Nella nostra lettura del Vangelo di Giovanni, alla scoperta del volto del Padre svelato da Gesù, siamo arrivati al capitolo 8, un testo difficile da comprendere che si presta a considerazioni ampie, valide per la lettura dell’intero Vangelo.
Apparentemente, infatti, il capitolo si mostra confuso e persino incoerente. Presenta discorsi già fatti, altri appena accennati che saranno ripresi più avanti, apparenti salti logici, argomentazioni che a noi non sembrano dimostrare molto. Davanti a pagine come queste, i commentatori provano a spiegare, a ricostruire, a volte immaginare che l’originale avesse meno informazioni o le presentasse in un ordine diverso che forse si può recuperare.
Alcuni di questi tentativi portano a esiti convincenti: ad esempio, è ormai condivisa tra gli studiosi la convinzione che lo splendido episodio dell’adultera perdonata (Gv 7,53-8,11) non fosse in origine parte del testo di Giovanni, in quanto ha uno stile e, in parte, anche dei contenuti che non sono quelli tipici del nostro evangelista. Non sappiamo chi lo abbia scritto né perché sia stato aggiunto al Vangelo di Giovanni, ma siamo riconoscenti che non sia andato perso.
Ci sono, poi, altre ipotesi, difficili da verificare, che solo in parte semplificano la lettura o spiegano il testo. A queste non dedicheremo qui del tempo, pur sapendo che esistono e che a volte sembrano anche sensate.
Più interessante è per noi cogliere il modo di scrivere di Giovanni fatto di continue ripetizioni, di ritorni su temi già trattati, con ragionamenti non lineari e poco organizzati.
L’evangelista sembra a volte procedere a spirale (torna su ciò che ha già detto, aggiungendo qualcosa), fino a sembrare disordinato. Può darsi che in questo modo voglia rispecchiare la vita reale, che non si presenta mai lineare e ordinata, ma piuttosto come una mescolanza apparentemente casuale di sfide, tensioni, gioie, speranze. Dentro questa mescolanza disordinata c’è la nostra esistenza fatta di cose che davvero contano e di altre meno importanti.
Nel tempio (Gv 8,11-20)
Nel capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, Gesù si trova nel tempio, vicino al «gazofilacio», dove si gettavano le elemosine. Probabilmente la scena avviene ancora durante la festa delle Capanne (7,2), quando Gesù era andato a Gerusalemme «di nascosto». Adesso però non si nasconde più e discute apertamente su di sé e sui suoi interlocutori, farisei e «giudei», ossia quelli che lo rifiutano.
La sua predicazione si incentra apparentemente su tre temi. Dapprima parla di sé come della «luce del mondo» (8,12), con una formula che tornerà nel capitolo successivo (9,5) e che riprenderemo a suo tempo. Poi torna sulla testimonianza che ne conferma il messaggio, di cui però ha già parlato nel capitolo 7 (e per il quale rimandiamo alla puntata precedente). Infine, e qui ci fermiamo un poco di più, affronta il tema del giudizio.I tre temi sembrerebbero accostati a caso, ma in realtà sono collegati: la pretesa di Gesù di essere la luce del mondo, ciò che aiuta gli uomini a vedere e giudicare, è confermata dalla testimonianza che su di lui offre il Padre. Questa, a sua volta, è il fondamento della stessa possibilità di Gesù di giudicare (8,16).
In realtà, nel versetto precedente, Gesù sostiene di non giudicare nessuno (v. 15), ed è probabilmente questa affermazione che ha «aiutato» il redattore finale a scegliere di inserire poco prima il racconto dell’adultera. Lì Gesù dice di non giudicare nessuno perché si contrappone ai suoi ascoltatori, che giudicano «secondo la carne». Subito dopo aggiunge che, se anche giudica, lo fa in modo autentico, vero, perché forte della testimonianza del Padre.
La successiva reazione dei farisei («Dov’è tuo padre?», v. 19) e la risposta di Gesù ci aiutano a intuire qualcosa sul senso dell’intero brano. Gesù sostiene infatti che giudei e farisei non conoscono né lui né il Padre. Ma com’è che si conosce una persona? Tramite le sue generalità? Nome, cognome, data e luogo di nascita? Noi siamo le nostre generalità? Questi dati siamo noi? Veramente sapere dove e quando siamo nati suggerisce qualcosa sulle nostre passioni, pensieri, relazioni? Questo modo di «conoscere», per dati oggettivi, sicuri, non opinabili, è ciò che Gesù chiama «secondo la carne». Dati certi, è vero, ma esteriori.
Questo è il modo con cui gli avversari di Gesù provano a «giudicarlo», a valutarlo: chi lo manda? Con che autorità parla? Qual è la prova chiara che noi dobbiamo ascoltarlo? È come se, prima di concedere fiducia a un amico, volessimo avere la prova incontrovertibile che non ci tradirà. Non è possibile, perché nessuna conoscenza oggettiva potrà andare a tale profondità. È profondo lo sguardo di chi coglie, intuisce, persino scommette che sì, quell’amico potrebbe tradirmi, ma non vorrà farlo. E questa conoscenza implica di mettersi in gioco, di non stare alla finestra a valutare. Di non avere certezze oggettive, ma un’intuizione dell’intimo.
Ecco perché Gesù sembra che inverta i termini, quando dice «se conosceste me, conoscereste anche il Padre» (v. 19). Sapendo che il Padre è Dio, ci sembrerebbe più logico dire che «se conosceste il cuore di Dio, sapreste che davvero vengo da lui». Ma l’approccio di Gesù non è quello razionale di una spiegazione scientifica, bensì guarda al midollo esistenziale dell’essere umano. In un rapporto di amicizia profonda, conosco sempre meglio il mio amico, ma anche me stesso. E chi conosce Gesù, coglie meglio anche il Padre, così come capire il Padre aiuta a intuirne la sintonia con Gesù.
Io sono (Gv 8,21-30)
Gesù ribadisce quindi che la radice, l’origine, il modo di pensare di coloro che stanno discutendo con lui, non sono i suoi: «Voi siete di questo mondo» (Gv 8,23). Questo non significa, evidentemente, che Gesù sia un extraterrestre, ma che chi ha davanti ragiona secondo il mondo, vuole garanzie e prove, vuole passare per una persona furba capace di vagliare chi ha di fronte senza ingenuità.
Da questo punto di vista la polemica apre in realtà lo sguardo su Dio: se questo approccio è incompatibile con il luogo da cui Gesù viene e verso cui va, è perché quell’altro luogo segue una logica diversa. Dio segue una logica che non è fatta di verifiche, valutazioni e sguardi accigliati di giudizio, che pensano di avere tutto sotto controllo.
Semmai, Dio è colui che si mostrerà pienamente quando Gesù sarà «innalzato» (v. 28), ossia quando sarà su quella croce che da una parte dice il fallimento, l’insensatezza e la fragilità, ma dall’altra mostra il volto più autentico di Dio, quello di un padre che si mette in gioco e si dona.
Ecco perché Gesù può dire, in questa sezione, che «Io sono» (v. 24). «Tu sei che cosa?», paiono chiedere i suoi interlocutori, così da andare a verificare se davvero funziona. Non capiscono che Gesù ha utilizzato una formula che era già stata usata dal Dio dell’Esodo (cfr. Es 3,14). Io-sono, Io-ci-sono, io sono qui a disturbare le tue certezze e confortare le tue insicurezze. Solo chi non si pone come giudice di fronte alla vita, ma si apre alla speranza di un senso e di una vicinanza, è confortato dalla rassicurazione che «Io ci sono e ci sarò».
Gesù ci indica un Padre che non si presta a definizioni e valutazioni, ma che promette la sua presenza.
E allora il fraintendimento dei farisei può suonare buffo ai cristiani che conoscono la vicenda di Gesù. «Dove vado non potete venire». «Vorrà forse uccidersi?» (vv. 21-22). L’ipotesi è assurda, ma in effetti Gesù vorrà donare la sua vita, fidandosi di un Padre che non dà garanzie o prove di salvare la vita del suo stesso Figlio, ma che promette di non sparire.
È interessante vedere come a questo punto Giovanni annoti che «molti credettero in lui» (v. 30). Se si cambia modo di guardare all’offerta di Gesù, non come qualcosa da vagliare ma come una promessa da accogliere o rifiutare, si può incontrarlo davvero come Dio vuole farsi trovare, nella fiducia e nell’affidamento che contestano ogni forma di puntigliosa verifica dall’alto.
Discussioni varie (Gv 8,32-59)
Diventa allora più chiaro il senso delle discussioni variegate e apparentemente disordinate che seguono nei versetti successivi.
In parte vertono sul rapporto con Abramo: chi discute con Gesù pensa di avere il diritto e la garanzia della libertà perché legati in modo formale e indiscutibile a lui (discendenza dimostrabile dalle genealogie). Gesù contesta, in modi anche duri, che sia sufficiente essere discendenti: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (v. 39), che di Dio si era fidato senza alcuna garanzia. Al di là dei particolari, il filo del discorso resta lo stesso: di fronte a Dio non ci sono diritti acquisiti, magari da altri, ma solo il fidarsi, l’affidarsi, l’entrare in una relazione personale che non offre garanzie ma promesse. Tutto molto più sfuggente e a rischio, ma anche tutto molto più umano e interiore, profondo e spirituale. Gesù svela il modo di ragionare del Padre.
Per questo può addirittura spingersi a parlare di verità e menzogna. Chi ci giudicasse e vagliasse dai nostri dati anagrafici, resterà probabilmente in superficie e non coglierà di noi l’essenziale. Ossia, avrebbe un quadro bugiardo e inaffidabile di noi.
E ciò che Gesù ribadisce è proprio che lo sguardo divino è quello non esteriore, non formale, non di appartenenza dimostrabile, è quello del legame personale, del rapporto più intimo e profondo che passa dalla fiducia. E sottolinea che questo sguardo è il più autentico e vero, quello che può garantire il legame con il Padre che assicura la vita eterna. Ecco perché «chi custodisce la mia parola» (v. 51), che imposta questa modalità di rapporto con Dio, «non vedrà la morte per sempre».
Questo era ciò che Abramo e i profeti avevano intuito, nel cuore di Dio e passando dalla promessa di una terra e di un figlio (v. 56). Questo è ciò che il Padre attesta, nella vita e poi nella risurrezione di Gesù, la sua definitiva e sicura intenzione di prendersi cura della vita degli esseri umani, in una promessa che passa inevitabilmente dall’incertezza di non avere in mano la prova dimostrata che sia affidabile.
Come in ogni dimensione più profonda dell’essere umano, il cuore delle scelte non passa da un calcolo economico, ma dalla decisione se credere o no a una promessa.
Questo Gesù lo può garantire perché conosce il Padre fino in fondo, «prima che Abramo fosse, io sono» (v. 58). È, di nuovo, la formula con cui Dio si era presentato a Mosè, «Io-sono». È la pretesa di conoscere Dio in quanto è come lui. Si capisce la reazione della folla, che pensa di trovarsi di fronte a una bestemmia e tenta di lapidarlo. Ma non è ancora l’ora di Gesù, che si nasconde e fugge. Perché quando consegnerà la propria vita per essere innalzato sulla croce, non sarà per caso o per sfortuna, ma in quanto avrà deciso che è giunto il momento di offrirsi.
Angelo Fracchia
Il Volto del Padre 10 – continua