La cronaca racconta che due paesi della Nato, la Germania e la Svezia, hanno già in distribuzione opuscoli per istruire la loro popolazione su come comportarsi in caso di guerra. Difficile stabilire se si tratti di giusta prevenzione o di esagerazioni politiche. Intanto, però, le istruzioni – cartacee e digitali – sono già arrivate nelle case dei cittadini.
«Viviamo in tempi incerti – si legge nell’introduzione dell’opuscolo svedese “In caso di crisi o guerra” (pubblicato dall’Agenzia svedese per le emergenze, Msb, a novembre 2024 e spedito a cinque milioni di famiglie) -. Attualmente, nel nostro angolo di mondo sono in corso conflitti armati. Terrorismo, attacchi informatici e campagne di disinformazione vengono utilizzati per indebolirci e influenzarci. Per resistere a queste minacce, dobbiamo restare uniti. Se la Svezia viene attaccata, tutti devono fare la loro parte per difendere l’indipendenza svedese e la nostra democrazia. Ogni giorno costruiamo resilienza, insieme ai nostri cari, colleghi, amici e vicini. In questa brochure, imparerai come prepararti e agire in caso di crisi o guerra».
«In tempi incerti – si legge a pagina 5 -, è importante essere preparati. I livelli di minaccia militare stanno aumentando. Dobbiamo essere pronti allo scenario peggiore: un attacco armato alla Svezia». E così continua: «Quando la violenza militare viene usata per soggiogarci, il nostro diritto a vivere una vita libera e indipendente è minacciato. Tuttavia, ci sono altri modi, oltre al conflitto armato, per influenzare e indebolire la nostra società; ad esempio, attacchi informatici, campagne di disinformazione, terrorismo e sabotaggio. Questi tipi di attacchi possono verificarsi in qualsiasi momento. Alcuni stanno accadendo qui e ora. Non possiamo mai dare per scontata la nostra libertà».
Nelle 32 pagine del libretto, utilizzando molte illustrazioni si danno consigli sui comportamenti da tenersi in caso di minaccia di guerra e di conflitto conclamato, ma anche in altre situazioni come attacchi terroristici ed eventi meteorologici estremi: si va dai sistemi d’allarme alla difesa dalle fake news, dall’evacuazione delle case al comportamento nei rifugi, dal cibo ai servizi igienici.
Meno dettagli e consigli ma stessa messa in guardia nell’opuscolo del Bundeswehr, l’esercito tedesco, pubblicato in Germania a luglio 2024. «L’attacco illegale della Russia all’Ucraina nel 2022 – vi si legge – ha scosso l’architettura di sicurezza europea a fondo e costretto la Germania a riprogettare la sua capacità di difesa […] una cosa è certa: la Germania e la sua popolazione devono diventare più robuste e più resilienti per essere preparate ad affrontare minacce e aggressori».
I due opuscoli di Svezia e Germania sono l’ennesima prova che il conflitto scatenato – ormai sono trascorsi oltre mille giorni dal suo inizio – dalla Russia di Putinha aperto un vaso di Pandora di reazioni (negative, ma comprensibili), a cominciare dalla corsa al riarmo da parte dei paesi europei.
Paolo Moiola
Mondo. Rifugiati in fuga dal clima
Cresce sempre di più il numero di rifugiati nel mondo. Ma soprattutto aumentano quelli che – fuggiti da guerre, violenze e persecuzioni – trovano rifugio in Paesi dove c’è un rischio alto o estremo che si verifichino disastri legati al cambiamento climatico.
A metà 2024, secondo il rapporto No Escape. On the frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement dell’Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), circa 90 milioni di persone – il 75% degli attuali 123 milioni di sfollati – si trovavano in Paesi dove il rischio di disastri naturali era alto o estremo.
I conflitti restano la prima causa di flussi transfrontalieri, ma è sempre più frequente che a loro si sommino gli effetti del cambiamento climatico, in una relazione complessa e multidimensionale che aggrava disuguaglianze preesistenti, indebolisce la coesione sociale e mina la disponibilità di risorse naturali come acqua pulita e terra arabile.
Quello che, ad esempio, sta accadendo in Ciad, dove hanno trovato rifugio circa 700mila persone in fuga dal conflitto in Sudan. Qui la popolazione deve fare i conti con la presenza di gruppi armati al confine e con la mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria. A ciò poi si aggiunge il fatto che le regioni orientali del Ciad sono una delle aree più vulnerabili al cambiamento climatico: sono sempre più frequenti piogge torrenziali e inondazioni che colpiscono i campi di sfollati, distruggono le infrastrutture di base e contaminano l’acqua. Esacerbando le già difficili condizioni di vita e aumentando il rischio di tensioni tra rifugiati e comunità autoctone.
Spesso, la situazione è talmente difficile che molti di coloro che hanno lasciato il proprio Paese per un conflitto decidono di spostarsi nuovamente a causa degli effetti del cambiamento climatico. I rifugiati quindi si trovano intrappolati in un circolo vizioso di spostamenti continui e protratti. Nel solo 2023, 42 dei 45 Paesi che accoglievano persone in fuga da conflitti hanno anche sperimentato spostamenti a causa di disastri naturali. A maggio 2024, ad esempio, piogge torrenziali e inondazioni hanno travolto lo stato brasiliano del Rio Grande do Sul (estremo Sud del Paese), causando la morte di 181 persone. Tra i colpiti c’erano anche 43.000 rifugiati provenienti da Venezuela, Haiti e Cuba, nuovamente gettati in una situazione di incertezza.
Ma i casi sono tanti. Il 38% dei rifugiati venezuelani si trova in Colombia, un Paese frequentemente colpito da disastri naturali. Oppure l’86% degli sfollati afghani si è spostato in Iran e Pakistan, Stati che subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Ma è anche il caso del 72% dei rifugiati del Myanmar che si trovano in Bangladesh, dove i rischi naturali sono considerati estremi.
Entro il 2040, secondo l’Unhcr, il rischio di disastri climatici vedrà un’escalation, soprattutto nelle Americhe, in Africa centroccidentale e nel Sud Est asiatico. Il numero di Paesi a rischio estremo aumenterà da tre a 65 e, tra essi, ci saranno Stati come Camerun, Ciad, Sud Sudan, Nigeria, Brasile, India e Iraq che attualmente ospitano il 40% di tutti i rifugiati nel mondo.
E se anche alcuni di questi rifugiati decidessero di tornare nel Paese d’origine, è altamente probabile che pure lì si trovino a fare i conti con il cambiamento climatico. A metà 2024, il 75% di coloro che avevano tentato di tornare a casa dopo un conflitto, stava subendo proprio le conseguenze di disastri climatici. Tra fonti di reddito distrutte e reti sociali frammentate, per un rifugiato è sempre più difficile costruirsi una vita degna e sicura.
Ma un problema di fondo è quello delle politiche adottate per affrontare queste situazioni. A livello internazionale, gli Stati sono tenuti a preparare e aggiornare dei documenti – i Contributi determinati a livello nazionale (Ndc) e i Piani di adattamento nazionale (Nap) – contenenti le loro strategie di lotta contro il cambiamento climatico. Ma solo il 35% dei Nap presentati a luglio 2024 era frutto di consultazioni con le comunità vulnerabili. In 54 Ndc (su 166) venivano citati gli sfollati in modo forzato a causa del cambiamento climatico, ma appena 25 documenti contenevano misure concrete per farvi fronte.
E da ultimo, ma non per questo meno importante, mancano i fondi. Attualmente, il 90% della finanza climatica è destinato a Paesi a medio reddito, mentre gli Stati che ospitano la maggioranza dei rifugiati il più delle volte non ricevono supporto. Soprattutto se c’è un conflitto: secondo l’Armed conflict location & event data (un database che monitora il trend dei conflitti nel mondo), più alta è l’intensità di un conflitto, più bassa è la probabilità che il Paese riceva risorse per contrastare il cambiamento climatico.
Con il risultato che i più fragili e vulnerabili ancora una volta sono lasciati indietro.
Aurora Guainazzi
Mondo. Ha vinto la teologia fossile
C’è stata una continuità tra la Cop28 e la Cop29: entrambe le conferenze sul clima sono state organizzate in «petrostati», paesi produttori di idrocarburi. Si è passati, infatti, dagli Emirati arabi uniti (2023) all’Azerbaijan (2024). Ipocrita dunque stupirsi che, sia nel primo che nel secondo caso, il risultato in tema di mitigazione climatica e transizione energetica sia stato nullo: tante parole, qualche promessa, pochi o pochissimi risultati.
Che a Baku le cose si sarebbero messe male si era capito fin dall’inizio. La ventinovesima Conferenza delle parti (Cop) è iniziata l’11 novembre, pochi giorni dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, noto per il suo negazionismo climatico e prossimo presidente degli Stati Uniti, il secondo più grande emettitore di gas serra dopo la Cina. Il magnate statunitense ha fatto immediatamente proseliti: il presidente argentino di ultradestra Javier Milei ha ordinato il ritiro della sua delegazione.
Nella giornata d’apertura, ha parlato il padrone di casa, il presidente e dittatore Ilyam Aliyev. Figlio di Heydar Aliyev, alla guida del Paese dal 1993 al 2003, Ilyam Aliyev è al potere dal 2004, essendo stato (teorico) vincitore di quattro consecutive elezioni. Nel suo discorso inaugurale, l’uomo ha dato il proprio benvenuto ai partecipanti e, dopo aver elogiato il proprio Paese (che, tra l’altro, occupa con la forza la regione armena del Nagorno-Karabakh) e criticato l’Occidente, ha fatto chiaramente intendere che l’ipotizzata transizione energetica dovrà attendere. Furbissima la sua spiegazione: gas e petrolio sono «un dono di Dio». Per inciso, l’Azerbaijan ci ricorda che gran parte delle riserve mondiali di idrocarburi è in mano a stati dittatoriali: Russia, Arabia Saudita, Iran, Venezuela. Tutte dittature che si reggono sulla produzione e vendita di gas e petrolio.
Oltre che a rallentare il cambiamento climatico, la transizione energetica sarebbe anche una scelta morale a favore della democrazia e della libertà.
A Baku, dopo dieci giorni di discussioni improduttive (soprattutto sui soldi da destinare ai paesi poveri o in via di sviluppo di Africa, Asia e America Latina per affrontare le emergenze climatiche e la transizione), la Cop29 è stata chiusa – domenica 24 novembre – in ritardo di un giorno e mezzo sul calendario. L’accordo raggiunto prevede trecento miliardi di dollari all’anno (promessi, non elargiti), che sono poco più di nulla di fronte alla gravità dei problemi.
Come si sono comportati i paesi più importanti? L’Arabia Saudita, di gran lunga il primo dei petrostati, ha lavorato – apertamente e di nascosto – per ostacolare ogni accordo che prevedesse un riferimento all’abbandono delle fonti fossili (la cosiddetta decarbonizzazione). Quanto alla Cina, primo inquinatore e seconda economia mondiale, è clamoroso che essa contribuirà ai finanziamenti per il clima in maniera volontaria, a differenza dei paesi ricchi che sono obbligati. Per gli Stati Uniti, secondo inquinatore e prima economia, occorrerà invece attendere l’insediamento di Trump 2, ma l’anti ambientalismo dichiarato del tycoon induce all’assoluto pessimismo.
Infine, riguardo all’Unione europea, attore tra i più avanzati nel contrasto ai cambiamenti climatici, il suo attivismo è stato frenato dalle divisioni interne prodotte dall’avanzata dei partiti sovranisti, ma – a conti fatti – rimane il protagonista più serio.
Nel 2025, la Cop30 si svolgerà in Brasile, a Belém, la porta d’ingresso dell’Amazzonia, uno degli ecosistemi mondiali più importanti e più in sofferenza.
Paolo Moiola
Somaliland. Le elezioni nel «non Stato»
Lo scorso 13 novembre, il Somaliland ha tenuto la sua quarta elezione presidenziale dal 1991. Cioè dall’anno in cui la regione – composta dai territori settentrionali della Somalia – ha dichiarato unilateralmente la propria indipendenza da Mogadiscio. Da quel momento, il Somaliland elegge un proprio Governo e si è dotato di un Parlamento. Emette una sua moneta (lo scellino del Somaliland) e ha propri passaporti. Ma, finora, nessuno Stato della comunità internazionale ne ha riconosciuto l’indipendenza. E, soprattutto, la Somalia continua a rivendicare la propria sovranità su questo territorio.
Le elezioni
Ciononostante, l’esercizio della democrazia in Somaliland continua. Addirittura, alcuni esperti lo annoverano tra gli Stati de facto «più stabili» al mondo. Quest’anno, a sfidarsi erano in tre. Ma era chiaro che a contendersi la massima carica dello Stato sarebbero stati il presidente uscente Muse Bihi Abdi, leader del Peace, unity and development, e l’ex speaker del Parlamento e capofila dell’opposizione Abdirahman «Irro» Mohamed Abdullahi del Somaliland national party. L’outsider era Faysal Ali Warabe del Justice and welfare party.
Alla fine, con il 64% dei consensi si è imposto Abdirahman, ex diplomatico di grande esperienza. La politica internazionale infatti è stata uno dei temi più caldi del dibattito pre elettorale, assieme alla preoccupazione per il crescente costo della vita. Molti elettori si sono interrogati sul peso internazionale dei candidati e su ciò che avrebbero potuto fare, una volta eletti, per promuovere il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland. Le posizioni erano molto diverse.
Da un lato, c’era Abdi che puntava sul memorandum d’intesa «port-for-recognition» (un porto per il riconoscimento) siglato a gennaio 2024 con il Primo ministro etiope Abiy Ahmed. Infatti, se l’Etiopia si è assicurata l’affitto del porto di Berbera, il Somaliland ha ottenuto che la sua richiesta di un riconoscimento internazionale venisse tenuta in «profonda considerazione». La firma del patto però ha causato un’escalation di tensioni diplomatiche con la Somalia, oltre al coinvolgimento (anche militare) di altri Stati della regione. E così, dall’altro lato, c’era «Irro» che dipingeva il presidente uscente come un attore profondamente divisivo.
Il memorandum
Alla fine ha vinto proprio lui, Abdirahman. Ma la situazione che si trova a gestire è decisamente complessa, con il Somaliland stretto tra Etiopia e Somalia. Il bagaglio diplomatico di «Irro» sarà fondamentale per tentare di sbrogliare la complessa matassa che è diventato il Corno d’Africa. Tentando, al contempo, di ottenere il tanto agognato riconoscimento internazionale.
Già nel 2019, l’Etiopia aveva acquistato una partecipazione del 19% nel porto di Berbera. Ora con il memorandum ne ha ottenuto l’affitto per cinquant’anni, garantendosi venti chilometri di costa sul Mar Rosso per le proprie operazioni commerciali e a una base navale. Si trattava di riavere quello sbocco sul mare che Addis Abeba aveva perso nel 1993 con l’indipendenza dell’Eritrea e che l’aveva costretta a dipendere per tre decenni dal porto di Gibuti (da cui, ancora oggi, transita il 95% del traffico commerciale marittimo etiope).
Per l’Etiopia, avere un accesso diretto al mare è fondamentale anche per affermare il proprio status di grande potenza regionale. Tant’è che Abiy Ahmed ha affermato: «L’Etiopia è un’isola circondata dall’acqua, ma è assetata. Il Mar Rosso e il Nilo ne determineranno il futuro. Sono profondamente interconnessi al nostro Paese e saranno le fondamenta del suo sviluppo o della sua scomparsa». Il riferimento, chiaro, era al dibattito sull’accesso al Mar Rosso. Ma anche alle tensioni con l’Egitto per la Grand renaissance dam, la diga che l’Etiopia ha innalzato sul Nilo blu e che, secondo Il Cairo, mina le sue risorse idriche.
Tensioni con l’Egitto, dunque. Ma anche con Gibuti che non apprezza un accordo che riduce i flussi commerciali nel suo porto. E, soprattutto, cresce il malcontento della Somalia, indispettita dalla promessa etiope di tenere in «profonda considerazione» la richiesta del Somaliland di un riconoscimento. Mogadiscio ha definito l’accordo «oltraggioso» e dichiarato che non avrebbe ceduto nemmeno «un millimetro» del proprio territorio. Il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha poi rincarato la dose, dicendo: «Non staremo a guardare, mentre la nostra sovranità viene compromessa».
Così in agosto, Somalia ed Egitto hanno firmato un patto di sicurezza: entrambi sono intenzionati a opporsi alla politica di potenza di Abiy Ahmed. Il Cairo ha inviato equipaggiamento militare pesante e diversi aerei a Mogadiscio. Una dimostrazione di forza che ha irritato l’Etiopia.
Decidere se andare avanti e rendere il memorandum un accordo definitivo – con il rischio, come lui stesso ha denunciato in campagna elettorale, di incendiare ulteriormente la regione – sarà ora una delle prime questioni scottanti nelle mani di «Irro».
Aurora Guainazzi
Italia. Missione come ponte tra mondi
Il Festival della missione 2025 si terrà a Torino. Preceduto da eventi pre festival durante il 2025, si svolgerà tra il 9 e il 12 ottobre nelle piazze della città.
In un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali, il tema della kermesse sarà «Il volto prossimo».
Non sarà una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza nel quale ascoltare il racconto di molte esperienze di pace, resistenza e trasformazione.
Sarà Torino la città ospite del prossimo «Festival della Missione», occasione di riflessione e, soprattutto, di incontro con molti protagonisti della «Chiesa in uscita» nelle periferie del mondo.
Un evento che, come spiegano i promotori, non sarà solo una celebrazione della missione, ma un laboratorio di speranza e un invito a tutti ad aprirsi al mondo.
L’interrogativo sul volto del prossimo, e sul rendere prossimo il nostro volto all’altro, ha una sua urgenza particolare oggi, in un contesto globale nel quale le distanze tra persone e tra Paesi sembrano aumentare, così come i conflitti e le crisi ambientali.
Alla conferenza stampa di presentazione del Festival, tenutasi martedì 19 novembre presso l’Arcivescovado di Torino, sono intervenuti monsignor Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, Agostino Rigon, direttore generale del Festival (insieme a Isabella Prati), e Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica dell’evento (insieme al regista e documentarista Alessandro Galassi).
Per loro, Torino, città con una forte vocazione missionaria che ha visto nascere le missioni salesiane di don Bosco e l’Istituto Missioni Consolata di san Giuseppe Allamano, canonizzato lo scorso 20 ottobre, diventerà il cuore pulsante di una riflessione universale.
Il legame tra il Festival della Missione e il Festival dell’Accoglienza, come sottolineato da monsignor Repole, sarà un’occasione per allargare gli orizzonti, connettendo l’attenzione ai più fragili (del secondo) con la prospettiva internazionale (del primo).
Agostino Rigon ha definito il Festival «una risposta al movimento dello Spirito e della storia», sottolineando l’urgenza di camminare insieme come Chiesa e società.
In un momento in cui le forze del mondo missionario sembrano ridursi, l’obiettivo dell’iniziativa non è solo quello di unire risorse, ma di costruire alleanze e ponti con realtà civili e religiose.
Tra piazza Castello e piazza San Carlo, ha aggiunto il direttore generale del Festival, si allestiranno «tavoli di ascolto» dedicati alla ricerca delle tracce del divino nella realtà contemporanea.
Il centro di tutto, ha spiegato Lucia Capuzzi, sarà la narrazione. Non la speculazione teologica sulla missione, ma il racconto dei protagonisti della missione.
Le storie saranno il fulcro del programma, coinvolgendo missionari e comunità di tutto il mondo per raccontare esperienze di annuncio, di pace, giustizia e trasformazione.
Tra i progetti più significativi che faranno parte degli eventi «pre festival», quelli che verranno organizzati in città nelle settimane che precederanno il Festival, vi sarà un focus su Haiti, paese «invisibilizzato» dai media internazionali e attualmente sconvolto da violenza e povertà, e un altro su una periferia come Brancaccio, a Palermo, dove la memoria di don Pino Puglisi continua a ispirare progetti di rinascita.
Il Festival proporrà durante l’anno scolastico anche un programma educativo sulla pace, elaborato in collaborazione con il Centro studi Sereno Regis, che mira a mostrare i meccanismi della violenza e a promuovere la nonviolenza e giustizia riparativa. L’11 ottobre, in Piazza Castello, si terrà un grande evento dedicato alla pace.
Durante la conferenza stampa, per dare un assaggio di cosa sarà il Festival, sono intervenuti anche tre missionari per dare la loro testimonianza: suor Angela Msola Nemilaki, superiora generale delle Madri Bianche, le suore missionarie di Nostra Signora d’Africa, ha acceso i riflettori sul dramma della tratta di esseri umani. La religiosa ha raccontato la storia di Lulu, una giovane vittima di tratta e tortura. La missione, per suor Angela, è ridare dignità a chi se n’è visto privato, attraverso piccoli gesti di presenza e gentilezza, nella consapevolezza che, come affermato da papa Francesco, «solo aprendo il cuore agli altri scopriamo la nostra umanità».
Padre Dario Bossi, missionario comboniano in Brasile, ha parlato delle sfide globali legate al cambiamento climatico e del «razzismo ambientale», per cui capita sovente che le prime e principali vittime dei cambiamenti climatici siano i più poveri. «La missione oggi è costruire alleanze dal basso», ha detto, invitando a riflettere sul debito di giustizia che il Nord del mondo ha nei confronti del Sud.
Infine, Cristian Daniel Camargo, giovane missionario laico della Consolata e artista argentino, ha presentato il suo progetto «Murales por la Paz», una proposta artistica e teologica che invita comunità di tutto il mondo a dipingere insieme, costruendo pace e dialogo attraverso l’arte.
Dal 2018, il suo progetto «teo artistico» ha realizzato oltre 60 murales in luoghi come Colombia, Guatemala, Italia, Salvador e Argentina, e Camargo spera di proseguirlo in Kenya e Uganda, e poi di tornare in Italia nell’ottobre prossimo per partecipare al Festival della Missione.
«Se la Chiesa sparisse, è come se non ci fosse più cielo sulla terra», ha concluso monsignor Repole, citando il sociologo Hans Joas. Il Festival della Missione 2025 promette di essere uno «squarcio di cielo» su Torino, un’occasione per riflettere sulla dimensione umana e trascendente della missione, intrecciando storie di fragilità e speranza, per fare del mondo una sola famiglia.
Luca Lorusso
Taiwan. Spose cinesi
Capita che una ragazza cinese del continente (mainland, come dicono a Taiwan) sposi un uomo di Taiwan. Le statistiche parlando di un totale di circa 380mila.
Capita, inoltre, che alcune delle spose siano blogger o youtuber e che molte di loro abbiano realizzato video sulla loro vita a Taiwan.
È frequente che parlino bene di questa esperienza, e la confrontino con quella in Repubblica popolare.
Alcune hanno parlato del sistema sanitario a Taiwan, delle leggi e dell’efficienza governativa, paragonandoli a quelli della Cina continentale.
Le autorità di Pechino hanno espresso disappunto su questi video.
Secondo una fonte del Taipei Times pare che queste spose cinesi siano state oggetto di minacce da parte di cittadini della Cina continentale. I video non sarebbero piaciuti e i loro account YouTube sarebbero finiti sotto cyber attacco e sarebbero stati perturbati.
La fonte ha riferito che i canali YouTube sono stati inondati da commenti negativi tra i quali accuse di connivenza delle autrici con il Partito democratico progressista (Dpp), attualmente al potere a Taiwan, mettendo in questione la loro credibilità.
«Tuttavia, questi video non toccano temi politici. Sono realizzati per condividere la propria esperienza di vita quotidiana a Taiwan», ha commentato il professor Hung Chin-fu della National Cheng Kung University di Tainan (Taiwan).
«Parlando di elezioni democratiche e di facile acceso a cure mediche hanno toccato temi sensibili e il governo della Cina continentale si sente minacciato da questi contenuti. […]
Sono argomenti che possono impattare sul contesto attuale dell’economia della Repubblica popolare – continua il professore -. Vedere qualcuno che vive liberamente e felicemente a Taiwan potrebbe causare una reazione della gente in Cina».
Questo fenomeno è tuttavia da inquadrare in un più complesso sistema di scambi tra i due lati dello Stretto. Molti imprenditori taiwanesi fanno affari in Cina continentale dove hanno aperto filiali delle loro aziende. Migliaia di studenti cinesi del continente frequentano le università taiwanesi. Ogni anno centinaia di migliaia di turisti cinesi visitano l’isola. Senza contare il volume gli scambi commerciali tra i due lati dello Stretto.
(Tratto dal Taipei Times)
Mozambico. Caos dopo le presidenziali
Dopo la ribellione islamista nel Nord, il Mozambico si trova alle prese con un altro grave motivo di instabilità. Le elezioni del 9 ottobre hanno portato tensione, scontri, morti, dissidio tra il partito al potere (Frelimo) e quelli di opposizione (Podemos e Renamo).
Un fardello pesante per un Paese che sembrava avere imboccato la via dello sviluppo grazie alla stabilità macroeconomica raggiunta, nel 2023, con una crescita del Pil intorno al 5%, sostenuta dai progetti di estrazione di gas naturale liquefatto, dal settore dei servizi e dalla caduta (dal 10,3% al 3,9%) dell’inflazione.
La tornata elettorale pareva giocarsi sul filo della novità. Il Frelimo, partito al potere dall’indipendenza (raggiunta nel 1975), ha presentato Daniel Chapo, 47 anni, primo candidato a non aver partecipato alla guerra di indipendenza. Chapo, sostenuto dal presidente uscente Filipe Nyusi, nella sua campagna ha sottolineato la continuità politica e lo sviluppo economico, con promesse di riforme e di contrasto alla povertà. A sfidarlo un altro candidato giovane: Venancio Mondlane, 50 anni. Ex membro della Renamo, storica formazione di opposizione e del Movimento Democrático de Moçambique, ha fondato un proprio partito, Podemos, con un’agenda di giustizia sociale e gestione equa delle risorse naturali. I dati ufficiali del voto hanno sancito la vittoria di Chapo che avrebbe ottenuto il 70,6% dei voti contro il 20% del rivale Mondlane.
I risultati sono subito stati contestati. Podemos ha dichiarato, in base a un conteggio parallelo condotto dai suoi osservatori, che il vero vincitore (con il 53%) sarebbe stato Mondlane. Le accuse di frodi elettorali, l’assenza di trasparenza e le irregolarità nel voto sono state evidenziate anche a livello internazionale. Gli osservatori dell’Unione europea e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) hanno segnalato mancanza di trasparenza e una gestione inadeguata delle operazioni elettorali, nonché difficoltà per gli osservatori nell’accedere ai seggi elettorali. Anche se la posizione della Sadc è stata ambigua. Il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, ha espresso le sue congratulazioni al Frelimo e al candidato Daniel Chapo per quella che ha definito «una vittoria schiacciante», nonostante i risultati ufficiali non fossero ancora stati dichiarati. Questo gesto di Mnangagwa, che è anche presidente della Sadc, ha sollevato critiche.
Diverse manifestazioni pacifiche, organizzate dall’opposizione, sono state represse dalle autorità con l’uso della forza. Almeno cinquanta manifestanti hanno perso la vita durante gli scontri, come riferito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Il caso più eclatante è avvenuto il 19 ottobre 2024 quando l’avvocato Elvino Dias, consulente legale di Mondlane, e Paulo Guambe, leader del partito Podemos, sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano in auto a Maputo. La polizia ha dichiarato di non avere ancora identificato i responsabili, e vari gruppi per i diritti civili hanno chiesto indagini urgenti su questi omicidi, interpretandoli come un segnale di pericolo per lo stato di diritto e la sicurezza politica nel Paese.
Dopo il voto, anche Amnesty International ha denunciato l’uso di proiettili da parte della polizia contro i sostenitori di Mondlane durante le proteste, richiamando il governo a rispettare i diritti di riunione pacifica. Mondlane stesso ha dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di omicidio in Sudafrica, dove si è rifugiato per motivi di sicurezza.
Di fronte a questa situazione, i vescovi della Conferenza dei vescovi cattolici dell’Africa Meridionale (Sacbc) hanno inviato una lettera alla Conferenza episcopale del Mozambico nella quale chiedono «la creazione di spazi di collaborazione nella governance», suggerendo un possibile governo di unità nazionale «per dare al Mozambico un futuro di speranza». E hanno concluso: «Il Mozambico merita verità, pace, tranquillità e tolleranza».
Enrico Casale
Ucraina. In viaggio tra Fastow e Kherson
Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha compiuto diversi viaggi nel Paese in conflitto dall’inizio dell’invasione russa. Ogni volta per portare tutto l’aiuto che gli è possibile, anche grazie alla generosità di molti amici della Consolata.
A inizio novembre è stato a Fastow, vicino alla capitale Kiev, e a Kherson, sul fronte Sud della guerra.
«Ti auguro la pace dal cielo», è il saluto che spesso ci si scambia in Ucraina salutandosi alla fine di un incontro.
È un augurio con un significato concreto: ti auguro che nessun missile o drone cada dal cielo. In tempo di guerra, è un augurio essenziale.
Ma è anche un’invocazione: il Signore che sta nei cieli ci aiuti ad avere la pace.
Dal marzo 2022, quando compimmo il nostro primo viaggio nell’Ucraina invasa dalla Russia, siamo tornati nel Paese diverse volte. I Missionari della Consolata e la Chiesa polacca non smettono di portare il loro aiuto alle popolazioni colpite dal conflitto.
In questi ultimi mesi siamo tornati in Ucraina diverse volte. L’ultima pochi giorni fa. Un viaggio iniziato nella comunità dei Domenicani a Fastow, non lontano dalla capitale Kiev, proseguito a sud fino alla città di Kherson e conclusosi con il ritorno a Kiev.
A Fastow c’è una vivace comunità di Domenicani impegnati non solo nel guidare la parrocchia locale e alcune chiese limitrofe, ma anche, con l’aiuto di numerosi volontari, in molte opere sociali.
Tra queste, l’accoglienza di bambini che qui possono stare sotto un tetto sicuro e caldo, e ricevere istruzione.
Poco lontano è stato aperto un centro di riabilitazione con una nuova cappella benedetta domenica 3 novembre dal Nunzio apostolico.
Dopo aver partecipato alla giornata di festa, allietata anche da diversi cori, tra cui un coro di giovani non autosufficienti e un gruppo musicale di soldati, ci siamo diretti ancora una volta nella città di Kherson, posta a sud del Paese, sulla riva occidentale del fiume Dniepr.
In questi giorni la città celebra il secondo anniversario della liberazione, avvenuta l’11 novembre del 2022, quando, dopo una breve occupazione russa, è ritornata sotto il controllo ucraino.
Da quel momento non si può dire che la città viva in pace, anzi di fatto è un fronte di prima linea. Il fiume, in questo momento, determina il confine naturale tra i due eserciti: gli ucraini a ovest, i russi a est.
Le condizioni di vita in questo luogo sono difficili a motivo dei continui lanci che da una sponda all’altra si scambiano gli eserciti giorno e notte.
La città che contava quasi 300mila abitanti prima dell’invasione, si è vista ridotta a 30mila. Oggi si assiste a un timido ritorno, e oggi si calcola che in città vivano circa 70mila abitanti. Alcuni, infatti, nonostante il pericolo, hanno deciso di tornare non avendo la possibilità di vivere per un lungo periodo da altre parti.
Don Massimo con il suo vicario, anche lui don Massimo, e un catechista che vive con loro, Sergio, stanno nell’unica parrocchia latino cattolica della città, dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, posta non lontano dalla riva del fiume.
Sono impegnati a tenere viva la piccola comunità cristiana che ogni giorno si ritrova nella chiesa per celebrare la santa Messa, ma anche nel distribuire aiuti umanitari.
Don Massimo si reca quasi ogni giorno nei villaggi attorno alla città per portare acqua potabile. Qui l’acqua è abbondante nel sottosuolo, tuttavia, a motivo della guerra, le falde sono inquinate. Le esplosioni di magazzini di fertilizzanti usati dai contadini hanno causato un doppio danno: la perdita dei concimi e l’inquinamento delle falde.
La fonte di acqua che si trova sotto la parrocchia è ancora pura, e con essa viene riempita una cisterna di 1000 litri che va settimanalmente nei villaggi.
Al mattino, passando i vari check point dei militari, arriviamo nel piccolo villaggio di Sloneczne dove lasciamo la cisterna.
Da Sloneczne ci dirigiamo verso la città e visitiamo la nuova lavanderia che i Domenicani hanno aperto affidandola ad alcune donne del posto.
Da poche settimane qui sono messe a disposizione 10 lavatrici e 10 asciugatrici dove chiunque, soldati compresi, possono gratuitamente lavare i panni.
Nel pomeriggio ritorniamo a visitare il piccolo ospedale di Bylozerka, per consegnare i medicinali che abbiamo portato.
Ritroviamo la giovane chirurga Natalia, l’unica rimasta a lavorare qui. È molto contenta di ricevere i medicinali che portiamo. Le condizioni di lavoro in questo piccolo ospedale che serve una grande regione, sono molto difficili. Ogni giorno il villaggio, e, a volte, l’ospedale stesso, sono colpiti dai droni o dall’artiglieria russi.
I segni delle esplosioni sono visibili. Tutte le finestre sono coperte con i sacchi di sabbia per attutire i colpi.
Delle quattro ambulanze disponibili prima della guerra, ne è rimasta una sola. Le altre sono state tutte distrutte.
Purtroppo, ha perso la vita anche una equipe medica che era a bordo di una di esse. Ultimamente è stata distrutta anche la caldaia dell’ospedale.
I medicinali che consegniamo erano esauriti. Tra questi, ci racconta Natalia, mancano anche gli antidolorifici. L’incontro con lei è breve. La stessa dottoressa ci incoraggia a tornare in città perché fra poco calerà il sole e potrebbero di nuovo iniziare le esplosioni.
Una volta tornati, riusciamo a fare ancora una breve passeggiata nei dintorni della Parrocchia in una città completamente al buio. I parchi sono tutti chiusi, ed è pericoloso attraversarli. Tra le foglie abbondanti che coprono i giardini e i marciapiedi in questa stagione autunnale, sono mischiate alcune mine a forma di foglia lanciate dai droni, pericolose perché difficili da riconoscere.
Notiamo la presenza di tanti cani randagi che girano per le strade deserte. Soprattutto nelle ore serali. È meglio evitarli. Il loro abbaiare è l’unico suono che si sente nel profondo silenzio di questa citta, alternato solo dai rumori degli spari che rimbombano da lontano.
Finita la visita a Kherson, torniamo a Kiev e da lì di nuovo in Polonia. Pensiamo che, nonostante la lunghezza del conflitto e la stanchezza che tutti sentiamo di avere, in primis coloro che abitano in Ucraina, la situazione richiede ancora molta preghiera e molto aiuto. E affidiamo questo Paese all’intercessione del nostro santo fondatore Giuseppe Allamano.
Luca Bovio, Imc
Rwanda. Dopo 30 anni ferite ancora aperte
«Le conseguenze del genocidio avvenuto nel mio Paese nel 1994 sono ancora tante. Le ferite non sono ancora del tutto risanate. È come se fosse successo ieri», dice monsignor Edouard Sinayobye, vescovo di Cyangugu, in Rwanda, durante un incontro a Roma, a margine dei lavori del Sinodo che si è tenuto lo scorso mese di ottobre in Vaticano.
Il genocidio del Rwanda è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità dell’ultimo secolo. Secondo le ultime stime, in circa cento giorni, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, nel piccolo Paese dell’Africa orientale furono massacrate a colpi di armi da fuoco o di machete oltre un milione di persone.
Si scontravano due etnie: quella maggioritaria Hutu e quella minoritaria Tutsi. Le vittime furono prevalentemente Tutsi, ma le violenze da parte delle frange estremiste dei primi finirono per colpire anche Hutu moderati.
Dopo quei terribili giorni è stato avviato «un processo di riconciliazione. La nostra opera quotidiana – dice monsignor Sinayobye – è quella di cercare di guarire le persone, di accompagnarle, sia le vittime che i colpevoli, nelle loro sofferenze».
Anche il processo sinodale che ha coinvolto la Chiesa di tutto il mondo, dice il vescovo, «noi lo abbiamo accolto come un kairos», un tempo giusto per lenire le piaghe che ancora investono la società del Rwanda.
«Per noi il Sinodo è stato dunque un processo di guarigione, di rinascita, di resurrezione», perché «lo abbiamo vissuto come un’opportunità di rafforzare l’unità e la riconciliazione nel nostro Paese, per capire che siamo una cosa sola, che possiamo vivere in fraternità».
«In ogni parrocchia, in ogni comunità, dobbiamo rafforzare ancora il nostro impegno per creare degli spazi dove la gente possa trovare una guarigione, possa imparare a perdonare e a pensare che sia possibile tornare a vivere insieme».
Il vescovo di Cyangugu spiega:«Non è affatto facile parlare di riconciliazione in un Paese che ha vissuto la tragedia del genicidio, perché bisogna accompagnare tutti, sia le vittime che gli aguzzini. Questo è il solo modo per affrontare veramente la riconciliazione. È un cammino che stiamo facendo e che continueremo a fare».
Un tassello di questa opera della Chiesa rwandese è la sua pastorale carceraria. Gli incontri negli istituti penitenziari permettono di guardare negli occhi proprio quelle persone detenute per essere state tra gli autori della terribile mattanza di trent’anni fa.
Il perdono e la riconciliazione sono anche al centro del doppio Giubileo che sta celebrando la Chiesa cattolica del Rwanda. Oltre al Giubileo del 2025, che coinvolge i fedeli di tutto il mondo, nel Paese africano si celebrano i 125 anni dall’inizio dell’evangelizzazione con un fitto calendario di eventi che sono cominciati a febbraio di quest’anno e che si concluderanno il 6 dicembre del 2025 con una messa solenne a Kigali, la capitale.
Tra i prossimi appuntamenti, il 27 dicembre, si terrà un evento rivolto ai bambini, a Kibeho, nella diocesi di Gikongoro, il luogo che dal 1981 fu al centro delle apparizioni mariane riconosciute dalla Chiesa nel 2003. Già nel 1982 i veggenti parlavano di fiumi di sangue, di persone che si ammazzavano tra loro, di teste mozzate. Dodici anni dopo, proprio la città di Kibeho fu uno dei centri del genocidio.
Alle apparizioni di Kibeho, monsignor Edouard Sinayobye ha dedicato un libro («Io sono la Madre del Verbo») pubblicato in Italia da Ares nel 2015: testimone diretto di quegli eventi, decise di abbracciare la vita sacerdotale.
«I rwandesi – conclude -, così colpiti da quel massacro, grazie a Kibeho hanno imparato a portare cristianamente la pesantissima croce della sofferenza».
Manuela Tulli
Italia. Povertà e disuguaglianze allontanano l’Agenda 2030
Tra i molti dati offerti, ci sono quelli che parlano dell’aumento di povertà e diseguaglianze.
Nel 2022, metà delle famiglie più povere possedeva meno dell’8% della ricchezza netta totale del Paese, il 5% delle famiglie italiane più ricche ne deteneva, invece, il 46%. Nel 2010 la quota era del 40%.
Nel 2023, 5,7 milioni di persone (il 9,8% della popolazione) si trovavano in condizioni di povertà assoluta (nel 2015 erano il 7,4%), e 13,4 milioni (il 22,8% della popolazione) erano a rischio di povertà o esclusione sociale.
Lo scenario descritto dalle 210 pagine del documento non è del tutto negativo, ma non è di certo positivo: «Dei 37 obiettivi […], solo 8 sono raggiungibili entro la scadenza del 2030, 22 non lo sono e per altri 7 il risultato è incerto», si legge nel comunicato stampa dell’Alleanza che mette in rete più di 300 organizzazioni senza scopo di lucro, provenienti dalla società civile, impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile.
«I dati del Rapporto descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. […] Tra il 2010 e il 2023, il Paese ha registrato peggioramenti per cinque goal: povertà, disuguaglianze, qualità degli ecosistemi terrestri, governance e partnership. Limitati miglioramenti si rilevano per sei goal: cibo, energia pulita, lavoro e crescita economica, città sostenibili, lotta al cambiamento climatico e qualità degli ecosistemi marini. Miglioramenti più consistenti riguardano cinque goal: salute, educazione, uguaglianza di genere, acqua e igiene, innovazione. Unico miglioramento molto consistente interessa l’economia circolare».
Tra gli obiettivi non raggiungibili ci sono quello di ridurre del 20% l’utilizzo di fertilizzanti in agricoltura; quello di dimezzare la disparità occupazionale tra uomini e donne; di raggiungere il 42.5% di energia da fonti rinnovabili; ridurre del 20% i consumi finali di energia; raggiungere il 30% delle aree marine e terrestri protette.
Tra gli obiettivi con andamento altalenante ci sono quello di raddoppiare il traffico merci su ferrovia e quello di azzerare il sovraffollamento nelle carceri.
Tra gli obiettivi raggiungibili nel 2030 ci sono, invece, quello di arrivare al 60% del tasso di riciclaggio dei rifiuti urbani, di garantire a tutte le famiglie la copertura alla rete internet veloce; di ridurre al di sotto del 9% la quota di giovani che non studiano, né lavorano, i cosiddetti Neet.
Nel rapporto si fa anche il confronto del percorso italiano con quello dell’Unione europea: l’evoluzione dei 17 goal dal 2010 a oggi mostra un’Italia sotto alla media.
Dal 28 ottobre e fino al 19 novembre l’Asvis promuove una campagna di diffusione dei dati del rapporto e dei suggerimenti di azioni in esso contenuti: «Un goal al giorno». Ogni giorno viene approfondito, tramite diversi materiali online, semplici da consultare e utilizzare, il punto della situazione dell’Italia rispetto ciascun obiettivo.