Mondo. Rifugiati in fuga dal clima

Rapporto Unhcr. Tra conflitti e cambiamento climatico

Immagine simbolica di effetti della siccità. (Foto Fabde Ambres via Pixabay)
Mondo
Aurora Guainazzi

Cresce sempre di più il numero di rifugiati nel mondo. Ma soprattutto aumentano quelli che – fuggiti da guerre, violenze e persecuzioni – trovano rifugio in Paesi dove c’è un rischio alto o estremo che si verifichino disastri legati al cambiamento climatico.

A metà 2024, secondo il rapporto No Escape. On the frontlines of Climate Change, Conflict and Forced Displacement dell’Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati), circa 90 milioni di persone – il 75% degli attuali 123 milioni di sfollati – si trovavano in Paesi dove il rischio di disastri naturali era alto o estremo.

I conflitti restano la prima causa di flussi transfrontalieri, ma è sempre più frequente che a loro si sommino gli effetti del cambiamento climatico, in una relazione complessa e multidimensionale che aggrava disuguaglianze preesistenti, indebolisce la coesione sociale e mina la disponibilità di risorse naturali come acqua pulita e terra arabile.

Quello che, ad esempio, sta accadendo in Ciad, dove hanno trovato rifugio circa 700mila persone in fuga dal conflitto in Sudan. Qui la popolazione deve fare i conti con la presenza di gruppi armati al confine e con la mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria. A ciò poi si aggiunge il fatto che le regioni orientali del Ciad sono una delle aree più vulnerabili al cambiamento climatico: sono sempre più frequenti piogge torrenziali e inondazioni che colpiscono i campi di sfollati, distruggono le infrastrutture di base e contaminano l’acqua. Esacerbando le già difficili condizioni di vita e aumentando il rischio di tensioni tra rifugiati e comunità autoctone.

Spesso, la situazione è talmente difficile che molti di coloro che hanno lasciato il proprio Paese per un conflitto decidono di spostarsi nuovamente a causa degli effetti del cambiamento climatico. I rifugiati quindi si trovano intrappolati in un circolo vizioso di spostamenti continui e protratti. Nel solo 2023, 42 dei 45 Paesi che accoglievano persone in fuga da conflitti hanno anche sperimentato spostamenti a causa di disastri naturali. A maggio 2024, ad esempio, piogge torrenziali e inondazioni hanno travolto lo stato brasiliano del Rio Grande do Sul (estremo Sud del Paese), causando la morte di 181 persone. Tra i colpiti c’erano anche 43.000 rifugiati provenienti da Venezuela, Haiti e Cuba, nuovamente gettati in una situazione di incertezza.

Ma i casi sono tanti. Il 38% dei rifugiati venezuelani si trova in Colombia, un Paese frequentemente colpito da disastri naturali. Oppure l’86% degli sfollati afghani si è spostato in Iran e Pakistan, Stati che subiscono gli effetti del cambiamento climatico. Ma è anche il caso del 72% dei rifugiati del Myanmar che si trovano in Bangladesh, dove i rischi naturali sono considerati estremi.

Entro il 2040, secondo l’Unhcr, il rischio di disastri climatici vedrà un’escalation, soprattutto nelle Americhe, in Africa centroccidentale e nel Sud Est asiatico. Il numero di Paesi a rischio estremo aumenterà da tre a 65 e, tra essi, ci saranno Stati come Camerun, Ciad, Sud Sudan, Nigeria, Brasile, India e Iraq che attualmente ospitano il 40% di tutti i rifugiati nel mondo.

E se anche alcuni di questi rifugiati decidessero di tornare nel Paese d’origine, è altamente probabile che pure lì si trovino a fare i conti con il cambiamento climatico. A metà 2024, il 75% di coloro che avevano tentato di tornare a casa dopo un conflitto, stava subendo proprio le conseguenze di disastri climatici. Tra fonti di reddito distrutte e reti sociali frammentate, per un rifugiato è sempre più difficile costruirsi una vita degna e sicura.

Ma un problema di fondo è quello delle politiche adottate per affrontare queste situazioni. A livello internazionale, gli Stati sono tenuti a preparare e aggiornare dei documenti – i Contributi determinati a livello nazionale (Ndc) e i Piani di adattamento nazionale (Nap) – contenenti le loro strategie di lotta contro il cambiamento climatico. Ma solo il 35% dei Nap presentati a luglio 2024 era frutto di consultazioni con le comunità vulnerabili. In 54 Ndc (su 166) venivano citati gli sfollati in modo forzato a causa del cambiamento climatico, ma appena 25 documenti contenevano misure concrete per farvi fronte.

E da ultimo, ma non per questo meno importante, mancano i fondi. Attualmente, il 90% della finanza climatica è destinato a Paesi a medio reddito, mentre gli Stati che ospitano la maggioranza dei rifugiati il più delle volte non ricevono supporto. Soprattutto se c’è un conflitto: secondo l’Armed conflict location & event data (un database che monitora il trend dei conflitti nel mondo), più alta è l’intensità di un conflitto, più bassa è la probabilità che il Paese riceva risorse per contrastare il cambiamento climatico.

Con il risultato che i più fragili e vulnerabili ancora una volta sono lasciati indietro.

Aurora Guainazzi

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