Un tempo si diceva che l’importante è partecipare. Per il leader cinese non è così. Lo sport è inteso come una vetrina del Paese, il medagliere olimpico come un barometro del proprio status globale. Per questo, per vincere (anche) nello sport, la Cina fa uso di molti incentivi. Economici e non solo.
«Questo è il giorno più vergognoso per il calcio cinese». Venerdì 6 settembre, il web esplodeva alla notizia dell’ennesima sconfitta calcistica della nazionale cinese: un sonoro 7 a 0 contro il Giappone. Una vera debacle non solo per via del punteggio: 18° nella classifica mondiale della Fifa, il Sol Levante ha con la Cina dispute tutt’oggi irrisolte. L’occupazione nipponica del 1937 brucia ancora oltre la Muraglia e le isole contese nel Mar cinese orientale continuano a sfilacciare i rapporti tra i due paesi. Sempre più spesso, sport e geopolitica convergono infiammando gli spalti e il campo da gioco. Questo è vero soprattutto alle Olimpiadi, l’evento sportivo più importante a livello mondiale: il paese ospitante ne trae prestigio – o disonore – internazionale in base alle capacità organizzative. Per chi gareggia, invece, il medagliere diventa barometro del proprio status globale.
Pechino e le Olimpiadi
Nella sua (relativamente) breve storia olimpica, la Cina ha fatto il possibile per sfruttare la prestigiosa vetrina. Come tutti, d’altronde. Ma, nell’ex Celeste impero, la manifestazione ha un significato più profondo. Se per la maggior parte dei paesi è l’occasione per ravvivare un patriottismo ormai sbiadito, per la Repubblica popolare è addirittura l’opportunità per esorcizzare il ricordo di un passato doloroso e infamante. Boicottati i Giochi fino al 1984 in risposta alla partecipazione di Taiwan – «una provincia ribelle», secondo il governo comunista -, la Cina popolare ha recuperato velocemente il tempo perso.
Pechino è stata la prima città a ospitare sia le Olimpiadi estive nel 2008, sia l’edizione invernale nel 2022. La cerimonia di apertura in entrambe le occasioni è diventata il palcoscenico per raccontare l’ex Celeste Impero al mondo, attraverso una narrazione densa di rimandi storici e culturali. In particolare, i Giochi del 2008 hanno rappresentato molto di più di una semplice competizione sportiva. Hanno, infatti, portato la Cina sul proscenio internazionale, segnandone il riconoscimento sia come civiltà antica che come società in rapido sviluppo, con i suoi successi economici, tecnologici, sociali e culturali. Il tutto proprio mentre gli Stati Uniti venivano travolti dalla peggiore crisi finanziaria dalla grande depressione del ‘29.
Da allora la performance degli atleti cinesi, in costante miglioramento, è stata associata dalla propaganda ufficiale all’inevitabile sorpasso della Cina sull’occidente: non solo in termini economici. Anzi, il progressivo rallentamento della crescita nazionale ha reso più impellente per Pechino trovare nuove forme di legittimazione. Quale meglio dello sport nel quale la possenza fisica della popolazione diventa specchio dell’ascesa internazionale della nazione? «Lo sviluppo degli sport è strettamente associato al livello di sviluppo, all’economia e al grado di civiltà di un paese – spiegava recentemente al Global Times il professor Zhang Yiwu, consulente del governo cinese -. Per esempio, una persona affamata non avrebbe alcuna possibilità di praticare lo scooter freestyle».
Parigi e la vittoria di Taiwan
Più passano gli anni, più questa convinzione diventa esplicita. Lontano è il tempo in cui la «diplomazia del pingpong» suggellava l’appeasement (allentamento delle tensioni, ndr) tra la Cina di Mao e l’America di Nixon. Oggi, anziché pacificare, lo sport finisce troppo spesso per dividere. Prendiamo le Olimpiadi di Parigi 2024. Con un totale di 91 medaglie vinte, la Cina si è classificata seconda dopo gli Stati Uniti. Ma per i netizen (persona attiva su internet, ndr) cinesi gli ori sarebbero in realtà non 40 bensì 44. «Bisogna includere anche Taipei e Hong Kong, che sono parte della Cina», recita un post diventato virale sul social network Weibo. Le tensioni militari con Washington nello Stretto di Formosa e l’attenzione dell’occidente per il futuro dell’ex colonia britannica (sempre meno autonoma e più cinese) hanno riacceso le rivendicazioni di Pechino sui territori d’oltremare. Anche sul campo di gioco. Ad agosto la Tv di Stato ha interrotto la diretta, quando la squadra di badminton (una specie di tennis con un volano al posto della pallina e un campo ridotto, ndr) taiwanese ha battuto i colleghi cinesi nel doppio maschile, aggiudicandosi l’oro olimpico in uno degli sport dove la Repubblica popolare ha sempre eccelso.
Le accuse di doping
Altri imprevisti sono stati interpretati oltre la Muraglia come un «sabotaggio» o una mancanza di rispetto. La rottura di una racchetta o il mancato saluto dello sfidante prima del match, per molti tifosi cinesi, non sono semplici incidenti. Per non parlare delle accuse di doping. Poco prima dei Giochi di Parigi, Fbi e dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti hanno aperto un’inchiesta penale sul caso di 23 nuotatori cinesi risultati positivi e mai squalificati. Anzi, premiati con tre ori e due argenti olimpici a Tokyo nel 2021. In Cina, l’indagine è stata definita una manovra politica.
Lo ha detto chiaramente Fan Hong, ex nuotatore della nazionale cinese: «La competizione sportiva è una guerra senza armi da fuoco».
L’establishment usa un linguaggio meno diretto. Il 20 agosto, accogliendo gli atleti come eroi presso la Grande sala del popolo in piazza Tiananmen, il presidente Xi ha dichiarato che il team Cina ha «conquistato gloria per il Paese e il popolo». Di più: «Gli eccellenti risultati della delegazione sportiva cinese sono un riflesso concentrato dello sviluppo e del progresso della causa sportiva del paese. Sono anche un microcosmo dei risultati della costruzione della Cina moderna, dimostrando pienamente la forza del Paese nella nuova era», ha sentenziato il leader.
Mai più la «malata d’Asia»
Forza, fisicità, emancipazione internazionale: il governo cinese considera le competizioni sportive l’occasione per ottenere una rivalsa storica sull’occidente. Ancora prima della fondazione della Repubblica popolare, fu Mao Zedong a trattare il tema nei suoi scritti giovanili. Nel 1917, memore dell’umiliazione subita contro le truppe anglo-francesi durante le due guerre dell’oppio (1839-60), il Grande timoniere riscontrò nel saggio Uno studio sulla cultura fisica come «il nostro paese sta perdendo le sue forze. L’interesse pubblico per le arti marziali sta calando. La salute delle persone sta peggiorando ogni giorno che passa […] Il nostro paese si indebolirà ulteriormente se le cose continueranno a lungo invariate». La Cina non poteva continuare ad essere considerata la «malata d’Asia». Educazione fisica ed esercitazioni militari sono rimaste le colonne del programma sportivo del partito comunista durante la guerra civile contro i nazionalisti. Poi l’influsso sovietico, con la sua attenzione per l’esercizio fisico nelle scuole, rafforzò questa convinzione: «Nel campo della difesa nazionale, il paese ha bisogno di corpi potenti e abili. I giovani devono essere forti fisicamente, brillanti e vivaci, coraggiosi e acuti, duri e inflessibili», affermò nel 1959 il vicepresidente Zhu De.
Oggi la Cina è guarita dalla «malattia», ma il contesto internazionale attuale non è meno teso di quanto non lo fosse un secolo fa. Le relazioni con gli Stati Uniti e le altre ex potenze imperialiste sono ai minimi storici. Complice la retorica statale, il nazionalismo è tornato un sentimento diffuso nella Repubblica popolare. A fine agosto, divulgando per la prima volta il contributo ideologico di Xi sullo sport, un think tank governativo ha auspicato la definizione di un ordine sportivo globale più «giusto e ragionevole», attraverso un maggiore coinvolgimento dei paesi emergenti.
«I valori sportivi del fair play, del rispetto delle regole e del rispetto per gli avversari sono particolarmente significativi nella competizione tra grandi potenze», avrebbe dichiarato il presidente nei suoi discorsi.
Strategia e (tanti) soldi
La Cina strizza l’occhio al Sud globale. Ma, nel dare voce al mondo in via di sviluppo, in realtà, parla da seconda economia mondiale. Non è un mistero, infatti, che i successi inanellati dal gigante asiatico nello sport siano il prodotto di una complessa pianificazione statale, puntellata da generosi finanziamenti.
Con le Olympic glory-winning program guideline 2001-2010, nel 2002 l’Amministrazione generale dello sport (Gasc) stabiliva obiettivi e strategie per portare la Cina sui tre gradini del podio entro le Olimpiadi del 2008. Lavorando su quelle discipline (come il nuoto e il canottaggio) dove la performance cinese si era storicamente dimostrata deludente. O dove l’Occidente non aveva mai investito molto. Basti pensare che, dal 1984, il 75% degli ori cinesi sono concentrati in soli cinque sport – pingpong, tuffi, ginnastica, badminton e sollevamento pesi -, di cui oltre due terzi vinti da donne.
I calcoli strategici spiegano molto, ma non tutto. Nel Paese sono migliaia le scuole di sport foraggiate dal Governo incaricate di reclutare bambini talentuosi sin dalla tenera età per far di loro dei campioni. Gli ottimi risultati della Cina nel medagliere per anni hanno spinto gli stessi genitori – perlopiù provenienti dalle campagne – a sottoporre i loro figli al duro esercizio nell’ottica di dare ai piccoli un futuro radioso.
Secondo Global Times, dopo i Giochi di Parigi, il governo ha premiato gli atleti olimpici e le loro famiglie con bonus fino all’equivalente di 82.500 dollari. Gli incentivi economici sono l’asso nella manica di Pechino. Una manica molto larga.
Nel 2024, il budget stanziato per l’Amministrazione generale dello sport ammontava a oltre un miliardo di dollari. In confronto, nello stesso periodo, l’Australia – 53 medaglie vinte a Parigi – ha iniettato nella Commissione sportiva nazionale appena 323 milioni di dollari. Quando poi si tratta di grandi eventi il governo cinese davvero non bada a spese.
Secondo Business insider, le Olimpiadi invernali di Pechino sono costate quasi 40 miliardi di dollari rispetto agli 1,6 miliardi preventivati dalle autorità.
Ai poco noti Asian games, dove la Cina detiene il primato per numero di medaglie, l’impegno economico non è stato da meno. Hangzhou, la città cinese che, nel 2023, ha ospitato la competizione asiatica, ha sborsato in tre anni oltre 30 miliardi di dollari per costruire nuovi stadi, migliorare i trasporti e potenziare le strutture ricettive.
Interpretare il medagliere
Se gli sforzi (e i soldi) siano davvero ben riposti è però tutto da vedere. Come dicevamo, mentre alle Olimpiadi e ai Giochi asiatici la strategia di Pechino è riuscita alla lettera, nel calcio il «sogno cinese» continua ad essere un incubo. Nel 2016 la Federazione calcistica cinese ha svelato un piano da un miliardo di dollari l’anno per trasformare il paese asiatico in una «superpotenza calcistica mondiale» entro il 2050. Ma, ad oggi, la nazionale cinese continua a collezionare una sconfitta dopo l’altra, mentre la Super league (l’equivalente locale dell’italiana serie A) è travolta da scandali e purghe.
Inoltre, è vero che alle Olimpiadi la Cina ha portato a casa più medaglie rispetto a paesi come Australia, Giappone e Canada (pur avendo partecipato solo alla metà delle competizioni), tuttavia, se rapportati alle dimensioni della popolazione complessiva (1,4 miliardi di abitanti), i risultati ottenuti sono meno sfavillanti di quanto non sembri: con una medaglia in media ogni 2,2 milioni di persone, la Cina si posiziona al 107° posto nel mondo, dopo la Thailandia. Non solo. Il miglioramento degli standard di vita nel Paese – secondo gli esperti – lascia intendere che saranno sempre meno le famiglie a scegliere di separarsi dai propri piccoli aspiranti campioni. In termini di soft power, il bilancio è anche più dubbio. Alle nostre latitudini le cerimonie pirotecniche di Pechino non bastano a compensare le critiche in merito alla repressione delle libertà in Tibet e Xinjiang, o all’ingerenza cinese a Hong Kong. Lo dimostra il boicottaggio diplomatico (cioè non degli atleti) di Stati Uniti, Australia, Canada, Regno Unito e Lituania, durante i Giochi invernali del 2022. A Parigi, invece, ha fatto molto discutere l’intervento di presunti agenti cinesi sulle tribune per sequestrare gli striscioni di incoraggiamento agli atleti taiwanesi.
Nazionalismo e tifo
In Cina, lo Stato regge i fili di tutto. Nel bene e nel male. Dopo il fischio di inizio, l’impressione è però che tanta ingerenza alla fine diventi castrante anziché dopante. Secondo quanto ci spiega Dong-Jhy Hwang, vicepresidente della National Taiwan sport university, «sono necessari uno studio sul campo e nuove interviste con gli atleti cinesi per comprendere la relazione tra pressione politica e prestazioni». Nel corso degli anni, infatti, sempre più sportivi hanno deciso di uscire dal sistema delle scuole statali, scorgendo nella carriera sportiva un percorso individuale di crescita e soddisfazione personale.
Tra l’altro, anche nello sport il nazionalismo indotto dall’alto è parso sfuggire di mano: sempre più spesso l’amor patrio rischia di trasformarsi in tifo radicale. Così è stato anche alle Olimpiadi di Parigi, quando due giocatrici cinesi si sono affrontate nella finale femminile di tennistavolo, i fan dell’atleta sconfitta hanno attaccato ferocemente l’altra giocatrice con fischi e accuse online di tradimento. Nei giorni delle competizioni, le piattaforme social hanno affermato di aver rimosso decine di migliaia di post e bannato centinaia di account per «incitamento al conflitto». Almeno due persone sono state arrestate con l’accusa di aver diffamato gli atleti.
Sembrano veramente lontani i tempi della «diplomazia del pingpong».
Alessandra Colarizi