Beirut. Dahye, quartiere della capitale libanese, mercoledì 27 novembre, primo giorno di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah. Migliaia di uomini, donne e bambini, sfilano con i propri mezzi di trasporto sventolando le bandiere del Libano e quelle di Hezbollah («Partito di Dio»). Ragazzi più giovani, armati di pistole e kalashnikov, esultano sparando per aria. I giornalisti, per la prima volta dall’inizio dei bombardamenti a Beirut, sono stati invitati per un «tour» attraverso il quartiere. Non va dimenticato, infatti, che nei quartieri a maggioranza sciita non si fa nulla con gli accrediti ufficiali rilasciati dal governo libanese: qui decide tutto Hezbollah. Questa parte della città era rimasta inaccessibile per due mesi.
Dahye (anche conosciuta come Dahiyeh) è una delle roccaforti principali di Hezbollah, e per questo, una delle aree più colpite dai raid israeliani. È qui che, il 27 settembre, è stato ucciso Hassan Nasrallah, terzo segretario del «Partito di Dio».
Nel cuore della manifestazione, incontriamo Rana El Sahily, portavoce di Hezbollah. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nel partito ci sono molte donne. «Nonostante il dolore per le tantissime perdite – ci racconta Rana -, per noi questo è un giorno di vittoria. Vittoria, perché Israele non è riuscito a invadere il nostro territorio. Vittoria, perché non ci siamo piegati ai loro attacchi e non ci siamo mai arresi. Se avessero continuato questa guerra, avrebbero perso innumerevoli risorse, ma senza ottenere alcun risultato. Per questo, Israele ha accettato il cessate il fuoco. Noi speriamo che questa pace possa durare, anche se gli israeliani, nella storia, non sono famosi per tenere fede alla parola data. In questo caso però, rompere la tregua sarebbe solo a loro svantaggio. Sono loro che hanno tutto da perdere. Per noi adesso comincia la ricostruzione. Ricostruiremo tutto come prima, anzi meglio di prima».
Oggi si festeggia, ma le strade mostrano tutti i segni pesanti della devastazione. Molte case, scuole e infrastrutture sono state completamente cancellate. L’aria, piena di polvere e detriti, è quasi irrespirabile se non si indossa una mascherina protettiva.
Beirut, in questi mesi, è stata l’ombra di sé stessa: locali chiusi, le strade centrali del souq deserte. Scuole, palestre e anche hotel: tutto è stato riconvertito a rifugio per gli evacuati. Per due mesi si è vissuto con l’incessante suono dei droni sopra le teste e la paura degli attacchi che, puntualmente, arrivavano ogni notte.
Nei giorni successivi alla dichiarazione del cessate il fuoco, per strada si sono riversati centinaia di furgoncini e macchine stracolme di bagagli: erano le famiglie che tornavano a casa. Sono stati più di un milione i libanesi che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni a causa del conflitto.
Molti però, al loro ritorno, non trovano più nulla. A Chiyeh, altro quartiere di Beirut a maggioranza sciita e massicciamente colpito, incontriamo due donne. Sono ferme davanti ad un cumulo di macerie. Fino a quattro giorni fa, qui c’era la loro casa. Quello che era un condominio di sette piani, ora è una pila di rovine alta qualche metro.
Una di loro, la più giovane, racconta: «Siamo dovuti fuggire così in fretta durante i bombardamenti, da non avere avuto il tempo di prendere niente. Non abbiamo più nulla. Tutto quello che possediamo ora, è solo quello che portiamo addosso».
La signora più anziana, tra le macerie, trova una foto di famiglia. La cornice è distrutta ma l’immagine è ancora intatta. La ripulisce, la bacia, e se la stringe al petto. Oggi, nuovi attacchi Israeliani registrati a Sud, mettono nuovamente in dubbio la durata del cessate il fuoco. Malgrado questo, malgrado le grandi divisioni sociali e religiose in Libano, tutti cercano di aiutarsi l’un l’altro superando le proprie diversità e paure. Tutti lavorano insieme pregando che, questa volta, la pace possa essere duratura. Mentre giungono i primi echi del riaccendersi della guerra civile nella confinante Siria.
Angelo Calianno da Beirut
La guerra dentro
Il volume mette in luce le radici affettive della guerra. Quali sono i meccanismi psicologici che inducono a sostenere o rifiutare la violenza armata? Si può considerare tramontata la cultura del «mors tua vita mea»? Alcuni studiosi sostengono di sì.
Il titolo del volume curato da Diego Miscioscia e pubblicato dalle edizioni la meridiana incuriosisce: «La guerra è finita». Ma come? Con tutti i conflitti che ci sono.
«La tesi di questo libro – si legge all’interno – è che sia possibile prefigurare un percorso culturale capace di potenziare alcune funzioni mentali la cui maturazione, in sostanza, possa rendere non più praticabile promuovere o condividere conflitti violenti».
Quello che stiamo vivendo è un tempo in equilibrio sull’orlo di un’estensione incontrollata delle guerre in corso, fino al rischio atomico. È quindi necessaria una riflessione su quali possano essere gli elementi di un percorso diverso che metta la guerra fuori dalla storia e realizzi processi di trasformazione costruttiva dei conflitti e di pace positiva.
Il mondo interno e la guerra
Il testo utilizza punti di vista scientifici diversi (dalla biologia, alla psicologia, alla storia), e parte da un’analisi degli studi psicoanalitici sulle cause della guerra. Questo per mostrare che, nel corso del Novecento, il sistema guerra è entrato in crisi a causa della sua irrazionalità e distruttività, e a causa della sua inefficacia nel risolvere i conflitti. Ma anche per mostrare, allo stesso tempo, che in tale contesto, si sono sviluppate le competenze mentali della pace.
Interessante e opportuno il capitolo di Martina Miscioscia sui conflitti e le pratiche di convivenza tra alcune specie animali. Esso mostra strategie di sopravvivenza orientate più alla cooperazione che alla distruzione del competitore: ci sarebbe molto da imparare dal cervo nobile o dagli scimpanzé bonobo.
Il riferimento teorico più forte è, però, quello ai lavori dei due psicoanalisti italiani Franco Fornari e Luigi Pagliarani che, circa 60 anni fa, elaborarono le prime riflessioni relative a come affrontare il rischio atomico, a partire dall’attivazione delle risorse interiori e dalla presa di coscienza delle responsabilità di ciascuno.
Se la guerra, infatti, «è un fenomeno complesso sostenuto da interessi economici, politici e geopolitici enormi e che muove interessi specifici da riconoscere e da esplorare», essa «si innesta anche su […] dinamiche psicologiche che riguardano i nostri sistemi di relazione ed il mondo interno di ciascuno».
Questa dimensione psicologica ci aiuta a comprendere alcuni processi di sostegno alla violenza e alla guerra, e anche il fatto che, per costruire una solida cultura di pace, è necessario lavorare sul mondo interiore che muove i comportamenti di ciascuno.
Il volume, perciò, mette in luce le radici interiori della guerra, riferendosi alla teoria dei codici affettivi elaborata da Fornari. Essa sostiene che i valori e le motivazioni personali nascono da logiche sentimentali diverse che fanno riferimento al mondo familiare: il codice materno, paterno, fraterno, il codice del bambino e quelli sessuali, virile e femminile.
«In sostanza, l’inconscio, attraverso i codici affettivi, aiuta l’uomo a muoversi nel mondo e a cercare di capire quale sia il valore affettivo più utile alla sopravvivenza», si legge nel testo.
È però importante che si realizzi una sorta di «democrazia affettiva», una «buona famiglia interna» che integri e armonizzi i codici diversi, evitando che qualcuno di essi si radicalizzi, come avviene, ad esempio, nella cultura patriarcale che estremizza il codice paterno.
È questa «condizione intrapsichica di integrazione e armonizzazione tra i codici affettivi che rappresenta l’unica base psicologica per una cultura di pace».
Nel corso dell’ultimo secolo alcuni passi nella direzione di uno sviluppo delle competenze mentali della pace sono stati fatti.
Miscioscia individua tre condizioni significative: il rischio della guerra atomica dopo il 1945, che ha fatto percepire come obsoleto il mito della guerra e dell’eroe guerriero; la crisi della cultura patriarcale; la globalizzazione economica, che ha fatto sentire a molti di essere cittadini del mondo più che di nazioni.
Naturalmente la strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è segnata: la creazione delle Nazioni Unite e l’articolo 11 della nostra Costituzione ne sono due esempi.
Via la guerra dalla storia
Poiché la mente umana è influenzata da ambiente, educazione e cultura, «un cambiamento interiore orientato verso una cultura di pace […] dovrà essere favorito da profonde riforme sociali e culturali, ma anche da nuovi sistemi di sicurezza nei rapporti tra le nazioni».
Nella terza parte del volume si individuano le azioni collettive che possono incidere sui processi mentali dei singoli: favorire il sentimento di essere parte di una comunità; educare con metodi nonviolenti anziché repressivi; narrare la storia come storia del mondo e delle sue civiltà, delle lotte di resistenza civile e di costruzione della pace con mezzi pacifici, invece che come celebrazione di conquiste ed eroi.
L’ultimo capitolo, di Valeria Cenerini, fornisce indicazioni su come parlare di guerra ai bambini, cosa significa educare alla pace, come coltivare empatia, democrazia e dialogo a scuola.
«Il contributo più importante che abbiamo voluto dare in questo libro è segnalare una necessità […]: quella del cambiamento personale verso la democrazia affettiva. Altrimenti l’idea di pace resterà un’utopia […]. Si tratta di capire che la cultura del passato, quella della guerra e del mors tua vita mea è finita. Si tratta, con l’ausilio di esperti, educatori, psicologi, e sociologi, di acquisire nuovi modelli mentali».
Quello fatto da Diego Miscioscia è un lavoro ricco e importante. La presenza di alcune imprecisioni storico culturali che potevano essere evitate da una più rigorosa revisione delle informazioni, nulla toglie al suo valore. Per fare solo due esempi: Aldo Capitini ha fondato il Movimento nonviolento nel 1962, non nel 1952; il Mean non è tra le associazioni promotrici della campagna «Un’altra difesa è possibile» per la costituzione del Dipartimento della difesa civile non armata e nonviolenta, e nemmeno la Rete italiana pace e disarmo, la quale si sarebbe costituita dopo l’inizio della campagna dall’unione della Rete della pace con la Rete italiana per il disarmo, queste sì promotrici della campagna.
L’augurio è che il libro abbia molto successo e che nelle prossime ristampe si possano rivedere queste sviste, perché è uno strumento davvero prezioso.
Come si legge anche nel Preambolo della Costituzione dell’Unesco (firmata nel 1945): «Poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che bisogna costruire le difese della pace», ed espellere per sempre la guerra dalla storia.
Franco Fornari, Psicanalisi della guerra, Feltrinelli, Milano 2023, pp. 288, 24,00 €.
Luigi Pagliarani, Violenza e bellezza. Il conflitto negli individui e nella società, Guerini e Associati, Milano 2012, pp. 111, 13,50 €.
Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2011, pp. 634, 11 €.
Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1992, pp. 656, 13 €.
Antonella Sapio, Per una psicologia della pace, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 944, 58 €.
Franco Fornari, Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, Milano 1969.
Un rifugio nel deserto
Nel deserto, una donna fugge. Il cielo sopra di lei ha perso un terzo delle stelle. Dietro, una bestia la insegue: voleva divorare suo figlio, ma non è riuscita, e ora è furiosa (Ap 12).
La Terra vive un tempo di travaglio e di grandi conflitti. Il cosmo intero pare vacillare. I rifugi che le donne e gli uomini conoscevano sono crollati. E chi si trova nella tempesta non sa orientarsi. È il nostro tempo.
La donna alza lo sguardo al cielo mentre attraversa quel suolo arido. Ripensa ai molti occhi del drago che poco prima attendeva, di fronte a lei, la nascita del nuovo re.
Ricorda le doglie del parto. Il suo travaglio, come il travaglio dell’umanità che ogni giorno genera nel sangue vita nuova. Il suo timore, come il timore dell’umanità che prega perché la vita generata non sia inghiottita dalla morte.
La donna corre nella polvere e sente il nemico avvicinarsi. Il serpente antico alle sue spalle sibila come un seduttore e un accusatore dalle lingue infinite.
La donna si sente sollevare. Le sono state date le due ali della grande aquila. Allora la bestia vomita un fiume per travolgerla, ma la terra spalanca la sua bocca e inghiotte le acque.
La donna giunge al rifugio che Dio ha preparato per lei. È un deserto di abbondante nutrimento. Chi volesse rifugiarsi con lei ne avrebbe per sé e molti altri, e lei chiama.
La bestia si apposta altrove, in attesa di aggredire altri figli generati dallo stesso amore.
E la donna fa memoria di suo figlio: i lineamenti amabili che mai avrebbe voluto lasciare andare; il suo rapimento verso l’alto; la salvezza in Dio. Avesse tenuto per sé il frutto del suo grembo, non sarebbe stato dono per tutti. Ha generato vita per la vita di ciascuno, e il suo rifugio, precario, nel deserto, senza bellezza né apparenza, è un asilo aperto per ogni esule.
Il bambino stesso, il Figlio dell’Altissimo, è quel rifugio, è quelle ali di aquila, è nutrimento e seme e terra. È vita nuova che germina.
Perché il Signore che nasce sia rifugio nella tempesta. Buon avvento e buon Natale.
da amico, Luca Lorusso
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Disabilità e sviluppo, progressi insufficienti
Nel mondo, una persona ogni sei ha una disabilità significativa e i numeri sono in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione, delle pandemie, delle catastrofi naturali e delle guerre, mentre i progressi verso l’inclusione sono ancora insufficienti.
N el 2021, la principale causa di disabilità nel mondo sono stati i disturbi neurologici. Lo riportava lo scorso marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riferendo i risultati di uno studio@ pubblicato su The Lancet Neurology, autorevole rivista scientifica britannica, secondo il quale dal 1990 la quantità complessiva di disabilità, malattia e morte prematura causati da problemi neurologiche è aumentata del 18%.
Le prime dieci patologie neurologiche che hanno causato perdita di salute sono ictus, encefalopatia neonatale, emicrania, demenze, neuropatia diabetica, meningite, epilessia, complicazioni neurologiche dovute a parto prematuro, disturbi dello spettro autistico e tumori del sistema nervoso. Oltre otto su dieci dei decessi e della perdita di anni di salute per cause neurologiche si verificano nei Paesi a basso e medio reddito reddito dove il numero di professionisti di neurologia è 70 volte più basso che in quelli ad alto reddito.
Nel complesso, considerando anche patologie diverse da quelle neurologiche, la disabilità è diffusa nel 16% della popolazione mondiale. Una persona ogni sei, per un totale di 1,3 miliardi.
Concetto in evoluzione
La disabilità, si legge sul sito dell’Oms@, è un aspetto della condizione umana, una sua parte integrante. È anche un «concetto in evoluzione», chiarisce la Convenzione Onu del 2006 per i diritti delle persone con disabilità, ed è il risultato dell’interazione fra problemi di salute e fattori personali e ambientali, fra i quali atteggiamenti negativi, trasporti ed edifici pubblici inaccessibili e sostegno sociale limitato. Per questo l’equità sanitaria per le persone con disabilità – cioè il diritto di raggiungere il miglior stato di salute possibile per loro – è una priorità per lo sviluppo. La giornata internazionale delle persone con disabilità, che ricorre il 3 dicembre di ogni anno dal 1981, è nata per promuovere i diritti e il benessere di questo 16% dell’umanità e quest’anno ha come tema «Rafforzare la leadership delle persone con disabilità per un futuro inclusivo e sostenibile»@.
Gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) rilevanti per la disabilità sono almeno cinque e riguardano l’istruzione, il lavoro, la riduzione delle diseguaglianze, gli insediamenti umani e il rafforzamento del partenariato mondiale per raggiungere gli obiettivi.
Tuttavia, Ulrika Modéer dell’agenzia Onu per lo sviluppo, Undp, e José Viera, della International disability alliance, constatavano nel 2023 sul blog di Undp@ che i progressi sono deboli sulla metà degli obiettivi, mentre su un altro 30% degli obiettivi si registrano regressi. Ad esempio, riferisce il rapporto 2024 sui progressi verso il raggiungimento degli Sdg, solo la metà delle scuole primarie e il 62% delle scuole secondarie hanno infrastrutture di base per studenti con disabilità; inoltre, se i dati mostrano maggiori tassi di violenza da parte del partner nei confronti di donne disabili, la mancanza di dati statistici precisi impedisce di definire le reali dimensioni del problema@.
Disabilità e ferite di guerra
Anche i conflitti armati hanno un ruolo significativo nel generare nuove disabilità. Solo per fare alcuni esempi limitati alle guerre in Ucraina e a Gaza: lo scorso maggio il sito Politico.eu riportava@ che, secondo il ministero per le politiche sociali ucraino, dopo l’invasione russa del febbraio 2022 le persone con disabilità nel paese erano aumentate di 300mila e oltre 20mila avevano subito amputazioni. Il ministero che si occupa dei veterani, inoltre, calcolava che il numero di questi e i membri delle loro famiglie che potrebbero avere bisogno di assistenza a causa dei traumi fisici o psicologici arriverebbe a 5 milioni.
Anche a Gaza la guerra ha causato moltissime lesioni traumatiche: usando i dati raccolti e condivisi dai medici di emergenza dal 10 gennaio al 16 maggio 2024, l’Oms ha stimato@ il numero di lesioni gravi e calcolato che circa un quarto dei 95.500 feriti trattati – ovvero circa 22.500 persone – ha probabilmente bisogno di riabilitazione intensa e continua. Le lesioni agli arti sono quelle più numerose (15mila casi) e si stimano anche fra le 3mila e le 4mila amputazioni, oltre 2mila gravi lesioni alla testa e al midollo spinale e altrettante ustioni gravi.
Il conflitto armato non solo genera nuove disabilità, ma colpisce in modo più grave chi ne ha già una. Un rapporto@ sulla situazione a Gaza pubblicato a settembre di quest’anno da Human rights watch, Ong internazionale per la difesa dei diritti umani, riporta che 98mila bambini di Gaza vivevano con una disabilità già prima dell’inizio della guerra e racconta le storie di alcuni di loro. Ad esempio, quella di Ghazal, una quattordicenne con paralisi cerebrale, che ha dovuto fuggire con la sua famiglia dal Nord al Sud di Gaza senza i suoi dispositivi di assistenza, distrutti in un attacco che aveva colpito la sua casa. A inizio maggio, Ghazal era sfollata in una tenda a Rafah, senza accesso adeguato all’acqua, al cibo e ai servizi igienici e senza la possibilità di andare a scuola e alle sedute di fisioterapia.
Disabilità e clima
Anche il cambiamento climatico ha il doppio effetto di causare incidenti e ferite che possono provocare una disabilità e di peggiorare la vita di chi già ci convive. L’ufficio Onu per la riduzione del rischio di disastri (Undrr, nell’acronimo inglese) ha realizzato l’anno scorso un sondaggio@ che ha prodotto un totale di 6.342 risposte da 132 Paesi. Dal rapporto che commenta i risultati del sondaggio emerge che oltre otto persone con disabilità su dieci non hanno un piano di preparazione personale per i disastri e una su dieci non ha nessuno che la aiuti a evacuare. Solo un quarto degli intervistati ha detto che sarebbe in grado di evacuare immediatamente in caso di un disastro improvviso e solo il 15% ha partecipato alla definizione dei piani e delle strategie con cui la propria comunità organizza la risposta alle emergenze.
Nel sesto rapporto di valutazione dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, poi, si prevede che il cambiamento climatico causerà una diminuzione del contenuto di micro e macro nutrienti negli alimenti. Questo farà aumentare malattie infettive, diarrea e anemia, portando entro il 2050 un incremento stimato del 10% degli anni di vita condizionati da disabilità (Disability-adjusted life years, o Daly, vedi box) associati a denutrizione e carenze di micronutrienti.
«Qui in ospedale noi rileviamo innanzitutto le malformazioni congenite», spiega la dottoressa Séraphine Nobikana, medica direttrice dell’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu, gestito dai missionari della Consolata nel Nord della Repubblica democratica del Congo. «Altre cause di disabilità sono poi poliomielite, benché l’Oms l’abbia dichiarata eradicata, la meningite e le conseguenze di incidenti stradali o sul lavoro, ad esempio le cadute da 10-15 metri di altezza dei lavoratori che raccolgono i frutti delle palme da olio». Alle persone con disabilità vengono forniti sostegno nutrizionale e farmaci, completa il responsabile dell’ospedale Ivo Lazzaroni, ma non ci sono attività specifiche rivolte a loro, diversamente da quanto accade al centro Gajen di Isiro, capoluogo della regione distante circa 30 chilometri da Neisu. «Qui le attività con le persone con disabilità sono iniziate circa vent’anni fa», conferma fratel Rombaut Ngaba Ndala, che dal 2023 ha affiancato fratel Domenico Bugatti, presente a Isiro dalla fine degli anni Novanta (cfr MC gennaio 2022). Una delle attività è la costruzione di sedie a rotelle, che avviene nel laboratorio del centro. Vi sono poi attività sanitarie e di lotta alla malnutrizione che permettono ad esempio a persone con epilessia – tredici nel primo semestre di quest’anno – di ricevere farmaci e assistenza nutrizionale.
Assistenza alle anziane
Anche in Kenya e Tanzania ci sono attività rivolte in modo specifico alle persone disabili.
A Sagana, in Kenya, i missionari della Consolata gestiscono il villaggio Saint Mary’s, una casa protetta per donne anziane. Il lavoro, spiega la responsabile dell’ufficio progetti in Kenya, Naomi Mwingi, è iniziato nel 1974 con quattrodici donne, e oggi le persone ospitate sono trentotto, di cui tre non vedenti e sedici con difficoltà motorie per le quali sono necessarie sedie a rotelle e deambulatori, mentre diciannove camminano se assistite dal personale. La più anziana ha 94 anni e la maggioranza ha problemi di salute mentale.
Produzione di protesi
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, dal 2016 ha un laboratorio che produce protesi per pazienti che hanno subito amputazioni: fra il 2021 e il 2023 ha prodotto un totale di 149 protesi per le gambe, di cui 116 per pazienti che hanno subito amputazioni sotto il ginocchio e 33 sopra il ginocchio.
Produce, inoltre, altre protesi, ad esempio per piedi, ortesi (tutori), stecche, stampelle e altri ausili, per adulti e bambini. «Nel nostro ospedale», scrive da Ikonda il responsabile padre Marco Turra, «il servizio di assistenza protesica interviene ad aiutare soprattutto le persone che hanno acquisito una disabilità a causa di traumi o malattie croniche come il diabete. Sono in media una cinquantina le persone che si rivolgono a noi ogni anno con questo tipo di richiesta».
Chiara Giovetti
COME SI MISURA LA PERDITA DI SALUTE
Lo studio Global burden of diseases, injuries, and risk factors (Gbd) è il più grande e dettagliato sforzo scientifico mai condotto per quantificare i livelli e le tendenze della salute. Guidato dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, negli Stati Uniti, conta adesso oltre 12mila ricercatori provenienti da più di 160 paesi e territori. È nato nel 1990 come studio commissionato dalla Banca mondiale e la sua più recente edizione (2021) analizza dati e fornisce stime su 371 patologie e ferite e 88 fattori di rischio.I Disability-adjusted life years (Daly) sono gli anni di vita condizionati dalla disabilità: sono stati introdotti proprio dallo studio Gbd del 1990 per definire meglio il peso della malattia, perché la comunità scientifica riteneva che la mortalità da sola non fosse sufficiente per fornire un quadro completo. Un Daly rappresenta la perdita dell’equivalente di un anno di salute piena e si ottiene sommando gli anni di vita persi (Years of life lost, Yll) per morte prematura e gli anni di vita in salute persi per disabilità o per condizioni di salute non ottimali (Years of healthy life lost due to disability, Yld). Secondo il più recente studio Gbd la prima causa di perdita di salute a livello globale sono le malattie cardiovascolari: gli anni di vita corretti per disabilità di cui sono responsabili queste patologie sono 5.428 ogni 100mila abitanti.
Colonia portoghese fino al 1975, poi occupato dall’Indonesia, Timor Est è indipendente dal 2002. È l’unico paese a maggioranza cattolica in Asia assieme alle Filippine. In cerca di una via d’uscita dalla povertà per i suoi 1,5 milioni di abitanti, investe nei giovani.
Alle prime luci dell’alba, João Lima parte, come ogni giorno, dal suo campo, a circa venti chilometri dalla città di Dili, capitale di Timor Est, ufficialmente Repubblica democratica di Timor Leste, per vendere al mercato banane, chicchi di caffè essiccati, ortaggi.
Sul pulmino dai colori sgargianti che si ferma sul ciglio della strada, sale con lui Ricardo, suo figlio undicenne che, in camicia bianca e pantaloncini blu, sta andando a scuola.
Ad accogliere Ricardo c’è suor Albertina, una delle tante religiose impegnate negli istituti scolastici cattolici disseminati sull’isola del Sudest asiatico.
La vita di João è simile a quella di tanti altri piccoli agricoltori che, come lui, nel Paese sbarcano il lunario con fatica e sognano un futuro diverso per i figli. Magari in Corea o in Europa.
Il Paese più giovane d’Asia
La strada che costeggia il mare passando per il porto di Dili e per il piccolo aeroporto Nicolau Lobato, se percorsa in direzione ovest, è una delle poche che oltrepassano il confine terrestre con l’Indonesia, arrivando fino a Kupang, città posta all’estremo occidente dell’isola.
Saliamo a Dili tra colline verdeggianti, campi coltivati, banchetti di venditori ambulanti che fanno capolino qua e là.
L’aeroporto Nicolau Lobato porta nel nome la dicitura «internazionale»: non potrebbe essere diversamente. Infatti, è l’unico scalo del Paese e non esistono «voli domestici».
I due aeroplani che atterrano ogni giorno sull’unica pista vengono uno da Denpasar, sull’isola indonesiana di Bali, e uno dalla città australiana di Darwin.
Sono proprio l’Indonesia e l’Australia le due potenze che hanno avuto – e hanno tuttora – un’influenza determinante nella storia recente della piccola nazione, la più giovane d’Asia, diventata indipendente dall’Indonesia il 20 maggio 2002. La sua popolazione oggi conta 1,5 milioni di abitanti, e i suoi 14.874 km2 di superficie (poco meno del Lazio) si estendono sulla metà orientale dell’isola di Timor, sull’exclave di Oecusse, in territorio indonesiano, l’isola di Atauro e l’isolotto di Jaco.
Le ferite dell’indipendenza
L’isola di Timor fu colonizzata a partire dal XVI secolo da portoghesi e olandesi. Tra il 1859 e il 1914 i due paesi europei si spartirono il territorio in una parte occidentale olandese e in una orientale portoghese.
Era il 28 novembre 1975 quando quest’ultima si dichiarò indipendente. Nove giorni dopo, però, l’Indonesia la occupò per incorporarla nel 1976 come provincia di Timor Timur.
Durante i successivi due decenni, segnati da scontri tra il fronte degli indipendentisti, il Falintil, e l’esercito indonesiano, morirono tra le 100mila e le 250mila persone.
Il 30 agosto 1999, in seguito a forti pressioni internazionali, fu indetto un referendum per l’indipendenza dal quale, il 20 maggio 2002, nacque finalmente la Timor Est indipendente.
La vicenda politica, che ha lasciato una tragica scia di sofferenza – un esempio su tutti, il massacro di Santa Cruz del novembre 1991, che costò la vita a 200 giovani timoresi -, vide indirettamente coinvolto anche la vicina Australia che, nella sua politica di mezzo secolo fa, mascherava di «lotta al comunismo» il suo interesse per le ingenti risorse petrolifere dei giacimenti nel mare di Timor.
Timor Est è ancora oggi alle prese con una lenta ripresa.
Dopo il voto referendario del 1999, le milizie lealiste, sostenute dall’esercito indonesiano, avviarono una campagna punitiva uccidendo circa 1.400 cittadini timoresi e costringendo oltre 300mila persone alla fuga. I gruppi paramilitari pro-Indonesia ebbero l’ordine di lasciare dietro di sé solo macerie prima di ritirarsi nell’Ovest, e Timor Est si ritrovò a dover ricostruire da zero strutture e infrastrutture, classe dirigente e l’intera architettura dello stato.
Giovani e cambiamento
Si tratta di un iter che, dopo più di 20 anni, è ancora in via di realizzazione, mentre il cammino per lo sviluppo implica un cambio di mentalità e di paradigmi sociali ed economici: «La nostra società, essenzialmente agricola e rurale – spiega Joel Casimiro Pinto, frate minore e rettore della Universidade católica timorese São João Paulo II a Dili, primo e unico ateneo nella nazione -, è chiamata a rigenerarsi con la creazione di un tessuto imprenditoriale. E questo processo passa necessariamente dalla formazione dei giovani».
Intitolato a papa Wojtyla, l’ateneo ha aperto i battenti nel 2021 ed è frequentato da 1.700 studenti divisi tra quattro facoltà: scienze sanitarie; scienze umane; ingegneria agraria; scienze dell’educazione, arti e cultura. «Sono molti i giovani che chiedono di essere ammessi: ogni anno abbiamo oltre 1.500 candidati, ma possiamo accoglierne solo 500. Tra i giovani timoresi c’è un grande desiderio di crescere e di contribuire al futuro della nazione», nota il rettore, aggirandosi fiero tra le strutture del campus, attorniato da giovani curiosi ed entusiasti.
L’obiettivo è «fornire un’istruzione di qualità in tutti i settori dell’attività umana e preparare le generazioni future al mercato del lavoro per formare una nuova classe dirigente».
Paese emigrante
Dopo la storica visita di papa Wojtyla nel 1989 – evento che diede energie morali, spirituali e politiche al cammino di Timor Est verso l’indipendenza -, la piccola nazione – unica a maggioranza cattolica in Asia, assieme alle Filippine -, all’inizio di settembre ha accolto papa Francesco nella terza tappa del suo viaggio in Asia e Oceania che l’ha visto sbarcare anche in Indonesia, Papua Nuova Guinea e Singapore.
Dalla sua presenza, e dal suo apprezzamento per una Timor Est in cui «si respira freschezza», il Paese ha tratto incoraggiamento per il suo futuro che già oggi si intravede nelle nuove generazioni. Gli abitanti sotto i 30 anni, infatti, secondo statistiche ufficiali, sono circa il 70%.
Per loro, però, oggi le prospettive di lavoro e di formazione restano limitate. «A causa della disoccupazione – rileva Acacio Domingo De Castro, sociologo salesiano, docente all’ateneo -, molti emigrano verso Corea del Sud, Australia, Europa, e inviano le loro rimesse alle famiglie di origine, per migliorarne le condizioni economiche».
Un esempio è quello di Heriberto del Rio, 25enne che dopo aver studiato lingue, ora si destreggia tra la lingua timorese (il tetun), quella indonesiana (il bahasha), il portoghese, l’inglese e il cinese, e si è trapiantato nella capitale indonesiana Giacarta dove lavora come interprete per aziende locali che operano nell’import export.
Heriberto non intende tornare in patria, e vede il suo futuro all’estero, ma molti altri giovani non hanno le sue stesse possibilità e, d’altronde, la nazione ha bisogno di loro.
«Il governo di Timor Est – racconta De Castro sorseggiando il caffè orgogliosamente prodotto nel Paese – ha messo in campo delle misure per incentivare lo sviluppo e l’imprenditoria giovanile, ad esempio promuovendo nuove tecnologie per l’agricoltura e finanziando micro progetti su tutto il territorio nazionale per attivare piccole imprese e cercare di frenare il fenomeno dell’emigrazione».
Guidato dall’ex capo della resistenza Xanana Gusmao, il Governo di Dili intende creare una Banca per lo sviluppo allo scopo di concedere ai giovani opportunità di microcredito.
«In questo scenario – riprende il rettore -, l’università rappresenta il contributo della Chiesa cattolica per la formazione integrale dei giovani, perché crescano come persone di fede e cultura, animate da valori come pace, tolleranza, giustizia, democrazia, inclusività». E, continua, «perché siano pronti a mettersi al servizio del prossimo, soprattutto dei poveri e dei più vulnerabili, nella logica del Vangelo».
Una «societas christiana»
Quando si parla di «comunità cattolica» a Timor Est, si intende quasi l’intera popolazione. I battezzati sono il 98%, e la vita sociale, politica, culturale dà a un visitatore straniero l’impressione di trovarsi in una societas christiana, in cui i valori della Chiesa influenzano scelte personali e pubbliche. Eppure, solo cinquant’anni fa, nel 1975, era battezzato solo un terzo della popolazione. La crescita esponenziale dei cattolici si ebbe proprio negli anni critici dell’oppressione, quando l’elemento della fede divenne un baluardo, e suore, preti, catechisti restarono accanto a indigenti, vulnerabili, emarginati.
Non si può dimenticare una figura come Martinho Da Costa Lopes (1918-1991), dal 1977 vicario apostolico di Dili, uomo che denunciò più volte apertamente le atrocità commesse dall’esercito indonesiano, anche in colloqui con il dittatore Suharto, allora al potere in Indonesia.
Il suo ruolo risultò determinante quando, incontrando l’allora astro nascente della resistenza, Xanana Gusmao, gli disse che il movimento indipendentista avrebbe dovuto abbandonare l’ideologia marxista per avere successo nella lotta.
Gusmao nel 1988 presentò un documento politico che, scegliendo la strada dell’unità nazionale, sanciva la rinuncia all’ideologia comunista.
L’unico riferimento ideale per la popolazione che lottava per la libertà, allora, restò il Vangelo.
Tutt’oggi, parlando con la gente, guardando la vita delle famiglie, frequentando le parrocchie brulicanti di bambini e di giovani, ci si accorge che la fede cristiana impregna la cultura e la mentalità comune, ed è un fattore che resiste all’inesorabile processo di secolarizzazione e alle sfide delle nuove tecnologie.
Soprattutto colpisce che questo accada nella vita dei giovani che «hanno visione, ambizione e speranza e nella loro vita, in patria o all’estero, laureati o già lavoratori, mantengono viva la fede», spiega il vicario episcopale di Dili, Graciano Santos.
Un segno di tutto questo è il Seminario maggiore interdiocesano a Fatumeta, un quartiere della capitale, dove 300 giovani si formano per il sacerdozio. Altrettanti ragazzi studiano nel Seminario minore, mentre l’Istituto superiore per la filosofia e la teologia «accompagna la crescita culturale di circa 350 giovani, seminaristi, consacrati e laici, ed esprime la missione della Chiesa nel campo della formazione umana e spirituale», spiega il rettore, Giustino Tanec, raccontando che «la visita di papa Francesco si è rivelata un balsamo per i nostri giovani». Inoltre, i giovani migranti che da Timor Est si trasferiscono all’estero per cercare lavoro «sono anche dei missionari, perché portano con sé il loro patrimonio di fede e vivono la testimonianza cristiana con semplicità e convinzione», sottolinea il cardinale Virgilio do Carmo da Silva, arcivescovo di Dili.
Davide tra i Golia
Nella capitale, distesa sulle rive del mare di Timor, i giovani sfrecciano sui motorini e al tramonto si incontrano e socializzano sul lungomare, mangiando pesce arrostito e frittelle di gamberetti, mentre sorseggiano cachaça, un’acquavite di origine brasiliana, prodotta anche in loco. Sognano di lasciare una realtà che è ancora in via di sviluppo, che registra un’alta percentuale di famiglie in condizioni di povertà, con circa il 40% della popolazione che vive con meno di due dollari al giorno e non è alfabetizzata.
È la povertà che si scorge con chiarezza laddove, ai bianchi palazzi pubblici in stile coloniale, fanno da contrappunto, a poca distanza, quartieri di casupole attaccate l’una all’altra e zone dove da poco il servizio pubblico garantisce i servizi essenziali come l’acqua e l’elettricità.
Lo sviluppo e la promozione sociale e culturale della popolazione – nelle città ma soprattutto nelle aree rurali – sono la priorità per Timor Est.
Perseguendo quest’obiettivo, il governo ha chiesto l’adesione all’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean) e, dal 2022, ha ottenuto lo status di osservatore ufficiale e «l’approvazione di principio» per diventarne membro a pieno titolo.
Il Paese spera così di incentivare i rapporti economici con i paesi della regione (l’Indonesia in primis) e di attirare investitori soprattutto in un settore che è ancora in embrione: il turismo.
L’altro grande asset del Paese è costituto dalle sue riserve di petrolio e gas che suscitano l’interesse soprattutto di Australia e Cina. L’Australia, storica partner, in cambio dello sfruttamento dei giacimenti nel mare di Timor prospetta di spendere la propria influenza politica a beneficio di Dili nei rapporti con il blocco occidentale.
Pechino, dal canto suo, entrata con decisione nella competizione, offre l’edificazione di moderne infrastrutture.
L’economia di Timor Est oggi fa affidamento quasi interamente sulle entrate derivanti da quelle materie prime, che compongono circa l’85% del bilancio statale. Sia nel caso dei giacimenti di oro nero, sia per quelli di gas naturale, Dili sta seguendo un principio chiave: dopo l’estrazione, la conduttura deve arrivare a Timor Est, in modo che quelle risorse diventino un volano per lo sviluppo interno e possano generare occupazione e lavoro qualificato, con un impatto sociale ed economico virtuoso in patria.
Timor Est resta un piccolo stato stretto tra i giganti, ma proprio per questo ha attivato un’iniziativa che appare significativa: una rete con altri paesi fragili. È l’iniziativa del gruppo denominato «G7+», organizzazione intergovernativa che riunisce nazioni uscite da un conflitto e che sperimentano vie di ripresa socioeconomica. Con quei 20 paesi di Africa, Asia Pacifico, Medio Oriente e Caraibi, scambia buone pratiche, suggestioni, speranze e prospettive, in un fecondo rapporto di solidarietà e di cooperazione.
Paolo Affatato*
*Paolo Affatato, giornalista e saggista, è responsabile della redazione Asia nell’agenzia di stampa Fides, delle Pontificie opere missionarie. Membro di «Lettera 22», associazione di giornalisti, è autore di reportage e analisi dal continente asiatico. Il suo ultimo libro, edito in italiano e inglese, è Shahbaz Bhatti. L’aquila del Pakistan, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2020.
Bosnia. Se la miniera è a casa tua
C’è il litio, ma anche il carbone. Nuove e vecchie miniere potrebbero stravolgere il territorio del Paese balcanico. La popolazione locale non sta però a guardare.
La questione ambientale s’inserisce in un contesto in cui le divisioni della guerra civile sono ancora vive.
Estate 2024, montagna di Ozren, distretto di Doboj, Repubblica serba di Bosnia.
Oggi, in un campo normalmente adibito a rifugio di montagna e pista da lancio per parapendii, 36 persone – tra cui ingegneri, biologi, attivisti per l’ambiente – si sono riuniti per una missione di ricerca che durerà per tre giorni. Nella squadra, ci sono uomini e donne provenienti da Bosnia, Serbia e Montenegro. L’obiettivo è quello di raccogliere campioni di flora, di acqua, e tracce della fauna di specie a rischio. Si spera che i dati raccolti in questi giorni possano portare quest’area a essere annoverata tra i parchi protetti della Bosnia. Infatti, con questo inserimento si potrebbe forse fermare l’apertura di miniere di nichel, cobalto, rame e, soprattutto, di litio.
Il campo viene inaugurato dal discorso dei due coordinatori dell’evento: Peter Špullovič e Davor Tubič. Ospite, e osservatore speciale del progetto, è Brian Aggeler, capo missione dell’Osce (Organization for security and cooperation in Europe), l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa.
Scoperta e mobilitazione
Grazie al monitoraggio di alcuni residenti e attivisti locali, nell’ottobre 2023 si è scoperto che alcune compagnie minerarie stavano effettuando ricerche per rilevare la presenza di minerali e metalli. Su tutti, il più importante è il litio, componente fondamentale per il funzionamento di molte batterie, soprattutto quelle dei veicoli elettrici.
Queste società di ricerca fanno capo al colosso svizzero Arcore e alla Lycos metal, compagnia con base in Australia e sedi operative in tutti i Balcani. Le ricerche, da parte di Arcore, sono andate avanti per quattro anni senza che nessuno della popolazione locale ne fosse al corrente. Le associazioni ambientaliste, inoltre, affermano che tutto è stato tenuto nascosto ai residenti, ma è avvenuto con il benestare di governo e autorità. Dopo essere stata smascherata, Arcore ha ammesso di aver effettuato queste ricerche e di aver identificato, in una zona che va da Doboj a Lopare, 1,5 milioni di tonnellate metriche di carbonato di litio. Se così fosse, sarebbe uno dei più grandi giacimenti d’Europa. La compagnia svizzera ha assicurato che le estrazioni avverranno usando tecnologie di ultima generazione e che l’impatto ambientale, soprattutto su acqua e suolo, sarà minimo. Nessuno però ha creduto a questa dichiarazione. A maggior ragione, dopo quello che è accaduto a pochi chilometri da qui, in Serbia, quando nel 2022 alla multinazionale Rio Tinto è stata revocata la licenza di scavo a seguito dei danni ambientali provocati nella regione dello Jadar (cfr, MC agosto-settembre 2023).
Le grotte del ragno
Dopo la cerimonia iniziale, ci prepariamo alle prime esplorazioni. Indossiamo stivali ed elmetti per addentrarci nei boschi del Monte Ozren e all’interno delle grotte di Mokra Megara. Questo complesso di caverne è al centro del progetto di salvaguardia dell’ambiente. Le ragioni stanno nella sua storia, nella sua ricchezza di biodiversità, ma anche nella presenza di un ragno.
Il ragno Rhode Stalitoides, specie endemica dei Balcani, è una specie protetta. La sua presenza, in queste grotte, potrebbe diventare il criterio chiave per convertire l’area in un parco nazionale e impedire così i lavori di estrazione.
All’interno del nostro gruppo, si trova anche un sacerdote ortodosso: padre Gravilo Stevanovič. Padre Gravilo è un testimone della presa di posizione della Chiesa ortodossa serba sulla questione ambientale. Essa, infatti, si è apertamente schierata contro l’esplorazione mineraria, dichiarando anche la volontà di acquistare terreni, pur di salvarli.
Montagne di acqua
Come si estrae il litio? Quali sono i pericoli per l’ambiente? Vladimir è uno dei partecipanti al campo di ricerca. In questi anni si è occupato delle campagne contro le estrazioni illegali di carbone e di metalli pesanti. Inoltre, lavora a soluzioni energetiche alternative che possano sostituire i combustibili fossili. Mi spiega: «L’estrazione del litio comporta dei lavori che durano anni. Una volta terminate le operazioni, quello che rimane del territorio è un habitat invivibile per tutte le specie animali e vegetali. Con il metodo tradizionale, si effettuano delle perforazioni nel suolo. In seguito, nei fori, viene pompata salamoia. I minerali estratti vengono quindi lasciati evaporare per mesi e poi filtrati in diverse vasche fino ad ottenere il carbonato di litio. Per queste operazioni serve tantissima acqua: quasi 190mila litri per tonnellata di litio estratto. L’acqua rimasta, dopo i vari filtraggi, viene poi riversata nuovamente nell’ambiente. Queste operazioni di estrazione, ad esempio ad Atacama in Cile, hanno causato la perdita del 65% dell’acqua dolce della regione».
Zoran, ingegnere ambientale e attivista contro l’estrazione di metalli pesanti, racconta la sua storia: «Lavoravo per una compagnia statale di manutenzione degli impianti energetici. Non mi è stato rinnovato il contratto, perché mi sono unito a una Ong per la protezione dell’ambiente.
Nichel e cobalto sono metalli pesanti. Pesanti vuol dire, in questo caso, che l’estrazione e la produzione sono molto dannosi per l’ambiente. Senza dire che contengono molti componenti cancerogeni. Dodici anni fa, in Serbia, si è verificata una situazione simile a quella che ora sta avvenendo qui. In quel periodo, professori universitari e scienziati hanno pubblicato diversi trattati dove si mostra, scientificamente, l’allarmante pericolosità che le estrazioni minerarie comportano per la salute. Per avere un esempio di quello che potrebbe avvenire qui, basta guardare i giacimenti in Australia, Canada e Russia. In queste nazioni, gli scavi si effettuano in aree remote, inabitate, perché appunto pericolosissimi per l’uomo. Nel caso della Bosnia, parliamo di luoghi a ridosso di fattorie e villaggi. Per estrarre i metalli pesanti ci sono due modi: si trivella nel sottosuolo o si usano gli esplosivi. Nel caso del cobalto, anche questo presente nel nostro territorio, viene introdotto nel suolo acido solforico al 100%. Occorrono, inoltre, grandi quantità di acqua durante l’estrazio- ne. Conosciamo tutti i danni che le miniere di cobalto causano in Congo. Lì, dopo l’estrazione, le acque di scarto vengono riversate nell’ambiente, avvelenando le falde. Per 12 anni, ho lavorato a contatto con gli enti che controllavano la qualità dell’acqua, e i danni che le miniere possono causare. Tutta la documentazione prodotta, e poi divulgata al pubblico, è falsa. Tutto dipende dagli investitori, e da quanto sono disposti a pagare per contraffare i dati».
La politica
Quando chiedo se si possa sperare in un appoggio da parte di qualche formazione politica, Zoran mi risponde: «Qui la politica è sempre una questione complicata. Dopo la guerra, nel 1995, i confini sono stati ridisegnati a tavolino. Oggi, quindi, metà di queste montagne si trovano nella Republika Srpska (Repubblica serba della Bosnia), e l’altra metà nella Bosnia Federale. Sono proprio i governi che hanno erogato i permessi alle compagnie straniere. Sono le autorità politiche, quelle che dovrebbero tutelarci, le prime a non farlo. Dal ‘96 abbiamo gli stessi partiti, i principali sono tre, e puoi considerarli tutti di destra, opposizione inclusa. Qualche volta nascono nuovi movimenti, ma sono piccoli e deboli, e comunque vengono visti sempre con sospetto dalla gente. Purtroppo, molti si allontanano dalla politica per rassegnazione. Anche per questo ci troviamo in questa situazione».
Le tre formazioni politiche menzionate da Zoran sono il partito nazionalista Sda (Partito azione democratica), l’Hdz (Unione democratica croata di Bosnia Erzegovina), partito conservatore cristiano e il partito Snsd (Unione dei socialdemocratici indipendenti) considerato più moderato.
Parola di ministra
Dopo una giornata di ricerche, gli attivisti tornano al campo base. Hanno riportato qui decine di contenitori con campioni di roccia, terra, piante e acqua. Tutto verrà inviato ai laboratori per le analisi. Per la notte, ci si accampa sia nelle baite di legno che nelle tende, allestite per l’occasione.
Il giorno successivo, riceviamo una visita speciale: la ministra per l’ambiente e il turismo della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, in carica da circa un anno, la dottoressa Nasiha Pozder. Mi racconta: «Come sa bene, essendo lo Stato diviso in due entità, la situazione politica bosniaca è molto intricata. Io sono, diciamo, fuori dalla mia giurisdizione. Sono il ministro della Bosnia Federale, mentre qui ci troviamo nella parte della Republika Srpska. Mi dispiace essere qui senza la mia controparte locale. Abbiamo sempre un dialogo tra i vari organi politici ma, sicuramente, abbiamo priorità diverse. Io, nella mia carriera, ho sempre avuto a cuore il problema dell’ambiente. Sono qui perché, per noi, la campagna di pressione per ingrandire le aree protette in Bosnia Erzegovina è molto importante. Per legge, almeno il 16% delle nostre aree naturali dovrebbe essere protetto. Siamo appena al 3%. Per questo, annettere luoghi come il monte Ozren, e le grotte di Mokra Megrava, è fondamentale. Spesso, mi viene chiesto perché la politica non ha fatto nulla contro gli scavi e i rilievi illegali. Il perché bisognerebbe chiederlo a chi è stato in carica quando questi sono stati fatti. Non so se gli organi politici sono stati distratti, pigri o disattenti a riguardo, ma, in ogni caso, non hanno agito. Io, appena ottenuta la carica, ho presentato diversi piani per la protezione dell’ambiente. Sono stati tutti approvati dal governo, ma mai messi in atto.
Per natura sono una persona ottimista, anche se la realtà poi mi contraddice. Qualche volta penso di essere arrivata a questa posizione troppo tardi. Oggi, dobbiamo tenere in considerazione che, anche nel momento in cui riusciremo a proteggere un’area geografica, alle grandi compagnie basterà spostarsi di qualche chilometro per cominciare i lavori di scavo. Quindi, il danno ambientale ci sarebbe ugualmente. Una delle cose che potrebbe salvarci, sarebbe entrare in Europa. Facendo parte dell’Unione europea, le multinazionali straniere dovrebbero rispettare alcuni standard ecologici che qui non esistono. Far parte dell’Europa, inoltre, ci darebbe accesso ai fondi per il turismo. Quella potrebbe essere la svolta della Bosnia Erzegovina. Il turismo porterebbe beneficio a tutte le comunità, mentre l’estrazione di minerali solo alle grandi corporation».
Le miniere di litio
Dopo aver passato tre giorni insieme ai ricercatori sulle montagne di Ozren, mi sposto in direzione di Lopare. Questa provincia, se dovessero cominciare i lavori delle compagnie minerarie, sarebbe uno dei luoghi in assoluto più coinvolti dall’inquinamento. È stato qui, in queste valli, che i cittadini hanno scoperto i rilievi minerari segreti. Qui le campagne anti-minerarie e le proteste sono ancora oggi attivissime.
Andrjana, professoressa di lingua e letteratura serba, mi racconta com’è avvenuta la scoperta: «Prima dell’ottobre 2023, non sapevamo niente della volontà di estrarre il litio.
Quando abbiamo sentito le prime voci, abbiamo cominciato a fare ricerche ma non siamo riusciti a trovare nessun progetto ufficiale. Queste ricerche sono state fatte in segreto. Ma, anche se i dati sull’impatto ambientale fossero disponibili, sarebbero finti. Sono redatti dalle stesse compagnie che hanno effettuato le ricerche. Nessuno qui si fida più di quello che ci viene detto, tutti sanno che, al momento dell’apertura delle miniere, nessuno rispetterà gli standard per la tutela dell’ambiente. Subito dopo la nostra scoperta, abbiamo fondato un gruppo d’azione. Nella prima riunione, eravamo appena cinque. Ora siamo in 25. I politici locali all’inizio ci appoggiavano, ma lo hanno fatto solo per una questione di voti. Una volta eletti, sono spariti. Il litio esiste anche in Portogallo, Germania, Austria, ma di certo non vanno lì a scavare. Le compagnie minerarie scelgono la Bosnia perché qui non devono rispettare le norme ecologiche. Quindi, per loro è molto più economico. Qui, approfittano della mancanza di leggi, della facilità di poterle raggirare e del costo estremamente basso delle concessioni governative».
Le miniere di carbone
Già da diversi anni, i bosniaci conoscono bene i problemi che le miniere, ad esempio quelle di carbone, possono causare.
Mi metto in viaggio per Sanski Most. In quest’area sono sei i villaggi coinvolti nell’inquinamento dovuto alle miniere di carbone. Qui opera la compagnia Lager, finanziata in parte dal gruppo cinese Energy China group.
Arrivo a Bistrica, un piccolo villaggio di 700 persone, a pochi metri da un’enorme miniera. Incontro Daniel, allevatore e contadino. Dai suoi concittadini, è stato eletto portavoce del movimento contro gli abusi delle miniere. Anche perché, come mi confessa, nessuna delle autorità ufficiali viene più a far visita qui.
«Abbiamo avuto problemi fin da subito, dall’inizio delle estrazioni. Le esplosioni e le trivellazioni, spinte dai venti, sollevano le polveri che ricoprono le nostre case, i prati dove mangiano le nostre mucche, e i nostri orti. I camion che trasportano il carbone sono spesso sovraccarichi, oltre le 15 tonnellate di eccedenza. Questo distrugge anche le nostre strade. Molto spesso, a causa dei lavori, rimaniamo per giorni senz’acqua e senza corrente. La gente è stanca, perché ha già tentato tutte le vie di protesta ufficiali. Ci hanno sempre ignorato. Quelle volte in cui sono arrivati gli ispettori governativi per l’ambiente, ci hanno detto che andava tutto bene, che tutto era in regola. Ma noi sappiamo benissimo che, anche questi ispettori, fanno parte dello stesso sistema corrotto.
Da circa un anno, la gente di Bistrica si è affidata a me per portare avanti le iniziative di protesta. Al momento, abbiamo intentato delle cause giudiziarie, perché alcune esplosioni hanno causato delle frane sulle proprietà di molti contadini. C’è anche da dire che tutta questa distruzione che vedi a noi non porta nessun beneficio. Il nostro carbone va in Serbia, da lì l’energia prodotta viene venduta agli stati europei. A noi non rimane nulla».
Parlando con molti abitanti di queste zone, tutti mi dicono di aver perso la pazienza e che, se non ci saranno cambiamenti, le proteste non saranno più solo pacifiche. Nei giorni scorsi, sulle ruspe delle miniere di carbone, sono stati trovati dei bossoli di fucile, lasciati come avvertimento. La provincia di Sanski Most, nella sua storia, è stata testimone di tante lotte e tragedie. Qui, nel 1941, c’è stata una delle rivolte più importanti della Seconda guerra mondiale contro l’occupazione nazista. Qui, nel 1944, si è tenuto il principale consiglio antifascista della Bosnia Erzegovina, evento che affermò l’uguaglianza tra musulmani, serbi e croati. Nel 1992, queste valli sono state testimoni del massacro sul ponte Vrhpolje, luogo dove venti uomini bosniaci vennero giustiziati. Questa strage è stata poi annoverata tra i crimini di guerra di Momčilo Krajišnik, leader serbo condannato per l’uccisione e la deportazione dei non serbi dalla Republika Srpska.
Il peso del passato
Durante la mia visita a questi villaggi, un uomo mi ha confessato: «È sempre difficile organizzare proteste qui. È difficile perché, ogni volta, l’opinione pubblica torna con la mente ai fatti accaduti durante la guerra degli anni Novanta. Sembra quasi che le stesse persone che vorrebbero essere più attive abbiano paura di farlo temendo che le loro proteste possano sfociare in una violenza simile a quella già patita durante la guerra. Si ha il timore di rompere un equilibrio di pace che rimane fragile.
Noi però vogliamo andare avanti. Vogliamo toglierci questo marchio di nazione che ha vissuto una guerra sanguinosa. Abbiamo voglia che il mondo venga a scoprire le bellezze di questa terra, e lo possa fare sentendosi al sicuro. Questo potrà accadere solo se il nostro territorio verrà protetto dalla distruzione che le grandi multinazionali stanno causando per i loro interessi economici».
Angelo Calianno
Politica e religione. Musulmani e Ortodossi
La Bosnia Erzegovina è una repubblica presidenziale, a struttura federale, nata dagli accordi di Dayton del 21 novembre 1995, accordi che posero fine alla guerra civile del 1992-1995. Lo Stato è oggi diviso in due entità: la Federazione di Bosnia Erzegovina (occupa 51% del territorio e il 67% della popolazione) con capitale Sarajevo e la Republika Srpska (Repubblica Serba della Bosnia che occupa circa il 49% del territorio, con il 33% della popolazione) con capitale Banja Luka. La religione è un elemento fondamentale della Bosnia. Durante e dopo la guerra, molte persone hanno trovato nella fede un nuovo senso di appartenenza. Il 51% della popolazione è di fede musulmana, quasi interamente sunnita. I cristiani ortodossi sono al 31%, mentre i cattolici al 15%. Il resto della percentuale è diviso in altre minoranze, soprattutto atei e agnostici.
La fede più in crescita risulta essere l’islam. Negli ultimi 20 anni, le statistiche indicano un aumento dei fedeli musulmani dal 44 al 51% della popolazione odierna. Prima del 1990, i musulmani di Bosnia erano considerati poco praticanti. Molti non partecipavano al Ramadan e non osservavano i precetti della propria fede. Addirittura, nella zona di Mostar, molte moschee erano state trasformate in musei. Con il progredire del conflitto, l’islam divenne sempre più importante, tanto che, a un certo punto, quasi tutti i membri dell’armata Armija BiH – l’esercito della Bosnia Erzegovina – erano di fede musulmana. A quasi 30 anni dalla fine della guerra, anche se in alcuni casi la convivenza tra religioni sembra imposta, la tolleranza reciproca è uno degli obiettivi principali dello Stato. Nella Republika Srpska, dove sono state realizzate le interviste per questo reportage, la maggioranza della popolazione – quasi l’83 per cento – è cristiano ortodossa.
An.Ca.
Le difensore. Donne di lotta e resistenza in America Latina
La repressione contro chi difende l’ambiente è in aumento in ogni parte del mondo. Per le donne «difensore» la situazione è addirittura peggiore. Su di loro, infatti, si abbattono anche pesanti discriminazioni di genere. Ecco cosa succede in America Latina.
«L e minacce che ho ricevuto sono molto dure. Ti dicono “Ti stupreremo”. Questo non succede agli uomini. O ti chiamano “puttana”, cosa che non viene detta agli uomini. O ti attaccano nel tuo essere madre. A quel punto scatta un campanello d’allarme molto grave. Che dicano qualcosa a me, lo metto in conto, ma quando minacciano di far del male ai tuoi figli ha luogo un attacco molto pesante, che colpisce dove può fare più male. Queste cose agli uomini non accadono. Non attaccano la loro vita privata, i loro figli, il loro stato civile». Sono le accorate parole della filosofa e avvocata aymara Beatriz Bautista.
Difendere il territorio significa difendere la vita, come ricordano diverse organizzazioni indigene latinoamericane, ma anche rischiare di perderla: secondo l’Ong Global witness, tra il 2012 e il 2023 almeno 2.106 persone sono state uccise nel mondo perché impegnate nella difesa del pianeta. Una ogni due giorni. Dietro a questa cifra allarmante si celano numerosi altri pericoli a cui devono far fronte coloro che si impegnano nella protezione dell’ambiente e del territorio: minacce, persecuzioni e violenze sono infatti molteplici e, secondo diverse organizzazioni della società civile e organismi multilaterali come l’Alto commissionato delle Nazioni Unite per i diritti umani, sono in aumento in tutto il mondo, compresa l’Europa.
Le forme e gli attori della repressione
La repressione a cui sono soggette le persone, le comunità e i movimenti sociali che difendono i diritti ambientali assume molteplici forme, caratterizzate spesso da violenze multidimensionali. Le norme legali e amministrative che limitano le libertà di associazione, espressione e manifestazione ne sono un esempio, a cui si aggiungono la stigmatizzazione e la criminalizzazione, così come l’uso di misure di sicurezza che includono la militarizzazione dei territori e la sorveglianza massiva e selettiva.
Tra gli strumenti repressivi più evidenti vi sono poi minacce, aggressioni, violenze sessuali e crimini di lesa umanità. A queste azioni si affiancano pratiche come il blocco o il ritiro di fondi a movimenti e organizzazioni, la diffamazione tramite campagne mediatiche e sulle reti sociali e l’infiltrazione nelle comunità per frammentare il tessuto sociale.
Le azioni repressive sono promosse da attori statali e da soggetti privati, quali ad esempio gruppi paramilitari, narcotrafficanti e guardie di sicurezza. Inoltre, diverse imprese transnazionali, anche europee, sono accusate di gravi violazioni dei diritti umani e di danni ambientali su larga scala. Tuttavia, malgrado una crescente sensibilizzazione in materia e numerose denunce pubbliche, le misure globali e regionali volte a regolamentare l’operato di tali aziende procedono con eccessiva lentezza o sono poco rispettate. Come nel caso della Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), che sancisce un principio spesso ignorato: il diritto delle comunità indigene a un consenso libero, previo e informato in caso di iniziative che interessino il loro territorio. Inoltre, il progressivo riconoscimento dell’impatto del cambiamento climatico in corso e dell’urgenza di promuovere economie «verdi» e abbandonare i combustili fossili a favore di una transizione energetica non si è tradotto finora in un freno per le politiche estrattiviste. Il crescente sfruttamento delle risorse naturali prosegue infatti senza sosta, generando conflitti in numerose regioni del mondo, spesso a scapito delle comunità locali e indigene: se nel 2019 l’Atlante di giustizia ambientale («Environmental justice atlas» con il quale Missioni Consolata ha un rapporto consolidato, ndr) registrava 2.688 casi di conflitti socio ambientali, oggi questi sono 4.171, con un incremento del 55% in appena 5 anni.
Politiche estrattiviste e donne
Le conseguenze delle politiche estrattiviste non sono neutre dal punto di vista di genere. L’inquinamento ambientale, l’accaparramento di terre e le deforestazioni si traducono nella perdita dei mezzi di sussistenza per molte donne che, tradizionalmente, si dedicavano all’agricoltura e alla cura dell’acqua e dei boschi per garantire la sicurezza alimentare delle proprie famiglie. Come segnala Lina (nome di fantasia), una difensora nicaraguense attualmente esiliata in Costa Rica, «Tutte viviamo della semina. Se non abbiamo la terra, dove possiamo seminare? Il nostro sudore ci procura la sopravvivenza, ci procura da mangiare. ma senza terra, come possiamo farlo? Non possiamo andare a lavorare in ufficio, lì chiedono solo titoli di studio che non abbiamo». L’impoverimento delle comunità, che perdono progressivamente l’accesso ai propri mezzi di sussistenza e vedono stravolta la propria economia, si traduce in un peggioramento delle condizioni di vita complessive. Questo comporta la migrazione di parte degli abitanti, nuove esigenze di cura dei membri più deboli delle famiglie e delle comunità, e rinnovati sforzi per garantire la sopravvivenza del gruppo. Tali carichi ricadono principalmente sulle donne, che si trovano a vivere in contesti di radicato maschilismo, in cui le tensioni sociali prodotte dall’occupazione del territorio comportano spesso un incremento della violenza basata sul genere. Inoltre, ai danni fisici generati dall’inquinamento delle industrie estrattive, delle miniere illegali e delle monocolture, si aggiungono l’impatto emotivo e la sofferenza generati dalla rottura dei processi organizzativo-comunitari e famigliari, la violenza contro la spiritualità delle donne (spesso basata su un rapporto privilegiato con il proprio ambiente circostante) e la violenza contro il loro corpo-territorio.
Per tali ragioni, molte attiviste, oggi riconosciute come «difensore», ritengono di non avere altra scelta se non prendere posizione.
La scelta obbligata e i sogni rimandati
«Siamo obbligati a vivere in resistenza», spiega Marysol García Apagueño, difensora peruviana.
Una scelta che, come ricorda la filosofa e avvocata aymara Beatriz Bautista, «bisognerebbe assumere perché esiste un pianeta e tutti dovremmo esserne difensori. E non solo le persone che vivono qui o che hanno studiato. Questa dovrebbe essere una responsabilità di tutti gli esseri umani che abitano il pianeta».
Una scelta, tuttavia, che ha un costo elevato, come puntualizza la coordinatrice di Contiopac (Coordinadora nacional de defensa de territorios indígenas originarios campesinos y áreas protegidas de Bolivia) Ruth Alipaz Cuqui: «Io sogno di ritornare a una vita in cui non sono difensora. Questo ti fa rimandare i tuoi sogni. Avevo molti altri progetti per la mia vita, cose che desideravo fare, e ho dovuto metterli da parte e rimandarli perché la difesa del territorio è diventata una priorità. E questo ti impoverisce economicamente perché non puoi lavorare, e se lavori devi usare il tuo lavoro per la lotta e la difesa del territorio».
Essere una donna difensora espone, inoltre, a rischi specifici e differenziati rispetto a quelli affrontati dai difensori, perché le violenze a cui sono soggette complessivamente le persone difensore si intrecciano con le discriminazioni di genere. Nelle società in cui viviamo, infatti, le donne che occupano lo spazio pubblico – tradizionalmente maschile – per protestare, mobilitare altri soggetti, organizzare una resistenza, trasgrediscono il proprio mandato di genere e, per tale ragione, sono doppiamente colpevoli: colpevoli di protestare e colpevoli di farlo abbandonando la posizione subordinata e protetta all’interno del sistema di status previsto dal patriarcato. Questo le espone quindi alla violenza, che ha una funzione non solo punitiva ma anche correttiva, e in quanto tale ha sfumature specifiche.
Per tale ragione, Alianza por la solidaridad, una organizzazione non governativa spagnola (membro di ActionAid), ha pubblicato nella scorsa primavera un rapporto che rende visibili i tipi specifici di violenza affrontati dalle difensore del territorio e dell’ambiente a causa del proprio impegno. Il rapporto Mujeres defensoras: voces que no se silencian (Donne difensore: voci che non tacciono) si concentra su quattro Paesi dell’America Latina -Bolivia, Guatemala, Nicaragua e Perù – attraverso le voci di ventuno difensore, «mette in evidenza, da una prospettiva di genere e intersezionale, come secoli di patriarcato, colonialismo, discriminazione e razzismo convergano nella repressione e, di conseguenza, nella violazione sistematica, e per lo più invisibilizzata, dei diritti».
Le donne intervistate nel rapporto appartengono principalmente a popoli indigeni o afrodiscedenti, hanno dai 22 ai 70 anni e livelli educativi e professioni molto diversi: sono ingegnere, pescatrici, avvocate, contadine, sindacaliste, interpreti, dirigenti indigene, infermiere o, più semplicemente, abitanti di luoghi interessati da politiche estrattiviste. Inoltre, partecipano tutte a processi collettivi di resistenza, giacché anche se il discorso sulle persone difensore tende a concentrarsi maggiormente sugli individui piuttosto che sulle lotte collettive, le loro rivendicazioni sono spesso prodotto di azioni comunitarie destinate a proteggere i diritti di tutte e tutti.
Quella è «una poco di buono»
La testimonianza di Beatriz Bautista mette in luce alcune delle tattiche utilizzate per indurre al silenzio le donne difensore, tattiche che diversi studi in materia hanno qualificato come «guerre», poiché non sono mai utilizzate in modo isolato, ma fanno parte di un insieme coordinato di azioni volto a smobilitare, intimidire e zittire qualsiasi resistenza. Le «guerre» a cui si fa riferimento non si limitano alla dimensione fisica, ma comprendono anche dimensioni psicologiche, sociali, giuridiche ed economiche, e il rapporto di Alianza por la solidaridad ne identifica cinque principali.
Una delle più evidenti è la «guerra d’immagine», che implica l’uso di diffamazioni e calunnie per screditare le difensore davanti alle loro comunità e ai propri alleati. Attraverso i media, le reti sociali e i pettegolezzi, si insinuano dubbi sulla loro legittimità come attiviste e come donne, attaccando non solo la loro attività pubblica, ma anche la loro vita privata. Questi attacchi spesso includono commenti sui loro ruoli come madri, mogli o sulla loro moralità sessuale, utilizzando frasi come «è una cattiva madre» o «esce solo perché è una poco di buono». Queste narrazioni non cercano solo di compromettere la loro immagine pubblica, ma anche di generare sfiducia all’interno delle loro comunità, indebolendo il tessuto sociale e la loro lotta collettiva.
La «guerra giuridica» è un altro potente strumento utilizzato per frenare il loro attivismo. Può dispiegarsi attraverso macchinazione giudiziarie e denunce pretestuose contro le difensore o membri delle loro famiglie, arresti arbitrari e la creazione di leggi che limitano la difesa dei diritti. In molti casi, il sistema giudiziario viene utilizzato come un’arma per criminalizzare le difensore, sottoponendole a persecuzioni legali che paralizzano il loro lavoro e generano paura e incertezza, mentre, parallelamente, in caso di aggressioni contro le attiviste, si registra una paralisi diffusa del sistema giudiziario e una conseguente impunità, aggravata dal fatto che l’accesso alla giustizia è storicamente limitato per le donne a causa della discriminazione di genere imperante.
Un’altra strategia è la «guerra sporca», che comprende le forme più brutali di violenza, come l’omicidio, le minacce di morte, la violenza sessuale, le sparizioni forzate e gli sfollamenti coatti. Sebbene gli omicidi siano più comuni tra i difensori uomini, le donne difensore subiscono spesso violenze basate sul genere, come stupri, minacce di aggressione sessuale e attacchi diretti ai loro figli e figlie. Queste aggressioni mirano a demoralizzarle e costringerle ad abbandonare la loro lotta.
La «guerra psicologica» si riferisce alle azioni volte a generare logoramento emotivo e isolamento, per allontanare le attiviste dalla difesa dei diritti. Gli attacchi e le intimidazioni, infatti vanno a colpire di solito non solo le difensore ma anche i famigliari e le persone vicine, compromettendo una loro stabilità emotiva spesso già provata dal vivere in contesti altamente violenti e repressivi, come evidenzia la testimonianza della difensora maya q’eqchi’ María Choc: «Purtroppo è così che viviamo, e questo crea traumi… E poi iniziano le malattie, che hanno anche un costo, giusto? Quindi, quando non hai un lavoro, ma hai bisogno di andare dal medico, e il medico ti dice: “Bisogna controllare le emozioni”. Certo, bisogna controllare le emozioni, ma se viviamo in un paese pieno di violenza, dove siamo perseguitate, e quella routine si ripete giorno dopo giorno, allora è proprio lì che si sente di più il colpo, giusto? A volte ci si chiede: “Perché mi sono messa in queste situazioni?”. [E altri dicono:] “Perché stai vivendo una solitudine così triste, che colpisce costantemente le tue emozioni e poi ti ammali?”».
Infine, la «guerra economica» mira ad attaccare i mezzi di sussistenza delle difensore. Attraverso blocchi finanziari, tagli ai fondi internazionali di supporto a chi difende i diritti umani o la confisca di proprietà, si cerca di privarle delle risorse necessarie per continuare il proprio lavoro. Nel caso delle donne che difendono la terra, la spoliazione dei territori rappresenta la perdita della loro fonte di vita e sostentamento, e colpisce in modo sproporzionato le donne indigene e contadine, che già sono costrette a scontrarsi con barriere economiche storiche.
Una strategia multidimensionale
Le difensore dell’ambiente e del territorio non affrontano quindi solo attacchi fisici o verbali, ma sono bersaglio di una strategia multidimensionale che include la diffamazione, l’uso della giustizia come strumento di repressione, la violenza fisica e psicologica, e il blocco delle risorse.
Tali strategie mirano non solo a silenziarle, ma anche a distruggere il tessuto sociale che esse proteggono. Tuttavia, nonostante queste aggressioni, molte continuano a lottare per la giustizia, sostenute dalla solidarietà e dalla sorellanza di altre donne, consapevoli che il loro attivismo è cruciale per il futuro delle loro comunità e del pianeta giacché, come ricorda Atenea (nome di fantasia), difensora nicaraguense: «Se io mollo, lascio in eredità questo problema alle future generazioni. E non sono attrezzate. Io non posso lasciar loro un compito che oggi spetta a me. Loro avranno i loro compiti, più avanti, quando sarà il momento di assumersi o meno le proprie responsabilità. Perché qui si tratta di decidere di volerlo fare».
Anna Avidano e Francesca Nugnes
Accade in Perù. Machismo, razzismo, esclusione
Lo Stato centrale opera ancora secondo una mentalità coloniale che favorisce le multinazionali e le attività illegali. Ai popoli indigeni rimangono i disastri e le accuse.
«Per 500 anni, la resistenza è stata nelle mani degli uomini e non si è ottenuto nulla. Vediamo se noi donne ci mettiamo di più o di meno, ma devono darci l’opportunità di provare cosa possiamo realizzare, perché stiamo già dimostrando che contribuiamo attivamente alla difesa del territorio e allo sviluppo della nostra comunità», afferma Marisol García Apagueño, presidente della Federazione dei popoli indigeni Kechwa di Chazuta Amazonas (Fepikecha).
Le vere cause della devastazione
L’Amazzonia peruviana copre il 61% del territorio nazionale e comprende il 94% dei suoi boschi, rappresentando un polmone verde fondamentale per il Paese e il pianeta. Tuttavia, tra il 2000 e il 2021, il Perù ha perso 27.746 chilometri quadrati di foresta (più dei territori di Abruzzo, Marche e Molise messi insieme).
Le cause principali di questa devastazione sono l’espansione agricola, le attività minerarie (legali e illegali) e la coltivazione di sostanze stupefacenti.
Il governo peruviano ritiene che l’agricoltura su piccola scala sia il principale motore della deforestazione in Amazzonia, ma recenti studi dell’Enviromental investigation agency (Eia) e della Coordinadora nacional de derechos humanos peruviana denunciano come siano piuttosto l’espansione dell’agrobusiness (in particolare, delle monocolture di palma da olio e cacao) e dell’industria mineraria (stimolata dalla domanda globale di rame e altri minerali necessari per la transizione energetica verso fonti rinnovabili) a causare profondi impatti ambientali e trasformazioni sociali sul territorio.
Le attività estrattive si intrecciano poi con le economie illegali: l’Organismo di supervisione delle risorse forestali peruviane segnala che, nel 2021, oltre il 20% del legname estratto in Perù aveva un’origine illecita e la deforestazione è strettamente legata all’estrattivismo minerario illegale e alla produzione e al traffico di sostanze stupefacenti, due attività con un forte impatto sull’economia locale. Nel 2024, la Unidad de inteligencia financiera ha stimato che le economie illegali in Perù generano oltre 33 miliardi di dollari, quasi la metà del bilancio nazionale.
Secondo la Eia, la distruzione della regione sarebbe conseguenza della mentalità coloniale di una parte dello stato peruviano, che continua a considerare l’Amazzonia come «un territorio vuoto da colonizzare e da cui estrarre ricchezza, mentre si puniscono le popolazioni che si oppongono a tale processo».
I migliori custodi del territorio
Recenti studi, come il rapporto di MapBiomas Amazonía, dimostrano che le popolazioni indigene sono le migliori custodi del territorio regionale: del totale degli ecosistemi distrutti nell’area, appena il 4% faceva parte di territori indigeni formalmente riconosciuti.
Tuttavia, le comunità indigene continuano a incontrare significative difficoltà nel consolidare il riconoscimento giuridico dei propri territori a causa di ostacoli legali, politici e burocratici. Inoltre, la loro strenua difesa del territorio le pone nel mirino di diversi attori, legati alle economie legali e illegali, interessati alle ricchezze dell’Amazzonia: anche se nella regione risiede appena il 9% della popolazione peruviana, 20 delle 22 persone difensore assassinate in Perù tra il 2020 e il 2022 vivevano in Amazzonia, dove si registra – inoltre – il 25% del totale delle aggressioni contro difensore e difensori denunciate a livello nazionale.
Razzismo strutturale e impunità
Nelle comunità indigene dell’Amazzonia, lo Stato centrale è poco presente. Alcune delle difensore intervistate da Alianza por la solidaridad per il rapporto, Mujeres defensoras: voces que no se silencian lamentano che «nella maggior parte delle comunità i servizi di salute ed educazione sono scarsi» poiché, come indica la leader ashánika Magaly Peréz Mendoza, «lo Stato non ci ha mai dato la priorità».
Secondo la presidente della Federazione dei popoli indigeni Kichwa di Chazuta Amazonas, Marisol García Apagueño, questa situazione è il prodotto del retaggio coloniale, che oggi si traduce in un doppio discorso secondo cui le comunità indigene sono le responsabili della devastazione dell’Amazzonia mentre le multinazionali aiuterebbero a proteggere il pianeta: «Limitano l’uso delle nostre pratiche ancestrali, non vogliono che coltiviamo i nostri appezzamenti tradizionali perché dicono che inquinano, ci chiamano “deforestatori”, mentre parallelamente accolgono le richieste delle multinazionali per proiettare una falsa immagine verde nella società attraverso la vendita di crediti di carbonio».
Nel caso di aggressioni contro le difensore, il livello di impunità è molto alto, come testimonia nuovamente Marisol: «Anche se denunciamo, se chiediamo misure di protezione, non c’è alcuna risposta. E quelli che ci minacciano contano proprio su questo. Ci prendono anche in giro: “Denuncia quel che vuoi, tanto non mi succederà niente”. Le denunce e le minacce si accumulano, ma lo Stato non risponde, e noi continuiamo a non avere giustizia».
E lo stesso avviene anche nel caso della presenza di gruppi illegali sul territorio: «Qui a Ucayali siamo invasi dai narcotrafficanti. Ci sono aeroporti clandestini e lo Stato lo sa, lo sanno tutti, ma nessuno fa niente, nessuno. E chi ci rimette? Qui ci viviamo noi», segnala Magaly.
Il senso di abbandono da parte dello Stato è forte, perché, come sottolinea nuovamente la leader ashánika: «A volte lo stesso Stato non adempie ai suoi doveri nei nostri confronti», né per garantire la protezione delle comunità indigene, né contro il narcotraffico, né nel rispetto delle leggi che proprio lo stesso Stato ha stabilito: «Abbiamo la legge sulla consultazione previa, ma è solo una facciata, perché nemmeno loro la rispettano. È vero che noi, come leader, lottiamo, agiamo, e veniamo uccisi per difendere… Noi diciamo: non ci uccidono per il narcotraffico, ci uccidono a causa della difesa del nostro territorio, mentre lo Stato non ci offre protezione né garantisce la nostra vita», chiosa Magaly.
Anche dalla propria comunità
Le minacce alle comunità indigene amazzoniche provengono per lo più da attori esterni al territorio, ma le difensore devono combattere anche contro una profonda discriminazione di genere a livello locale.
Danitza Cenepo, una giovane difensora kichwa, racconta che «molte volte gli uomini non mi lasciavano partecipare nell’organizzazione comunitaria per il fatto di essere donna. Non mi lasciavano andare alle riunioni e mi dicevano: “Ci va un altro Apu [autorità locale, ndr] maschio. Tu che ci fai qui? Occupati della segreteria”».
I tentativi di esclusione si intrecciano con un allarmante fenomeno di violenza basata sul genere, come denuncia la difensora awajún Yanua Atamain: «Una volta le donne erano considerate sacre, meritavano rispetto e tutto il resto… Però oggi i valori sono andati completamente perduti, al punto che, se una donna alza la voce, è facile zittirla. E, se necessario, persino ucciderla, pur di farla tacere».
Combattere per l’equità di genere
Questa situazione preoccupa fortemente le difensore, che ricordano che non è possibile portare avanti la difesa del territorio senza combattere parallelamente per l’equità di genere: «Il territorio è fondamentale per la nostra vita, per la nostra sussistenza e per le generazioni future. Ma cosa fai con un territorio pieno di persone, di donne, che sono sistematicamente uccise? Ha una sostenibilità per il futuro? Non credo. Anche questo fa parte del buen vivir di cui si parla tanto», sottolinea Yanua. E Marisol rivendica il ruolo fondamentale che possono giocare le donne nella difesa del territorio amazzonico: «Qui non abbiamo il diritto di essere autorità o presidenti. In molte occasioni, a quelle che sono riuscite a diventare Apu è stato proibito di indossare la corona o il bastone, e solo chi porta la corona è considerato un’autorità. Tuttavia, anche senza corona o bastone possiamo governare».
Per questo, le difensore dell’Amazzonia si sono organizzate in reti locali per sostenersi reciprocamente e per lottare insieme per l’equità di genere nella regione, consapevoli che quello che stanno ottenendo oggi potrà avere un impatto su tutte, e che la loro stessa lotta si inserisce nel solco aperto da altre donne: «Ciò che conquisto come donna non servirà solo a me, ma a tutte le donne. Sto percorrendo un cammino che altre donne hanno già tracciato, affrontando grandi lotte. Raccogliamo i frutti di quelle donne che hanno fatto il primo passo nelle battaglie per il riconoscimento e la partecipazione femminile», ricorda Marisol.
Anna Avidano e Francesca Nugnes
Amazzonia peruviana. I popoli indigeni
Il popolo Ashaninka è il gruppo indigeno demograficamente più importante dell’Amazzonia peruviana. È composto da circa 118mila persone che abitano 675 comunità, concentrate principalmente nei dipartimenti di Junín, Ucayali, Pasco, Cusco, Huánuco e Ayacucho. Il 40% di queste non è riconosciuta come «nativa» e, quindi, non può accedere al processo di titolazione (cioè di attribuzione dei titoli di proprietà) del proprio territorio. A livello nazionale, altre 55.493 persone si identificano come Ashaninka.
Il popolo Awajún è composto da circa 70.500 persone che abitano 488 comunità, concentrate nei dipartimenti di Loreto, Amazonas, San Martín, Cajamarca e Ucayali. Il 50% di tali comunità non è riconosciuta come «nativa» e non può, pertanto, ottenere la titolazione del proprio territorio. A livello nazionale, altre 38mila persone si identificano come Awajún.
Il popolo Kichwa abita diverse zone dell’Amazzonia ecuadoriana e peruviana. In Perù, la popolazione, di circa 82mila persone, risiede in 498 comunità concentrate principalmente nei dipartimenti di San Martín, Loreto e Madre de Dios. Il 25% di tali comunità non è riconosciuta come «nativa» e non può, quindi, accedere al processo di titolazione del proprio territorio.
A.A. – F.N.
Fonte: Base de datos de pueblos indígenas u originarios dello stato peruviano.
Terre indigene. Riconoscimento arduo
In Perù, la titolazione delle terre delle comunità indigene rappresenta il riconoscimento di un diritto preesistente, dal momento che queste popolazioni abitano i loro territori da tempi ancestrali. Si tratta però di un processo complesso, perché si basa su diversi meccanismi legislativi soggetti a continue riforme, costoso ed estremamente lento: di fatto, per le comunità indigene l’iter di approvazione può durare oltre 20 anni. Questa situazione genera incertezza giuridica nei Territori indigeni non riconosciuti ufficialmente – quasi il 30% del totale – e facilita l’ingresso di attori legati ad attività illecite e l’imposizione di attività estrattive da parte del governo senza rispettare i meccanismi di consultazione previa previsti dalla Convenzione 169 dell’Ilo. Quando coinvolgono le terre indigene, le concessioni estrattive e altre forme di gestione del territorio riconosciute dallo Stato generano conflitti che spesso bloccano il processo di titolazione.
Come sottolineato da Michel Forst, ex relatore speciale delle Nazioni Unite per le persone difensore, queste difficoltà sono tra le principali cause dei conflitti socio ambientali in Perù. I tempi lunghi del processo di titolazione, inoltre, favoriscono spesso le grandi aziende che ottengono il diritto a operare nei territori in poco tempo, a scapito dei diritti delle comunità indigene.
A.A. – F.N.
Accade In Nicaragua. Zittite (e in esilio)
«Volevano distruggerci, ma non ci siamo fermate», afferma Atenea, difensora della costa caraibica del Paese centroamericano. Tuttavia, in molte sono state costrette all’esilio.
In Nicaragua, le donne che difendono i diritti umani e la terra affrontano sfide enormi in un contesto di violenza sistematica e patriarcale. Se sono indigene e afrodiscendenti, il razzismo e la discriminazione rendono ancora più complessa la loro condizione.
Negli ultimi anni, la situazione dei diritti umani nel Paese centroamericano è peggiorata drasticamente. Sebbene ci fossero già numerose avvisaglie, il mese di aprile del 2018 ha segnato un punto di svolta: a partire dalla brutale repressione con cui il governo di Daniel Ortega ha frenato le proteste contro la riforma del sistema di previdenza sociale, si è assistito a una progressiva chiusura di tutti gli spazi civici e democratici, che ha provocato l’esodo di migliaia di persone. Secondo Human rights watch, tra il 2018 ed il 2022, più di 260mila persone, circa il 4% della popolazione, sono fuggite dal Paese.
A gennaio 2022, Ortega ha iniziato il suo quarto mandato presidenziale consecutivo, introducendo ulteriori misure repressive, tra cui la chiusura massiccia delle organizzazioni della società civile e della Chiesa cattolica, con particolare accanimento verso le associazioni di donne e quelle femministe, i media e le università, e una persecuzione sempre più capillare all’opposizione, compreso il settore religioso. Le persone che difendono i diritti umani sono bersaglio di minacce, omicidi, arresti forzati, violenze sessuali, femminicidi, torture e altre gravi forme di violenza.
Indigene e afrodiscendenti senza difesa
Le aggressioni contro le donne difensore in Nicaragua sono aumentate drasticamente nel 2024. Secondo l’Iniciativa mesoamericana (Im-Defensoras), nei primi sette mesi del 2024 sono stati registrati 1.534 attacchi, quasi il doppio di quelli registrati nello stesso periodo del 2023.
Secondo la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) delle Nazione Unite, la crisi politica, sociale e dei diritti umani che scuote il Nicaragua contribuisce a esacerbare la povertà e le diseguaglianze, colpendo soprattutto le popolazioni indigene e afrodiscendenti.
Questo è ciò che sta accadendo nella regione della Costa Caribe. Le donne indigene e afrodiscendenti che difendono la loro terra si trovano a dover affrontare aggressioni da parte di coloni armati (colonos, individui o gruppi provenienti da altre regioni del paese) che invadono i loro territori, all’interno di una complessa rete di violenze strutturali alimentate da un modello politico economico centralizzato ed estrattivista. Queste violenze risalgono a ben prima del 2018 e si verificano su terre ricche di risorse naturali, sottratte alle popolazioni locali, dove il razzismo e la discriminazione si intrecciano con un profondo abbandono statale e una crescente presenza di imprese e gruppi che si spartiscono le ricchezze.
La testimonianza di alcune di queste donne è inclusa nel già citato rapporto Mujeres defensoras: voces que no se silencian. Alcune continuano a resistere rimanendo in Nicaragua, mentre la maggior parte è stata costretta all’esilio in Costa Rica. Per ragioni di sicurezza, molte preferiscono usare pseudonimi.
L’autonomia rimane sulla carta
La Costa caraibica (Costa Caribe) è situata lungo la costa orientale del Nicaragua, copre quasi la metà del territorio nazionale ed è suddivisa in due regioni: la Regione autonoma della Costa Caribe Nord (Raccn) e la Regione autonoma della Costa Caribe Sud (Raccs). Questa zona è abitata principalmente da popolazioni indigene e afrodiscendenti che denunciano come il razzismo strutturale perpetui l’emarginazione economica e sociale. «Ci trattano come cittadini di seconda classe, negandoci i nostri diritti fondamentali», spiega una delle difensore intervistate.
Le popolazioni indigene e afrodiscendenti hanno storicamente rivendicato il diritto all’autonomia. Dopo una faticosa lotta, che si è intrecciata anche con il conflitto tra il governo sandinista e i gruppi armati «controrivoluzionari», nel 1987 è stato promulgato lo Statuto di autonomia delle regioni della Costa Caribe, che sancisce il diritto alla gestione e protezione delle terre ancestrali da parte delle comunità locali. Tuttavia, il processo di «demarcazione territoriale», che discende dallo Statuto, ossia l’iter di riconoscimento e delimitazione formale dei territori di queste popolazioni, ha subito gravi ritardi, e le comunità si trovano da anni di fronte alle azioni di colonos che, con la complicità dello Stato, invadono le loro terre causando sfollamenti forzati, degrado ambientale e conflitti territoriali.
Militari e violenze sessuali
Attualmente, la presenza dello Stato in questa regione è soprattutto militare, con conseguenze nefaste. Una difensora intervistata ha denunciato come gli episodi di violenze sessuali siano sempre più comuni: «Una bambina è stata violentata da diversi membri dell’esercito. I leader locali lo hanno denunciato, ma la polizia ha minacciato il coordinatore che ha tentato di rendere pubblico il crimine». Il caso è rimasto impunito, evidenziando un modello di corruzione e protezione degli aggressori. «Ci sono state molte altre ragazze di 13 e 15 anni rimaste incinte per colpa dei militari», ha aggiunto la difensora.
Senza consenso previo
Le risorse naturali della Costa Caribe sono state sistematicamente sfruttate senza il «consenso libero, previo e informato» delle popolazioni indigene: «Questi progetti non solo distruggono l’ambiente, ma negano alle nostre comunità il diritto di decidere del proprio futuro», denuncia una difensora.
Secondo dati dell’Ong Fundación del Río, il 23% del territorio nazionale è stato dato in concessione a compagnie minerarie internazionali, che sfruttano principalmente minerali come oro e argento.
La strategia statale mira a smobilitare le forme di resistenza comunitaria. «Le donne sono costrette a fuggire perché non c’è lavoro, non c’è cibo, e la violenza è ovunque», afferma Miriam. «Hanno ucciso i nostri leader e perseguitato, sequestrato le persone. Molte donne indigene sono state anche violentate. Per questo motivo abbiamo deciso di lasciare le nostre comunità. Mentre le grandi concessionarie stanno sfruttando le nostre terre», ricorda Mama Tara, leader esiliata.
Di tutto per silenziarle
Avvocata del popolo rama in esilio, Becky Mc Cray ha raccontato come le autorità nicaraguensi abbiano istituito una rete di sorveglianza che colpisce le difensore e le loro famiglie: «Noi siamo sorvegliate costantemente. Non solo nelle nostre attività, ma anche nelle nostre case, nelle nostre vite private». Atenea, un’altra difensora intervistata, spiega: «Non posso parlare liberamente nemmeno al telefono. Sappiamo che ci stanno ascoltando e monitorando a ogni passo». E aggiunge Miriam: «Ci dicono che ci violenteranno, ci chiamano puttane…».
Un altro tipo di violenza diffusa è la criminalizzazione, attraverso accuse legali infondate. Atenea spiega: «Noi siamo criminalizzate semplicemente per alzare la voce in difesa dei nostri diritti». Questi processi giudiziari mirano a prosciugare le loro risorse. «Ci tagliano i mezzi di sussistenza, ci sfrattano dalle nostre terre… tutto per silenziare la nostra lotta», aggiunge Minerva.
L’esilio forzato tra invisibilità e inutilità
La maggior parte delle donne intervistate si trova in esilio, dove affronta nuove forme di violenza. «Siamo costrette a lavorare in condizioni che nessuno accetterebbe, solo perché siamo rifugiate e non abbiamo scelta», afferma una delle intervistate. La povertà e la mancanza di un supporto istituzionale incidono pesantemente sul loro benessere fisico e mentale: «Non ho accesso a cure mediche adeguate. Quando mio figlio si ammala, non posso permettermi di pagare i medicinali», racconta un’altra difensora.
Altro aspetto cruciale è la discriminazione che affrontano in quanto donne e migranti: «Ci trattano come criminali, solo perché siamo nicaraguensi», racconta Miriam. Costrette a lasciare le loro reti familiari e comunitarie, si trovano in un nuovo paese senza il supporto né il riconoscimento che avevano: «In Nicaragua ero una leader, le persone si affidavano a me. Qui, invece, mi sento invisibile», confessa una difensora. «A volte mi sento inutile, come se avessi abbandonato le persone per cui combattevo», confida un’altra.
Nonostante si trovino fuori dal Nicaragua, molte di loro sono ancora sorvegliate e minacciate. Continuano però a resistere, mantenendo viva la speranza di un futuro migliore.
«Tutta questa situazione per me è stata molto difficile, dolorosa, ma soprattutto rischiosa. Tuttavia, la convinzione che ho come donna, madre e leader indigena, così come l’impegno che sento verso il mio popolo e verso gli altri popoli indigeni, è stata la mia forza per andare avanti e non perdere la speranza di continuare a resistere, perché in fin dei conti, se non noi: chi? Inoltre, perché è un processo continuo e di transizione verso le nuove generazioni», è la sintesi dell’imperativo morale di Becky Mc Cray. In Costa Rica, infatti, le donne nicaraguensi hanno trovato nuovi modi per continuare la loro lotta.
Uno degli esempi è il collettivo Voz de la resistencia de los pueblos originarios de la nación Moskitia attraverso cui denunciano le violenze subite dai loro popoli in Nicaragua, nonostante il pericolo anche fuori dai confini nazionali: «Ci siamo organizzate nel momento in cui siamo arrivate in Costa Rica. Abbiamo creato una rete per denunciare le persecuzioni e gli omicidi dei nostri leader», raccontano.
Queste donne assumono anche un ruolo fondamentale di appoggio, supplendo all’assenza dello Stato: «Andiamo di casa in casa cercando i bambini che non vanno a scuola per vedere come fornire loro l’uniforme (in Costa Rica hanno espulso bambini e bambine rifugiate dalle scuole per non avere l’uniforme, ndr), abbiamo raccolto dati e ottenuto aiuti per le uniformi. La maggior parte delle donne indigene non parla spagnolo. Quando i bambini vengono espulsi dalle classi, cerchiamo di intercedere, e lo facciamo anche per il lavoro, poiché, non parlando la lingua, non vengono assunte. Lo stesso accade con l’ufficio immigrazione: dato che non sanno leggere, i loro documenti vengono respinti», aggiungono.
Resistere per sperare
Anche in Nicaragua, la resistenza continua in maniera clandestina. Atenea ricorda: «Ci hanno accusato di crimini inesistenti, solo perché siamo donne e volevamo proteggere i nostri diritti territoriali. Volevano distruggerci, ma non ci siamo fermate». Nonostante la repressione, queste donne trovano modi per continuare a sostenere le loro comunità, diffondendo informazioni, organizzando aiuti umanitari e sfidando il governo attraverso piccoli atti di disobbedienza.
Sia dentro che fuori dal Nicaragua, la loro resistenza è un simbolo di speranza. «Se moriamo, che i nostri figli e nipoti continuino a difendere i nostri diritti», dice Mama Tara, una delle leader in esilio.
Anna Avidano e Francesca Nugnes
Nicaragua, popoli indigeni e colonos
Il Nicaragua ha una popolazione di circa 7,05 milioni di persone. Una parte significativa di questa appartiene a gruppi indigeni e afrodiscendenti, concentrati principalmente nelle regioni autonome della Costa Caribe. Tra i principali popoli indigeni di questa zona, i Miskito costituiscono il gruppo più numeroso, con una popolazione stimata tra 150mila e 200mila persone, residenti per lo più nella Costa Caribe Nord (Raccn) e nelle aree di confine con l’Honduras. I Mayagna, con circa 27mila persone, vivono nelle aree remote della stessa regione e nella riserva di Bosawás. I Rama, con circa 2mila persone, si concetrano lungo la costa e nell’isola di Rama Cay. Per quanto riguarda la popolazione afrodiscendente: i Creole contano circa 43mila persone, concentrate principalmente nella Costa Caribe Sud (Raccs), in città come Bluefields; i Garífuna, con una popolazione di circa 2.500 persone, vivono in comunità come Orinoco e in altre zone del Sud della Costa Caribe.
L’arrivo dei «colonos»
L’invasione di coloni armati nella Costa Caribe risponde a interessi economici che stanno causando una crescente pressione sui territori ancestrali.
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), nei processi di invasione omicidi e attacchi armati contro le popolazioni locali sono ormai «abituali». La Commissione interamericana dei diritti umani (Iachr) ha documentato episodi di distruzione deliberata dei mezzi di sussistenza delle comunità, inclusi risorse naturali, mezzi di trasporto, bestiame e foreste.
Queste invasioni non solo minacciano gravemente il diritto alla vita e all’integrità fisica delle comunità indigene della Costa Caribe, costringendo molte persone ad abbandonare le proprie case, ma compromettono anche il territorio. Secondo Global forest watch, tra il 2002 e il 2021 il Nicaragua ha perso l’11% della sua copertura arborea e il 28% delle sue foreste primarie umide; un tasso di deforestazione tra i più alti dell’America centrale.
A.A. – F.N.
Fonti: Iwgia, Indigenous people in Nicaragua; Minority rights group.
Un modo particolare di scrivere (Gv 8)
Nella nostra lettura del Vangelo di Giovanni, alla scoperta del volto del Padre svelato da Gesù, siamo arrivati al capitolo 8, un testo difficile da comprendere che si presta a considerazioni ampie, valide per la lettura dell’intero Vangelo.
Apparentemente, infatti, il capitolo si mostra confuso e persino incoerente. Presenta discorsi già fatti, altri appena accennati che saranno ripresi più avanti, apparenti salti logici, argomentazioni che a noi non sembrano dimostrare molto. Davanti a pagine come queste, i commentatori provano a spiegare, a ricostruire, a volte immaginare che l’originale avesse meno informazioni o le presentasse in un ordine diverso che forse si può recuperare.
Alcuni di questi tentativi portano a esiti convincenti: ad esempio, è ormai condivisa tra gli studiosi la convinzione che lo splendido episodio dell’adultera perdonata (Gv 7,53-8,11) non fosse in origine parte del testo di Giovanni, in quanto ha uno stile e, in parte, anche dei contenuti che non sono quelli tipici del nostro evangelista. Non sappiamo chi lo abbia scritto né perché sia stato aggiunto al Vangelo di Giovanni, ma siamo riconoscenti che non sia andato perso.
Ci sono, poi, altre ipotesi, difficili da verificare, che solo in parte semplificano la lettura o spiegano il testo. A queste non dedicheremo qui del tempo, pur sapendo che esistono e che a volte sembrano anche sensate.
Più interessante è per noi cogliere il modo di scrivere di Giovanni fatto di continue ripetizioni, di ritorni su temi già trattati, con ragionamenti non lineari e poco organizzati.
L’evangelista sembra a volte procedere a spirale (torna su ciò che ha già detto, aggiungendo qualcosa), fino a sembrare disordinato. Può darsi che in questo modo voglia rispecchiare la vita reale, che non si presenta mai lineare e ordinata, ma piuttosto come una mescolanza apparentemente casuale di sfide, tensioni, gioie, speranze. Dentro questa mescolanza disordinata c’è la nostra esistenza fatta di cose che davvero contano e di altre meno importanti.
Nel tempio (Gv 8,11-20)
Nel capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, Gesù si trova nel tempio, vicino al «gazofilacio», dove si gettavano le elemosine. Probabilmente la scena avviene ancora durante la festa delle Capanne (7,2), quando Gesù era andato a Gerusalemme «di nascosto». Adesso però non si nasconde più e discute apertamente su di sé e sui suoi interlocutori, farisei e «giudei», ossia quelli che lo rifiutano.
La sua predicazione si incentra apparentemente su tre temi. Dapprima parla di sé come della «luce del mondo» (8,12), con una formula che tornerà nel capitolo successivo (9,5) e che riprenderemo a suo tempo. Poi torna sulla testimonianza che ne conferma il messaggio, di cui però ha già parlato nel capitolo 7 (e per il quale rimandiamo alla puntata precedente). Infine, e qui ci fermiamo un poco di più, affronta il tema del giudizio.I tre temi sembrerebbero accostati a caso, ma in realtà sono collegati: la pretesa di Gesù di essere la luce del mondo, ciò che aiuta gli uomini a vedere e giudicare, è confermata dalla testimonianza che su di lui offre il Padre. Questa, a sua volta, è il fondamento della stessa possibilità di Gesù di giudicare (8,16).
In realtà, nel versetto precedente, Gesù sostiene di non giudicare nessuno (v. 15), ed è probabilmente questa affermazione che ha «aiutato» il redattore finale a scegliere di inserire poco prima il racconto dell’adultera. Lì Gesù dice di non giudicare nessuno perché si contrappone ai suoi ascoltatori, che giudicano «secondo la carne». Subito dopo aggiunge che, se anche giudica, lo fa in modo autentico, vero, perché forte della testimonianza del Padre.
La successiva reazione dei farisei («Dov’è tuo padre?», v. 19) e la risposta di Gesù ci aiutano a intuire qualcosa sul senso dell’intero brano. Gesù sostiene infatti che giudei e farisei non conoscono né lui né il Padre. Ma com’è che si conosce una persona? Tramite le sue generalità? Nome, cognome, data e luogo di nascita? Noi siamo le nostre generalità? Questi dati siamo noi? Veramente sapere dove e quando siamo nati suggerisce qualcosa sulle nostre passioni, pensieri, relazioni? Questo modo di «conoscere», per dati oggettivi, sicuri, non opinabili, è ciò che Gesù chiama «secondo la carne». Dati certi, è vero, ma esteriori.
Questo è il modo con cui gli avversari di Gesù provano a «giudicarlo», a valutarlo: chi lo manda? Con che autorità parla? Qual è la prova chiara che noi dobbiamo ascoltarlo? È come se, prima di concedere fiducia a un amico, volessimo avere la prova incontrovertibile che non ci tradirà. Non è possibile, perché nessuna conoscenza oggettiva potrà andare a tale profondità. È profondo lo sguardo di chi coglie, intuisce, persino scommette che sì, quell’amico potrebbe tradirmi, ma non vorrà farlo. E questa conoscenza implica di mettersi in gioco, di non stare alla finestra a valutare. Di non avere certezze oggettive, ma un’intuizione dell’intimo.
Ecco perché Gesù sembra che inverta i termini, quando dice «se conosceste me, conoscereste anche il Padre» (v. 19). Sapendo che il Padre è Dio, ci sembrerebbe più logico dire che «se conosceste il cuore di Dio, sapreste che davvero vengo da lui». Ma l’approccio di Gesù non è quello razionale di una spiegazione scientifica, bensì guarda al midollo esistenziale dell’essere umano. In un rapporto di amicizia profonda, conosco sempre meglio il mio amico, ma anche me stesso. E chi conosce Gesù, coglie meglio anche il Padre, così come capire il Padre aiuta a intuirne la sintonia con Gesù.
Io sono (Gv 8,21-30)
Gesù ribadisce quindi che la radice, l’origine, il modo di pensare di coloro che stanno discutendo con lui, non sono i suoi: «Voi siete di questo mondo» (Gv 8,23). Questo non significa, evidentemente, che Gesù sia un extraterrestre, ma che chi ha davanti ragiona secondo il mondo, vuole garanzie e prove, vuole passare per una persona furba capace di vagliare chi ha di fronte senza ingenuità.
Da questo punto di vista la polemica apre in realtà lo sguardo su Dio: se questo approccio è incompatibile con il luogo da cui Gesù viene e verso cui va, è perché quell’altro luogo segue una logica diversa. Dio segue una logica che non è fatta di verifiche, valutazioni e sguardi accigliati di giudizio, che pensano di avere tutto sotto controllo.
Semmai, Dio è colui che si mostrerà pienamente quando Gesù sarà «innalzato» (v. 28), ossia quando sarà su quella croce che da una parte dice il fallimento, l’insensatezza e la fragilità, ma dall’altra mostra il volto più autentico di Dio, quello di un padre che si mette in gioco e si dona.
Ecco perché Gesù può dire, in questa sezione, che «Io sono» (v. 24). «Tu sei che cosa?», paiono chiedere i suoi interlocutori, così da andare a verificare se davvero funziona. Non capiscono che Gesù ha utilizzato una formula che era già stata usata dal Dio dell’Esodo (cfr. Es 3,14). Io-sono, Io-ci-sono, io sono qui a disturbare le tue certezze e confortare le tue insicurezze. Solo chi non si pone come giudice di fronte alla vita, ma si apre alla speranza di un senso e di una vicinanza, è confortato dalla rassicurazione che «Io ci sono e ci sarò».
Gesù ci indica un Padre che non si presta a definizioni e valutazioni, ma che promette la sua presenza.
E allora il fraintendimento dei farisei può suonare buffo ai cristiani che conoscono la vicenda di Gesù. «Dove vado non potete venire». «Vorrà forse uccidersi?» (vv. 21-22). L’ipotesi è assurda, ma in effetti Gesù vorrà donare la sua vita, fidandosi di un Padre che non dà garanzie o prove di salvare la vita del suo stesso Figlio, ma che promette di non sparire.
È interessante vedere come a questo punto Giovanni annoti che «molti credettero in lui» (v. 30). Se si cambia modo di guardare all’offerta di Gesù, non come qualcosa da vagliare ma come una promessa da accogliere o rifiutare, si può incontrarlo davvero come Dio vuole farsi trovare, nella fiducia e nell’affidamento che contestano ogni forma di puntigliosa verifica dall’alto.
Discussioni varie (Gv 8,32-59)
Diventa allora più chiaro il senso delle discussioni variegate e apparentemente disordinate che seguono nei versetti successivi.
In parte vertono sul rapporto con Abramo: chi discute con Gesù pensa di avere il diritto e la garanzia della libertà perché legati in modo formale e indiscutibile a lui (discendenza dimostrabile dalle genealogie). Gesù contesta, in modi anche duri, che sia sufficiente essere discendenti: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (v. 39), che di Dio si era fidato senza alcuna garanzia. Al di là dei particolari, il filo del discorso resta lo stesso: di fronte a Dio non ci sono diritti acquisiti, magari da altri, ma solo il fidarsi, l’affidarsi, l’entrare in una relazione personale che non offre garanzie ma promesse. Tutto molto più sfuggente e a rischio, ma anche tutto molto più umano e interiore, profondo e spirituale. Gesù svela il modo di ragionare del Padre.
Per questo può addirittura spingersi a parlare di verità e menzogna. Chi ci giudicasse e vagliasse dai nostri dati anagrafici, resterà probabilmente in superficie e non coglierà di noi l’essenziale. Ossia, avrebbe un quadro bugiardo e inaffidabile di noi.
E ciò che Gesù ribadisce è proprio che lo sguardo divino è quello non esteriore, non formale, non di appartenenza dimostrabile, è quello del legame personale, del rapporto più intimo e profondo che passa dalla fiducia. E sottolinea che questo sguardo è il più autentico e vero, quello che può garantire il legame con il Padre che assicura la vita eterna. Ecco perché «chi custodisce la mia parola» (v. 51), che imposta questa modalità di rapporto con Dio, «non vedrà la morte per sempre».
Questo era ciò che Abramo e i profeti avevano intuito, nel cuore di Dio e passando dalla promessa di una terra e di un figlio (v. 56). Questo è ciò che il Padre attesta, nella vita e poi nella risurrezione di Gesù, la sua definitiva e sicura intenzione di prendersi cura della vita degli esseri umani, in una promessa che passa inevitabilmente dall’incertezza di non avere in mano la prova dimostrata che sia affidabile.
Come in ogni dimensione più profonda dell’essere umano, il cuore delle scelte non passa da un calcolo economico, ma dalla decisione se credere o no a una promessa.
Questo Gesù lo può garantire perché conosce il Padre fino in fondo, «prima che Abramo fosse, io sono» (v. 58). È, di nuovo, la formula con cui Dio si era presentato a Mosè, «Io-sono». È la pretesa di conoscere Dio in quanto è come lui. Si capisce la reazione della folla, che pensa di trovarsi di fronte a una bestemmia e tenta di lapidarlo. Ma non è ancora l’ora di Gesù, che si nasconde e fugge. Perché quando consegnerà la propria vita per essere innalzato sulla croce, non sarà per caso o per sfortuna, ma in quanto avrà deciso che è giunto il momento di offrirsi.
Angelo Fracchia Il Volto del Padre 10 – continua
Riparare alla barbarie
Con la globalizzazione e la liberalizzazione le imprese hanno avuto l’opportunità di produrre a costi inferiori. A pagare sono stati i lavoratori e l’ambiente. Oggi, finalmente, nuove leggi sulla «due diligence» cercano di porre rimedio a questa barbarie.
Prima che la globalizzazione partisse in grande stile, diciamo una trentina di anni fa, le imprese che si presentavano ai consumatori con i loro marchi avevano l’abitudine di curare l’intero ciclo produttivo di ciò che vendevano. Parlando di vestiario, ad esempio, le imprese compravano le stoffe e le immettevano nei propri stabilimenti, funzionanti con propri dipendenti, per ottenere indumenti pronti alla vendita, partendo dal taglio e proseguendo con la cucitura, il lavaggio, la stiratura. Le imprese più esigenti sul piano della qualità gestivano in proprio perfino la filatura e la fabbricazione di stoffe a partire dal cotone o la lana.
Con la globalizzazione, questo tipo di organizzazione è andato definitivamente in frantumi per adottare una strategia produttiva che già aveva cominciato a fare capolino negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso. La stessa strategia che aveva permesso a Nike, il notissimo marchio di scarpe e articoli sportivi, di diventare dal nulla un’impresa mondiale.
La storia del baffo
La storia dell’impresa con il baffo comincia nel 1964, allorché Phil Knight, giovane contabile americano e appassionato di corsa campestre, s’imbatte in un paio di scarpe sportive che trova particolarmente buone. Anche il marchio è affascinante: una tigre stilizzata nel momento del salto. Phil se ne innamora e progetta di commercializzarle. Convinto com’è che qualità e aggressività siano un mix ideale per farsi strada, si galvanizza. Da tempo sogna di mettersi in affari e quella può essere la sua grande occasione.
Dopo un approfondimento, appura che le scarpe tigrate vengono dal Giappone. Ma per lui che abita sulla costa Ovest del Pacifico, quella provenienza non è un problema. Contatta l’azien-
da produttrice, l’Onitsaka Company, e ottiene il contratto di distribuzione esclusiva per gli Stati Uniti.
Phil non ha negozi, non ha spedizionieri e risolve il problema improvvisandosi venditore ambulante all’uscita delle università e delle palestre. Come mezzo di trasporto usa la sua auto su cui ha fatto stampigliare la scritta Blue Ribbon Sports, la società che ha fondato per avviare l’attività. Due soli soci: lui e Bill Bowerman, suo istruttore sportivo. Le scarpe vanno, gli affari si allargano fino a dover assumere del personale, e Phil decide di voler diventare un vero imprenditore con un marchio tutto suo. Tanto più che il socio Bill, appassionato di modellistica, ha messo a punto un modello di scarpa ancora più leggero e più comodo di quello che stanno vendendo.
Nel 1971 si decidono per il gran-
de passo, ma non possiedono stabilimenti. Perciò bussano alla porta di un altro produttore giapponese disposto a lavorare per conto terzi. Gli forniscono il modello, si accordano sul prezzo e alla data prestabilita avranno il numero di scarpe ordinate. Complete di logo che uno studente americano ha disegnato per loro in cambio di 35 dollari: una specie di baffo, uno sgorbio simile a un boomerang che, nelle intenzioni del disegnatore, rappresenta un’ala, simbolo di Nike, la dea alata della mitologia greca che personifica la vittoria. Il resto lo conosciamo. Nike è diventata una multinazionale con un fatturato di 51 miliardi di dollari, ma neanche uno stabilimento produttivo. Ottiene i suoi prodotti da terzisti dislocati in 41 paesi del mondo, quelli a costo più basso.
Nike fece scuola e quando tutte le imprese del mondo si trovarono costrette dalla concorrenza mondiale ad abbattere i prezzi di produzione, tutte scoprirono la produzione in appalto. Smisero di produrre in proprio e cominciarono a ordinare ciò di cui avevano bisogno a imprese estere localizzate in paesi a bassi salari. Prima la Corea del Sud, poi Taiwan, l’Indonesia, la Cina, il Vietnam, il Bangladesh. Ora il Kenya, l’Etiopia, il Malawi.
I proprietari di marchi sono sempre con la valigia in mano alla ricerca di paesi dove la «licenza di sfruttamento» è più alta. La loro parola d’ordine è liberalizzazione produttiva, che poi significa assenza di regole.
Irresponsabili
In un mondo produttivo senza regole, la situazione si è fatta sempre più selvaggia e agli albori del terzo millennio è tornata la barbarie produttiva del protocapitalismo ottocentesco. È tornato il lavoro minorile, le paghe da fame, l’assenza di diritti sindacali, l’insicurezza nei luoghi di lavoro.
Uno dei primi disastri si ebbe in Cina nel 1993 all’interno della Zhili, una fabbrica di giocattoli che lavorava in appalto per Chicco Artsana. Alle due del pomeriggio, scoppiò un incendio, ma le operaie non poterono uscire perché i cancelli erano chiusi a chiave. Il bilancio finale fu di 87 ragazze morte carbonizzate e quaranta ferite.
Molti altri incidenti avvennero successivamente in varie altre imprese asiatiche che lavoravano in appalto per committenti stranieri, ma quello più grave si verificò in Bangladesh il 24 aprile del 2013. Un intero palazzo di sette piani, conosciuto come Rana Plaza, crollò uccidendo 1.138 operaie e ferendone altre duemila. Frugando fra le macerie emersero etichette delle più importanti multinazionali della moda mondiale, tra cui Benetton, che, pur di fare soldi, avevano appaltato la produzione a imprese locali le quali, a loro volta, contenevano i costi di produzione risparmiando anche sulla sicurezza.
Il crollo del Rana Plaza, infatti, non fu un fulmine a ciel sereno: le lavoratrici già da tempo avevano denunciato la presenza di crepe, ma erano state ignorate.
In un mondo normale, le vittime dovrebbero ricevere almeno un indennizzo. Ma, nei vari incidenti, raramente è successo. Di solito, l’impresa terzista si rifiuta di pagare perché esonerata dalla legge locale, mentre l’impresa committente si chiama fuori asserendo di non avere alcun tipo di responsabilità verso una mano d’opera che non dipende direttamente da essa. Quelle rare volte che le vittime hanno ricevuto un indennizzo è stato grazie all’impegno della società civile che ha organizzato proteste e campagne. Così è stato per le vittime della Zhili grazie alla campagna organizzata nel 1997 dal Centro nuovo modello di sviluppo e altrettanto è stato per le vittime del Rana Plaza grazie all’intenso lavoro svolto dalla Clean clothes campaign. Campagne organizzate nei confronti delle imprese committenti che si rifiutavano di pagare non per una questione di soldi, ma di principio. Si dicevano disponibili a dare dei soldi, ma solo per la loro «bontà», non perché avessero un obbligo. La vecchia politica delle imprese disponibili a dare, se e quando vogliono, a titolo di carità e non come atto riparatorio per aver mancato in una precisa responsabilità ledendo un diritto.
La «diligenza dovuta»
Questo modo di operare da parte di diverse aziende, è reso possibile da una politica connivente che, per decenni, ha permesso alle imprese di rivendicare il diritto di intascare i soldi dello sfruttamento senza assumersi alcuna responsabilità, non perché ci fossero delle leggi che le autorizzassero, ma perché non esistevano leggi che affermassero il contrario. Niente leggi, niente diritti, niente obblighi.
Il pretesto utilizzato dai vari parlamenti nazionali per giustificare la propria inazione era la difficoltà di emettere leggi che avrebbero dovuto essere rispettate simultaneamente in più paesi. Tuttavia, già nel 2011 la Commissione Onu per i diritti umani aveva indicato la soluzione. La cosa da fare da parte degli Stati era di obbligare le imprese registrate nel proprio Paese ad assumersi la responsabilità di ciò che succede ai lavoratori e all’ambiente lungo le filiere produttive da esse utilizzate. Un concetto espresso con il termine inglese di due diligence, che in italiano potrem-mo tradurre come «diligenza dovuta» o, meglio ancora, «dovere di prendersi cura», sottinteso dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un imperativo che, in concreto, si attua attraverso tre passaggi chiave: innanzitutto vigilanza, per accertarsi che tutela ambientale e diritti dei lavoratori siano rispettati in ogni punto delle filiere produttive; secondariamente, correzione di ciò che non va; infine, messa in atto di tutte le misure di indennizzo nel caso siano stati provocati dei danni.
In Europa il primo paese a raccogliere la raccomandazione delle Nazioni Unite è stata la Francia che, nel 2017, ha promulgato la cosiddetta Loi de vigilence. Nel 2021, è seguita la Germania con una legge analoga e, finalmente, nell’aprile 2024 anche il Parlamento europeo ha legiferato in materia. Con una precisazione: i provvedimenti del consesso dell’Ue non sono indirizzati direttamente ai cittadini, ma ai parlamenti o ai governi degli stati membri. Sono ordini impartiti ai paesi aderenti affinché redigano leggi nazionali secondo le indicazioni definite dal Parlamento europeo.
L’Unione europea interviene
Nel caso della due diligence, la direttiva del Parlamento europeo dà agli Stati aderenti due anni di tempo per produrre una legge che attribuisca ai grandi marchi una serie di obblighi di controllo, correzione e indenizzo: in sostanza, gli stessi previsti dalla Commissione Onu per i diritti umani.
La Direttiva europea non è perfetta: si applicherà solo a gruppi molto grandi con più di 1.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore a 450 milioni di euro. Inoltre, prevede meccanismi di gestione e pratiche amministrative non ancora sperimentate che le imprese possono cercare di manipolare. Nonostante i suoi difetti, però, il provvedimento è importante almeno per due motivi. In primo luogo, perché rappresenta un cambio di passo rispetto al ruolo assegnato dall’ordinamento giuridico alle imprese: non più il profitto a ogni costo, ma solo se ottenuto nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’integrità del pianeta. In secondo luogo, perché la forza di persuasione dell’Ue potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati.
La direttiva due diligence avrà i suoi effetti anche sulle aziende della moda, comprese le italiane. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, il settore tessile è fra quelli a più alto rischio di violazione dei diritti umani, insieme al minerario e all’agricolo. Le filiere di produzione della moda sono costellate di sfruttamento, povertà e disparità salariale, straordinari obbligatori, fabbriche insicure, prezzi di acquisto bassi e comportamenti commerciali predatori da parte dei marchi committenti.
Non c’è bisogno di andare in Bangladesh per rendersene conto: nel corso del 2024 la magistratura italiana ha preso provvedimenti contro Armani e Dior per presunta agevolazione colposa del caporalato. Del resto il Global slavery index del 2023 pone il settore tessile al secondo posto per numero di persone sottoposte a lavoro forzato. Per questo la Campagna abiti puliti, assieme al network internazionale della Clean clothes campaign, ha condotto un’intensa attività di lobby sul Parlamento europeo per ottenere l’approvazione del provvedimento sulla due diligence.
Francesco Gesualdi
Tanzania. Turismo invadente
Fino dall’epoca della colonia britannica, il popolo Masai ha dovuto lasciare le proprie terre. La creazione dei grandi parchi ha aggravato la situazione. Il tutto appoggiato dall’Unesco. Oggi i Masai devono ancora «ricollocarsi» con il rischio di perdere la propria cultura.
I Masai sono un popolo di pastori transumanti che da secoli abitano sugli altipiani tra il Sud del Kenya e il Nord della Tanzania. In quest’ultima, già nel XV secolo si insediarono nel territorio dell’attuale Parco nazionale del Serengeti, un nome che in maa (la lingua dei masai) significa «il posto dove la terra si estende all’infinito». In effetti, il Serengeti è una vasta pianura, dove fiumi e foreste si alternano a praterie e savane. Il tutto abitato da 70 specie di mammiferi e oltre 500 di uccelli. Lì i Masai allevavano il bestiame e nei periodi di necessità coltivavano anche la terra.
Dal Serengeti al Ngorongoro
Ma come in tanti altri contesti africani, anche in Tanzania, l’arrivo dei coloni portò con sé politiche per la «conservazione della natura». Le quali il più delle volte si tradussero nella creazione di Parchi nazionali, aree di competenza statale dove qualsiasi diritto (soprattutto se tradizionale) o titolo di possesso esistente fino a quel momento veniva meno. E dove, per preservare il particolare valore naturalistico dell’area, erano vietati insediamenti umani e attività economiche.
Così i Masai furono costretti ad abbandonare il Serengeti dal 1959, poi diventato un Parco nazionale. Si spostarono nella Ngorongoro conservation area (Nca), dove il loro diritto a insediarsi fu riconosciuto formalmente e ufficialmente dalla Ngorongoro conservation area ordinance.
Anch’essa un’area ricca di biodiversità, la Nca si estende su 809.440 ettari che includono savane, foreste e il cratere del Ngorongoro. Al suo interno vivono circa 25mila animali di grandi dimensioni e diverse specie a rischio estinzione come il rinoceronte nero, il dingo e gli elefanti.
Una volta giunti in questo nuovo territorio, i Masai instaurarono una relazione profonda con l’ambiente circostante, sviluppando uno stile di vita che promuove, in modo naturale, conservazione e tutela delle risorse. Basti pensare che la cultura masai proibisce il consumo di carne di selvaggina e il taglio di alberi interi. Quando invece coltivano la terra, gli agricoltori prevedono periodi di maggese per ripristinare la fertilità del suolo. Mentre gli allevatori, nella scelta dei pascoli, attuano valutazioni attente: mangiando, gli animali contribuiscono a controllare la vegetazione, evitandone una crescita eccessiva.
L’ambiente naturale ha anche un ruolo centrale nella cultura dei Masai: la loro spiritualità si lega profondamente al territorio circostante e ai suoi luoghi simbolo. È proprio in queste aree che si sono tenute a lungo le assemblee comunitarie ed è stato insegnato ai giovani come vivere in armonia con l’ecosistema.
Turismo, avanti tutta
Queste pratiche hanno fatto sì che per secoli l’ambiente naturale non fosse intaccato dalla presenza umana. Nonostante ciò, negli ultimi anni il governo tanzaniano – appoggiato da partner internazionali come l’Unesco (l’agenzia delle Nazioni Unite per la tutela del patrimonio culturale e ambientale) – ha iniziato a sostenere che la crescita della popolazione e del bestiame metteva sotto pressione le risorse naturali e rischiava di causare la distruzione dell’ecosistema circostante.
Addirittura, l’Unesco ha consigliato alle istituzioni tanzaniane di trasformare la Nca in un’area libera da qualsiasi presenza umana, invitandole quindi a valutare il trasferimento delle comunità che abitavano all’interno dell’area protetta, perché tanto «la riallocazione dei Masai non sarà un evento nuovo in Tanzania». E, quindi, nel giro di poco, il governo tanzaniano ha introdotto politiche di espropriazione – accompagnate dall’uso sistematico della violenza – per allontanare i Masai dalla Nca.
In realtà, dietro alla volontà dichiarata di tutelare e conservare l’ecosistema, si nascondeva la decisione delle istituzioni tanzaniane di investire sempre più nello sviluppo del turismo, un settore che negli ultimi anni si è rivelato un volano economico per il Paese. Nel 2023 infatti, le entrate generate dal settore ammontavano a 7,8 miliardi di dollari (il 9,5% del Pil nazionale), in netta crescita rispetto ai 2,5 miliardi del 2019.
Così sono sorte nuove aree protette – prive di insediamenti umani e attività economiche – e game reserve, destinate ad attrarre un numero sempre maggiore di visitatori e compagnie turistiche straniere. Meglio ancora se di lusso, come la già attiva Tanzania conservation ltd di Boston che pianifica esperienze esclusive. Oppure la Ortello business corporation, a lungo responsabile dell’organizzazione delle battute di caccia della famiglia reale degli Emirati arabi uniti.
Riallocazioni «volontarie»
Per rendere la Nca un’area priva di insediamenti umani e attività economiche – di fatto, una zona a esclusivo uso turistico -, l’esecutivo tanzaniano ha dato il via a politiche sempre più brutali, volte ad allontanare i Masai dalle proprie terre. Violando anche alcuni diritti fondamentali del popolo.
Dal 2022, i fondi destinati al Ngorongoro sono stati sistematicamente tagliati, privando la popolazione locale di servizi essenziali come educazione e salute. Human rights defenders, un’organizzazione tanzaniana per la difesa dei diritti, ha denunciato che nel 2022 più di 3 milioni di scellini (circa 1.100 dollari) erano stati sviati verso altre aree del Paese.
I dipendenti statali sono stati ritirati da tutti i centri sanitari, mettendo a repentaglio il diritto alla salute degli abitanti e creando uno stato di incertezza perenne. Come ha raccontato un leader tradizionale a Human rights watch (Hrw, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con sede a New York): «Ogni residente ha paura. Se ti ammali, pensi ai grandi costi che sosterrai per avere dei servizi medici. Le persone più povere sono le più vulnerabili perché non hanno denaro per viaggiare lontano e i dispensari locali non hanno medicine». A molti non resta che «usare le erbe tradizionali o pregare per un miracolo».
Entrare e uscire dalla Nca è diventato sempre più difficile. Gli abitanti possono farlo solo mostrando la carta d’identità o la tessera elettorale o pagando – al pari dei turisti – una tassa di 27.275 scellini (10 dollari). Così come è sempre minore anche la libertà di movimento all’interno dell’area: «Conservazione ed ecoturismo» sono le giustificazioni utilizzate per limitare l’accesso a specifiche zone. Come il cratere del Ngorongoro, storica pozza d’acqua ricca di nutrienti di origine vulcanica, dove dal 2016 non è più possibile abbeverare il bestiame. Oppure le foreste del Nord e i crateri di Marhes, Ndutu, Ormoti ed Emabakaai.
I servizi veterinari sono cessati. La fornitura governativa di sale supplementare (necessario agli animali per compensare la mancata assunzione di micronutrienti di origine vulcanica) si è invece rivelata una trappola. Dopo che tra il 2018 e il 2021 erano morti più di 77mila capi, le analisi della Tanzania veterinary laboratory agency (l’agenzia governativa per la salute del bestiame) hanno confermato che il prodotto era avvelenato.
Gli attacchi dei ranger (guardaparco) nei confronti degli abitanti della Nca sono diventati frequenti: aggressioni, sparizioni e uccisioni colpiscono uomini, donne e bambini in modo indiscriminato. Gli avvisi di espropriazione invece sono sempre più diffusi e si dirigono contro abitazioni o edifici pubblici che, secondo le autorità, sorgono all’interno del perimetro dell’area protetta.
Tutte queste misure contribuiscono a rendere molto difficili – se non impossibili – le condizioni di vita degli abitanti del Ngorongoro. Tanto da spingerli a scegliere «volontariamente» di lasciare le proprie terre e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza nei villaggi di Msomera e Kitwai, i siti identificati dal governo per la riallocazione, con la promessa di migliori condizioni di vita.
Terra è cultura
A Msomera, le case sono tutte identiche: tre stanze con i muri bianchi, ricoperti da un tetto in lamiera. Le abitazioni sono affiancate da cinque ettari di terra, spesso destinati ad agricoltura e allevamento. Caserme militari circondano l’insediamento che brulica di soldati in mimetica. Un modo per instillare paura e controllare la narrativa sulla riallocazione.
Oleshangay vive in una di queste case. È uno dei Masai del Ngorongoro che hanno accettato di trasferirsi. Ma lo racconta a malincuore a Hrw: «Avevamo paura a lasciare la terra dei nostri antenati. Sono nato lì e ho vi vissuto tutta la mia vita. Quindi è stato difficile andarmene». Oltre alla casa, ha ricevuto dieci milioni di scellini (3.700 dollari) e cinque ettari di terra. Ma dice: «Tu mi stai dando un pezzo di terra che per me non ha valore». Le terre del Ngorongoro infatti sono cultura, religione e legami sociali. I riti più importanti possono svolgersi solo in siti ancestrali come il vulcano Ol Doinyo Lengai (dal maa, «la montagna di Dio»). Riallocazione vuol dire anche allentare e perdere il legame con la propria terra, religione e cultura.
Ed è proprio sul piano culturale che impatta maggiormente la riallocazione. Racconta un leader tradizionale: «Andare a Msomera è problematico per la nostra cultura. Hai una piccola casa con tre stanze: vivi con tua moglie, i tuoi figli, le mogli dei tuoi figli e i tuoi nipoti. Nella cultura masai questo è severamente proibito». Un’imposizione di tale genere «uccide la cultura» ed è frutto di piani governativi che non considerano la natura complessa delle famiglie masai. Spesso multigenerazionali e multifamiliari, oltre che poligame. Ma «due mogli non possono vivere nella stessa casa». E quindi alcune famiglie sono state costrette a usare buona parte del denaro ricevuto come compensazione per costruire nuove abitazioni per mogli e figli.
Risorse scarse
Molti di coloro che hanno abbandonato il Ngorongoro hanno perso parte del bestiame durante il viaggio o appena giunti a Msomera a causa della scarsità d’acqua. Altri hanno utilizzato quasi tutto il denaro ricevuto come compensazione per rendere coltivabili i cinque ettari di terra arida intorno alla loro casa. Molti pastori hanno deciso di lasciare i propri animali in altri luoghi, data la mancanza di terre da destinare al pascolo e di acqua per abbeverare il bestiame.
A Msomera proprio la scarsità di risorse – acqua e pascoli – sta creando le condizioni per lo scoppio di conflitti con la comunità autoctona. La quale d’altra parte è, a sua volta, composta da numerosi pastori che già prima dell’arrivo dei masai faticavano a mantenere le proprie greggi a causa dell’asprezza del territorio circostante. Una scarsità di risorse che ora è solo destinata ad acuirsi.
D’altronde, il governo nel disegnare il piano di riallocazione non ha coinvolto gli abitanti di Msomera in un processo di consultazione previo e informato. E così le istituzioni tanzaniane non hanno considerato la complessità del territorio destinato ad accogliere i Masai. Addirittura, diversi abitanti del villaggio sono stati espropriati e le loro case e terre distribuite a chi proveniva dal Ngorongoro. Non stupisce quindi che un leader tradizionale del villaggio abbia sottolineato: «Non siamo d’accordo con il piano del governo di dare la nostra terra alle persone del Ngorongoro, ma l’autorità governativa è troppo grande e non possiamo combatterla».
Dall’altro lato, molti Masai non hanno intenzione di piegarsi alle scelte dell’esecutivo e continuano a opporsi al piano di riallocazione, rivendicando al contempo i diritti sulle proprie terre nel Ngorongoro. Ad aprile 2022, i leader comunitari hanno inviato una lettera – firmata da 11mila membri – al governo e ai suoi maggiori finanziatori, ricordando che «questa non è la prima volta che combattiamo per assicurare i nostri diritti e proteggere le vite del nostro popolo. Abbiamo bisogno di una soluzione permanente e ne abbiamo bisogno ora. Non ce ne andremo. Né ora, né mai».
Aurora Guainazzi
Continua lo sfratto delle popolazioni locali da Nord a Sud
Per alleggerire la pressione turistica sui Parchi del Nord, negli ultimi anni, la Tanzania ha iniziato a investire sempre di più nella creazione di aree protette anche a Sud. Tra esse il Parco nazionale del Ruaha, il cui sviluppo dal 2017 è al centro di un progetto finanziato dalla Banca mondiale. L’iniziativa, dal valore di 150 milioni di dollari e dalla durata di otto anni, mira alla creazione di un’area protetta dove, al pari di quanto sta avvenendo nel Ngorongoro, insediamenti umani e attività economiche sono proibiti e lasciano spazio alle attività turistiche. Anche in questo caso, le politiche che il governo tanzaniano sta perseguendo per raggiungere il suo obiettivo sono subdole e violente. Attraverso espropriazioni, uccisioni extragiudiziali e saccheggio del bestiame, i ranger del Ruaha mettono le popolazioni locali sotto pressione, rendendo le loro condizioni di vita insostenibili e forzandole ad abbandonare le proprie terre. E quel che è peggio, è che tutto ciò è accaduto con il tacito benestare della Banca mondiale, che a lungo ha ignorato le accuse di violenza rivolte ai ranger tanzaniani. Solo ad aprile 2024, dopo l’ennesima denuncia della comunità locale e un’indagine interna, l’organizzazione finanziaria internaziona- le ha deciso di sospendere la concessione dei fondi (anche se nella pratica gran parte di essi – circa 100 milioni di dollari – è già stata erogata).