Riparare alla barbarie


Con la globalizzazione e la liberalizzazione le imprese hanno avuto l’opportunità di produrre a costi inferiori. A pagare sono stati i lavoratori e l’ambiente. Oggi, finalmente, nuove leggi sulla «due diligence» cercano di porre rimedio a questa barbarie.

Prima che la globalizzazione partisse in grande stile, diciamo una trentina di anni fa, le imprese che si presentavano ai consumatori con i loro marchi avevano l’abitudine di curare l’intero ciclo produttivo di ciò che vendevano. Parlando di vestiario, ad esempio, le imprese compravano le stoffe e le immettevano nei propri stabilimenti, funzionanti con propri dipendenti, per ottenere indumenti pronti alla vendita, partendo dal taglio e proseguendo con la cucitura, il lavaggio, la stiratura. Le imprese più esigenti sul piano della qualità gestivano in proprio perfino la filatura e la fabbricazione di stoffe a partire dal cotone o la lana.

Con la globalizzazione, questo tipo di organizzazione è andato definitivamente in frantumi per adottare una strategia produttiva che già aveva cominciato a fare capolino negli Stati Uniti negli anni Sessanta del secolo scorso. La stessa strategia che aveva permesso a Nike, il notissimo marchio di scarpe e articoli sportivi, di diventare dal nulla un’impresa mondiale.

La storia del baffo

La storia dell’impresa con il baffo comincia nel 1964, allorché Phil Knight, giovane contabile americano e appassionato di corsa campestre, s’imbatte in un paio di scarpe sportive che trova particolarmente buone. Anche il marchio è affascinante: una tigre stilizzata nel momento del salto. Phil se ne innamora e progetta di commercializzarle. Convinto com’è che qualità e aggressività siano un mix ideale per farsi strada, si galvanizza. Da tempo sogna di mettersi in affari e quella può essere la sua grande occasione.

Dopo un approfondimento, appura che le scarpe tigrate vengono dal Giappone. Ma per lui che abita sulla costa Ovest del Pacifico, quella provenienza non è un problema. Contatta l’azien-

da produttrice, l’Onitsaka Company, e ottiene il contratto di distribuzione esclusiva per gli Stati Uniti.

Phil non ha negozi, non ha spedizionieri e risolve il problema improvvisandosi venditore ambulante all’uscita delle università e delle palestre. Come mezzo di trasporto usa la sua auto su cui ha fatto stampigliare la scritta Blue Ribbon Sports, la società che ha fondato per avviare l’attività. Due soli soci: lui e Bill Bowerman, suo istruttore sportivo. Le scarpe vanno, gli affari si allargano fino a dover assumere del personale, e Phil decide di voler diventare un vero imprenditore con un marchio tutto suo. Tanto più che il socio Bill, appassionato di modellistica, ha messo a punto un modello di scarpa ancora più leggero e più comodo di quello che stanno vendendo.

Nel 1971 si decidono per il gran-

de passo, ma non possiedono stabilimenti. Perciò bussano alla porta di un altro produttore giapponese disposto a lavorare per conto terzi. Gli forniscono il modello, si accordano sul prezzo e alla data prestabilita avranno il numero di scarpe ordinate. Complete di logo che uno studente americano ha disegnato per loro in cambio di 35 dollari: una specie di baffo, uno sgorbio simile a un boomerang che, nelle intenzioni del disegnatore, rappresenta un’ala, simbolo di Nike, la dea alata della mitologia greca che personifica la vittoria. Il resto lo conosciamo. Nike è diventata una multinazionale con un fatturato di 51 miliardi di dollari, ma neanche uno stabilimento produttivo. Ottiene i suoi prodotti da terzisti dislocati in 41 paesi del mondo, quelli a costo più basso.

Nike fece scuola e quando tutte le imprese del mondo si trovarono costrette dalla concorrenza mondiale ad abbattere i prezzi di produzione, tutte scoprirono la produzione in appalto. Smisero di produrre in proprio e cominciarono a ordinare ciò di cui avevano bisogno a imprese estere localizzate in paesi a bassi salari. Prima la Corea del Sud, poi Taiwan, l’Indonesia, la Cina, il Vietnam, il Bangladesh. Ora il Kenya, l’Etiopia, il Malawi.

I proprietari di marchi sono sempre con la valigia in mano alla ricerca di paesi dove la «licenza di sfruttamento» è più alta. La loro parola d’ordine è liberalizzazione produttiva, che poi significa assenza di regole.

Irresponsabili

In un mondo produttivo senza regole, la situazione si è fatta sempre più selvaggia e agli albori del terzo millennio è tornata la barbarie produttiva del protocapitalismo ottocentesco. È tornato il lavoro minorile, le paghe da fame, l’assenza di diritti sindacali, l’insicurezza nei luoghi di lavoro.

Uno dei primi disastri si ebbe in Cina nel 1993 all’interno della Zhili, una fabbrica di giocattoli che lavorava in appalto per Chicco Artsana. Alle due del pomeriggio, scoppiò un incendio, ma le operaie non poterono uscire perché i cancelli erano chiusi a chiave. Il bilancio finale fu di 87 ragazze morte carbonizzate e quaranta ferite.

Molti altri incidenti avvennero successivamente in varie altre imprese asiatiche che lavoravano in appalto per committenti stranieri, ma quello più grave si verificò in Bangladesh il 24 aprile del 2013. Un intero palazzo di sette piani, conosciuto come Rana Plaza, crollò uccidendo 1.138 operaie e ferendone altre duemila. Frugando fra le macerie emersero etichette delle più importanti multinazionali della moda mondiale, tra cui Benetton, che, pur di fare soldi, avevano appaltato la produzione a imprese locali le quali, a loro volta, contenevano i costi di produzione risparmiando anche sulla sicurezza.

Il crollo del Rana Plaza, infatti, non fu un fulmine a ciel sereno: le lavoratrici già da tempo avevano denunciato la presenza di crepe, ma erano state ignorate.

In un mondo normale, le vittime dovrebbero ricevere almeno un indennizzo. Ma, nei vari incidenti, raramente è successo. Di solito, l’impresa terzista si rifiuta di pagare perché esonerata dalla legge locale, mentre l’impresa committente si chiama fuori asserendo di non avere alcun tipo di responsabilità verso una mano d’opera che non dipende direttamente da essa. Quelle rare volte che le vittime hanno ricevuto un indennizzo è stato grazie all’impegno della società civile che ha organizzato proteste e campagne. Così è stato per le vittime della Zhili grazie alla campagna organizzata nel 1997 dal Centro nuovo modello di sviluppo e altrettanto è stato per le vittime del Rana Plaza grazie all’intenso lavoro svolto dalla Clean clothes campaign. Campagne organizzate nei confronti delle imprese committenti che si rifiutavano di pagare non per una questione di soldi, ma di principio. Si dicevano disponibili a dare dei soldi, ma solo per la loro «bontà», non perché avessero un obbligo. La vecchia politica delle imprese disponibili a dare, se e quando vogliono, a titolo di carità e non come atto riparatorio per aver mancato in una precisa responsabilità ledendo un diritto.

La «diligenza dovuta»

Questo modo di operare da parte di diverse aziende, è reso possibile da una politica connivente che, per decenni, ha permesso alle imprese di rivendicare il diritto di intascare i soldi dello sfruttamento senza assumersi alcuna responsabilità, non perché ci fossero delle leggi che le autorizzassero, ma perché non esistevano leggi che affermassero il contrario. Niente leggi, niente diritti, niente obblighi.

Il pretesto utilizzato dai vari parlamenti nazionali per giustificare la propria inazione era la difficoltà di emettere leggi che avrebbero dovuto essere rispettate simultaneamente in più paesi. Tuttavia, già nel 2011 la Commissione Onu per i diritti umani aveva indicato la soluzione. La cosa da fare da parte degli Stati era di obbligare le imprese registrate nel proprio Paese ad assumersi la responsabilità di ciò che succede ai lavoratori e all’ambiente lungo le filiere produttive da esse utilizzate. Un concetto espresso con il termine inglese di due diligence, che in italiano potrem-mo tradurre come «diligenza dovuta» o, meglio ancora, «dovere di prendersi cura», sottinteso dei diritti dei lavoratori e dell’ambiente. Un imperativo che, in concreto, si attua attraverso tre passaggi chiave: innanzitutto vigilanza, per accertarsi che tutela ambientale e diritti dei lavoratori siano rispettati in ogni punto delle filiere produttive; secondariamente, correzione di ciò che non va; infine, messa in atto di tutte le misure di indennizzo nel caso siano stati provocati dei danni.

In Europa il primo paese a raccogliere la raccomandazione delle Nazioni Unite è stata la Francia che, nel 2017, ha promulgato la cosiddetta Loi de vigilence. Nel 2021, è seguita la Germania con una legge analoga e, finalmente, nell’aprile 2024 anche il Parlamento europeo ha legiferato in materia. Con una precisazione: i provvedimenti del consesso dell’Ue non sono indirizzati direttamente ai cittadini, ma ai parlamenti o ai governi degli stati membri. Sono ordini impartiti ai paesi aderenti affinché redigano leggi nazionali secondo le indicazioni definite dal Parlamento europeo.

L’Unione europea interviene

Nel caso della due diligence, la direttiva del Parlamento europeo dà agli Stati aderenti due anni di tempo per produrre una legge che attribuisca ai grandi marchi una serie di obblighi di controllo, correzione e indenizzo: in sostanza, gli stessi previsti dalla Commissione Onu per i diritti umani.

La Direttiva europea non è perfetta: si applicherà solo a gruppi molto grandi con più di 1.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore a 450 milioni di euro. Inoltre, prevede meccanismi di gestione e pratiche amministrative non ancora sperimentate che le imprese possono cercare di manipolare. Nonostante i suoi difetti, però, il provvedimento è importante almeno per due motivi. In primo luogo, perché rappresenta un cambio di passo rispetto al ruolo assegnato dall’ordinamento giuridico alle imprese: non più il profitto a ogni costo, ma solo se ottenuto nel rispetto dei diritti dei lavoratori e dell’integrità del pianeta. In secondo luogo, perché la forza di persuasione dell’Ue potrebbe avere un effetto domino positivo su altre giurisdizioni e altri mercati.

La direttiva due diligence avrà i suoi effetti anche sulle aziende della moda, comprese le italiane. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, il settore tessile è fra quelli a più alto rischio di violazione dei diritti umani, insieme al minerario e all’agricolo. Le filiere di produzione della moda sono costellate di sfruttamento, povertà e disparità salariale, straordinari obbligatori, fabbriche insicure, prezzi di acquisto bassi e comportamenti commerciali predatori da parte dei marchi committenti.

Non c’è bisogno di andare in Bangladesh per rendersene conto: nel corso del 2024 la magistratura italiana ha preso provvedimenti contro Armani e Dior per presunta agevolazione colposa del caporalato. Del resto il Global slavery index del 2023 pone il settore tessile al secondo posto per numero di persone sottoposte a lavoro forzato. Per questo la Campagna abiti puliti, assieme al network internazionale della Clean clothes campaign, ha condotto un’intensa attività di lobby sul Parlamento europeo per ottenere l’approvazione del provvedimento sulla due diligence.

Francesco Gesualdi