anche tecnologicamente avanzati e anche collegati direttamente alle macchine di «intelligenza» artificiale che li possano elaborare, e non a partire da dati storici, per quanto ampi e dettaglianti possano essere.

Tantomeno in casi che riguardano comportamenti umani, come l’esempio della corruzione in appalti pubblici.

Non sono un addetto ai lavori, quindi queste mie osservazioni possono forse essere inadeguate o addirittura fuori luogo.

Ma avendo letto questo articolo in una rivista come Missioni Consolata, che si rivolge a un pubblico come me non preparato su questi argomenti, mi sarei aspettato qualche spiegazione su «come» possa funzionare l’intelligenza artificiale, per non lasciare l’impressione che sia soltanto un business nelle mani di pochi soggetti che sostengono di migliorare il mondo, ma senza far capire come e con quale attendibilità intendano farlo.

Sarei quindi molto grato se fosse possibile avere qualche spiegazione in merito.

Resto in attesa e ringrazio.

Filippo Pongiglione
03/10/2024

 

Le domande del lettore sono molto interessanti, ma se non ho approfondito i punti che lui fa presenti è solo per mancanza di spazio.

In realtà, non ho fornito più informazioni su che cos’è l’intelligenza artificiale perché sul numero precedente della rivista c’era a pagina 11 un box di Paolo Moiola dal titolo: «IA, di che cosa parliamo». Includere un rimando a quello sarebbe stato in effetti una buona idea.

Quanto ai casi d’uso dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni@, fornisco la traduzione e sintesi di alcuni passaggi del rapporto che possono aiutare a capire meglio.

Sul benessere degli animali negli allevamenti in Rwanda.
Posizionando strategicamente negli allevamenti dei sensori per monitorare parametri ambientali chiave come temperatura, umidità e livelli di gas di ammoniaca, oltre a catturare i suoni dei polli, gli allevatori possono adottare misure basate sulle previsioni ricavate dai dati per proteggere la salute e il benessere degli animali, facilitando inoltre il rilevamento precoce di potenziali problemi.

Sulla lotta alla corruzione in Tanzania. Le soluzioni attuali, basate principalmente sui tradizionali meccanismi legali e di audit, faticano a far fronte alla portata e alla complessità delle pratiche corrotte. Il sistema di IA proposto […] dovrebbe elaborare i dati sugli appalti, inclusi documenti di gara, valutazioni e casi di corruzione, per rilevare irregolarità e assegnare una percentuale di probabilità di corruzione […]. Offrire uno strumento anticipatorio consente al Prevention and combating of corruption bureau (Pccb) di adottare misure preventive contro le attività corrotte, migliorando così la trasparenza e garantendo la conformità durante tutto il ciclo di vita degli appalti. […] I vantaggi di questo approccio riguardano il potenziale per il rilevamento della corruzione in tempo reale, l’analisi automatizzata dei documenti e una migliore allocazione delle risorse investigative. Gli svantaggi riguardano invece la difficoltà nella raccolta dati iniziale, possibili pregiudizi nei modelli di intelligenza artificiale e la necessità di competenze tecniche continue e aggiornate.

Sulla prevenzione degli incendi in Malaysia. Il Fire weather index (Fwi), o Indice meteorologico di pericolo d’incendio, è utilizzato in tutto il mondo per stimare il pericolo di incendi@. Nel caso d’uso della Malaysia, invece di usare i dati su temperatura e piogge, come fa il modello esistente, si stima il Fwi – in particolare uno dei sotto indici che lo compongono, il drought code (Dc, indice di siccità) – usando i dati raccolti da strumenti dell’«Internet delle cose» (come sensori, stazioni meteo) su un altro parametro, il livello delle acque sotterranee (Ground water level, Gwl), per poi elaborare i dati attraverso l’apprendimento automatico (machine learning, cioè quella branca dell’intelligenza artificiale in cui – con tutte le virgolette che abbiamo a disposizione – le macchine imparano dalla loro stessa esperienza). Il risultato mostra una correlazione molto alta con i dati osservati dal sistema meteorologico nazionale, rivelandosi quindi piuttosto accurato.

Lieta, comunque, di ricevere domande così circostanziate e stimolanti, che danno anche a me una bella occasione per approfondire ancora.

Chiara Giovetti
07/10/2024


Pdre Fernando Paladini a Pawa, Isiro, allora Zaire, gennaio 1983 (Gigi Anataloni)

Ad-dio, padre Fernando Paladini

Non dimenticate mai
di salutare bene le persone.
Non fatevi travolgere dal tempo che inghiotte ogni relazione.
Ho lasciato che succedesse a me,
e non dovrà capitare più.

Io e padre Fernando Paladini ci conoscevamo da 34 anni: avevo 14 anni ed è stato il primo dei tanti missionari che ho incontrato nella mia vita. Quello che ha acceso il fuoco della missione nel cuore di una ragazza che cercava un senso per la sua vita.

Ci siamo scritti a lungo quando era in Congo, quando ancora non c’erano i cellulari o whatsapp e si usavano la carta e la penna. Ogni sua lettera era una festa per me: odorava di Africa, aveva l’ennesimo francobollo per la collezione del mio caro papà. Poi, è rientrato in Italia. E io intanto crescevo e mi alimentavo di sogni e di amore per l’umanità. Persone speciali come lui hanno contribuito a farmi diventare quella che sono, mi hanno dato le ali per volare al di sopra di tutto ciò che, di fronte alla povertà e alla passione, diventava sempre più piccolo. Grazie a lui e a chi credeva fortemente in Dio e nei grandi ideali, ho trovato sempre più la mia strada, dove non sono mai stata sola.

Padre Fernando mi chiamava ogni anno il 10 dicembre, per farmi gli auguri per l’onomastico. Non si ricordava quasi nessuno della Madonna di Loreto, ma la sua telefonata arrivava puntuale e fedele come un regalo, con benedizione finale e il classico saluto («Arrivederci ad ogni Eucarestia»).

Quest’anno non mi chiamerà neanche lui. Se ne è andato senza che io lo sapessi. Avrei dovuto essere più presente anch’io.

E invece ho lasciato che gli impegni, le corse, gli affanni quotidiani decidessero per me e per il nostro non saluto.

Ad-Dio, padre Fernando. Ricorderò sempre la tua risata, il tuo entusiasmo, il tuo legame profondo con l’Africa e con il tuo Istituto.

Eri fiero e felice di essere un missionario della Consolata, e sono sicura che domenica 20 ottobre, dal Cielo, ci hai sorriso quando Giuseppe Allamano, il tuo fondatore, è stato proclamato santo.

Grazie infinite per tutto.

Spero che le mie figlie, così come tutti i ragazzi di oggi possano fare incontri come il mio. Di quelli che ti cambiano l’esistenza e le visioni. Di quelli che ti aprono le braccia, gli occhi, la mente.

La maggior parte degli YouTuber e degli influencer non ha niente da dirci. Tu, semplicemente, mi hai toccato il cuore.

Loredana Brigante
19/10/2024

Padre Fernando Paladini, nato a Leverano (Lc) il 25/01/1944, ordinato sacerdote missionario della Consolata il 14/08/1974, nel 1978 parte per il Nord dello Zaire (nella foto è a Pawa nel 1983) dove rimane con breve intervallo, fino al 2016. Rientrato in Italia, ha concluso il suo viaggio missionario il 22/09/2024.




Quando «piccolo» è grande


Sorino, chi è costui? Come don Abbondio con Carneade, forse ci facciamo questa domanda, visto che oggi il suo nome è sulla bocca di tutti dopo che Giuseppe Allamano è stato riconosciuto santo per aver guarito proprio lui.
Ma al tempo del miracolo, trent’anni fa, Sorino era per noi un signor nessuno. Uno Yanomami inesistente, uno dei tanti indigeni dell’Amazzonia che l’anagrafe del suo Paese ignorava (e continua a ignorare). Un signor nessuno, che però è diventato segno di vita e speranza per tutti gli ultimi della terra.

Come lui, anche quel bambino nato 2030 anni fa in una stalla di Betlemme era nessuno. Amato, però, curato e protetto dai suoi genitori e accolto dai marginali della storia, i pastori. Era un bambino inerme, Gesù. Eppure da subito ha dato fastidio ai potenti del tempo che hanno cercato di eliminarlo.

Quel nessuno, finito in croce come uno schiavo, è oggi Luce del mondo, Parola di vita, Via alla più vera e autentica umanità, quella a misura di Dio.

Sorino era un nessuno per il mondo, ma un unico per Dio il quale, complice Giuseppe Allamano, lo ha fatto rinascere alla vita dopo un terribile incontro con un giaguaro nel fitto della foresta amazzonica, lontano dagli occhi di tutti.

Là il Signore ha voluto porre un segno della santità di Giuseppe Allamano, per confermare ancora una volta il senso più vero del suo sogno missionario: un miracolo in favore di un nessuno e un non cristiano per ricordare che la Buona Notizia trova la sua realizzazione nei più poveri, umili e dimenticati della terra. È là, nella piccolezza e nel nascondimento, che nasce il mondo nuovo, non nei palazzi degli Erode di ieri e di sempre e neppure nei templi (stadi, arene, platee social) dei nuovi idoli di oggi.

Il piccolo seme del futuro cresce in mezzo agli ultimi della terra. Come un tempo la più radicale rivoluzione è iniziata con un bambino figlio di umili lavoratori di un villaggio di periferia, che da adulto è stato ucciso come uno schiavo su una croce piantata fuori dalle mura della città, così ora la guarigione di Sorino ci ricorda che la vera luce per il mondo continua a germinare nella piccolezza e nelle periferie.

I piccoli e i «nessuno» del mondo diventano maestri di vita, come la bimba di nove anni che si carica sulle spalle la sorellina di cinque ferita dalle bombe a Gaza per portarla all’ospedale.

Dio ha sempre avuto un occhio speciale per i nessuno di questo mondo. Grazie a essi ha scritto la storia della nostra salvezza. Basta ricordare Noè, Abramo, Giuseppe, Davide, Geremia, Ester, e tanti altri fino a Maria e Giuseppe, Giovanni Battista, gli apostoli, e fino a noi.

Mi colpisce la bellezza della logica del nascondimento e della piccolezza che unisce la nascita di Gesù e il miracolo accordato a Sorino.
È una potente contestazione dell’apparire, dell’ostentazione, del protagonismo, della voglia di imporsi e dominare che ha contagiato il nostro mondo. È l’antidoto alla tentazione di richiudersi in se stessi, di difendere i propri confini, di vedersi al centro di tutto. È un invito a guardare oltre, ad aprirsi alla sorpresa, a superare le paure dell’altro.

Sorino, una volta guarito, è diventato, insieme a sua moglie, «casa di accoglienza» per tanti bambini orfani, spesso resi tali da malattie e uccisioni provocate dall’invasione dei territori indigeni da parte di chi vuole rapinarne le risorse. Una risposta di squisito amore ai bisogni del suo popolo.

Il bambino di Betlemme ha portato nel mondo una nuova proposta di vita che insegna agli uomini a scoprirsi veri fratelli e sorelle, tutti figli e figlie dello stesso Padre.

San Giuseppe Allamano ha mandato nel mondo i suoi missionari e missionarie per continuare questa rivoluzione, per rendere reale il sogno di Dio di un’umanità che viva nella pace e nell’amore qui e ora, nell’attesa della grande festa di famiglia che ci aspetta in cielo, la sua casa.

Una rivoluzione senza armi e violenze, nella quale «il bene è fatto bene» a favore di tutti da persone che «prima sono sante e poi missionarie».