Libano. Israele contro sciiti e sunniti

Il conflitto si allarga alla Siria

Un'immagine di Nabatiye, cittadina ripetutamente bombardata dall'esercito israeliano. Foto Angelo Calianno.
Libano
Angelo Calianno

 

Verso Nabatiye. Nell’ultima settimana, siamo stati testimoni di un nuovo e grande fermento in Medioriente. La presa della Siria da parte dei «ribelli» sunniti di Hts (Hayat Tahrir al-Sham) sta avendo molte ripercussioni anche qui, in Libano.

Migliaia di siriani si sono riversati per le strade di Beirut e per quelle delle principali città libanesi, per festeggiare la liberazione della propria nazione dal regime di Assad. La maggior parte dei siriani rifugiati in Libano, e il 28% della popolazione locale, sono sunniti in un Paese a prevalenza sciita. Qui le divisioni sociali di origine religiosa sono sempre molto presenti. Non ci sono mai scontri aperti, lo si può però notare nella quotidianità. Ad esempio, un musulmano sunnita non può lavorare in un ambiente sciita, così come ad un musulmano sciita non verrà mai data la possibilità di comprare casa in un quartiere cristiano, ecc.

La maggioranza sciita libanese guarda con sospetto quello che sta accadendo al di là del confine. Una guardia di Hezbollah, fuori da una moschea dove attendiamo alcuni permessi, ci confessa: «Siamo felici che la Siria, dopo così tanto tempo, si sia liberata dal regime di Assad. Però, chi sono questi ribelli? Pochi sono siriani, tanti sono mercenari stranieri. Questa è una manovra di Israele e Stati Uniti per continuare a colpire e occupare Libano e Palestina, e per combattere indirettamente contro la Russia».

In Libano, mentre la parte sunnita della comunità musulmana gioisce, l’altra si dispera per quello che accade nella parte Sud del Paese. Gran parte dell’area meridionale confinante con Israele, infatti, è stata quasi rasa al suolo. Pur essendoci un «cessate il fuoco» in vigore, Israele sta bombardando 62 villaggi in un’area compresa tra il proprio confine e il fiume litani.

Questi villaggi, in realtà, erano già stati totalmente evacuati perché già sotto attacco dall’8 ottobre 2023. Quindi, perché distruggere case e infrastrutture vuote? Israele dichiara di voler creare una «safe zone». Hezbollah lo accusa di stare distruggendo tutto per poi occupare e annettere nuovi territori. Nel frattempo, migliaia di persone hanno perso tutto e ora vivono come rifugiati nel proprio Paese.

A Nabatiye, un’altra città del sud fortemente colpita, incontriamo delle famiglie scappate da Houla, villaggio a pochissimi chilometri dal confine israeliano. Raccontano: «Il 90% di Houla non esiste più. Le nostre case, quelle che i nostri nonni e genitori hanno costruito, sono state spazzate via. Houla, come tanti paesi del Sud, è un luogo abitato per la maggior parte da anziani. È un posto da dove molti giovani si spostano per studiare e lavorare fuori, ma dove poi si torna per passare le feste, i weekend e per visitare i propri cari. Abbiamo visto il momento esatto del bombardamento della nostra casa in un video in internet. È stato il momento più brutto della nostra vita. Vedere distrutto quello che si è costruito con i sacrifici, è qualcosa che distrugge l’animo, soprattutto quello delle persone anziane che ora non hanno un altro posto dove andare».

Houla è conosciuta anche per un orribile massacro avvenuto nel 31 ottobre 1948, subito dopo la Nakba in Palestina. Un gruppo di militari israeliani, la brigata Carmeli, occupò la cittadina radunando circa cento persone in una casa. L’edificio venne poi fatto saltare in aria, non ci furono sopravvissuti. Inoltre, uno degli ufficiali in comando: Samuele Lais, fu responsabile diretto dell’esecuzione di 35 persone disarmate. Lais, accusato di crimini di guerra, passò solo un anno di detenzione confinato all’interno di una base militare. In seguito, fece carriera politica fino a diventare capo dell’Agenzia ebraica per Israele.

Nei giorni scorsi, alcuni membri dell’Idf sono entrati ad Houla vandalizzando il monumento che ne ricorda il massacro. Sulla grande lastra di marmo commemorativa, i militari hanno scritto in ebraico: «Lo sciita buono è lo sciita morto».

Chiunque incontriamo nel Libano del Sud, nonostante il divieto di rientro, ci dice di non essere assolutamente disposto a pensare ad una vita fuori dalla propria regione. Malgrado ora sia tutto in rovina, ognuna di queste persone è disposta a tornare per ricominciare daccapo con le proprie famiglie, e per costruire nuovi ricordi per le generazioni future.

Angelo Calianno (dal Sud del Libano)

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