Amazzonia, resistenza e proposta


Dall’Amazzonia colombiana a quella boliviana. Due missionari Imc hanno partecipato al Fospa per capire come la resistenza contro la distruzione dell’Amazzonia possa passare dalle parole ai fatti. Perché le idee e i progetti sono tanti, ma il tempo stringe.

Era il 1951 quando, nel Caquetà e Putumayo, in Colombia, arrivarono i Missionari della Consolata, con monsignor Antonio Torasso. All’epoca, l’Amazzonia era un luogo di conquista e colonizzazione. La foresta veniva distrutta per costruire strade, case, paesi, per la creazione di grandi pascoli e coltivazioni estensive per portare il «progresso» secondo la prospettiva occidentale e, infine, convertire le comunità autoctone alla religione cattolica, e vestire le persone con abiti «decenti».

Oggi, settantatré anni dopo, la realtà è molto diversa perché – per fortuna – parliamo di dialogo con le culture, rispetto del territorio, conservazione della foresta amazzonica.

Tutto questo lo sentiamo importante come ci hanno insegnato le comunità indigene del nostro territorio che, da sempre, vivono in equilibrio con la natura e da essa ricevono tutto quello di cui hanno bisogno per vivere.

Alla marcia del Fospa 2024 si è assistito a un tripudio di colori indigeni. Foto Angelo Casadei.

La parrocchia e il parco

Io vivo nella parrocchia di Solano, Caquetà, Amazzonia colombiana. La parrocchia appartiene al Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano, creato nel 2013 da papa Benedetto XVI che nominò come primo vescovo monsignor Joaquin Humberto Pinzón Güiza, Imc, che – da allora – lo guida con molto entusiasmo.

Da sette anni sono parroco di questa parrocchia così estesa che abbiamo dovuto suddividerla in quattro parrocchie più piccole. Si trova nel municipio di Solano a cui appartiene uno dei parchi naturali più estesi e belli dell’Amazzonia colombiana: il parco del Chiribiquete. Nei suoi pressi troviamo comunità indigene autoctone (Coreguaje, Huitoto e Murui) che vivono in riserve riconosciute dal governo colombiano e con una certa autonomia e legislazione propria.

Nel parco vero e proprio è proibito l’accesso a chiunque (anche se, con molta probabilità, al suo interno si sono rifugiati gruppi della guerriglia), ma ci vivono almeno tre comunità indigene in isolamento volontario, ovvero che non sono venute a contatto con la «civiltà» occidentale.

L’Amazzonia e Francesco

In questi ultimi anni, da territorio dimenticato e marginale, l’Amazzonia è diventata luogo di somma importanza per la vita dell’umanità. Anche papa Francesco l’ha posta al centro dell’attenzione a livello ecclesiale sia per la salvaguardia del Creato, sia per le popolazioni che in questo territorio vivono.

Oltre ad aver scritto nel 2015 l’enciclica «Laudato Si’» sulla cura della Casa comune, nel 2019 Francesco ha indetto il Sinodo per l’Amazzonia. Il documento post sinodale è stato accompagnato dalla lettera «Querida Amazonia». Inoltre, il pontefice ha fatto nascere la Ceama, la Conferenza ecclesiale dell’Amazzonia. Prima del Sinodo, era sorta la Repam, la «Rete ecclesiale panamazzonica» per raccogliere tutte le forze presenti nell’Amazzonia, dove sono presenti più di cento giurisdizioni ecclesiastiche.

Fospa 2024, Bolivia: riunione del gruppo di lavoro sulla «Crisi climatica». Foto Angelo Casadei.

La nascita del Fospa

Sapendo che l’unione fa la forza, nel 2002 persone, associazioni e gruppi hanno dato vita a uno spazio d’articolazione per proteggere quello che viene chiamato il «polmone» del pianeta e così è nato il Fospa, il «Foro sociale panamazzonico».

Nel 2017, a Tarapoto, in Perù, avevo partecipato all’ottava edizione del Fospa. Quest’anno l’undicesima edizione dell’incontro si è tenuta dal 12 al 15 giugno scorso, a Rurrenabaque, San Buenaventura y Reyes nell’Amazzonia boliviana dove ho avuto la fortuna di partecipare assieme a padre Fernando Flóres e Tania Ruiz del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano.

Da un’Amazzonia all’altra

Siamo arrivati in Bolivia in anticipo per trascorrere due giorni a La Paz, la capitale amministrativa più alta del mondo, a 3.600 metri sopra il livello del mare. E qui abbiamo avuto modo di vedere – con i nostri occhi – cosa produce il cambiamento climatico.

Con una guida turistica siamo, infatti, stati sul massiccio di Chacaltaya, a 5.421 metri d’altezza, unico centro di sport invernali della Bolivia e anche il più alto del mondo e più vicino alla linea equatoriale.

A causa del riscaldamento globale, dal 2009 il ghiacciaio (risalente a 18mila anni fa) è praticamente scomparso, lasciando il posto a un deserto di rocce. Nel gruppo delle dodici persone in visita al luogo c’era un signore olandese che ha raccontato la sua esperienza negli anni Settanta come sciatore in questo stesso luogo.

Mappa della Panamazzonia senza i confini politici.

Sulla crisi climatica

A quest’ultimo Forum hanno partecipato 1.200 persone provenienti dai nove Paesi dell’Amazzonia, ma anche dall’Africa. I partecipanti sono stati divisi in quattro grandi gruppi, attorno ad altrettanti temi: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre Terra, estrattivismo e alternative, resistenza delle donne.

Io ho fatto parte del gruppo Madre Terra. Il tema è stato diviso, a sua volta, in cinque aree di studio. Personalmente, ho partecipato al gruppo di lavoro sul «Cambio climatico» («Crisi climatica») che noi abbiamo ribattezzato «Collasso climatico».

Inizia così il nostro documento finale: «L’Amazzonia ha raggiunto il punto di non ritorno: il collasso climatico derivante dalla deforestazione e dall’estrattivismo minaccia la sua sopravvivenza, quella delle comunità che la abitano, e mette a rischio la vita dell’intero pianeta».

Si è insistito molto sul fallimento del cosiddetto «accordo di Parigi» (per limitare il riscaldamento globale, entrato in vigore nel novembre 2016) e sulla solidarietà tra i popoli per frenare ogni tipo di meccanismo perverso.

Oggi la situazione è preoccupante: «Senza l’Amazzonia non esiste soluzione alla crisi climatica. Senza una soluzione alla crisi climatica globale non sarà possibile salvare l’Amazzonia».

Abbiamo riflettuto per un accordo a favore della vita, e proposto un cambio dalla base, con una «minga» (termine quechua per indicare un lavoro comunitario) e cioè un tavolo di lavoro collaborativo tra i vari continenti, partendo dal nostro sentire e pensare. Per rendere realtà l’urgente richiesta di «cambiare il sistema capitalista e non il clima» occorrerà: costruire territori liberi da estrazione petrolifera e mineraria, deforestazione, agrocommercio, inquinamento, libero commercio, razzismo, colonialismo, prodotti transgenici, prodotti agrotossici, megaprogetti infrastrutturali, violenza, militarizzazione, genocidio e terricidio.

«Oggi – hanno spiegato i partecipanti – è chiaro che soluzioni reali ed efficaci arriveranno dalle nostre lotte, dai nostri territori, dalla nostra esperienza, dalla nostra capacità di autogestione e dalle nostre alternative».

A casa dei Chimanes

Oltre a partecipare ai lavori di gruppo, abbiamo avuto l’opportunità di visitare una delle tante comunità indigene del territorio. Siamo così stati a San José di Canaan, una comunità di Chimanes (detti anche Tsimané) che vive in una riserva riconosciuta dal governo. Attorno a loro ci sono altri ventitré villaggi indigeni che lo scorso anno hanno vissuto un terribile incendio durato quasi tre mesi. Con tutte le loro forze hanno cercato di domarlo ma l’incendio ha distrutto intere comunità. Anche San José ha perso molti raccolti, ma si è riusciti a circoscrivere la perdita all’esterno del villaggio. È stato un disastro umano e ambientale molto grande. Oggi ci sono famiglie con bambini delle comunità distrutte, che vanno nei ristoranti e negozi dei due paesini di Rurrenabaque e San Buenaventura a chiedere elemosina.

La comunità San José ci ha accolto con una danza e un discorso di benvenuto nella propria lingua.

In seguito, alcuni di loro han- no raccontato il dramma vissuto. Molto interessante è stato vedere come le comunità si siano assunte le loro responsabilità proponendo criteri e metodologie affinché, in futuro, gli incendi non vengano favoriti dagli stessi abitanti.

Sono state stabilite norme precise come non diserbare con il fuoco ma triturare la vegetazione perché rimanga come concime per la terra. E quando, eventualmente, si dovesse pulire un terreno con il fuoco, non farlo nei quattro mesi di tempo secco e cercare sempre la presenza di tutta la comunità perché possa intervenire in caso d’emergenza.

La lezione che abbiamo appreso dall’esperienza di San José è la seguente: non bisogna aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, occorre iniziare da noi stessi a realizzare azioni utili per un futuro migliore.

I nostri comportamenti

Come sanno benissimo i lettori di Missioni Consolata, bisogna rivedere il nostro stile di vita. Quindi, è indispensabile ridurre il consumo di acqua, non sprecare energia elettrica, utilizzare meno carta, muoversi di più a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici, ottimizzare i sistemi di riscaldamento e raffreddamento in casa, ridurre gli sprechi alimentari, piantare alberi, riciclare, recuperare.

Qui, nella nostra parrocchia, stiamo spingendo a non utilizzare recipienti monouso. La stessa gente del paese sta guardando alle istituzioni che rispettano l’ambiente. Questo diventa un incentivo per aumentare la sensibilità verso la custodia della natura e dell’Amazzonia tutta.

Angelo Casadei

In visita alla comunità indigen di San José di Canaan. Foto Angelo Casadei.


Puerto Leguízamo, esperienze concrete a livello di territorio

Dalle parole ai fatti

«L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di apportare cambiamenti negli stili di vita, nella produzione e nei consumi, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano» (Laudato Si’, 23).

Nel 2015, il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo Solano ha iniziato l’attuazione di un progetto sul Cambiamento climatico sotto la direzione del padre José Maria Córdoba Rojas, all’epoca direttore della Pastorale sociale. L’intervento è stato realizzato nella zona di Nuestra Señora de la Mercedes del Comune di Solano Caquetá.

Obiettivo del progetto: aumentare la resilienza delle comunità contro i rischi di siccità e inondazioni, attraverso metodi di produzione adattati e sostenibili, con la partecipazione di cento famiglie (di cui novanta contadine e dieci indigene) situate nelle veredas (comunità rurali con coloni provenienti da altre regioni, ndr) di Mononguete, Las Mercedes, Hericha, Peñas Blancas e nel resguardo (comunità indigena autoctona, ndr) la Teófila.

L’intervento è stato realizzato tenendo conto delle popolazioni più vulnerabili, cercando nelle comunità un cambiamento nei modi di vita in armonia con il territorio amazzonico. Attraverso i processi formativi è stato possibile per le famiglie trasformare un atteggiamento passivo in uno sguardo critico e riflessivo sulla realtà sociopolitica, economica ed ecologica, a partire dalla gestione delle proprie aziende agricole e da come vengono visti il territorio e la comunità.

A livello comunitario è stata rafforzata la leadership, sono state formulate, gestite e realizzate piccole iniziative per progetti infrastrutturali e per la lavorazione del latte e del miele di canna. Attraverso spazi di lavoro comunitario e scambi di esperienze e visite tra produttori, è stato possibile conoscere nuove visioni del territorio, pratiche agroforestali sostenibili, scambio di sementi, riconoscimento e valorizzazione delle tradizioni culturali di alcuni popoli dell’Amazzonia.

Francisco Rodriguez Tovar

Uno dei tanti striscioni esposti durante la marcia da San Buenaventura a Rurrebabaque. Foto Angelo Casadei.


La riflessione

Plurietnici, Pluriculturali, Biodiversi

ARurrenabaque-San Buenaventura ci siamo riconosciuti plurietnici, pluriculturali e biodiversi, ma immersi in una visione d’insieme chiamata Amazzonia, superando così i confini imposti dai nove Stati nazionali in cui il territorio amazzonico è stato suddiviso.

L’Amazzonia vive perché respira attraverso la complessità delle sue foreste, acque, flora, fauna e delle culture che si mostrano nei volti di indigeni e afro, di contadini e residenti fluviali, ma anche abitanti delle città. Questa Amazzonia è però malata e sofferente a causa dei progetti di morte che si sviluppano al suo interno, trasformando la Madre Terra in una semplice risorsa monetaria venduta al miglior offerente.

Se sul pianeta tutto è connesso, una «foresta» non funziona senza l’altra. La foresta eurocentrica di cemento ha bisogno della foresta amazzonica per preservare la vita nelle sue molteplici forme. Al medesimo tempo, la foresta amazzonica ha bisogno che la foresta eurocentrica prenda coscienza che è impossibile sostenere un consumo infinito con risorse finite. Per tutto questo, accanto ai volti amazzonici, il Fospa ha accolto altri volti provenienti da diverse parti del pianeta che si sono alleati nel grido in favore della vita.

È stato interessante sentire che non si deve aspettare che la cura arrivi solo dall’esterno. È da questa constatazione che scaturisce la necessità di passare dalla condizione di vittime a quella di attori, avendo sempre ben chiaro che non c’è cultura senza territorio, non c’è territorio senza conoscenza, saperi e memoria, non c’è territorio senza acqua.

L’autonomia non si ottiene solo da un documento, ma da un territorio con le caratteristiche preesistenti che comprendono spiritualità, cibo e salute. Siamo autonomi quindi se viviamo, se produciamo e se abbiamo la capacità di curarci.

Il Fospa porta avanti il grande sogno di vedere il territorio come la Madre da cui tutti dipendiamo e l’essere umano come fratelli e sorelle diversi, sì, ma uniti da un unico scopo: coltivare, proteggere, guarire e tessere la vita che ci è stata data in eredità dalle nostre antenate e antenati. Il Fospa – infine – è servito per condividere una Parola che è arrivata al cuore e che ognuno di noi partecipanti si è portato con sé per essere risvegliata nei propri territori.

Fernando Flórez Arias (Imc)




Australia. Senza voce a casa propria


È la condizione che vivono i popoli indigeni dell’Australia. Da quando – era il 1788 – gli inglesi arrivarono a occupare la loro terra.

Ormai è trascorso un anno, ma quella data – 14 ottobre 2023 – rimarrà nella storia del Paese come un giorno nero.
Gli elettori australiani erano stati chiamati a un referendum per approvare o respingere una modifica alla Costituzione riguardante i popoli indigeni del Paese. Ovvero per dire sì o no alla formazione di un organismo consultivo chiamato «Aboriginal and Torres Strait Islander Voice». Detto organismo avrebbe avuto il compito di presentare istanze al Parlamento e al Governo su questioni relative alle popolazioni indigene.

La proposta è stata però respinta sia a livello nazionale che in ognuno dei sei stati (Australia Meridionale, Australia Occidentale, Nuovo Galles del Sud, Queensland, Tasmania, e Victoria). Insomma, la maggioranza degli australiani ha detto no a un emendamento costituzionale di buon senso, a una riparazione (sia pure molto tardiva) che avrebbe posto fine a secoli di dominazione sui popoli nativi.

Dagli olandesi alla conquista inglese

Donna aborigena a caccia di varani della sabbia in Australia, Comunità aborigena Warlpiri di Alice Spring. Foto: Fred Muller – Biosphoto via AFP.

I primi stranieri ad approdare sulla Terra australis (Terra meridionale) furono gli olandesi. Un navigatore al servizio della Compagnia olandese delle Indie orientali, Willem Janszoon, nel 1605 sbarcò a Capo York, penisola nordorientale del continente australiano, nella regione successivamente chiamata Queensland.

Dopo le sporadiche visite degli olandesi, trascorsi oltre centocinquanta anni, furono gli inglesi a iniziare un vero e proprio insediamento nel continente australiano.

Nel 1770, il capitano James Cook tracciò la costa orientale dell’Australia e la rivendicò per la Gran Bretagna. Tornò a Londra con resoconti favorevoli alla colonizzazione a Botany Bay (oggi Sydney).

La prima flotta di navi britanniche arrivò a Botany Bay nel gennaio 1788 per fondarvi una colonia penale. Tra il 1788 e il 1868 furono deportati in Australia più di 162mila detenuti, ospiti delle prigioni della Gran Bretagna e dell’Irlanda. Di questi, solo nel 1833 ne arrivarono quasi settemila.

Quelle terre erano abitate da una popolazione nativa considerata tra le più antiche del mondo: gli studi la fanno risalire a 65mila anni fa. «L’arrivo di portatori di una potente cultura imperialista – spiega l’enciclopedia Britannica – costò agli aborigeni la loro autonomia e il possesso indiscusso del continente». Le modalità e le conseguenze della conquista furono identiche a quelle accadute nelle Americhe e, in pratica, in ogni luogo del mondo abitato da popolazioni indigene.

Gli insediamenti europei iniziarono a espandersi nell’entroterra, venendo in conflitto con i nativi per il possesso della terra. «Quando divenne evidente – si legge sul sito dell’Australian war memorial (Awm) – che i coloni e il loro bestiame erano venuti per restare, si sviluppò la competizione per l’accesso alla terra e l’attrito tra i due modi di vita divenne inevitabile. […] Si stima che in questo conflitto morirono circa 2.500 coloni e poliziotti europei. Per gli abitanti aborigeni il costo fu molto più alto: si ritiene che circa 20mila siano stati uccisi nelle guerre di frontiera, mentre molte altre migliaia morirono di malattie e altre conseguenze involontarie dell’insediamento».

Come sempre avviene, sul numero dei nativi morti durante la conquista non c’è concordanza. Tuttavia, è comune – anche se controverso – parlare di «genocidio». Si ritiene, infatti, che la popolazione nativa passò da un numero stimato di 1-1,5 milioni di persone a meno di centomila agli inizi del Novecento.

Cittadini o stranieri?

L’indipendenza della colonia australiana da Londra (rimanendo essa nel Commonwealth e sotto la Corona britannica) arrivò con la Costituzione del 1901. Questa trattava diversamente i nativi dagli altri australiani.

Soltanto due parti si riferivano agli abitanti originari del Paese: la Sezione 51 (paragrafo XXVI) che conferiva al Commonwealth il potere di legiferare nei confronti di «persone di qualsiasi razza, diversa dalla razza aborigena, per la quale si ritiene necessario emanare leggi speciali»; e la Sezione 127 in base alla quale «nel computo del numero delle persone del Commonwealth, o di uno Stato o di un’altra parte del Commonwealth, i nativi aborigeni non devono essere conteggiati».

«Ciò significava – si legge sul sito di the Australian institute of aboriginal and Torres Strait islander studies (Aiatsis) – che gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres non venivano riconosciuti come parte della popolazione australiana».

Il referendum del 1967 mise fine a questa incredibile esclusione. Così, a partire dal Censimento del 1971 gli indigeni australiani entrarono – per la prima volta – nel computo dei cittadini australiani.

Mappa dell’Australia con i sei stati federati (più due territori).

Per gli indigeni del continente la strada del riconoscimento dei propri diritti era però ancora molto lunga. Una delle proteste più famose e longeve – e tuttora in essere – prese il nome di «The tent embassy», l’Ambasciata della tenda.

Tutto ebbe inizio il 26 gennaio 1972, nella capitale Canberra. Quel giorno quattro indigeni installarono un ombrellone sui prati di fronte al Parlamento. L’ombrello (poi divenuto una tenda) venne denominato «Ambasciata aborigena». Dato che il governo non considerava i diritti indigeni sulla terra di cui erano storicamente proprietari, quella protesta voleva ricordare che il governo aveva reso gli indigeni australiani «stranieri nella propria terra» e, in quanto tali, avevano bisogno di un’ambasciata.

Sulla proprietà della terra la questione è ancora aperta, ma – come accade ovunque nel mondo – non stanno vincendo i popoli indigeni.

Secondo l’incipit di una dettagliata inchiesta del Guardian – titolata «Who owns Australia?» (17 maggio 2021) -: «Chi possiede l’entroterra australiano è una questione controversa. La vera risposta sono i popoli delle Prime nazioni, la cui proprietà risale a 60mila anni fa. La risposta giuridica è più complessa. È un pasticcio di titoli: proprietà, locazioni pastorali, locazioni della corona, terreni pubblici, titoli nativi e terreni detenuti da trust aborigeni».

Secondo dati governativi, «a livello nazionale, nel giugno 2023, il 16,2% della superficie terrestre australiana (1,25 milioni di Km quadrati, ndr) era posseduta o controllata da aborigeni e isolani dello Stretto di Torres».

Tanto o poco? Per avere un’idea delle proporzioni è utile confrontare i dati con le proprietà in mano a uno ristretto numero di privati e di multinazionali. Per esempio, la magnate Gina Rinehart – della multinazionale mineraria Hancock – possiede 9,2 milioni di ettari (92mila chilometri quadrati). Secondo Forbes, la donna è la persona più ricca dell’Australia, al 56° posto nella classifica mondiale.

Il razzismo esiste ancora

Anche il termine per definire i popoli nativi è stato oggetto di dibattito. Per lungo tempo essi sono stati conosciuti come «aborigeni» australiani. Questo termine è però troppo generico ed anche incorretto perché incompleto, non includendo gli indigeni dello Stretto di Torres, un ampio braccio di mare tra il Queensland e la Nuova Guinea che comprende ben 274 isole. Pertanto, è stato adottato il termine di Prime nazioni (First nations people) o di Popoli aborigeni e isolani dello Stretto di Torres (Aboriginal and Torres Strait islander people).

Essi non costituiscono una comunità omogenea, ma un insieme di centinaia di gruppi con lingue, storie e tradizioni diverse.

Secondo l’ultimo censimento, la popolazione indigena australiana conta poco meno di un milione di persone. Di essa il 41 per cento vive nelle città, il 44 per cento in aree interne e il restante 15 per cento in zone remote o molto remote del Paese. Dal punto di vista geografico, gli stati con la più alta percentuale di indigeni sono il Nuovo Galles del Sud (34 per cento) e il Queensland (28 per cento).

L’Australian institute of health and welfare (Aihw), ente pubblico, deve ammettere: «È riconosciuto che, in tutto il mondo, la colonizzazione ha avuto un impatto fondamentale sugli svantaggi e sulla cattiva salute dei popoli delle Prime nazioni, attraverso sistemi sociali che hanno mantenute le disparità. In Australia, gli effetti storici e attuali della colonizzazione e del razzismo hanno contribuito, almeno in gran parte, alle attuali disuguaglianze».

Un recente studio (Australian reconciliation barometer, 2020) ha rilevato che oltre la metà di tutti gli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres ha sperimentato almeno una forma di pregiudizio razziale negli ultimi sei mesi, mentre il 60% di essi concorda sul fatto che l’Australia sia un Paese razzista.

Emarginazione e razzismo fanno sì che i popoli indigeni australiani abbiano i peggiori indicatori socioeconomici: oltre 120mila indigeni vivono al di sotto della soglia di povertà; i tassi di disoccupazione indigena sono doppi di quelli delle popolazioni non indigene nelle città e nei centri regionali ma molto più alti nelle aree remote.

Manifestazione in favore del «sì» al referendum del 1967 sui popoli indigeni australiani (l’esito fu favorevole al contrario di quello dell’ottobre 2023). Foto sbs.com.au.

Quel «no» alla riconciliazione

Il clamoroso risultato del referendum del 14 ottobre 2023 è stato un colpo ferale per i popoli indigeni australiani e i loro sostenitori. Come Marcia Langton, antropologa aborigena (Yiman), in prima linea nella lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni.

«È molto chiaro – ha detto senza mezzi termini la docente universitaria – che la riconciliazione è morta. La maggioranza degli australiani ha detto “no” all’invito dell’Australia indigena, con una proposta minima, a darci voce in capitolo sulle questioni che riguardano le nostre vite. Penso che i sostenitori del “no” abbiano molto di cui rispondere  per aver avvelenato l’Australia contro questa proposta e contro l’Australia indigena».

Paolo Moiola

Camberra, gennaio 1972: un’immagine della protesta nota come «Ambasciata aborigena» (Aboriginal embassy o The tent embassy) contro il trattamento riservato alle popolazioni indigene.
Foto: Ken Middleton collection, National Library of Australia.




«Mi nutro di vita»


Anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione selettiva, ortoressia nervosa, vigoressia. I Dca sono tanti e in crescita, soprattutto tra le ragazze. Si tratta di patologie legate alla condizione psicologica delle persone che richiedono cure specifiche e tanta pazienza.

Sono sempre più numerosi, a livello mondiale, i casi di «Disturbi del comportamento alimentare» (Dca). Aumentati in modo preoccupante durante i lockdown legati alla pandemia da Covid-19, queste patologie non sono più tornate ai livelli pre-pandemici.

Si stima che, nel mondo, i casi di Dca siano oltre 55 milioni, di cui tre milioni solo in Italia. L’8-10% colpisce le ragazze e lo 0,5-1% i ragazzi di età compresa tra i 10-25 anni.

A causa del numero sempre maggiore di nuovi casi, i Dca stanno diventando un’emergenza sanitaria, anche per le limitate risorse economiche messe a disposizione dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) per fronteggiarle. A complicare la situazione, l’esordio dei Dca è sempre più precoce. Vengono, infatti, riscontrati casi già tra i bambini di 6-7 anni, che vanno seguiti da personale sanitario specifico per questa fascia d’età.

Nei più piccoli si osserva sempre più spesso l’Arfid, un particolare «disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo», senza che vi siano preoccupazioni legate al peso, come avviene invece nell’anoressia nervosa.

Questo disturbo può diventare causa di ricovero poiché i bambini, smettendo di mangiare o comunque nutrendosi in modo insufficiente, vanno incontro a un arresto della crescita e ad alterazioni a livello organico, come la comparsa dello scorbuto per mancanza di un adeguato apporto di vitamina C.

I motivi che portano certi bambini a rifiutare il cibo possono essere i più disparati, ad esempio un trauma vissuto in prima persona o osservato in altri (cibo andato di traverso, paura di vomitare, ecc.).

La diagnosi

I «Disturbi del comportamento alimentare» (Dca) sono sempre più diffusi. Foto Nancy Mure – Pixabay.

La diagnosi dei Dca si basa su criteri stabiliti nel Dsm-5, il «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali», curato dall’Associazione degli psichiatri americani e giunto alla quinta edizione.

In questo manuale si trovano standard internazionali per la classificazione dei disturbi mentali ed è un punto di riferimento per la definizione diagnostica dei Dca.

In Italia, per sensibilizzare la popolazione sul tema, dal 2012, il 15 marzo è la «Giornata nazionale del Fiocchetto lilla» (simbolo internazionale dei Dca). La ricorrenza è stata promossa da Mi nutro di vita, associazione nata per volontà di Stefano Tavilla, padre di Giulia, una ragazza deceduta a causa della bulimia il 15 marzo del 2011, a soli 17 anni.

La pandemia da Covid-19 ha avuto gravi ripercussioni sull’andamento dei Dca, con un forte aumento dei ricoveri ospedalieri già nella prima fase di isolamento e, in generale, un aumento dei sintomi da Dca, da ansia e depressione e variazioni del Bmi (Body mass index) nei pazienti. Secondo molti studi qualitativi, durante il periodo pandemico c’è stato un deterioramento della sintomatologia dei Dca legato al ridotto accesso alle cure e al trattamento, ai cambiamenti nella routine giornaliera, all’isolamento sociale e all’influenza esercitata dai media. L’aumento del numero dei ricoveri ospedalieri per Dca durante la pandemia è stato del 48% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un aumento rispettivamente dell’83% e del 16% nei ricoveri pediatrici e degli adulti.

Tra l’altro, le persone affette da Dca presentano un aumentato rischio di contrarre infezioni, tra cui il Covid-19, per l’impatto che i Dca hanno sul fisico.

L’aspetto psicologico

I principali tipi di Dca sono: l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa, il disturbo da alimentazione selettiva (Das), l’ortoressia e la vigoressia.

In tutti i casi, la condizione psicologica delle persone ha un ruolo cruciale e influenza sia l’insorgenza che la persistenza di questi disturbi.

Nei Dca, oltre alla percezione distorta della propria immagine e alla preoccupazione eccessiva per il peso e la forma corporea, un altro elemento comune è il desiderio di controllo, attraverso il cibo, su aspetti della propria vita difficilmente controllabili.

Le persone con Dca pensano cioè di potere esercitare forme di controllo attraverso restrizioni alimentari estreme o comportamenti di purificazione, come il vomito autoindotto o con l’esercizio fisico portato all’eccesso. Il desiderio di controllo è spesso associato all’ansia.

Inoltre, i Dca possono rappresentare un meccanismo di coping per fronteggiare situazioni di stress, traumi o altri disagi psicologici. In pratica la relazione con il cibo diventa un modo per esprimere emozioni difficili o controllare situazioni sgradevoli.

Purtroppo, le ripetute restrizioni alimentari presenti nei Dca hanno una influenza negativa sui neurotrasmettitori, contribuendo così all’insorgenza della depressione, che è spesso collegata a queste patologie.

Inoltre, come già visto, i Dca sono sovente associati all’isolamento personale, perché le persone colpite tendono ad allontanarsi dalle situazioni sociali che coinvolgono il cibo, per nascondere i loro comportamenti e non essere sottoposte al giudizio altrui.

Gli atteggiamenti rigidi dei familiari e le pressioni o le critiche legate all’aspetto fisico possono innescare lo sviluppo di un Dca. È necessario tenere presente che l’autovalutazione e l’autostima sono profondamente coinvolti nei Dca, cioè le persone colpite misurano spesso il loro valore sulla base del loro aspetto fisico e la loro capacità di tenere il peso sotto controllo.

Guarire è possibile

È importante sapere che i Dca, se trascurati, possono portare a mortalità elevata sia per le complicazioni fisiche (alcune delle quali come l’osteoporosi e i danni cardiaci possono permanere anche dopo il recupero), sia per le elevate tendenze suicidarie dei soggetti colpiti. Sono, pertanto, necessari una valutazione del caso e un intervento tempestivo da parte di un team multidisciplinare comprendente medici, professionisti della salute mentale e nutrizionisti.

Tutti i Dca sono recuperabili, purché si intervenga al più presto. Inoltre, risulta di grande aiuto il coinvolgimento della famiglia nell’approccio terapeutico globale.

I genitori possono essere educati sui Dca dal personale sanitario, soprattutto riguardo ai segnali d’allarme e alle strategie di supporto. Il coinvolgimento della famiglia è importante per facilitare la comprensione reciproca e affrontare eventuali schemi disfunzionali, che possono avere contribuito all’insorgenza del Dca.

Rosanna Novara Topino

 


DCa 1 / L’ANORESSIA

I «Disturbi del comportamento alimentare» (Dca) sono sempre più diffusi. Foto Franckin Japan – Pixabay.

L’anoressia nervosa è caratterizzata dalla paura di guadagnare peso, che porta a un’estrema restrizione calorica. La persona colpita ha un’immagine corporea distorta, quindi si percepisce sempre in sovrappeso, pur non essendolo. Questa condizione patologica può avere gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale. Sul piano fisico possono, infatti, esserci gravi complicanze come la debolezza muscolare, le disfunzioni ormonali, l’osteoporosi, problemi cardiaci, gastrointestinali, riproduttivi e compromissione del sistema immunitario fino ad arrivare, nei casi estremi, alla morte per insufficienza organica.

Sul piano psicologico, l’anoressia nervosa è legata ad ansia, depressione, isolamento sociale, bassa autostima, elevato timore di perdere il controllo sul proprio corpo, essendo quest’ultima la caratteristica psicologica saliente di questa patologia. Ne risultano compromesse la vita quotidiana, le relazioni interpersonali e spesso il funzionamento generale.

Esistono due varianti dell’anoressia nervosa: il tipo restrittivo, caratterizzato da restrizione calorica che porta a una drastica riduzione del peso e il tipo binge-eating/purging o Bed (Binge-eating disorders), in cui il soggetto alterna episodi di abbuffate al vomito autoindotto (che può portare a lesioni esofagee) o all’eccessivo uso di lassativi, per eliminare il cibo appena assunto.

Tra i fattori di rischio dell’anoressia nervosa abbiamo una combinazione di predisposizione genetica, pressioni socioculturali legate all’aspetto fisico, influenze ambientali ed eventi traumatici nella vita del soggetto. Un grande impatto sull’insorgenza dell’anoressia nervosa è dato dai media come riviste, cinema e televisione e più recentemente dai social network, che nel mondo occidentale veicolano modelli femminili caratterizzati dalla magrezza, dall’adeguatezza a determinati canoni di bellezza e dalla giovinezza.

Il mito della magrezza si è affacciato nella società occidentale a partire dagli anni ’60-’70 del Novecento, costringendo le donne a grossi sacrifici. In quegli anni, il cambiamento di ruolo sociale della donna, rispetto al passato, ebbe un grande peso sulla pressione sociale verso la magrezza. Per molte ragazze, la magrezza divenne il simbolo di alcune caratteristiche di alto valore sociale, tra cui l’autocontrollo, l’indipendenza, il fascino, l’accettabilità sociale e il successo. Il peso corporeo delle miss e delle modelle è andato progressivamente abbassandosi nel corso degli anni ed è sempre stato significativamente inferiore a quello indicato nelle tabelle del peso ideale e sia riviste che maison di alta moda non hanno fatto altro che idealizzare la magrezza femminile, così come la bambola più famosa del mondo, la Barbie.

La diagnosi di anoressia nervosa viene posta dopo una valutazione clinica dettagliata a opera di professionisti della salute fisica e mentale, mediante esami fisici, analisi del comportamento alimentare e colloqui approfonditi uniti a strumenti standardizzati, per conoscere la percezione del paziente per quanto riguarda il cibo, il peso e l’immagine corporea.

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DCa 2 / LA BULIMIA

La bulimia nervosa, che spesso porta all’obesità, è tipica delle persone che tendono a percepire le emozioni attraverso la fame. Mentre la persona anoressica fa di tutto per resistere alla fame, ne è assillata se non addirittura terrorizzata e vuole arrivare a un cambiamento deliberato del corpo, la persona bulimica arriva al cambiamento del corpo cioè all’obesità in modo non intenzionale. Semplicemente viene abbandonata la gestione del cibo e si assiste a una perdita di controllo, che si manifesta con abbuffate ricorrenti, in cui vengono ingerite grandi quantità di cibo in poco tempo. A questi episodi possono seguire tentativi di compensazione sotto forma di vomito autoindotto, uso di lassativi, digiuni prolungati, esercizi fisici praticati in modo eccessivo. Il bulimico è spesso ansioso, depresso, con bassa autostima e con sensi di colpa e vergogna per il proprio comportamento alimentare.

Tra i fattori di rischio, anche in questo caso vi sono le pressioni socioculturali, i disturbi dell’umore, storie di abusi o traumi, disturbi alimentari precedenti e la predisposizione genetica. Tra le complicanze della bulimia possono esserci problemi dentali dovuti all’acidità del vomito, squilibri elettrolitici, disturbi gastrointestinali, cardiaci e renali. Inoltre, può essere necessario il ricorso agli antidepressivi. Anche in questi casi, come già per l’anoressia nervosa, diventa essenziale il monitoraggio costante dei parametri fisici per scongiurare le possibili complicanze.

Sia l’anoressia che la bulimia evidenziano la capacità del comportamento di alterare il corpo. Inoltre, va ricordato che l’attività fisica e la sedentarietà modulano il controllo dell’appetito. Anche in questo caso è cruciale la collaborazione tra professionisti della salute fisica e mentale.

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DCa 3 / IL DISTURBO DA ALIMENTAZIONE SELETTIVA

Il Disturbo da alimentazione selettiva (Das), detto anche Selettività alimentare, è una condizione diversa da quella che può essere presente nell’infanzia. È infatti abbastanza comune che i bambini in fase di crescita esercitino una certa selettività alimentare, che però superano crescendo. Nel caso del Das, la selettività alimentare permane in età adulta e va ben oltre le preferenze alimentari che ciascuno può avere. Tra le cause possono esserci: una componente neurobiologica, con alterazioni nella percezione sensoriale dei cibi e conseguente rifiuto; esperienze traumatiche legate al cibo durante l’infanzia, come un rischio di soffocamento o un episodio di malessere legato al cibo; una percezione sensoriale distorta dei sapori, degli odori o della consistenza degli alimenti, che porta al loro rifiuto; una predisposizione genetica al Das.

In questa condizione patologica sono presenti limitazioni alimentari estreme, che persistono nel tempo e che possono avere un notevole impatto sulla qualità della vita, influenzando le interazioni sociali, le attività quotidiane e la salute generale per le carenze nutrizionali a cui il soggetto va incontro.

Il Das può essere associato ad altri disturbi psicologici o neuropsichiatrici come l’ansia, il disturbo ossessivo-compulsivo (Doc) o il disturbo dello spettro autistico (Asd). Le persone con Das spesso provano ansia all’idea di ingerire cibi nuovi o che percepiscono come «non sicuri».

Tra gli approcci terapeutici per i Das vi sono la terapia comportamentale, che può servire a ridurre gradualmente l’ansia legata all’alimentazione, migliorando la disposizione ad assaggiare nuovi alimenti; gli interventi che mirano a ridurre la sensibilità sensoriale, migliorando la tolleranza a nuovi cibi; il supporto psicologico, cruciale per ridurre l’ansia ed esplorare eventuali problemi psicologici sottostanti.

L’approccio terapeutico dovrebbe essere personalizzato, considerando le esigenze specifiche di ciascuno e la complessità della condizione.

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I «Disturbi del comportamento alimentare» (Dca) sono sempre più diffusi. Foto Natalia Lopez – Pixabay.


DCA 4 / L’ORTORESSIA NERVOSA

L’ortoressia nervosa è un disturbo alimentare caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per la qualità del cibo, che è stato incluso nel Dsm-5 come «Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione del cibo». Tra i sintomi ci sono l’eliminazione del cibo considerato «malsano» e un’estrema attenzione riguardo la qualità degli alimenti, che vengono classificati nelle categorie dicotomiche «pericolosi» e «sani». Si tratta di un vero e proprio fanatismo alimentare, che porta il soggetto a sentirsi in colpa se consuma alimenti diversi da quelli che considera sani. Inoltre, egli tende a sviluppare un senso di superiorità basato sul cibo nei confronti di chi non ha la sua stessa selettività alimentare, che mette in atto spendendo moltissimo tempo nella scelta dei cibi, nel modo di prepararli, nella pianificazione dei pasti e nell’evitare vivande che ritiene nocive.

L’inflessibilità delle regole alimentari si traduce ben presto in isolamento, poiché vengono progressivamente evitati tutti i momenti di condivisione dei pasti con altre persone, nel timore di trovarsi in presenza di cibi e bevande malsani.

L’ortoressia diventa con il tempo un rischio per la salute perché quasi sempre porta alla deprivazione di alcuni nutrienti essenziali, causando così degli squilibri significativi che richiedono l’intervento medico. Tra le persone più a rischio di ortoressia ci sono i professionisti sanitari, gli studenti di medicina, le donne, gli adolescenti e le persone che praticano sport.

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DCa 5 / LA VIGORESSIA

La vigoressia – detta anche bigoressia o dismorfofobia muscolare – è un disturbo caratterizzato dall’eccessiva preoccupazione che il proprio corpo non sia sufficientemente muscoloso. Questo disturbo, in cui si ha una distorsione dell’im-

magine corporea non riferito al peso, bensì al proprio sviluppo muscolare è caratteristico dei giovani adulti, soprattutto ma non esclusivamente di genere maschile e di età compresa tra i 15-23 anni. Il vigoressico, non percependosi adeguato, spende buona parte del suo tempo in allenamenti estenuanti che lo portano a evitare ogni attività sociale e lavorativa, e conduce a un regime dietetico molto rigido e sbilanciato, in cui c’è una prevalenza di cibi altamente proteici e poveri di grassi. Molto spesso il tutto si associa al consumo di sostanze anabolizzanti. La vigoressia e l’ortoressia sono entrambe forme di controllo sul proprio corpo, l’una mediante allenamenti portati all’eccesso e l’altra mediante il cibo che si introduce. In entrambi i casi, a farne le spese è la salute sia fisica che mentale.

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Per non bruciarsi le ali


La transizione «verde» può aiutare a risolvere un problema ambientale ma crearne altri. La soluzione non sta nelle nuove tecnologie, ma nell’accettazione dei limiti.

La ragione per cui l’umanità ha optato per la transizione energetica è la volontà di rallentare i cambiamenti climatici. In altre parole, è legata a motivi ambientali. Tuttavia, se non è attuata in maniera avveduta, la transizione segnerà solo il passaggio da un problema ambientale a un altro. Anzi, ad altri.

Come è noto, per ottenere energia libera da anidride carbonica servono tecnologie basate sull’uso di una trentina di minerali che, oltre a essere presenti sulla Terra in quantità limitata, comportano numerose problematiche ambientali sia nella fase estrattiva che di lavorazione.

Gli impatti dell’estrazione

Uno dei problemi più gravi che si riscontra nei luoghi di estrazione è l’impatto sul suolo. Le zone toccate dalle attività minerarie si presentano come paesaggi lunari a causa delle voragini provocate dal materiale prelevato e delle montagne artificiali create dagli scarti accumulati. I minerali utili, infatti, difficilmente si trovano in natura allo stato puro. Molto più spesso sono incorporati in rocce che contengono molti altri minerali dai quali devono essere separati. Ad esempio, per ottenere una tonnellata di alluminio servono 3,5-4 tonnellate di bauxite, la roccia grezza da cui il metallo proviene. In altre parole, ogni tonnellata di alluminio lascia dietro di sé 2-3 tonnellate di detriti, fra cui abbondanti quantità di fango rosso, un residuo che deve il suo colore all’alto contenuto di ferro e altri metalli pesanti. Secondo l’Aluminium institute, nel 2017 sono stati generati a livello mondiale 159 milioni di tonnellate di residui di bauxite, per un totale di depositi accumulati pari a 3 miliardi di tonnellate.

Le previsioni dicono che la produzione di alluminia (alluminio grezzo) passerà da 140 milioni di tonnellate del 2022 a 178 milioni nel 2040, con una produzione di 220 milioni tonnellate di detriti all’anno, per un accumulo complessivo di residui di bauxite stimati al 2050 in 8 miliardi di tonnellate.

Il fango rosso è considerato un rifiuto altamente pericoloso a causa della sua elevata alcalinità e delle numerose sostanze tossiche che contiene. Veleni che possono propagarsi nell’ambiente circostante, danneggiando la salute delle persone oltre all’integrità di fiumi, falde acquifere, foreste e terreni agricoli. In Malaysia, l’estrazione di bauxite avviene dall’inizio del nuovo millennio, ma attorno al 2015 c’è stata un’intensificazione che ha provocato problemi ambientali e sanitari così seri da indurre le autorità a sospenderla per alcuni mesi.

La transizione «verde» richiede minerali di difficile reperimento e gestione. Foto Miningwatch Portugal – Unsplash.

Dall’Ungheria all’Indonesia

Se in Malaysia la preoccupazione principale è per le falde acquifere, in Australia le miniere di bauxite generano problemi soprattutto all’aria. Il vento trasporta la polvere rossa, contaminando strade, terreni e fiumi per chilometri attorno alle miniere. Ma l’incidente più serio si è avuto in Ungheria il 4 ottobre 2010, allorché un grande bacino di decantazione contenente circa 30 milioni di metri cubi di fanghi di scarto di una fabbrica di alluminio nei pressi della cittadina di Ajka, collassò improvvisamente originando una colata di fanghi rossi di quasi un milione di metri cubi. L’impatto violento dell’acqua e del fango uccise dieci persone e fece crollare numerosi ponti e abitazioni. Complessivamente 40 chilometri quadrati di territorio vennero allagati, avvelenando terreni agricoli e fiumi. Lo stesso Danubio venne investito dall’onda rossa registrando una massiccia moria di pesci.

In Indonesia, il minerale che sta mettendo a soqquadro l’arcipelago è il nichel, di cui l’Indonesia detiene le maggiori riserve mondiali. Da quando questo minerale si è dimostrato particolarmente importante per la costruzione di batterie, la sua estrazione in Indonesia è passata da 6,5 milioni di tonnellate nel 2013 a 98 milioni nel 2022. Il 90% circa dei depositi accertati sono localizzati nelle isole di Sulawesi e Maluku, dove si trovano non solo miniere, ma anche industrie di raffinazione. In queste isole, ricche di vegetazione, l’apertura delle miniere avviene a spese delle foreste, evidenziando così il primo danno ambientale provocato dell’estrazione del minerale.

L’associazione ambientalista statunitense Mighty earth sostiene che, in Indonesia, l’estrazione di nickel ha già comportato la distruzione di oltre 75mila ettari di foreste, mentre altri 500mila ettari potrebbero venire distrutti qualora fossero messi in atto tutti i propositi di apertura di nuove miniere dichiarati dal governo.

Foreste e anidride carbonica

Quando si dice foreste, si dice non solo biodiversità, ma anche riserve di anidride carbonica. Le foreste, infatti, sono grandi serbatoi di carbonio, che si combina con l’ossigeno diventando anidride carbonica, che si disperde in atmosfera nel momento in cui le foreste sono distrutte. Così si arriva all’assurdo di aumentare le emissioni di anidride carbonica per sviluppare una tecnologia tesa a non produrne più. Una situazione aggravata dal fatto che, oltre a estrarre nickel, l’Indonesia lo raffina pure, consumando una grande quantità di energia elettrica ottenuta da centrali alimentate a carbone. Basti dire che il solo complesso minerario di Morowali sta pianificando centrali a carbone della potenza di 5 Giga watt, tanta quanta ne ottiene l’intero Messico dallo stesso tipo di combustibile.

Non a caso il consumo di carbone in Indonesia è cresciuto da 20 milioni di tonnellate nel 2021 a 86 milioni nel 2022, quattro volte tanto. Così l’Indonesia compare fra i primi dieci produttori mondiali di anidride carbonica. I problemi del nickel sono legati anche ai suoi rifiuti. Ogni tonnellata di minerale raffinato lascia sul terreno una tonnellata e mezzo di detriti carichi di sostanze tossiche che inquinano il terreno e le acque circostanti fino al mare. Ad andarci di mezzo è la salute della popolazione e non solo. I pescatori lamentano una grande moria di pesci che li rende sempre più poveri: «Prima dell’apertura delle miniere le acque erano chiare e il pesce abbondante. Ma ora il mare è sporco e caldo a causa degli scarichi delle miniere e delle sue industrie. Il pesce si è assottigliato e quello rimasto è tossico». Così si lamenta Max Sigoro, un vecchio pescatore dell’isola di Sawai, durante un’intervista rilasciata all’associazione Climate rights international.

Il litio o l’acqua?

Un altro minerale portato in auge dalla transizione energetica è il litio, anch’esso determinante per la produzione di batterie. Un’area del mondo particolarmente ricca è il così detto «Triangolo del litio» che si estende fra Cile, Argentina e Bolivia. In quest’area, il litio si trova disciolto in depositi sotterranei di liquido salmastro che viene pompato in superficie e immesso in grandi piscine contenenti acqua dolce. Nel corso di alcuni mesi, sotto l’effetto del sole, l’acqua evapora e lascia sul fondo magnesio, calcio, potassio, sodio e, appunto, litio.

In definitiva si tratta di una tecnologia relativamente semplice, ma che richiede immense quantità di acqua.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, ci vogliono 330 tonnellate di acqua per ottenerne una di litio. Secondo altri studi, invece, ce ne vorrebbero duemila tonnellate. Ma al di là della guerra dei numeri, rimane il fatto che le zone del Triangolo ricche di litio sono fra quelle più aride del mondo. Una di queste è il Salar d’Atacam, una vasta zona salina a 2.500 metri sul livello del mare. Qui le piogge non arrivano a dieci litri per metro quadrato all’anno. L’acqua c’è solo perché è fornita dalle montagne circostanti ma in maniera contenuta e la popolazione lamenta che quella a propria disposizione è sempre minore.

Karen Luza, residente a San Pedro de Atacama e attivista per la difesa dell’acqua, in un’intervista rilasciata nel 2022 all’associazione catalana Odg (Osservatorio sui debiti della globalizzazione), ha dichiarato che «mentre nelle miniere si utilizzano migliaia di litri d’acqua al giorno, i contadini devono aspettare anche un mese per poter irrigare i propri campi». L’Agenzia internazionale dell’energia conferma che metà della produzione di litio e rame avviene in aree ad alto stress idrico con forte opposizione delle comunità locali che rivendicano l’acqua per bere, lavare e irrigare.

La transizione «verde» richiede minerali di difficile reperimento e gestione. Foto Dominik Vanyi – Unsplash.

I costi umani dell’estrazione

Al costo ambientale si associa spesso quello umano, pagato non solo dalle popolazioni indigene estromesse dalle loro terre, ma anche dai lavoratori che sono privati dei loro diritti. Una ricerca condotta nel 2022 dal centro indonesiano Inkrispena, ha messo in evidenza una grande quantità di abusi e di irregolarità all’interno delle miniere e delle fabbriche di nickel presenti in Indonesia. Ma in ambito minerario, le peggiori condizioni di lavoro si trovano nella Repubblica democratica del Congo, nelle miniere di cobalto, altro minerale strategico per la transizione verde.

In questo settore è molto sviluppato il fenomeno dei minatori artigianali, persone che non sapendo come sbarcare il lunario, si improvvisano minatori che a fine giornata vendono per pochi spiccioli quanto hanno trovato.

Prima di tutto devono individuare un sito promettente e dopo avere ottenuto il permesso di sfruttamento da parte del proprietario del terreno iniziano l’estrazione avvalendosi della collaborazione di persone altrettanto povere che pur di avere un lavoro sono disposte a correre qualsiasi rischio per qualsiasi salario.

Amnesty International ha più volte denunciato che fra loro vi sono molti bambini. Nella sola regione del Katanga, i minori impiegati nelle miniere di cobalto in condizioni indicibili sarebbero tra i 20mila e i 40mila. Il minerale portato in superficie dai loro esili corpi finisce nella filiera dei metalli utili a costruire le batterie che alimentano i nostri computer e i nostri smartphone, nel più assoluto silenzio.

La fine di Icaro

I diritti umani sono una questione di volontà collettiva. Basterebbero più regole, più controlli, più investimenti sociali per tutelarli. Anche la tutela ambientale passa attraverso regole e controlli più stringenti, ma da soli non bastano. Serve anche la disponibilità ad accontentarsi di meno in modo da ridurre il nostro impatto sulla natura. Un obiettivo che si raggiunge assumendo un altro concetto di sviluppo e di benessere. Negli ultimi due secoli abbiamo coltivato l’idea che il nostro solo interesse è produrre e consumare sempre di più ed abbiamo finito per sconvolgere molti equilibri su cui si regge la natura: i meccanismi climatici, la diversità biologica, la vitalità dei suoli, i cicli idrici. I segnali di una natura violata a causa dei nostri eccessi sono ormai all’ordine del giorno, ma non bastano per fermarci. Dall’alto della nostra superbia pensiamo che la tecnologia risolverà tutto, per cui non dobbiamo produrre di meno, ma addirittura di più per avere le risorse e l’energia necessarie a sviluppare le nuove tecnologie. Ma la non accettazione dei limiti imposti dalla natura può farci fare la stessa fine di Icaro che, per fuggire dal labirinto, usò delle ali fatte di cera. Ma si avvicinò troppo al sole, la cera si sciolse e Icaro precipitò nel vuoto.

Francesco Gesualdi
(seconda parte-fine)

 




Volete andarvene anche voi? (Gv 6,59-71)


Nella scorsa puntata abbiamo interrotto la lettura del lunghissimo sesto capitolo del Vangelo secondo Giovanni al versetto 58. Ora la riprendiamo per vedere quanto lontano vuole portarci l’evangelista che ci aveva narrato la moltiplicazione dei pani, seguita da una lunga riflessione su quale sia il cibo che davvero ci fa vivere. Questo ha portato il discorso sul tema della centralità di Gesù, «io sono il pane vivente, disceso dal cielo» (Gv 6,51), autentico cibo e bevanda (v. 55) che chiede di affidarsi a lui solo, e di nutrirsi di lui.

La fatica di fidarsi (Gv 6,60-62)

Addomesticati da secoli di formule liturgiche, è possibile che a noi sfugga la portata rivoluzionaria e scandalosa di ciò che Gesù sosteneva e incentivava: al posto di sacrifici animali per chiedere perdono a Dio, Gesù proponeva solo un banchetto, incentrato sul nutrirsi del suo stesso corpo e sangue offerti come sacrificio, seguito dalla celebrazione della comunione con Lui. Ossia sanciva l’abolizione dei sacrifici animali (centrali per il culto nel tempio sostenuto dal Primo Testamento), sostituiti simbolicamente dal sacrificio del suo corpo (nella religione ebraica è sempre stato considerato un abominio toccare la vita umana) e dall’offerta del suo sangue come bevanda (cosa assolutamente vietata dalla legge, già da Gen 9,4)). Così facendo, Gesù metteva al centro del culto sé stesso, sostituendosi a Dio.

Non stupisce quindi che alcuni, anche tra i discepoli di Gesù, abbiano pensato che «questo discorso è duro» (Gv 6,60), ossia faticoso da capire e da fare proprio. Hanno mormorato tra loro, ma non l’hanno detto a Gesù.

A dire la verità, persino per noi oggi alcuni dettagli del discorso di Gesù risultano ostici, tanto che moltissimo inchiostro è stato usato per renderne ragione. Tra i molti tentativi di spiegazione, ne scegliamo uno che può forse sembrare più lineare. Tra l’altro, è un tentativo di spiegazione che si lascia guidare dal fluire del discorso evangelico.

È infatti Gesù a reagire all’obiezione che i suoi discepoli non gli fanno esplicitamente (possiamo immaginare che gli sia stata svelata dallo Spirito, o che Gesù fosse particolarmente attento e acuto riguardo a ciò che si muoveva intorno a lui). E dice, più o meno: «Ciò che ho detto vi fa inciampare (vi scandalizza), non vi aiuta a fidarvi? Figuratevi quando mi vedrete salire al cielo!».

Qui possiamo domandarci per quale motivo l’ascensione avrebbe dovuto causare scandalo. Non sarebbe stata la certificazione che Gesù aveva detto il vero?

Sì, la sarebbe stata, ma, nello stesso tempo e più in profondità, avrebbe attestato che il Padre voleva eliminare la divisione tra divino e umano, che è quindi coerente guardare a un uomo per guardare a Dio, e che fosse Dio stesso a suggerire qual è il volto umano più autentico. Quindi è coerente che, per guardare a Dio, si guardi a un uomo, e che sia Dio a suggerirci il volto umano più autentico. D’altronde, il divieto di cibarsi di sangue era dovuto alla convinzione che nel sangue risiedesse la vita, e che la vita appartenesse a Dio. Ma Dio può donare ciò che è suo. E, lo si noti, il Dio biblico è quello che, piuttosto che chiedere sacrifici agli altri, li fa in prima persona, già dalla relazione con Abramo.

Tutto, logicamente, può tornare. Ma per farlo occorre fidarsi di Gesù.

Spirito vivificatore (Gv 6,63-65)

A volte la logica del vangelo di Giovanni ci sembra strana, ma se ci lasciamo coinvolgere, spesso la troviamo più profonda e autentica di quanto non avessimo colto in prima battuta.

Ciò che segue, infatti, e che ci aspettiamo sia una spiegazione più approfondita, appare invece come un cambio di discorso: «Colui che dona la vita è lo Spirito, la carne non serve a niente» (v. 63). A molti è sembrata un’affermazione illogica e che, tra l’altro, sembra negare il valore dell’eucaristia («mangiate il mio corpo»). In realtà la contrapposizione non è tra la «carne» da una parte e l’«anima» o la «sapienza» o la «conoscenza» dall’altra, ma tra la «carne» e lo «Spirito». Non, quindi, tra una realtà tangibile e una non visibile, bensì tra ciò che dipende semplicemente da una sicurezza esteriore, formale, quella che san Paolo chiamerà la «lettera» (Rm 2,29; 2 Cor 3,6), e ciò che ha e garantisce il senso in profondità.

Qui siamo di nuovo pienamente nel flusso del pensiero di Gesù, che ci ha invitati a metterci in una relazione di fiducia con lui, a cibarci di lui e a lasciarci guidare solo da lui per arrivare al Padre. Non come chi segue una regola e quindi si sente «a posto» (si può anche mangiare il corpo di Cristo con questo stato d’animo…), ma come chi fà proprio un gesto simbolico fidandosi di ciò che significa, affidandosi alle parole di chi ha promesso di essere presente in quel segno. Gesù ci invita a credere che il valore autentico di quel cibarsi, ciò che ai gesti e alle parole umane può «donare vita», sta nella fiducia in lui, assistiti dallo Spirito. D’altronde, ogni forma di dedizione umana autentica si lega non in primo luogo a ciò che concretamente si fa, ma alle intenzioni che ci muovono. Gesù si pone al livello delle nostre intuizioni di vita più profonde, che ci chiedono di valutare e discernere con attenzione le opzioni che abbiamo di fronte, per arrivare alla fine a decidere di che cosa vogliamo fidarci. Se stiamo solo a misurare con il bilancino i pro e i contro, non ci muoveremo mai e non vivremo. Gesù invita ad affidarci a lui, a entrare in quella prospettiva di fiducia che promette che la separazione tra divino e umano non si farà più, come in lui già non esiste più.

E Gesù può dire che ciò è stato «dato dal Padre» perché Dio è davvero superiore a noi, e non possiamo essere noi ad abolire la separazione, ma solo Lui può donare la comunione.

Gesù non sta pensando a dei compiti che noi dobbiamo fare per essere all’altezza dell’esame divino, ma a un incontro di comunione. Questo però, siccome non è tra due pari, non può che partire dall’alto, dal Padre ed è, allo stesso tempo, affidato alla risposta umana, proprio perché avviene tra due libertà.

Volete andarvene? (Gv 6,66-71)

Si può però comprendere che «molti dei discepoli» (v. 66) rinuncino a seguire Gesù. È un discorso troppo «duro», è un discorso che non ci permette di sentirci «a posto» quando facciamo ciò che ci è richiesto (come succede agli schiavi disciplinati), ma ci chiede di entrare in una relazione personale profonda, di dedizione e fiducia. Una relazione che non lascerà mai comodi, perché mai potremo dire di aver fatto abbastanza né di avere in mano certezze. Nello stesso tempo, se si imposta così il discorso non saremo mai esclusi dalla comunione, perché ciò che è richiesto è di aprirsi e fidarsi, non di raggiungere un livello minimo di realizzazione pratica.

Siccome però stiamo parlando di un dialogo, persino Dio non può anticipare come andrà a finire. Da parte sua, Lui ha aperto un credito illimitato, come è chiaro da ogni pagina dei Vangeli: il Padre vuole la comunione con gli esseri umani. Non vuole essere servito, ma incontrato, scoperto e amato.

E l’amore non sopporta forzature, neppure da parte di Dio. Quindi, di fronte allo «scandalo» di molti discepoli (non estranei, ma gente che ha voluto seguirlo), Gesù fa la domanda diretta, che in tutti i Vangeli prima o poi arriva: «E tu? Che dici? Volete andarvene anche voi?» (v. 67). La domanda è ancora più sorprendente perché è fatta ai «dodici», che noi sappiamo chi sono, ma dei quali finora nel vangelo di Giovanni non si è mai parlato.

L’evangelista ci sorprende, ci costringe a ripensare se li aveva già presentati, e così ci fermiamo, rileggiamo, facciamo ancora più attenzione a quella che è una domanda fondamentale, diretta, che chiede coinvolgimento, che interroga sulla comunione possibile. Perché non si tratta di ubbidire a un ordine, ma di aderire a un’offerta.

E la risposta di Pietro è esemplare: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna!» (v. 68). È una reazione che si pone sullo stesso tono di Gesù. Non dice di avere le prove che Gesù sia chi pretende di essere, non introduce doveri o responsabilità. Parla invece di «parole di vita eterna». Ciò che Gesù dice, spiega, fa intuire, ha il gusto dell’eterno, prospetta e promette un senso. Non dà le soluzioni definitive, che nella vita, nelle questioni esistenziali più profonde, non esistono, perché nessuno può dire con certezza matematica di aver fatto bene a fidarsi di questa persona, di questo stile di vita, di questa vocazione. Ma può sentire che dentro a una certa situazione è già presente una promessa di vita autentica, una parola che chiama, che non dà certezze, ma offre una relazione.

E allora, da chi altri andare?

Una volta che si è iniziato a gustare quel profumo di senso, non se ne può più fare a meno. E nessun altro lo offre, anche se persino Pietro non può dire di aver capito tutto, di avere tutto chiaro. Però sai che quel gusto di senso, altrove non c’è.

E il Padre?

Sembrerebbe quasi che il Padre, questa volta, resti sullo sfondo.

Ma dopo tutti i discorsi già fatti è chiaro che Gesù non parla di sé senza coinvolgere anche il Padre, che si mostra e rivela in lui.

Riscopriamo ancora, quindi, un Padre che desidera una relazione di fiducia con gli esseri umani, che abbatte la separazione che esiste tra sé e l’umanità e la abolisce nella speranza, nella promessa, in attesa dell’ascensione al cielo. Come tutte le promesse, non si basa su una garanzia legale, su minacce di punizioni, ma sull’affidabilità della relazione, sulla fiducia: «Ti credo solo perché sei tu a promettermelo».

È una costante talmente regolare che potremmo non notarla più: il Padre di Gesù non imposta la sua relazione con l’uomo sulla base di regole e punizioni, come siamo abituati a veder fare dai potenti e come l’umanità solitamente immagina che faccia Dio, ma sulla base di una relazione personale di comunione e fiducia. Su promesse e affidabilità. E quindi sulla libertà.

Il Padre di Gesù vuole essere amato, e non sopporta quindi costrizione. Non esiste amore senza libertà di andarsene. «Volete andarvene? Andate, non vi trattengo». Non a caso, in questi tempi in cui ancora ci sono persone che ne mantengono altre legate a sé con ricatti morali, con catene economiche o con la violenza, non fatichiamo ad ammettere che quello che loro chiamano amore, amore proprio non è.

Il Padre di Gesù lascia libero chi vuole andarsene. Quando, nella storia della nostra Chiesa, non si sono lasciate le persone libere di scegliere, al di là delle ragioni storiche e culturali, si è tradito lo spirito del cristianesimo.

Come un innamorato, anche il Padre vuole lasciarci liberi di andarcene, sperando però che non vogliamo farlo, che restiamo assetati delle parole di vita eterna, che Lui continua a offrirci tramite Gesù.

Angelo Fracchia
(Il Volto del Padre 08 – continua)




Un santo tra noi. La canonizzazione di Giuseppe Allamano

Sommario


Una luce per gli Yanomami

Il miracolo di Allamano raccontato dalla testimone diretta

Foresta amazzonica brasiliana. Una missione molto «particolare». Un incidente come tanti. Un uomo tra la vita e la morte. Gli sciamani scoprono che esiste uno spirito al di sopra di tutto. Cronaca e riflessioni su un accadimento eccezionale.

Catrimani, Roraima, 7 febbraio 1996. «Come tutte le mattine ero andata al posto di salute a lavorare. In quei giorni, in missione c’eravamo solo io e fratel Antonio Costardi. Lui si stava occupando della strada che in quel periodo ci collegava, attraverso la foresta, alla Br170 che portava a Boa Vista. Le mie consorelle erano in città a seguire alcuni incontri. Oltre a noi, c’era la cuoca». Chi parla è suor Felicita Muthoni Nyaga, missionaria della Consolata e infermiera keniana, a Catrimani dal 1995 al 2000, poi a Boa Vista fino al 2002 per coordinare il settore della salute indigena, a livello dello Stato di Roraima, in particolare la prevenzione della malaria.

L’incidente

«Verso le 9 di mattina venne da me il cognato di Sorino, uno yanomami che abitava alla maloca (casa comunitaria, ndr) vicino alla pista di atterraggio della missione. Non chiedeva un mio intervento, ma voleva piuttosto un fucile o una pistola, dicendo che noi “bianchi” abbiamo sempre armi da fuoco. Io risposi che no, noi missionarie e missionari non ne abbiamo. Vedendolo correre via trafelato, mi insospettii e gli corsi dietro. La cuoca mi vide e venne anche lei».

Giunta davanti alla maloca suor Felicita si trovò di fronte a uno spettacolo sconvolgente: «Subito vidi un lago di sangue, poi notai che c’era un ferito che respirava ancora. Dovevo fare qualcosa. Chiesi dell’acqua e iniziai a lavare quell’uomo. Mi resi conto che il cuoio capelluto era quasi totalmente scoperchiato. Intanto ho fatto chiamare fratel Antonio».

L’uomo che giaceva nel suo sangue era Sorino Yanomami. Era stato aggredito alle spalle da un giaguaro, mentre era a caccia di uccelli a circa due chilometri da casa. L’animale gli aveva azzannato la testa, aprendogli il cranio. Sorino era però riuscito a reagire, lo aveva tenuto a bada con una freccia, e poi era tornato alla maloca cadendo esanime davanti all’entrata.

Continua suor Felicita: «Abbiamo messo Sorino in un’amaca e, con il pick up di fratel Antonio, lo abbiamo portato al punto di salute della missione, dove ho potuto iniettargli del plasma. Intanto ho parlato via radio (l’unico collegamento che si aveva con la capitale, nda) con suor Rosa Aurea Longo a Boa Vista e le ho chiesto se poteva mandare urgentemente un aereo. Suor Rosa mi ha detto che tutti gli aerei erano in volo, perché quel mattino, c’erano state diverse emergenze. Bisognava aspettare».

Sciamani

Nel frattempo, c’era stato il passa parola e, verso mezzogiorno, alla missione erano arrivati una quindicina di sciamani (capi spirituali e guaritori, nda) e circa duecento yanomani da tutte le maloche del circondario. Avevano capito che Sorino stava per morire, ed erano venuti per fare il rito sciamanico che accompagna lo spirito del defunto nel mondo degli antenati. Nel mentre, altri uomini si erano armati per andare a caccia del giaguaro.

«Sono andata da tutta questa gente e ho detto loro: “Sorino è ancora vivo, aspettiamo l’aereo e lo mandiamo in ospedale a Boa Vista”. Loro hanno risposto: “No, non può andare in città. È molto grave, abbiamo visto il suo cervello fuori dalla testa, e il giaguaro ne ha mangiato una parte. Ma una persona senza un pezzo di cervello non può vivere”. Dissi loro: “Tutto questo è vero, ma Sorino è ancora vivo e dobbiamo provare a salvarlo”. Ma loro insistettero: “No perché gli spiriti vengono a prenderlo, lui deve dire il suo sì per lasciare il suo corpo e andare con loro. Questo non può succedere fuori dalla foresta”.

Io ero arrivata da poco a Roraima e non capivo questo concetto. Inoltre mi facevo tradurre, perché ancora non parlavo bene la loro lingua.

In tutta questa confusione, gli uomini mi hanno puntato addosso decine di frecce. Io avevo paura e ho iniziato a piangere. Allora, le donne che erano con loro, mi hanno circondata per proteggermi: “Felicita non piangere, non avere paura, loro non ti tireranno le frecce. Sono molto arrabbiati con il giaguaro. Gridano perché non vi capite”».

Suor Felicita riuscì a sottrarsi da quella situazione pericolosa con la scusa di andare a controllare il ferito in infermeria. «Sorino aveva ripreso un po’ di energia grazie alla trasfusione. Mi ha preso la mano e cercava di stringerla, ma non ci riusciva. Ho messo l’orecchio vicino alla sua bocca e lui mi ha sussurrato: “Felicita, tu adesso sei la mia mamma. Loro dicono che io devo andare con gli spiriti, ma io non voglio, fai qualche cosa perché io voglio vivere”.

Dunque mi trovavo in mezzo tra lui, che voleva vivere, e gli altri che volevano mandarlo dagli spiriti».

Nel frattempo, verso le 14, l’aereo era arrivato. Gli yanomami si erano dispersi. Era rimasto solo Kalera, un amico stretto del ferito, che chiese di poterlo accompagnare a Boa Vista. Suor Felicita e la cuoca lo portarono all’aereo e i due partirono.

«Ho quindi cercato la moglie di Sorino, che era andata ad avvisare alcuni parenti a una maloca a tre chilometri da lì. Quando è arrivata le ho detto: “Helena, tuo marito è molto grave e l’ho mandato a Boa Vista in ospedale”. C’era anche la mamma di Sorino con lei e si sono messe a piangere».

Suor Felicita alla missione di Catrimani nel 1998

«Se lui muore, ti uccidiamo»

Ma quando suor Felicita tornò alla missione trovò una sorpresa: «Il gruppo di Yanomami era di nuovo lì. Mi hanno chiesto: “Felicita dov’è Sorino?” E io: “L’ho mandato a Boa Vista”. “Perché? Non ascolti gli sciamani? Sorino non può morire lontano dalla foresta”. “Perché?”, replicai. “Perché in questo modo il suo spirito non troverà mai casa. L’unica porta per l’aldilà la trova se è in compagnia degli altri spiriti. Ma fuori dalla foresta, nessuno lo può accompagnare. Allora tornerà qui, non troverà la porta e rimarrà a vagare in eterno. Sarà arrabbiato perché non potrà mai riposare e causerà problemi a noi vivi”.

In quel momento mi sono resa conto che avevo fatto una violenza grave alla loro cultura. Avevo invaso una sfera nella quale non sarei dovuta entrare. Quando c’è in gioco la vita, sono loro che devono agire e non gente da fuori.

Allora gli sciamani mi hanno detto: “Entra nella tua casa. Non ti possiamo uccidere adesso perché Sorino non è morto, ma queste frecce le lasciamo qua – hanno piantato diversi dardi davanti a casa -, e se lui morirà, con queste ti uccideremo”.

Io ho risposto: “Va bene”. E sono rimasta sotto questa minaccia. Alcuni giovani si sono fermati a sorvegliare che non uscissi di casa».

Suor Felicita aveva avvisato il pronto soccorso e spiegato la situazione e anche il rischio per la sua vita. I medici erano già pronti e, appena Sorino arrivò, lo operarono per circa quattro ore. Poi, in coma, fu messo in terapia intensiva.

Le suore a Boa Vista decisero di seguire da vicino il ricovero, per cui suor Maria da Silva Ferreira, portoghese, stava con lui di giorno, mentre suor Lisadele Mantoet, italiana, lo vegliava di notte.

Suor Felicita, intanto era in contatto con Boa Vista via radio tutti i giorni per avere notizie.

La richiesta al padre

Fino a quel momento suor Felicita era intervenuta soprattutto come infermiera. «Non avevo pensato molto, avevo agito. Adesso, entrata in casa, sono andata direttamente nella cappella e ho guardato il quadro dell’Allamano. In quel momento ho pensato: “Io ho un padre, è qui”. Ero arrabbiata, avevo tanta paura e tremavo. Ho pensato: “Allamano dimmi una cosa, quando hai fondato questa congregazione, l’hai voluta proprio per i non battezzati? Sapevi che avremmo vissuto tutte queste difficoltà? E in questo momento dove sei? Tu ci sei?”. Quando ho fatto questa domanda ho sentito come una coperta che mi avvolgeva, un calore diverso. Avevo la febbre alta, per lo stress e lo shock.

Allora ho detto: “Ascolta Gesù, per intercessione di Giuseppe Allamano voglio chiederti solo una cosa. Sorino è andato a Boa Vista, è molto grave. Se lì lo potranno curare, io ti chiedo che guarisca completamente e torni come prima. Se torna con delle menomazioni, come una paralisi, non potrebbe vivere nella foresta come cacciatore e pescatore. Se non guarisce, è meglio che muoia.

E se lui deve morire, chiedo anche la grazia per sopportare questa freccia che mi colpirà”.

Inoltre, mi chiedevo: “È questo davvero il nostro posto di missione? Il nostro carisma? Solo una guarigione completa di Sorino può darci una risposta”.

Questa preghiera l’avrei rifatta ogni giorno senza aggiungere nulla. Ho acceso una candela che avrei mantenuto viva. E sentivo di aver fatto tutto».

Era il 7 febbraio, data di inizio della novena per la festa di Giuseppe Allamano, il 16. A Boa Vista la dedicarono alla guarigione del ferito. Inoltre, suor Maria Costa, superiora della casa, diede una reliquia del fondatore a suor Maria da Silva, che la mise sotto il cuscino di Sorino.

Sour Felicita e suor Aurea nella maloca preparano medicine.

L’imponderabile

Il 16 sera Sorino stava morendo. Tutti gli strumenti davano i parametri vitali prossimi allo zero. Era con lui suor Lisadele che pensò: “Devo sentire suor Maria Costa per organizzare il recupero di suor Felicita, prima che si sappia della morte del paziente”.

Il mattino del 17 arrivò suor Maria e parlarono per organizzare il viaggio a Catrimani e salvare la consorella.

Sorino con la sua moglie Helena Yanomami

Verso mezzogiorno suor Maria sentì qualcosa di strano. Guardò il malato e lui girò la testa e le disse: “Maria, perché piangi?”. Poi aggiunse: “Ho fame”. Era successo qualcosa di incredibile.

Sorino era molto debole e la ferita non migliorava. Però aveva parlato.

Suor Felicita, saputo del miglioramento, organizzò il viaggio della madre e della moglie di Sorino a Boa Vista, che il 20 febbraio lo raggiusero. Dopo la terapia intensiva, a marzo Sorino fu portato alla casa di cura degli indigeni, sempre a Boa Vista, per la riabilitazione. L’8 maggio rientrò a Catrimani, accompagnato da suor Giuseppina Morelli, l’amministratrice.

«Io ho chiamato tutti i capi e gli sciamani. Qualcuno diceva: “Arrivano solo le ossa”; oppure: “Non sappiamo cosa arriva”. Sono venuti con le loro frecce, armati per la guerra. Poi l’aereo è atterrato. Sorino è sceso piano ed è subito venuto da me. Mi ha detto: “Felicita voglio farti vedere il cammino che ho fatto dall’incidente alla maloca”. C’erano ancora delle tracce e lì ci ha raccontato con precisione la dinamica dell’accaduto».

«Questo popolo è prezioso»

Il medico che aveva operato Sorino ha confermato che la parte di cervello lesa era quella del coordinamento motorio, che avrebbe dovuto rendere impossibile a Sorino camminare e parlare. Non si spiega dunque scientificamente, neppure come il ferito fosse riuscito a camminare fino alla maloca.

«Penso che noi siamo stati strumento di Dio. Sorino sarebbe potuto morire in quel momento, quando è stato attaccato, e invece lo ha salvato. Il Signore voleva dire qualcosa a questa gente e a tutti noi: “Questo popolo è prezioso per me, siete il mio popolo anche se non siete battezzati”».

Sono passati 28 anni e Sorino è ancora vivo. Lui e sua moglie Helena, che non hanno avuto figli, sono stati famiglia per molti bambini yanomami abbandonati, per motivi vari, dei quali le suore si sono occupate. «Almeno quindici», ricorda suor Felicita. Anche Sorino aveva la sua missione.

Nel 1998 gli sciamani convocarono un’assemblea aperta a missionari cattolici e protestanti ed enti governativi. Durante l’incontro uno di loro raccontò il sogno fatto la notte prima (spesso gli yanomami si affidano al sogno per comunicare messaggi): lui saliva una scala lunghissima verso il cielo e in fondo c’era una luce fortissima, più potente di qualsiasi luce mai vista prima. «È quella la luce che ha detto a Felicita di agire come ha fatto, ovvero di mandare Sorino in città – conclusero gli sciamani -. Suor Felicita è uno sciamano di questo spirito, il più potente di tutti».

Marco Bello

Giovedì primaverile 1915 a Rivoli. Durante una delle visite degli studenti e chierici da Torino, l’Allamano si lascia fotografare dal chierico Borello Mario.


Un cuore grande per tante opere

Giuseppe Allamano, sintesi di una vita esemplare

Un giovane sacerdote della Torino del XIX secolo. Qualcuno capisce i suoi talenti e lo fa diventare formatore. Poi arriva la Consolata e pure Giacomo Camisassa. Infine, non senza difficoltà, la fondazione e la cura di due istituti missionari.

Giuseppe Allamano, quarto di cinque fratelli, nacque il 21 gennaio 1851 a Castelnuovo d’Asti, paese natale di san Giuseppe Cafasso, suo zio, e di san Giovanni Bosco. Rimasto orfano di padre quando non aveva ancora tre anni, crebbe sotto l’influsso determinante della madre Maria Anna Cafasso, sorella del santo, e dello zio, don Giovanni Allamano, fratello del papà.

Terminate le scuole elementari, nell’autunno del 1862 entrò nell’oratorio salesiano di Valdocco, a Torino, dove rimase quattro anni, compiendo gli studi ginnasiali. Qui incontrò il cardinale Guglielmo Massaia che raccontò agli studenti della sua missione in Etiopia. Sentendosi chiamato al sacerdozio diocesano, lasciò Valdocco, per entrare nel seminario di Torino. La sua decisione di entrare nel seminario diocesano incontrò un inatteso ostacolo in famiglia. Furono i fratelli, non la mamma, a opporsi, non perché fossero contrari alla vocazione sacerdotale, ma perché volevano che prima frequentasse il liceo pubblico. Il giovane Giuseppe, convinto com’era, ebbe una sola risposta per i fratelli: «Il Signore mi chiama oggi… non so se mi chiamerà ancora fra due o tre anni».

Così nel 1866 entrò nel seminario. Fin dal primo anno si manifestò la fragilità fisica che sarebbe perdurata tutta la vita, mettendola più volte in pericolo. Il periodo di preparazione al sacerdozio fu molto positivo.

Formatore di preti

Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 20 settembre 1873, Allamano avrebbe desiderato darsi al ministero pastorale, ma fu destinato alla formazione dei seminaristi, prima come assistente (1873-1876), poi come direttore spirituale del seminario maggiore (1876-1880). Quando l’arcivescovo monsignor Lorenzo Gastaldi gli comunicò la destinazione, lui balbettò rispettosamente un’obiezione: «La mia intenzione era di andare vicecurato e poi forse parroco in qualche paesello». Ed ecco la benevola risposta: «Volevi andare parroco? Se è solo per questo, ecco, ti do la parrocchia più insigne della diocesi: il seminario!». Come educatore di candidati al sacerdozio, si distinse per la fermezza nei principi e la soavità nel chiederne l’attuazione.

In questo compito, gli furono unanimemente riconosciute ottime qualità che lo resero un vero «maestro nella formazione del clero». Proseguì nello stesso tempo gli studi, conseguendo la laurea in teologia presso la facoltà teologica di Torino (30 luglio 1876), e l’abilitazione all’insegnamento universitario (12 giugno 1877). In seguito, fu nominato membro aggiunto della facoltà di diritto canonico e civile, e ricoprì pure la carica di preside in ambedue le facoltà.

Davanti alla chiesetta di Wambogo, oggi Gikondi, nel 1907

 

Arriva la Consolata

Nell’ottobre 1880 fu nominato rettore del santuario della Consolata di Torino. Da allora fino alla morte, la sua attività si svolse sempre all’ombra del santuario mariano dell’archidiocesi. Anche questa nuova destinazione costò molto ad Allamano, sacerdote di appena 29 anni. Più tardi, lui stesso riferì la conversazione con l’arcivescovo: «Ma monsignore, io sono giovane», disse con confidenza filiale, ricevendo questa risposta paterna e incoraggiante: «Vedrai che ti vorranno bene lo stesso. È meglio giovane, se fai degli sbagli hai tempo a correggerli».

Si associò come primo collaboratore il sacerdote Giacomo Camisassa, che aveva conosciuto e apprezzato in seminario quando era direttore spirituale. Lo invitò scrivendogli parole che lasciano intravedere il progetto pastorale: «Veda, mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene, e procureremo di onorare col Sacro Culto la cara nostra madre Maria Consolatrice». La loro fraterna collaborazione sacerdotale sarebbe durata tutta la vita, nel rispetto vicendevole del ruolo di ciascuno e nella condivisione di ideali. Possiamo constatare il mirabile esempio di amicizia e di collaborazione apostolica tra questi due sacerdoti, oltre che dalle opere realizzate insieme, anche dalle parole che Allamano ebbe a dire dopo la morte del Camisassa: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me»; «Con la sua morte ho perso tutte e due le braccia»; «Erano 42 anni che eravamo insieme, eravamo una cosa sola»; «Tutte le sere passavamo nel mio studio lunghe ore…»; «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto».

Il santuario, fatiscente materialmente e decaduto spiritualmente, sotto la direzione di Giuseppe Allamano riprese vita. Con l’attiva collaborazione del Camisassa, lo trasformò in un gioiello d’arte, splendente di marmi e d’oro, come si presenta tutt’oggi. Ne curò l’attività pastorale, liturgica e associativa. Poco per volta il santuario divenne centro di spiritualità mariana e di rinnovamento cristiano per la città e la regione. Allamano vi contribuì anche con il carisma di cui fu dotato da Dio di consigliare e confortare. Persone di ogni ceto sperimentarono, infatti, i segreti della sua mente illuminata e del suo grande cuore.

Can. Giacomo Camisassa durante la visita il Kenya, 1911-12.

I talenti

Come ebbe ad osservare il cardinale Jean-Marie Villot, Allamano divenne «punto di riferimento per quanti vedevano in lui il sacerdote vero, che sembrò investito di una missione provvidenziale per una diocesi come Torino: la missione di consigliare e dirigere, incoraggiare e ammonire, ridare alle anime con la grazia del sacramento della confessione la gioia e la pace della ritrovata amicizia con Dio, esortare a ogni opera apostolica».

Oltre a essere rettore del santuario della Consolata, Allamano era anche rettore del santuario di Sant’Ignazio, presso Lanzo Torinese, con annessa una casa per esercizi spirituali. Questo centro di spiritualità era molto famoso, avendo predicato in esso per tanti anni lo zio don Giuseppe Cafasso. Qui Allamano trovò un campo privilegiato per la formazione dei sacerdoti e dei laici attraverso gli esercizi spirituali. Come testimoniò un suo stretto collaboratore, il canonico G. Cappella: «Volle sempre dirigerli personalmente, e mentre li dirigeva voleva pure farli, perché diceva: “Non voglio solo essere cascata, che dà agli altri, ma anche conca per ricevere le grazie del santo ritiro” […]».

Con l’obiettivo di dare un modello specialmente ai sacerdoti, raccolse memorie su Cafasso, ne pubblicò la vita e gli scritti, e ne intraprese la causa di canonizzazione, che portò fino alla beatificazione, il 3 maggio 1925. Lo confidò candidamente lui stesso: «Ho introdotto questo processo, posso dire, non tanto per affezione o parentela, quanto per il bene che può produrre l’esaltazione di quest’uomo, affinché quelli che leggeranno le sue virtù, divengano bravi sacerdoti, bravi cristiani e voi bravi missionari».

Nel 1882 Giuseppe Allamano ottenne la riapertura del Convitto ecclesiastico (biennio di formazione in pastorale per il clero in preparazione del lavoro nelle parrocchie, ndr) e lo diresse fino alla morte. Ebbe molto a cuore la formazione spirituale, intellettuale e pastorale dei giovani sacerdoti, aggiornandola alle nuove esigenze. Inculcò soprattutto il fine ultimo della vocazione sacerdotale: la salvezza dei fratelli.

Visione e comunicazione

Giuseppe Allamano era coinvolto, inoltre, direttamente o indirettamente, in tante altre opere apostoliche. Fu canonico della cattedrale, membro di commissioni e comitati, superiore religioso delle Visitandine e delle Suore di San Giuseppe. Intensa fu la sua opera in occasione di varie celebrazioni di anniversari e durante la Prima guerra mondiale per l’assistenza ai profughi, ai sacerdoti e seminaristi che prestavano servizio militare.

Allamano seppe collaborare con le più svariate forme di apostolato, come testimonia il canonico Baravalle che viveva con lui al santuario: «Le forme più moderne dell’apostolato cattolico, come quello della buona stampa, […] non solo erano da lui tenuti in molta considerazione e molto apprezzati, ma largamente aiutati con somme di denaro, che a quei tempi erano abbastanza vistose». In particolare, Allamano sostenne il giornalismo cattolico non solo quando era più giovane, nel pieno del suo apostolato, ma sempre, fino alla morte. Ebbe un ruolo di ispirazione e incoraggiamento pure nella fondazione del quotidiano cattolico francese «La Croix», il cui fondatore, padre Paul Bailly, nel 1883 sostò al Santuario della Consolata. Nel 1899 fonda il mensile «La Consolata», che nel 1928 dà origine a «Missioni Consolata».

I primi missionari a Zanzibar, maggio 1902, da sx, Falda fratel Luigi, Gay padre Tommaso, Mons Emil August Allgeyer, padre Luz, spiritano , Perlo padre Filippo e Lusso fratel Celeste

Missione

Animato da questo intenso zelo apostolico, unito a un vivo senso della missione della Chiesa, Allamano allargò i suoi orizzonti al mondo intero. Sentì l’urgenza del mandato di Cristo di portare a tutti il Vangelo. Trovava innaturale che nella sua Chiesa, feconda di tante istituzioni di carità, ne mancasse una dedicata unicamente alle missioni. Decise di rimediarvi. In questo modo avrebbe aiutato coloro che erano animati dall’ideale missionario a realizzarlo e avrebbe avuto modo di suscitarlo in altri. La fondazione dell’istituto dei missionari non sorse all’improvviso nella sua mente; maturò nel suo spirito attraverso una lunga preparazione spirituale e non si attuò che superando grandi prove e contraddizioni. Non ci sono dubbi che il cammino della fondazione è stato impegnativo e faticoso per Giuseppe Allamano, già così occupato nel Santuario, nel Convitto, a Sant’Ignazio e per la causa del Cafasso.

Nel 1891 gli sembrò giunto il momento di attuare il suo progetto di fondare un istituto missionario per sacerdoti e fratelli laici, ma lo potrà realizzare soltanto con l’ascesa alla cattedra di San Massimo del cardinale Agostino Richelmy, suo compagno di seminario e amico. In lui trovò condivisione piena di ideali e sostegno. Gli indugi furono rotti definitivamente da un intervento della Provvidenza. Nel gennaio 1900, una malattia contratta assistendo una povera donna in una soffitta ghiacciata, lo portò in fin di vita. La guarigione, ritenuta un miracolo della Consolata, fu per lui il segno che l’istituto si doveva fondare. L’anno seguente, il 29 gennaio 1901, nacque l’Istituto Missioni Consolata. La motivazione profonda della fondazione va cercata nel suo stesso spirito. Padre Lorenzo Sales, il suo primo biografo e figlio affezionato, affermò che la radice della fondazione sta nella santità di Allamano, il quale spiegava: «Non avendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». Ci furono poi delle ragioni contingenti, concrete che influirono a dare inizio all’opera, quali il desiderio di continuare la missione del cardinale Massaia, come pure lo spirito missionario e le insistenze di alcuni sacerdoti convittori.

L’8 maggio 1902 partirono per il Kenya i primi quattro missionari, due sacerdoti e due laici, seguiti a dicembre da altri quattro. Ben presto, vista la necessità della presenza femminile nelle missioni, Allamano ottenne dai superiori del Cottolengo alcune suore Vincenzine, che affiancarono i Missionari della Consolata in Kenya, a partire dal 1903.

Giuseppe Allamano, dietro insistenza del neoeletto vicario apostolico, Filippo Perlo (uno dei primi quattro e figura fondamentale nell’istituto, ndr), d’accordo con il suo arcivescovo e confortato dal parere del cardinale Girolamo Gotti, prefetto di Propaganda Fide, e da quello del Papa Pio X, il 29 gennaio 1910 diede inizio all’Istituto delle Missionarie della Consolata.

Ai suoi figli e figlie dedicò le cure più assidue, attraverso contatti personali, lettere, incontri formativi. Convinto che alla missione si deve dare il meglio, ebbe di mira la qualità più che il numero. Voleva evangelizzatori preparati, «santi in modo superlativo», zelanti fino a dare la vita. Il suo motto era: «Prima santi, poi missionari», intendendo il «prima» non in senso temporale, ma come valore prioritario e assoluto.

Intorno al 1912 si fa promotore dell’istituzione di una Giornata missionaria mondiale, celebrata poi dal 1926. Per lui, sacerdote diocesano, la missione era dimensione essenziale della Chiesa.

Giuseppe Allamano morì il 16 febbraio 1926 presso il santuario della Consolata e fu beatificato il 7 ottobre 1990 da Giovanni Paolo II. Il 20 ottobre sarà canonizzato da papa Francesco e dichiarato ufficialmente Santo.

*rielaborazione di testi di Francesco Pavese,
a cura di Marco Bello


I 10 comandamenti di Allamano

Dieci «comandamenti» sono stati scritti da monsignor Luis Augusto Castro Quiroga (missionario della Consolata colombiano) e ci offrono una sintesi del pensiero di Giuseppe Allamano. Si tratta di un distillato di consigli e insegnamenti ai suoi missionari e missionarie, ma validi e utili per chiunque.

  1. Cercate solo Dio e la sua volontà.
  2. Innalzatevi sulle idee limitate che predominano nell’ambiente.
  3. Amate una religione che vi promette un’altra vita, ma che vi rende più felici sulla terra.
  4. Scegliete la mansuetudine come cammino di trasformazione.
  5. Trasformate l’ambiente (le strutture), non solo gli uomini.
  6. Siate conca, non canale, con i beni spirituali; canale e non conca con i beni materiali.
  7. Fate bene il bene, ma senza fare rumore.
  8. Non dite mai non tocca a me.
  9. Prima di tutto, santi.
  10. Siate forti, virili ed energici nella missione.

Per una presentazione di questi «comandamenti», leggi «Pillole Allamano», di padre Ugo Pozzoli, pubblicate su MC nel 2014.


L’arte dell’incontro

Il metodo missionario della Consolata

Per raggiungere obiettivi concreti occorre un metodo di lavoro. I missionari e le missionarie della Consolata ne hanno elaborato uno. Si tratta di una trasposizione del metodo di Allamano basato su quattro pilastri fondamentali.

Il modo in cui una persona svolge le sue attività decide se avrà successo o meno. Una cosa è sapere bene cosa fare, avere l’energia e l’intelligenza per farlo, un’altra cosa è avere la strategia giusta per raggiungere un determinato obiettivo. Stiamo parlando di «un metodo», ovvero di una procedura particolare per realizzare qualcosa. Una metodologia chiara è necessaria ogni volta che si realizza un progetto, perché fornisce un approccio strutturato al lavoro, garantisce l’affidabilità del modo di lavorare e migliora le conoscenze in quel particolare campo.

Un metodo missionario

Questo spiega il motivo per cui i primi missionari della Consolata avevano bisogno di un buon metodo per fare qualche passo avanti nell’evangelizzazione del Kenya. Il fondatore li aveva avvertiti di non aspettarsi risultati rapidi. Infatti, aveva detto loro di evitare la tentazione di pensare che le cose sarebbero state facili o che i risultati sarebbero stati immediati. Dovevano prendersi il tempo necessario per fare dei piani, attuarli gradualmente e valutarli senza fretta. In realtà, quello che oggi chiamiamo metodo missionario della Consolata, è un’attualizzazione del metodo pedagogico di Giuseppe Allamano. Questo prevedeva «l’incontro», «la creazione di relazioni» e «lo scambio produttivo reciproco». In una parola, possiamo chiamare quel metodo missionario «incontro».

Il fondatore era un padre per i suoi missionari: amava intensamente ciascuno di loro, tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo contatto. Su questo punto le testimonianze dei primi missionari sono concordi: ognuno di loro si è sentito compreso e amato dal fondatore, con l’irripetibile creatività dell’amore.

Le sue relazioni e il suo metodo pedagogico erano animati e incentrati su un dialogo fiducioso e amorevole. Aveva rapporti stretti con i singoli missionari e missionarie, ma anche con le comunità (seminario minore, seminario maggiore, novizi). Era in contatto con chi era vicino e con chi era lontano. Mentre alcuni missionari erano in Africa, altri erano nell’esercito e altri ancora erano alla Casa Madre. Allamano seguiva, formava e dirigeva anche altri gruppi che erano sotto la sua cura pastorale. Questo stretto contatto con la gente è ciò che ha ispirato e costituito il metodo che i missionari hanno usato nella missione.

Contatto

Utilizzando i consigli che Giuseppe Allamano dava dall’Italia, i missionari in Africa si impegnarono in lezioni di catechismo nei villaggi, nell’insegnamento delle cose elementari nelle scuole all’aperto (le lezioni si facevano sotto gli alberi), nella visita ai villaggi per socializzare e creare relazioni con la gente, e infine nell’assistenza ai malati. Questo è ciò che è stato conosciuto come il «metodo dei Missionari della Consolata». Come si vede, era piuttosto particolare. Implicava un grande contatto con la gente. Proprio come aveva dimostrato personalmente Allamano nel suo lavoro a Torino, i missionari e le missionarie dovevano relazionarsi strettamente con le persone. Era l’unico modo per conoscere i loro bisogni, approfondire le loro aspettative, scoprire le loro paure, creare un legame di fiducia, ecc. Sebbene i Missionari della Consolata fossero accusati da altri istituti missionari di dedicarsi a pratiche «mondane» invece che a «salvare le anime», il metodo missionario della Consolata era certamente efficace. Non si sarebbe potuto evangelizzare persone che non comprendevano. Questo metodo ha dato grandi risultati e frutti duraturi nell’evangelizzazione, nella fondazione e nel servizio della Chiesa in Africa, in primo luogo per la validità intrinseca del metodo stesso, e in secondo luogo per la dedizione e lo spirito di coloro che lo hanno attuato, sotto la saggia guida del fondatore. Questo è un altro modo per dire che un metodo da solo non basta. Coloro che lo mettono in pratica devono essere seri e dediti al loro lavoro. In altre parole, non si può separare il lavoro da svolgere, il metodo da utilizzare e il carattere (e la personalità) di coloro che devono svolgere il lavoro.

Corea del Sud. Club degli studenti cattolici nella Hanbat National University di Daejeon con padre Godfrey Boriga durante un incontro di preghiera.

Quattro pilastri

Il metodo missionario della Consolata aveva e ha quattro elementi chiave. In primo luogo, richiedeva l’apprendimento della lingua locale del popolo. Ancora oggi, la lingua è la chiave di ogni società. Conoscere la lingua facilita molte cose, elimina inutili conflitti e incomprensioni e crea una base credibile per qualsiasi impegno. Consapevoli di ciò, i primi missionari della Consolata si sono assicurati di essere in grado di comunicare con la popolazione locale. Secondo elemento: il metodo esige il rispetto della cultura delle popolazioni locali. I missionari hanno subito scoperto che dovevano amare la cultura dei Kikuyu e dei Meru. Questo significava essere disposti a mangiare cibo locale ogni volta che era necessario e, più in generale, a trattare le persone con rispetto. Consapevoli che non avrebbero potuto evangelizzare qualcuno che li vedeva come colonialisti, i missionari della Consolata hanno imparato a rispettare le diverse culture. Il terzo elemento: l’ambiente familiare. Giuseppe Allamano ha sempre parlato di «spirito di famiglia». Si assicurava sempre di far sentire a casa il suo interlocutore. Questo era il suo segreto. Le persone si sentivano felici, rilassate e amate in sua presenza. Allo stesso modo, come parte della loro strategia di evangelizzazione, i Missionari della Consolata facevano in modo che la gente si sentisse parte di una più grande famiglia di Dio.

Quarto e ultimo punto del metodo dei Missionari della Consolata: trasformare il paese, non solo attraverso l’insegnamento religioso, ma anche formando la popolazione all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e alle abilità manuali. Come avrete notato, la strategia (o metodo) dei missionari della Consolata in Africa (e poi in America Latina e Asia) rispecchia lo stile di vita di Giuseppe Allamano. Egli credeva che l’opera di una persona riflettesse sé stessa. Questo spiega perché è vero che il metodo pedagogico di Allamano, che è la spina dorsale del metodo missionario della Consolata, era finalizzato alla santità. Non si trattava solo di fare ripetutamente un’azione per farla apparire come una strategia o un fatto. Si trattava di presentare sé stessi in qualsiasi cosa si facesse.

Jonah Mulwa Makau


«Un albero gigantesco»

Giro del mondo con le missionarie e i missionari della Consolata

Un sogno, una volontà che diventa progetto. Tanto impegno e preghiere. E poi arrivano le condizioni favorevoli. Così Giuseppe Allamano ha fatto partire da Torino i primi quattro missionari. Oggi, dopo 122 anni, è una presenza in 4 continenti.

La mattina dell’8 maggio 1902 Giuseppe Allamano accompagna i primi quattro missionari della Consolata alla stazione di Porta Nuova, a Torino. Sono i sacerdoti Tommaso Gays, Filippo Perlo e i fratelli Luigi Falda e Celeste Lusso. Le cronache dicono che, dopo aver impartito loro la sua benedizione, Allamano si allontana rapidamente, per non mettersi a piangere. Giacomo Camisassa, invece, come previsto, prende il treno con loro, e li accompagna fino a Marsiglia dove si imbarcano il 10 maggio alla volta di Zanzibar. Lì arrivano diciotto giorni dopo. I quattro sono accolti dal vicario apostolico, lo spiritano monsignor Emil August Allgeyer e dal console italiano, il cavaliere Giulio Pestalozza. I «nostri» sono presi in carico dai padri Spiritani. Padre Filippo Perlo, in una delle prime lettere racconta: «[…] il 28 maggio al levar del sole comparve in vista l’isola di Zanzibar. L’impero dei monsoni è cessato d’un tratto e il mare è calmo. Impressionati ancora dalle deserte e bruciate sponde del canale di Suez e dalle rocche brulle e cupe del capo Guardafui, restiamo ammirati e confortati dallo splendore e ricchezza di vegetazione di Zanzibar» (cfr. La Consolata, settembre 1902).

Da Zanzibar, il 6 giugno, vanno in nave a Mombasa, e da lì in treno fino a Nairobi (14 giugno). Sono sempre accompagnati da monsignor Allgeyer, che sarà con loro fino alla destinazione finale.

La scelta del villaggio di Tuthu (del capo Karoli o Karuri che aveva richiesto missionari per costruire la prima scuola), nel centro del Kikuyu a oltre 2000 metri di altitudine, come prima missione dei quattro della Consolata è dettata da necessità e opportunità. La necessità di avere missionari cattolici nella nuova provincia, il fatto che monsignor Allgeyer non ha abbastanza personale.

La carovana parte per il Kikuyu il 20 giugno, giorno della Consolata. Oltre al vicario apostolico, ne fa parte il padre Hemery, anch’esso spiritano, che parla un po’ della lingua locale. In treno fino a Naivasha (la ferrovia Mombasa-Kampala è in costruzione), poi a piedi, il gruppo si dirige a Nord Est, passando attraverso le montagne dell’Aberdare dove i missionari soffrono il freddo. Arrivano a destinazione la sera del 28 giugno.

«L’indomani celebriamo la santa messa […]: è l’inaugurazione della Missione della Consolata che si impianta nel Kikuyu, a circa due giornate di viaggio dalla base del monte Kenya a 2050 metri sul livello del mare. Sarà la più alta missione del vicariato di monsignor Allgeyer», scrive ancora Perlo nei suoi diari.

Questa è la storia dell’inizio delle «missioni della Consolata» nel mondo.

Da lì, nel 1916 comincia l’avventura in Etiopia, tre anni più tardi è la volta del Tanzania, e nel 1926, anno della morte del fondatore, l’apertura ufficiale della missione in Mozambico.

Il salto continentale nelle Americhe avviene nel 1937, in Brasile, inizialmente a scopo di animazione vocazionale, e nel 1946 in Argentina e via di seguito. L’Istituto Missioni Consolata (Imc) arriva in Asia nel 1988, con l’apertura in Corea del Sud.

Centoventidue anni dopo

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata sono presenti in 33 Paesi di quattro continenti: Africa (14 Paesi), Americhe (9 Paesi), Asia (5) ed Europa (5). E se i primi missionari erano perlopiù piemontesi, adesso si contano 904 missionari di 25 nazionalità e 474 missionarie di 15 nazionalità.

Una presenza importante, multietnica e multiculturale, diffusa nel mondo, ma soprattutto in presa diretta con i popoli e le genti emarginati o di frontiera. Abbiamo voluto fare un ideale giro del pianeta per raccogliere alcune brevi riflessioni di missionari e missionarie della Consolata del 2024 per unirle idealmente a tutte le vite spese per la missione dalla fondazione dei due isituti in poi.

Padre Francesco Bernardi, missionario italiano in Tanzania

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano è l’audacia, che è più del coraggio. San Paolo, missionario, usa il termine greco «parresia».

Giuseppe Allamano è un audace. Lo è stato fin da ragazzo. Giuseppe studia nell’Oratorio di don Giovanni Bosco. Ma il 16 agosto 1866 pianta in asso il suo maestro e se ne va, insalutato ospite. È domenica, giorno per recarsi in chiesa e non per scappare. Poi, è solo un ragazzo di 15 anni. Ma è un audace, contro il suo carismatico educatore.

Padre Igino Tubaldo (storico di Giuseppe Allamano) insinua che c’era troppo rumore nell’oratorio. Così Giuseppe fugge, perché «il rumore non fa il bene, e il bene non fa rumore». Questo è Allamano.

Lavoro in Tanzania e ritengo che necessiti di maggiore audacia missionaria. Ma non solo questo Paese.

Il 2 settembre 1908 il fondatore scriveva a fratel Benedetto Falda, missionario in Kenya: «La nostra Missione andrà innanzi e prospererà, perché è opera di Dio e di Maria Consolata. Passeranno gli uomini… cadranno pure alcune foglie, ma l’albero benedetto dal Santo Padre prospererà e verrà un albero gigantesco. Io ne ho prove prodigiose in mano».

Oggi i missionari e le missionarie della Consolata costituiscono «un albero gigantesco», grazie alla Consolata, come pure grazie agli italiani e ai marocchini, ai boliviani e ai colombiani, ai mongoli e ai coreani, alla gente di Taiwan nonché a quella del Kazakistan, grazie a uomini e donne che si spendono in 33 nazioni del mondo.

La missione è da viversi in «unità di intenti» fra tutti, nonostante le difficoltà.

Sono parole dell’audace san Giuseppe Allamano.

Padre Daniele Giolitti, missionario italiano in Mongolia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano, a partire dalla mia esperienza missionaria in Mongolia e in Italia, mi pare di poterla riassumere come un preciso stile missionario, improntato su tre principali caratteristiche: profondità nelle relazioni, forte spiritualità e lavoro manuale.

La missione, secondo lo stile «allamaniano», richiede una profonda dedizione e preparazione per incontrare persone e culture talvolta molto diverse dalla nostra. Per far questo occorre coltivare una spiritualità fatta di preghiera e di meditazione della Parola di Dio. Inoltre, per costruire ponti di pace e di dialogo, più che mai urgenti in questa nostra epoca, Giuseppe Allamano voleva che i suoi missionari «si sporcassero le mani», cioè che, come ha fatto lui, ci impegnassimo nella promozione umana e nei progetti di sviluppo.

La proclamazione di Allamano santo mi fa pensare al suo motto più famoso che ha lasciato a noi missionari: «Prima santi, poi missionari». Lui è stato davvero un grande santo e forse un precursore dei tempi: dalla sua profonda esperienza spirituale al Santuario della Consolata di Torino e dal suo grande impegno sociale, è nata l’idea della missione in tutto il mondo, fatta di contemplazione nell’azione. In Mongolia questa dimensione contemplativa è molto sentita, a contatto con religioni antiche quali il buddhismo e lo sciamanesimo.

Nella capitale mongola Ulaanbaatar, con gli altri missionari, pensiamo di vivere il grande momento della canonizzazione del nostro fondatore facendo conoscere la sua figura nelle quattro parrocchie della città, organizzando momenti di preghiera con la gente e traducendo in lingua mongola una sua breve biografia. Infine, però, penso che il modo migliore per viverlo sia quello di mettere in pratica ciò che lui stesso ha vissuto: un’esperienza di Dio che si estende a tutto il mondo. Questo è Vangelo. Questa è missione.

Sr Natalina Stringari in Bolivia

Suor Nadia Leitner, missionaria argentina in Bolivia

Nel 2016 sono arrivata per la prima volta a Vilacaya, in Bolivia, come prenovizia, una giovane donna che stava appena iniziando a conoscere il carisma, la missione ad gentes e tutta la sua ricchezza. I miei occhi cominciavano ad aprirsi, io nascevo al mondo missionario. L’impatto culturale e le sfide spaventavano le mie scelte, ma il sogno della missione e di poter condividere la vita mi dava la forza di continuare a camminare. Ed è stato così che durante gli anni di formazione mi sono lasciata riempire dal carisma e incoraggiare a svuotarmi per vivere la volontà di Dio.

Vivere oggi il tempo di santità, come missionaria della Consolata a Vilacaya, mi chiede di lasciare le mie idee per aprirmi all’incontro reale con gli altri. Mi trovo di fronte a una realtà missionaria impegnativa, ed è qui che il carisma acquista forza e coraggio e trova il suo spazio per insegnarmi a vivere in modo creativo il processo di inculturazione, di promozione umana e di ascolto. Mi rende chiaro che non cammino da sola, ma, come voleva Allamano, in famiglia, in comunità.

La santità di Giuseppe Allamano è una grande gioia e un orgoglio, ma è anche un invito concreto a vivere in fedeltà e in profondità il mio essere missionaria della Consolata, a camminare ogni giorno verso la mia santità.

Padre Oscar Liofo Tongombe, missionario congolese in Brasile

Lavoro nella diocesi di Roraima, nella città di Boa Vista, dove sono vicario parrocchiale.

Per me il messaggio di Giuseppe Allamano è la consolazione del popolo di Dio, soprattutto nella situazione che sta vivendo lo stato di Roraima con le migrazioni e la lotta delle popolazioni indigene. Portare consolazione significa avere uno zelo missionario nel servire i nostri fratelli e sorelle e nel lavorare per la promozione della vita umana.

La canonizzazione del fondatore è una grazia per tutto l’istituto e per tutta la Chiesa e rafforza ulteriormente la missione e la presenza dell’Imc in Amazzonia, poiché il miracolo è avvenuto proprio qui. È un momento di grande riflessione e meditazione sulla chiamata missionaria. Questo evento ha ulteriormente incoraggiato i missionari e la Chiesa a non rinunciare a quest’opera di consolazione. Penso che dovremmo vivere questo momento con devozione, preghiera e anche grande gioia.

Ivo Lazzaroni, missionario laico italiano in Congo Rd

Il messaggio di Giuseppe Allamano, sempre attuale e ricco di virtù cristiane, mi invita a cercare ogni giorno la qualità nell’essere e nel servizio missionario che svolgo nel nostro ospedale Notre Dame della Consolata di Neisu. La qualità nel migliorare la vita di chi mi circonda ogni giorno, nel fare bene il bene, la pazienza, e lo sforzo di vivere seriamente e umilmente ogni attimo della giornata.

Vivere questo messaggio è una sfida a livello personale, è vivere il Vangelo. Per me è la manifestazione della condivisione, della solidarietà umana, un cammino di fraternità che non conosce limiti e frontiere. A maggior ragione in un contesto di povertà economica come l’ospedale, dove la gran parte dei nostri pazienti fa fatica a pagarsi le medicine. Con la nostra presenza, cerchiamo di vivere questo messaggio, la vicinanza a chi soffre, e di curare i malati non solo con cure di qualità, ma con la consolazione, formando il nostro personale, più con l’esempio che con le parole.

Un altro aspetto fondamentale che sto vivendo, del messaggio di Allamano è la fiducia totale nella Provvidenza. In tutti questi anni di missione vivo e sperimento l’aiuto ricevuto da molti, per migliorare la qualità di vita di tante persone che incontro ogni giorno.

La canonizzazione mi fa pensare ai miei genitori, a mia mamma, ottantacinquenne e con una devozione particolare per Allamano, alla sua vita semplice e piena di sacrifici, alla sua pazienza e ricerca di una qualità di vita migliore per noi figli, al suo fare il bene nel silenzio.

Penso che la canonizzazione del fondatore possa trasmettere a ognuno di noi una forza spirituale maggiore, nel vivere il suo messaggio per essere d’esempio a quanti ci circondano nella ricerca continua di fare bene il bene.

19 Maggio 2002 : sx, Suor Maria Ines Patigno , Fedrigoni padre Paolo , Marengo padre .Giorgio , Suor Lucia Bartolomasi hanno appena ricevuto il Mandato per la Mongolia.

Suor Emma Piera Casali, missionaria italiana in Mozambico e Guinea-Bissau

Per me Giuseppe Allamano è un ammirabile missionario. Anche se non ha avuto la gioia di lavorare direttamente in missione, ha saputo offrire ai suoi missionari e missionarie una metodologia valida, feconda, dallo sguardo aperto alle sfide e allo sviluppo in ogni tempo, in armonia con le diverse realtà che incontriamo nel nostro mondo.

Lui voleva che le sue missionarie vivessero in intima comunione con Cristo, Figlio e primo missionario del Padre, che dessero priorità alla testimonianza di vita, all’ascolto, alla preparazione della persona, alla conoscenza della realtà per programmare e valutare insieme, in comunione e unità d’intenti.

Nei miei sessanta anni di vita missionaria, ho sperimentato la fecondità della sua metodologia quando sapevo sedermi accanto al fratello o la sorella in attento ascolto e interessamento, dimostrando che in quel momento la cosa più importante era la sua storia, i suoi problemi e per questo nasceva la fiducia, la confidenza e il desiderio sincero di conoscersi.

Quando nella catechesi, negli incontri di formazione, ho cercato di far precedere all’annuncio di Gesù Cristo la conoscenza, i desideri, i progetti, le reazioni delle persone, ho toccato con mano la validità e l’efficacia di tale metodologia. Questo metodo anche oggi è attuale: il mondo moderno non ha fame e sete di bravi predicatori, ma bensì di autentici testimoni.

Vivendo e applicando questa metodologia nella mia vita missionaria ho potuto vedere come il Signore, per mezzo nostro, trasforma l’ambiente e il cuore delle persone.

Padre Marcos Sang Hun Im, missionario coreano in Argentina

Come sappiamo, Giuseppe Allamano aveva il sogno di andare in missione, ma a causa della sua salute non ha potuto realizzarlo. Invece di rinunciare a sognare, ha conservato il desiderio nel suo cuore ardente. Con il passare del tempo, il Signore gli ha proposto un altro modo per realizzarlo: inviare altri in missione. Secondo l’esperienza della vita missionaria, non sempre possiamo realizzare tutto ciò che vogliamo o avere il successo che speriamo. Per questo a volte siamo delusi di non vedere subito i frutti dei nostri sforzi. La testimonianza di Allamano ci dice chiaramente che il lavoro missionario è opera del Signore. Egli ne è il soggetto e il protagonista, mentre noi siamo solo dei servitori. Se il nostro sogno coincide con quello del Signore, Egli lo realizzerà a tempo debito secondo la sua via attraverso tutto il nostro essere. Attendere i tempi del Signore con pazienza e fiducia è il messaggio importante di oggi.

Normalmente la gente ha sentito il nome del nostro fondatore citato dai Missionari della Consolata. Anche io l’ho sentito per la prima volta quando ho contattato un animatore vocazionale. Adesso, grazie alla canonizzazione, il suo nome si è diffuso di più e veniamo cercati da luoghi dove non siamo mai stati, da chi vuole conoscere la sua vita. Così il mondo non solo vuole conoscere il nuovo santo, ma desidera anche conoscere i suoi figli, che sono missionari. Questo è un grande momento per noi per dare testimonianza, incoraggiare e ricordare la vocazione missionaria.

Padre José Fernando Flórez Arias, missionario colombiano in Amazzonia

La spiritualità dei Murui-Muina (popolo nativo dell’Amazzonia) dice che il futuro è alle spalle e il passato davanti, e anche se sembra strano, ha una sua logica: quello che è successo lo vediamo (è davanti) quello che non è successo non lo vediamo (è dietro). In questa prospettiva, camminiamo in avanti per trovare le radici che oggi rendono possibile la santità del nostro fondatore. Radici che hanno a che fare con il territorio in cui Giuseppe Allamano ha voluto manifestare la sua santità, territorio sacro chiamato Panamazzonia, condiviso da Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana francese, Guyana, Suriname e Brasile.

Il miracolo di Allamano nel contesto amazzonico dovrebbe portarci a riflettere sulla nostra missione in questi territori. Farci sentire che il giaguaro oggi sta mangiando una parte del nostro cranio, come per lo Yanomami Sorino, e intendo il cuore, poiché i nonni Murui, al contrario di «penso quindi sono», dicono «sento quindi sono».

Per questo è importante addolcire il cuore affinché ciò che arriva alla ragione sia un pensiero significativo e si traformi in una Parola di vita, cioè una parola che su fa realtà, diventando prassi.

Forse la nostra parola in Amazzonia ha bisogno di un nuovo risveglio, di una nuova alba, di un passaggio del cuore, di sentire Dio in mezzo alle diverse culture amazzoniche perché ci chiediamo: dove ci sta mandando lo Spirito in Amazzonia?

Suor Immaculate Nyaketcho, missionaria ugandese in Liberia

L’attualità del messaggio di Giuseppe Allamano la percepisco nel suo invito a una santità vissuta nel fare bene il bene senza rumore, e la trovo nel lavoro missionario di ieri e di oggi. Questo si realizza attraverso i missionari e le missionarie che hanno incarnato questa spiritualità nella loro vocazione e missione, alcuni anche al costo della loro vita. Hanno portato consolazione e Gesù a tantissimi popoli e culture in diverse parti del mondo: quante chiese, scuole, ospedali, progetti economici e formazione.

Oggi, nel mio lavoro missionario in Liberia, dove la nostra presenza è molto piccola, il messaggio di Giuseppe Allamano si attualizza nel dare testimonianza di consolazione e facendo al meglio possibile il nostro servizio tra i giovani nella scuola, in parrocchia, nelle famiglie. Come Allamano ci dice, non è il fare tanto che conta, ma farlo bene, vivendo con il popolo nella sua realtà, affinché anche i nostri fratelli sperimentino la consolazione data al mondo dal Padre per mezzo del figlio Gesù.

La canonizzazione del fondatore è un grande dono che la Chiesa fa a noi famiglia della Consolata e al mondo intero. Oggi stiamo perdendo la spiritualità del fare bene il bene. Siamo molto presi dalla quantità, piuttosto che dalla qualità delle nostre azioni e del nostro vivere. Ma la canonizzazione ci chiama a una forma di santità che può essere vissuta da tutti, ovunque, facendo solo il bene. Senza rumore.

Padre Giuseppe Auletta in Argentina

Padre Giuseppe Auletta, missionario italiano in Argentina

L’attualità di san Giuseppe Allamano ha a che vedere con la presa spontanea e immediata nel cuore della gente. Un esempio in tal senso l’ho avuto un po’ di anni fa. Nel gennaio 1990 stavamo realizzando un’intensa missione nella colonia Aborigen Chaco, abitata dagli indigeni Qom (Tobas), con i giovani appartenenti a Jumico (juventus misionera de la Consolata).

L’attività consisteva nel visitare i «ranchos» (abitazioni più che precarie) cercando di combattere la malattia di Chagas provocata da un insetto chiamato vinchuca, che danneggia soprattutto il cuore. Durante la visita offrivamo alla famiglia un’immaginetta del nostro fondatore. In una pausa dell’attività, una donna ci ha sorpresi con una richiesta: avere nella comunità una chiesetta. Alla domanda di chi volesse come patrono, la donna ha risposto: san Giuseppe. Ascoltando la richiesta, una nostra missionaria della Consolata chiede: «Volete che sia San Giuseppe artigiano?». «No – ha replicato la donna -. Vogliamo che sia san Giuseppe il missionario». Finalmente avevamo capito che si riferiva a Giuseppe Allamano. E così abbiamo costruito una chiesetta allo stile dei ranchos nella colonia Aborigen Chaco. Credo che, pur nella sua semplicità e sintonia con l’incarnazione in quella realtà, il nostro già santo – diciamolo senza aspettare il 20 ottobre prossimo – abbia avuto la prima cappella a lui dedicata. Vedo in questa esperienza una dimostrazione di come il nostro fondatore mette radici nel cuore della gente, attraverso il servizio umile e concreto di noi missionari.

La canonizzazione del fondatore è basata e decisa dalla prova di un miracolo che ha beneficiato un indigeno Yanomami. Il miracolo si trasforma in segno che conferma il carisma ad gentes affidatoci dal fondatore ma anche la scelta del camminare insieme con i popoli indigeni, condividendo la lotta di sopravvivenza, i sogni e la grande spiritualità e saggezza che essi ci offrono.

Padre Luiz Carlos Emer, missionario brasiliano a Roraima in Brasile

Già prima del Concilio Vaticano II, il desiderio e l’insegnamento di Giuseppe Allamano era che i suoi missionari portassero il messaggio della Buona Novella attraverso la visita alle comunità e la vicinanza alla gente semplice, conoscendo così da vicino la loro vita e le loro difficoltà. È stata un’intuizione profetica che mi ha segnato e mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro missionario. Il metodo di lavoro di Allamano, rafforzato dalla teologia latino-americana che poneva l’accento su Gesù come liberatore integrale della persona, mi ha portato a cercare e privilegiare le periferie e i poveri nel mio lavoro missionario. Questo ha fatto nascere in me il desiderio e la ricerca di lavorare con i più emarginati e, per quanto possibile, di vivere come loro.

È importante notare che nel corso dei miei 37 anni di sacerdozio ho anche scoperto e imparato a valorizzare l’insegnamento sul primato della santità nella vita del missionario: l’amore e la vicinanza a Dio come condizione fondamentale per una vita missionaria significativa e fruttuosa.

Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa di Giuseppe Allamano come uomo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, diventa un forte stimolo a valorizzare e interiorizzare ancora di più la sua vita e i suoi insegnamenti.

Con la canonizzazione, penso di renderlo più presente nella mia preghiera, nel mio studio e nella mia spiritualità e, di conseguenza, di farlo conoscere meglio alla gente, presentandolo non solo come un intercessore, ma anche come un uomo che ha vissuto il suo tempo con visione e profezia.

Suor Arelis Maritza Rocha Garcia, missionaria colombiana in Italia

Grande persona di profonda umanità, ieri e oggi, Giuseppe Allamano è sempre attuale. La sua presenza lungo il mio cammino di vita, sia nella formazione, sia nelle diverse missioni e nei servizi che ho fatto, è stata importante. Io mi sono identificata con il suo contesto di vita di famiglia, la sua storia mi ha incoraggiata, il suo sguardo al Dio della Provvidenza mi ha toccata fin da subito. La sua paterna attenzione di ascolto e il suo amore mi hanno sollevata fino ad oggi. Non posso dimenticare le tante volte che l’ho invocato chiedendo aiuto e facendolo partecipe della mia fragilità e delle sfide in gioco, e lui mi ha fatto sentire il suo «Nunc Coepi» (adesso comincio, ndr). Così, con speranza, mi sono messa in piedi e ho continuato il mio percorso, ma con tanta fiducia nella sua compagnia.

La sua comprensione delle realtà umane che io non capivo, mi è giunta attraverso le sue lettere, scritte alle nostre sorelle, nelle quali manifestava la sua presenza umana, il suo modo gentile di gestire le cose e il suo sguardo compassionevole. Un cuore riconoscente dei doni che Dio dà a ognuno, non per sé stesso ma per il bene comune e della missione. Solo così si può vivere il bene fatto bene, nella quotidianità semplice e modesta come lui ci vuole.

Penso che il nostro fondatore, con la sua personalità, mi chieda di sorprendermi di come Dio agisce dove noi meno pensiamo. Questo lo vediamo guardando il miracolo a Sorino Yanomami. Non posso non pensare al carisma che lui ha donato a me e a tutti noi. Quanta grazia e responsabilità allo stesso tempo.

Marco Bello

Padre Diego Cazzolato con un monaco buddhista in Corea del Sud.


Conversazione, «alla mano», con Giuseppe

Quattro modi di essere, ammiro in te:
la tua umanità fragile ed energica
la tua fiducia nella volontà di Dio
la tua disponibilità a servire
la tua perseveranza creativa nell’azione.
Li voglio tutti e quattro per me.

Quattro idee che ho letto in te mi ispirano:
oggi è il mio tempo e qui il mio spazio
la santità è il mio obiettivo e la mia strada
vivo localmente e penso globalmente
la missione è il mio luogo e la mia opportunità.
Tutte e quattro le idee voglio renderle reali.

Quattro relazioni che hai coltivato mi attraggono:
con Dio nella contemplazione e nella preghiera
con Maria Consolata, in affettuosa complicità
con Giacomo Camisassa, amico nell’amicizia di lavoro
con la Chiesa locale e universale nella sinodalità.
Voglio coltivarle anche io tutte e quattro.

Quattro compiti che hai intrapreso attirano la mia attenzione:
studiare con passione per il ministero
incoraggiare l’apertura della Chiesa alla cattolicità
formare persone, comunità e sacerdoti
accompagnare la famiglia, gli istituti e il Santuario.
Voglio occuparmi di tutti e quattro.

Quattro frasi emblematiche, mi ricordo di te:
«Fare bene, farlo bene e senza fare rumore», qualità totale
«Il bene non fa rumore e il rumore non fa bene», etica professionale
«prima i santi, poi i missionari», spiritualità umanizzante
«proclameranno la mia gloria alle nazioni», uscire qui, là e ovunque.
I quattro ispirano la mia vita e il mio lavoro quotidiano.

Quattro icone sacramentali, vi hanno ispirato:
– la santa famiglia Cafasso, con Giuseppe (lo zio) e Mariana (la madre)
– quella tenera Maria, con il suo santuario della Consolata
– quel Gesù biblico, fatto Eucaristia sulla tavola e sulla croce
– quella Chiesa locale, aperta al cattolicesimo.
Tutti e quattro mi suscitano ammirazione, ispirano, occupano e preoccupano.

Salvador Medina
missionario della Consolata colombiano


Come si diventa santi
Il processo di canonizzazione

La «Causa di beatificazione e canonizzazione» riguarda un fedele cattolico che in vita, in morte e dopo morte ha goduto fama di santità, di martirio, o di offerta della vita.

La canonizzazione è solo l’ultimo gradino di una scala che ne presuppone altri: il candidato, per diventare ufficialmente santo, deve essere prima proclamato servo di Dio, poi venerabile, poi beato.

Fase diocesana

È chiamato servo o serva di Dio il fedele cattolico di cui è stata iniziata la Causa di beatificazione e canonizzazione. Il postulatore, appositamente nominato (ad esempio dall’istituto religioso, ndr), raccoglie documenti e testimonianze che possano aiutare a ricostruire la vita e la santità del soggetto. La prima fase inizia, quindi, con l’apertura ufficiale di un’inchiesta in diocesi e il candidato viene definito servo di Dio.

Occorre dimostrare che la persona ha praticato le virtù a un livello molto elevato, superiore alla media. La ricostruzione viene fatta seguendo due piste: ascoltando le testimonianze orali delle persone che lo hanno conosciuto e possono raccontare con precisione fatti, eventi, parole; raccogliendo i documenti e gli scritti riguardanti il servo di Dio.

Tutte le informazioni vengono raccolte e poi sigillate nel corso di una sessione di chiusura, presieduta dal vescovo della diocesi coinvolta.

Fase romana

A questo punto si chiude la «fase diocesana» dell’inchiesta e tutto il materiale viene consegnato a Roma al Dicastero delle cause dei santi che, tramite un suo relatore, guiderà il postulatore (persona incaricata di istruire il processo di beatificazione prima e di canonizzazione poi, ndr) nella preparazione della Positio, cioè del volume che sintetizza le prove raccolte in diocesi. È la cosiddetta «fase romana» del processo. La Positio deve dimostrare con sicurezza la vita, le virtù o il martirio e la relativa fama del servo di Dio. Studiata da un gruppo di consulenti teologi del dicastero, è poi sottoposta al giudizio dei vescovi e cardinali membri del dicastero. Al giudizio positivo, il Papa autorizza la promulgazione del decreto sull’eroicità delle virtù, sul martirio del servo di Dio, o sull’offerta della vita, che così diviene venerabile.

Dalla tappa intermedia alla canonizzazione

La beatificazione è la tappa intermedia, in vista della canonizzazione. Se il candidato viene dichiarato martire, diventa subito beato, altrimenti è necessario che venga riconosciuto un miracolo, dovuto alla sua intercessione.

Questo evento miracoloso in genere è una guarigione ritenuta scientificamente inspiegabile, giudicata tale da una commissione medica. Importante, ai fini del riconoscimento, è che la guarigione sia completa e duratura, in molti casi anche rapida. Sul miracolo si pronunciano anche i vescovi e cardinali, e il Papa autorizza il decreto. Il venerabile può essere beatificato.

La fase successiva è la canonizzazione. Si deve attribuire al beato l’intercessione efficace in un secondo miracolo avvenuto in un momento successivo alla beatificazione.

Per stabilire chi è santo, quindi, la Chiesa utilizza sempre un accertamento canonico: se in passato si poteva diventare santi semplicemente per acclamazione popolare, da vari secoli esistono norme specifiche, per evitare confusioni e abusi. Il postulatore è incaricato di dimostrare la santità del candidato, mentre dall’altro lato, il promotore della fede, verifica testimonianze e documenti.

A esito positivo, è poi il Papa che autorizza la promulgazione del Decreto sul miracolo accertato e fissa la data di canonizzazione.

M.B.


Hanno firmato il dossier

Francesco Pavese
Missionario della Consolata (02/04/1930-3/5/2020), con un dottorato in diritto canonico svolse la sua missione come formatore. Postulatore generale dal 2002 al 2012, a lui si devono svariati testi di approfondimento sugli aspetti teologici e spirituali di Giuseppe Allamano.

Jonah Mulwa Makau
Missionario della Consolata keniano, è stato responsabile del Cam a Torino, missionario in Tanzania come formatore, da due anni è a Roma nell’ufficio storico.

Si ringraziano
Le missionarie e i missionari che hanno partecipato con il loro contributo per l’articolo «Un albero gigantesco». Giacomo Mazzotti, postulatore generale. Gigi Anataloni, per l’archivio fotografico. Suor Alessandra Pulina e suor Stefania Raspo per la collaborazione.

A cura di
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.

Festa della Consolata a Loyangallani, Kenya