Ci si aspettava qualche cambiamento, ma è stata quasi una rivoluzione. Le elezioni legislative di domenica 27 ottobre in Giappone si sono concluse con un risultato clamoroso. Il Partito liberaldemocratico (Pld), forza conservatrice al potere per 65 degli ultimi 69 anni, ha perso la maggioranza assoluta. Non solo. Per arrivare ai 233 seggi della Camera bassa del parlamento necessari a governare, non basta nemmeno l’aiuto del Komeito, partito di ispirazione buddhista e storico partner di coalizione. Si tratta di una vera e propria batosta, andata al di là delle più nefaste aspettative di Shigeru Ishiba, premier da nemmeno un mese.
È stato lui a decidere di convocare elezioni anticipate, sconfessando la sua stessa parola, con l’obiettivo di consolidare la leadership conquistata a settembre al voto interno al Pld. La scommessa di Ishiba si basava su due convinzioni. Primo: il poco tempo concesso all’opposizione avrebbe evitato l’ascesa del Partito costituzionale democratico (Pcd), appena riunitosi sotto la guida dell’ex premier Yoshihiko Noda. Secondo: la sua lunga carriera di outsider e critico interno al partito gli avrebbe garantito di evitare le conseguenze dello scandalo sui finanziamenti che ha portato alle dimissioni il predecessore, Fumio Kishida. Entrambe le convinzioni si sono rivelate sbagliate.
Da una parte, Noda ha portato il Pcd da 98 a 148 seggi, grazie a un audace programma di riforme sociali mirate a contrastare l’ormai atavico problema dell’aumento del costo della vita. Dall’altra, le varie retromarce di Ishiba su una serie di promesse lo hanno reso agli occhi degli elettori meno in discontinuità rispetto alle precedenti gestioni del suo partito. Durante la campagna elettorale, Ishiba ha infatti sconfessato due promesse in materia di diritti civili, che lo avevano reso popolare tra i più giovani: la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso e la cancellazione della norma che impone ai coniugi di adottare lo stesso cognome. La mazzata finale è arrivata dalle notizie di stampa, secondo cui il Pld avrebbe continuato a pagare per la campagna elettorale di diversi parlamentari allontanati per il coinvolgimento nello scandalo dei finanziamenti.
Ishiba ora deve affrontare un futuro politico incerto. Il suo mandato potrebbe essere il più breve dalla Seconda Guerra Mondiale. I suoi (unici) vantaggi sono che il Pld non ha tempo di cercare immediatamente un nuovo leader, peraltro di non facile individuazione, e che per Noda sarà quasi impossibile unire tutte le forze di opposizione, che vanno dal Partito comunista alla destra radicale.
Entro 30 giorni, il parlamento si riunirà per conferire l’incarico di governo.
Ishiba sta cercando nuovi alleati, ma lo scenario più plausibile è quello di un esecutivo di minoranza, la cui azione potrebbe essere ampiamente limitata e rivolta soprattutto all’approvazione del bilancio suppletivo di fine 2024 e (forse) di quello dell’anno fiscale 2025 il prossimo aprile. L’orizzonte temporale del possibile gabinetto di Ishiba potrebbe non andare molto più in là, mentre l’ala ultranazionalista del Pld chiede già una riorganizzazione attorno alla figura di Sanae Takaichi.
L’impatto del voto potrebbe farsi sentire anche sulla politica estera e sulle relazioni internazionali del Giappone. La contemporaneità tra l’inedita instabilità di Tokyo e le elezioni presidenziali americane è parecchio sfortunata. Il fatto che il Giappone si trovi in uno stato di incertezza non aiuta a prepararsi a un possibile Trump due o anche a un’amministrazione Harris probabilmente più aggressiva sulla Cina. A risentirne anche la proiezione di Tokyo, che negli scorsi anni era diventato un punto di riferimento per il sistema di alleanze americane e per i vicini asiatici. Nella regione appare quindi un nuovo, imprevisto, punto di domanda. Le risposte del Giappone potrebbero non arrivare così presto.
Lorenzo Lamperti
Perù. Gustavo Gutiérrez, un piccolo gigante
È morto a Lima, sua città natale, lo scorso 22 ottobre. Padre Gustavo Gutiérrez Merino, sacerdote, filosofo e teologo peruviano, aveva 96 anni. In gioventù, parroco nel distretto del Rímac, nel 1971 divenne conosciuto a livello mondiale per la sua «Teología de la liberación: perspectivas», un lavoro di enorme portata, non soltanto per la teologia e la Chiesa cattolica. Nel 1974, fondò l’istituto Bartolomé de Las Casas, che in breve tempo si sarebbe affermata come una prestigiosa istituzione di ricerca su teologia e povertà. Nel 2001 entrò nell’ordine dei Domenicani.
Nel corso della sua vita, padre Gutiérrez si è dedicato all’analisi e alla denuncia della povertà e delle disuguaglianze nel continente latinoamericano. La sua proposta centrale è così riassumibile: di fronte all’ingiustizia strutturale creata dall’ordine sociale ed economico prevalente, i cristiani debbono non soltanto denunciare ma anche agire. E proprio da qui, da questo concetto rivoluzionario, sono scaturite tutte le polemiche e le accuse – da parte del potere e dei settori più conservatori della società – di aver trasformato la teologia in teoria politica e, per di più, di sinistra.
Abbiamo avuto modo di constatare di persona quanto le sue idee potessero suscitare reazioni di fastidio all’interno della stessa Chiesa cattolica. Una volta il cardinale Augusto Cipriani (all’epoca, primate del Perù), in risposta a una domanda su padre Gutiérrez, ci disse: «L’ho incontrato. Non è mio compito valutare la sua coscienza, il suo mondo interiore. Credo però che egli abbia un obbligo di giustizia importante: scrivere un libro per spiegare i concetti fraintesi nelle sue prime opere».
Per due volte, nel 1998 e nel 2004, nella capitale peruviana abbiamo incontrato padre Gutiérrez. C’impressionò subito per la forza che sprigionava dalla sua figura minuta. Nel 2004, quando lui era professore alla facoltà di teologia della statunitense University of Notre Dame, nell’Indiana, gli chiedemmo come – a suo parere – stesse la Teologia della liberazione. «Sta bene – rispose -. In questi anni stiamo lavorando su nuove dimensioni e approfondendo un’intuizione originale, che nei nostri primi scritti avevamo chiamato “la complessità della libertà”. Questo significa, in sintesi, prestare attenzione non solo agli aspetti economici della realtà ma anche a quelli etnici, culturali, di genere, ecc. Un’altra dimensione che stiamo sottolineando è la critica al pensiero unico neoliberista. Il nostro punto di partenza è l’opzione preferenziale per i poveri (opción preferencial por los pobres) che, ancora oggi, costituisce il centro della Teologia della liberazione».
Sempre durante quell’intervista, padre Gutiérrez spiegò: «Una volta un giornalista mi chiese se fossi pronto a scrivere di Teologia della liberazione come avevo fatto vent’anni prima. Io gli chiesi se fosse sposato. Lui mi rispose di sì, allora gli chiesi di nuovo: scriveresti a tua moglie una lettera d’amore come hai fatto vent’anni fa? Per me è lo stesso. Per me scrivere teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa a cui appartengo, al mio popolo, e questo è il mio progetto».
Padre Gutiérrez era consapevole delle difficoltà: «C’è – ci disse nel 1998 – una povertà che persiste, che dura, che continua nel tempo. Credo che la distanza tra i più poveri e i più ricchi si faccia più grande». Nel 2010, in un’intervista per l’Università cattolica di Lima (Pucp), osservò: «Il continente più diseguale del mondo è l’America Latina, eppure la stragrande maggioranza della popolazione latinoamericana è cristiana, cattolica ed evangelica. Il cristiano sa che deve amare il prossimo e preferibilmente il più povero. La realtà non sembra rispondere a questa richiesta».
Cosa rimane oggi della Teologia della liberazione? Rimane l’«opzione preferenziale per i poveri» – la scelta di una società in cui i meno fortunati siano al centro – che ne è un principio fondante. L’espressione, che risale ai documenti ufficiali dei vescovi dell’America Latina (Conferenza di Medellìn del 1968, Conferenza di Puebla del 1979), è stata infatti fatta propria da papa Francesco già al momento del suo insediamento, nel marzo 2013.
Sei mesi dopo quella data, esattamente il 12 settembre, Francesco e padre Gutiérrez si ritrovarono in un incontro privato a Casa Santa Marta, in Vaticano. Un grande atto di stima e affetto del pontefice argentino nei confronti del teologo peruviano.
Paolo Moiola
Italia. Israeliani e palestinesi per la pace
Nonviolenti palestinesi e israeliani in Italia per testimoniare il loro lavoro comune per la pace e chiedere la fine della guerra.
Due attivisti israeliani e due palestinesi, accomunati dall’obiezione alla guerra, dal 16 ottobre stanno girando l’Italia per portare le loro testimonianze e il loro appello alla pace in diverse città dal Nord al Sud, incontrando cittadini, studenti, istituzioni.
Chiedono alle istituzioni, all’Unione europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione.
«Vengono da Israele e Palestina, dove il diritto internazionale viene calpestato – recita un comunicato del Movimento nonviolento, organizzatore del tour nell’ambito della Campagna di obiezione alla guerra -, per rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza! Lavorano insieme e rifiutano la guerra, l’esercito, le armi, l’odio».
Sono gli israeliani Sofia Orr e Daniel Mizrahi e le palestinesi Tarteel Al-Junaidi e Aisha Omar.
Sofia Orr ha rifiutato di arruolarsi per il servizio militare obbligatorio nell’Idf, l’esercito israeliano, nel febbraio 2024, ed è stata condannata al carcere militare. Daniel Mizrahi, figlio di coloni ebrei nei territori occupati, ha fatto anche lui obiezione di coscienza, subendo la stessa sorte. La palestinese Tarteel Al-Junaidi è attivista nonviolenta per i diritti umani. Aisha Omar, cresciuta nella Territori palestinesi occupati, sostiene gli obiettori israeliani e ne fa conoscere ai palestinesi l’attività contro la guerra e l’occupazione.
I quattro rappresentano due importanti movimenti: Mesarvot, una rete di giovani israeliani obiettori di coscienza al servizio militare, e Community peacemaker teams (Cpt), sezione palestinese, che sostiene la resistenza nonviolenta contro l’occupazione israeliana.
Mesarvot è una rete che si oppone al regime di occupazione dei territori palestinesi con manifestazioni congiunte israelo-palestinesi in tutto il Paese, chiedendo un accordo sugli ostaggi, la fine del genocidio a Gaza, del conflitto in Medioriente e il raggiungimento di una soluzione diplomatica.
I suoi attivisti portano l’attenzione sui crimini commessi dall’esercito e incoraggiano i giovani israeliani ad assumersi la responsabilità personale di disobbedire al governo. In più forniscono sostegno, anche legale, a chi decide di rifiutare il servizio militare in un paese nel quale gli obiettori subiscono lunghe detenzioni e le voci dissidenti vengono represse brutalmente.
Il Cpt è uno tra i molti gruppi palestinesi di resistenza nonviolenta. Lavora contro la violenza dell’occupazione israeliana, in particolare in Cisgiordania, ad esempio con il monitoraggio dei posti di blocco israeliani attraversati dai bambini palestinesi per andare a scuola, documentando le continue violazioni dei diritti umani. Il docufilm «Light», proiettato durante il giro italiano dei quattro attivisti, racconta proprio l’impegno del Cpt.
Nelle varie tappe (di cui si può leggere il diario sul sito di «Azione nonviolenta»), i quattro testimoni hanno incontrato la cittadinanza durante incontri pubblici, studenti, giornalisti, sindaci, vescovi.
Ieri, 24 ottobre, hanno fatto un’audizione alla Commissione permanente per i diritti umani della Camera dei deputati seguita da un incontro pubblico, un incontro presso il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano e integrale e da una conferenza stampa a Montecitorio.
Come ha scritto Pasquale Pugliese, già presidente del Movimento nonviolento, su Comune.info, «Mentre nessuna organizzazione internazionale sembra essere in grado di fermare la violenza cieca dell’esercito israeliano, che dopo oltre 42.000 vittime palestinesi tra Gaza e Cisgiordania invade il Libano, attacca le basi Unifil, colpisce la Croce Rossa, cerca la guerra con l’Iran; mentre nessun governo occidentale, anche apparentemente dissentendo in pubblico con le sue scelte belliche, si decide in verità a interrompere l’invio di armi al governo di Netanyahu; mentre da oltre un anno grandi manifestazioni in ogni parte del mondo, e nella stessa Israele, non riescono a spezzare la spirale di violenza e di odio; mentre accade tutto questo c’è chi trova il coraggio di resistere dal basso, proprio dentro il cuore di tenebra della guerra, rifiutando la logica della violenza, del nemico e dell’odio: ha il volto di giovanissimi israeliani che rifiutano il servizio militare e di altrettanto giovani palestinesi impegnati nella resistenza nonviolenta».
Luca Lorusso
Il popolo di san Giuseppe Allamano in festa
Roma, 21 ottobre. «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione», racconta il cardinale Giorgio Marengo, in chiusura alla sua omelia della messa di ringraziamento. Nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura, si ritrovano i missionari, le missionarie e centinaia di pellegrini che domenica 20 ottobre hanno partecipato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. «Mi ha colpito – continua Marengo -, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».
La celebrazione inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.
Sono di tanti Paesi, svariate lingue e culture a ritrovarsi, oggi pomeriggio, nella basilica.
Spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili per la maglietta che indossano, con il motto dell’Istituto Missioni Consolata scritto in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard realizzato per la canonizzazione.
Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera delicata «Popoli tutti, lodate il Signore».
Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musicisti – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma dirige il canto ballando con tutto il corpo. Una danza che, in pochi secondi, contagia tutti i presenti. È l’espressione dell’entusiasmo della grande festa.
Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco (dove c’è una missione della Consolata). La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo tale che i giovani non siano più costretti a partire.
Anche durante questa celebrazione di ringraziamento, come nei giorni scorsi, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».
Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si sofferma sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».
«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».
Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».
La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa.
La messa di ringraziamento conclude la fase romana delle celebrazioni per la canonizzazione di san Giuseppe Allamano, iniziate con la veglia di preghiera di sabato 19 ottobre.
Nei prossimi giorni seguiranno eventi e celebrazioni a Castelnuovo don Bosco (At), paese natale di Allamano (il 23 ottobre) e a Torino, alla Consolata (il 24) e nella chiesa del santo in corso Ferrucci 18 (il 25).
Marco Bello
HIGHLIGHTS MESSA DI RINGRAZIAMENTO (Fr. Adolphe Mulenguzi)
Oggi, 20 ottobre 2024, Giuseppe Allamano è ufficialmente santo. La messa di proclamazione, in piazza San Pietro, è stata intensissima.
Città del Vaticano. Fin dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia, necessari per entrare nella piazza.
Il popolo di Giuseppe Allamano è arrivato dai quattro continenti il giorno prima. Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma anche l’Asia c’è, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.
Su alcune bacchette viene issata l’immagine del futuro santo, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.
Oggi saranno, infatti, «canonizzati», termine tecnico, anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni).
Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con l’effige di Allamano e della Consolata.
L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato ad hoc per questo giorno.
Entriamo tra i primi, dopo il controllo metal detector.
La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.
I pellegrini sono assonnati, ma si vede la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.
Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.
È ancora un momento di attesa, e si approfitta per farsi delle foto, dei video, scambiarsi un contatto o un sorriso.
Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio.
A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte anche alcune migranti subsahariane.
Vediamo anche il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità.
Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.
Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.
Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcune canzoni diffuse con i potenti altoparlanti in tutta la piazza.
L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone da tutto il pianeta, spaccato di umanità.
Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva Papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «Papa Francisco», per culminare con un grande applauso.
Nel frattempo è comparso un tenue sole.
Scorgiamo evidente, in prima fila del gruppo di sedie delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.
La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.
«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno.
«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere».
E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».
Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.
«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.
All’Angelus papa Francesco mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».
Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo Santo.
Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si affollano alle transenne per salutare il Santo Padre.
Una volta passato, inizia il lento deflusso di alcune migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della Basilica di San Pietro sulla quale spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.
Sul rapporto fra l’azione dei missionari/e in Africa e il Piano Mattei urge chiarezza. L’occasione per farla ce le dà la prossima, cosiddetta «Conferenza dei missionari italiani», che si svolgerà il prossimo 23 ottobre su impulso del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e nell’ambito della riunione ministeriale G7 sullo sviluppo.
L’incontro, si legge sul sito della Farnesina, «avrà come tema il contributo delle realtà missionarie allo sviluppo sostenibile delle popolazioni presso cui prestano la propria missione, sottolineando l’impatto delle loro opere attraverso la condivisione di storie di successo e buone prassi. L’evento incentrerà i propri lavori sul rafforzamento delle opportunità di istruzione e formazione in Africa sub-sahariana a favore dei giovani, anche in virtù dei collegamenti con il Piano Mattei e con il nesso migrazioni-sviluppo».
Iniziamo col dire che il nome di questa iniziativa è fuorviante: dapprima perché rischia di sovrapporsi alla «Conferenza degli istituti missionari italiani» (Cimi), che è altra cosa e che non prenderà parte alla conferenza abruzzese. Più generale, il titolo di questo incontro lascia pensare che tutto il mondo missionario voglia parteciparvi e condivida la sua prospettiva positiva rispetto al Piano Mattei, quando così non è.
La questione centrale però va oltre i titoli e le parole. Punta dritto al cuore del Piano Mattei e al suo approccio nei confronti dell’Africa, che noi non ci sentiamo di condividere, vista la sua mancanza di prospettive e di ascolto verso le vere necessità del continente.
Saremo sempre pronti a discutere di sviluppo sostenibile in Africa e a fornire il nostro punto di vista, condividendo la nostra lunga esperienza sul campo. Preferiamo farlo però in altre sedi, meno vincolate ai promotori del piano e per questo più inclini a produrre riflessioni libere e costruttive.
Senza consapevolezza non ci sono speranze di cambiamento. Potrebbe essere riassunta così la motivazione che spinge il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) a predisporre ogni anno (siamo alla 14a edizione) un report sulle 200 multinazionali economicamente più importanti. L’argomento di per sé sarebbe molto complesso, ma il Cnms coordinato da Francesco Gesualdi (da anni collaboratore della rivista Missioni Consolata, ndr) riesce a renderlo comprensibile a tutti, con testi chiari, tabelle e grafici esplicativi.
Il confronto tra la situazione del 2013 e quella del 2023 indica le tendenze in atto. I dipendenti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati in dieci anni da 39 a 42 milioni (+7,8%), il fatturato da 20mila a 27mila miliardi di dollari (+33%) e i profitti da 1.438 a 2.114 miliardi di dollari (+47%). Tra le Top200 soltanto 9 chiudono il 2023 con perdite anziché profitti. La peggiore è la russa Gazprom che nel 2023 con un fatturato di 100 miliardi di dollari, ha registrato un disavanzo di 7,3 miliardi.
Tra le Top200 ce ne sono 60 con sede negli Usa, 55 in Cina, 16 in Giappone, 12 in Francia e 11 in Germania. Le italiane sono 2: Enel al 97° posto (61mila dipendenti, 103 miliardi di fatturato e 3,7 miliardi di profitti) e Eni al 98° (33mila dipendenti, 102 miliardi di ricavi e 5,1 miliardi di utili).
Restringendo il campo di osservazione alle prime 10 multinazionali, si scopre che 6 hanno la sede principale negli Usa, 3 in Cina e 1 in Arabia Saudita. L’Europa è fuori dalla Top10. Al primo posto della classifica troviamo stabilmente Walmart, nel settore del commercio e dei trasposti, con 2,1 milioni di dipendenti, 648 miliardi di dollari di fatturato e 15,5 miliardi di profitti. Al secondo posto si colloca Amazon con 1,5 milioni di lavoratori, 575 miliardi di ricavi e 30,4 miliardi di dollari di guadagni. Sul terzo gradino del podio c’è la cinese State Grid (che fornisce gas, luce e acqua) con 1,3 milioni di dipendenti, un giro d’affari di 545 miliardi e 9,2 miliardi di utili.
Al di là della fotografia della situazione attuale è utile cercare di comprendere l’evoluzione della classifica delle multinazionali. Ad esempio, si può notare come Amazon in un decennio sia passata dal 112° al 2° posto della graduatoria. State Grid dieci anni fa era al 7° posto ed ora è al 3°. Apple raggiunge il 7° posto provenendo dal 15°. La finanziaria americana UnitedHealth Group sale dal 39° all’8° posto. A fare evidenti passi indietro sono invece le principali società multinazionali che si occupano di energia e petrolio: Shell che scende dal 2° al 13° posto, Exxon Mobil dal 5° al 12° e BP dal 6° al 25° posto.
Dai dati presenti nel report si può calcolare il rapporto tra profitti e fatturato, evidenziando i relativi margini di utile. In questa logica al 1° posto troviamo la Taiwan Semiconductor Manufacturing con profitti pari al 39,4% del fatturato, seguita dalla banca svizzera Ubs con il 39%, dalla Johnson & Johnson nel settore della chimica con il 36,9% e dalla Microsoft con il 34,1%.
In alcuni settori si nota una predominanza cinese. Ad esempio, sono cinesi 6 delle 7 multinazionali delle costruzioni inserite in Top200, 6 su 8 della metallurgia e minerali, 6 su 9 della chimica e farmaceutica. Nel settore bancario, assicurativo e della finanza ai primi 14 posti troviamo 8 multinazionali degli Usa e 6 della Cina.
Particolarmente illuminante è il confronto tra i fatturati delle multinazionali e le entrate degli stati. In una classifica unificata ai primi 100 posti troviamo 70 stati nazionali e 30 multinazionali. La Walmart ha ricavi superiori alle entrate dell’Australia e di poco inferiori a quelle della Spagna. La Saudi Aramco ha un fatturato nettamente superiore alle entrate dello stato dell’Arabia Saudita.
Le classifiche sulle multinazionali in realtà rappresentano soltanto la prima parte del report predisposto dal Cnms, che contiene alcuni approfondimenti davvero interessanti. Il primo focus è sulle più importanti società «multifondo», che investono denaro in partecipazioni societarie: in particolare vengono analizzate le multinazionali statunitensi Black Rock, Vanguard, Fidelity e State Street, che complessivamente gestiscono patrimoni per quasi 30mila miliardi di dollari. Si tratta di una cifra enorme che può condizionare fortemente la finanza, l’economia e la politica mondiali.
Un altro approfondimento ricostruisce le vicende e le contraddizioni dell’impero economico e patrimoniale di Elon Mask, oggi considerato l’uomo più ricco del mondo. Molto attuale è anche la pagina dedicata alle azioni di boicottaggio delle multinazionali che conducono affari in Israele, che mostra come in alcuni casi stiano funzionando.
Non mancano i dati sulle multinazionali di origine europea, oltre alla preziosa informazione che l’Unione europea ha recentemente approvato una normativa che impone alle aziende che producono e vendono in tutto il mondo l’obbligo di verificare che lungo tutte le proprie filiere produttive e commerciali siano rispettati i diritti umani e l’ambiente.
Il sottotitolo del report Top200 è inequivocabile: «La crescita del potere delle multinazionali». Dopo averlo letto è più facile capire le pressioni e i condizionamenti che le multinazionali possono esercitare nei confronti del potere pubblico. «Possiamo – ha detto il giudice Louis D. Brandeis (membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939) – avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose»
Rocco Artifoni
Pillole «Allamano» /10. Prima di tutto santi
Carissimo Padre, buon Natale. Uso l’appellativo Padre invece di Canonico (oggi un po’ demodé), o di Rettore (troppo accademico), per sottolineare la paternità spirituale che hai avuto e continui ad avere su di noi, missionari e missionarie della Consolata. Grazie per queste pillole di spiritualità che, oggi come ieri, ci aiutano a dare un senso alla nostra vita, per poterne essere i protagonisti e non dei comprimari. I tuoi consigli hanno permesso a missionari e missionarie di camminare diritti e spediti durante tanti anni e in moltissime parti del mondo; crediamo che possano servire anche a noi, nella nostra Europa attuale, per riproporci come persone che hanno a cuore il Regno di Dio, e lo vogliono promuovere lì dove si trovano. In fin dei conti, questo è lo spirito con cui abbiamo provato ad assumerle durante questi mesi e chissà se ci aiuteranno ad alzare un po’ il tiro, iniziando da questo periodo natalizio.
A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni o, come forse suggeriresti tu stesso, un pochino più santi. Ti è sempre piaciuta questa parola: santo. Hai parlato tanto di santità, ma soprattutto hai vissuto in modo da rendere esplicito, visibile, toccabile con mano ciò che cercavi di esprimere a parole. Hai soprattutto cercato di mostrare che la santità è nient’altro che il coronamento di un cammino nella fede «fatto bene», con rispetto del ruolo che si occupa nel mondo, senza pensare di essere Dio, ma soltanto povere creature che cercano di fare al meglio la Sua volontà (a dirla tutta, se c’è qualcosa che veramente contraddice lo spirito del Natale è proprio questa tendenza a credersi dei padreterni; altro che spirito dell’incarnazione!).
La Torino dei tuoi tempi poteva vantare degli esempi di santi mica da ridere: ci si sarebbe potuta fare una squadra di calcio con tanto di riserve contando tutte le persone che hanno dato la loro vita per la causa del Vangelo, e a tale ragione sono assurti alla gloria degli altari. Altri ancora hanno vissuto la loro vita cristiana in maniera più nascosta, o forse meno «eroica», e non vengono ricordati liturgicamente, ma hanno comunque lasciato un segno che rimane vivo ancora oggi, eredità di una vita dedicata a Dio e al servizio dei fratelli. Alcuni parlano di loro come «santi sociali», proprio per sottolineare il loro forte impegno al servizio dei poveri del tempo, fra i giovani, gli operai, i carcerati, gli ammalati…
Molti li hai incontrati tu stesso di persona. In particolare non si può non citare le due figure a te più vicine, non fosse altro per la comune provenienza, visto che eravate tutti originari di Castelnuovo, in provincia di Asti: Giuseppe Cafasso, tuo zio, e Giovanni Bosco. Oggi il tuo paese, adagiato sulle colline del Basso Monferrato astigiano, ha preso il nome di Castelnuovo don Bosco, dal concittadino più famoso, anche se dovrebbe essere battezzato «Castelnuovo dei Santi» perché ben quattro (va aggiunto infatti anche Domenico Savio) sono i santi che lì hanno avuto i loro natali in uno spazio di tempo davvero ristretto.
Santi vicini, santi in famiglia, santi le cui vite si sono sfiorate lasciando segni indelebili sulle altrui esistenze. Sì, diciamo che sei anche stato un po’ fortunato ad avere la possibilità di entrare in contatto con persone di quel calibro. Da loro hai attinto molto, pur conservando una tua precisa personalità, che non si è confusa né con lo spirito, né tantomeno con la missione altrui. Da Giovanni Bosco, anche se soltanto per un breve periodo di tempo, sei andato a scuola nell’Oratorio da lui fondato, luogo da cui poi ti sei allontanato alla chetichella, per non dare un dispiacere a chi ti aveva ospitato fra i suoi ragazzi e che probabilmente, vedendo la pasta di cui eri fatto, aveva iniziato a pensare che un giorno avresti potuto dargli una bella mano. Del resto, non lo hai fatto per capriccio (le persone capricciose non ti sono mai andate troppo a genio e non ti sei stancato di ripeterlo in continuazione a tutti coloro che erano affidati alla tua formazione), ma per seguire quella che a te sembrava essere la tua strada, indirizzandoti verso il Seminario metropolitano di Torino.
A Giuseppe Cafasso devi sicuramente molto di più, pur avendolo personalmente incontrato tutto sommato poche volte. Hai respirato sin da piccolo la sua presenza e hai sempre saputo e creduto di avere un «Santo zio» in famiglia, al punto che quando è stata l’ora ti sei dedicato anima e corpo, fra mille altre cose, anche ai processi di beatificazione e canonizzazione, dando così alla Chiesa intera un modello di prete a cui ispirarsi.
La santità che hai conosciuto tu, di cui hai fatto esperienza diretta vedendola riflessa nelle esistenze degli altri, era la conseguenza di una vita buona, vissuta bene, con sacrificio, determinazione, fede, perseveranza. Dio lancia il seme, e questo cade in una terra più o meno fertile. Nel vostro caso terra fertilissima, perché preparata, lavorata, concimata quotidianamente con la pazienza e anche la fatica del contadino. Niente di eccezionale, verrebbe da dire, una santità alla portata di tutti, fatta di piccoli gesti buoni ripetuti nel tempo. È la santità di tante nostre famiglie, quella che non fa rumore ma permette al bene di incunearsi nel tessuto della società e lo fa scorrere a dispetto di tanti messaggi a esso contrari, segnali di male, morte, disperazione che mettono in pericolo la speranza.
L’eccezionalità sta appunto in questo lavoro costante su di sé, sulla propria crescita umana e spirituale. «Vivere l’ordinario in modo straordinario» è il motto che hai proposto a chi guardava a te come modello di uomo e prete. Lo hai attinto dalla spiritualità di San Giuseppe Cafasso, ma lo hai fatto diventare come parte del tuo stile di vita. Il tuo punto di riferimento era Cristo, ma il tuo terreno di gioco è sempre stato il quotidiano, le ventiquattro ore della giornata, cui dare un senso, giorno dopo giorno, con l’Eucaristia a fare da metronomo: preparazione, celebrazione e ringraziamento; e così via, in una serie continua di istanti in cui la vita dell’uomo si fonde in quella di Dio.
Il santo è la persona che vive in profondità questa unione di Dio con la sua storia passata, presente e futura; è colui o colei che permette a Dio di incarnarsi nel suo vissuto, di vivere nella sua famiglia, di frequentare la stessa scuola o di interessarsi degli stessi problemi di lavoro degli altri. Il santo è la persona della porta accanto, quella capace di praticare iniezioni di bene con la sua presenza discreta e silenziosa, che permette a Dio di essere Dio, e lo fa lasciando che questi entri nella propria vita, concedendogli spazio e diventando a sua volta strumento di salvezza.
Caro don Giuseppe, tu sei stato questo tipo di persona per molti tuoi contemporanei, che istantaneamente hanno riconosciuto in te i segni di una presenza più grande. Il tuo spirito di preghiera, l’amore per l’eucaristia, la relazione cuore a cuore con Maria Consolata. Tuttavia, la tua santità ha assunto dei connotati speciali che restano un’eredità unica per noi missionari e per tutti gli amici che, a vario titolo e in varie occasioni, si sono avvicinati al nostro carisma e ne sono rimasti affascinati.
Innanzitutto, la tua è stata una santità extra large; hai guardato oltre i confini di Torino, dell’Italia, più in là sempre e comunque. Sicuramente più in là dei tuoi comodi – avresti potuto infatti vivere un’esistenza decisamente tranquilla e rilassata invece di perdere pace, salute e soldi nel correre dietro all’ideale missionario – a cui hai però volentieri rinunciato per rispondere all’imperativo che sentivi dentro di te di annunciare a tutti la consolazione del Vangelo. In questo momento storico in cui la chiesa è invitata a uscire, ad andare alle periferie, a essere lì dove la gente si trova, a non perdere la voglia di annunciare, ci offri un modello di santità molto attuale. Dà coraggio pensare che hai vissuto in maniera totale la tua missionarietà senza mai allontanarti, se non per brevi viaggi, dal tuo amato Santuario della Consolata. Sei un invito vivente per tante persone e famiglie che forse non ce la fanno proprio a trovare tempo e risorse per «partire» e vivere la loro vocazione missionaria in terre lontane. C’è chi dona partendo e chi parte donando. Da sempre la missione si è nutrita del dono del tempo, dei beni materiali, della preghiera di tanti benefattori che pur senza oltrepassare l’uscio di casa hanno reso l’attività dei missionari possibile, partecipando a tutti gli effetti, pienamente, della missione della chiesa.
Inoltre la tua è stata una santità «inclusiva», che si è nutrita e arricchita dei contributi di culture nuove e lontane, di cui leggevi attraverso i racconti dei tuoi missionari. Il senso di vicinanza all’altro che hai trasmesso ai tuoi, l’enfasi posta sulla necessità di imparare, e imparare bene, le lingue straniere per meglio comunicare con le persone, la passione di capire l’altro per entrare nel profondo della sua cultura, con rispetto, in punta di piedi… sono elementi che hanno caratterizzato il tuo insegnamento e restano parte di quello spirito che sempre hai voluto trasmettere personalmente ai tuoi missionari. I nostri confratelli che lavorano in Asia sempre ripetono l’importanza di essere sul posto, presenti, sussurrando il Vangelo, con tatto, rispetto e discrezione, senza imporre, ma proponendo coraggiosamente la buona notizia di Gesù.
In questo mondo così controverso e contraddittorio, alla cui tensione verso la globalità rispondono movimenti di chiusura e intolleranza assolutamente non evangelici, la ferma delicatezza della tua parola è garanzia di un messaggio di accoglienza e di fraternità che rincuora e dà coraggio.
Grazie caro Padre per quest’ultima tua pillola che, in fondo, contempla tutte le altre. Siate santi missionari; anzi, «prima santi, poi missionari», come ripetevi instancabilmente allora e continui a ripetere anche a noi oggi. Ai nostri giorni il tuo appello assume una valenza particolarmente pregnante perché immettersi in un cammino di santità significa andare due volte contro corrente. Mentre noi missionari e missionarie della Consolata desideriamo profondamente che tu, già beato, possa essere riconosciuto finalmente santo, tu vuoi soprattutto che siamo noi a santificarci, anche senza riconoscimento ufficiale da parte della chiesa. Ci chiedi soltanto di condurre una vita evangelicamente certificata e di testimoniare con coerenza i valori del Vangelo attraverso il carisma speciale che ci hai lasciato.
Penso che, corroborati da un anno di pillole ricostituenti da te fornite, possiamo tentare di metterci su questo cammino chiedendoti, ancora una volta, di essere padre e guida dei tuoi missionari e degli amici fraterni che ne accompagnano le iniziative apostoliche. Siamo convinti che, diventando più santi, noi spianeremo anche a te la strada per il riconoscimento universale della tua santità. Prendi questo nostro impegno come un piccolo regalo di Natale. E ancora tanti auguri.
Pillole «Allamano» /9. Non dire mai non tocca a me
Ho visto di recente, insieme ad altri missionari che lavorano in Europa, il film «Terraferma» di Emanuele Crialese, premio della giuria al Festival del cinema di Venezia 2011. Racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive in un’isola al largo della Sicilia e che, insieme alla comunità del posto, si trova a vivere un conflitto fra tradizione e modernità. Gli abitanti sono infatti intrappolati nel dilemma: continuare con una vita di pesca o aprirsi al turismo e, di conseguenza, al consumismo di marca occidentale? Quello che si preannuncia all’inizio del film come un conflitto generazionale (c’è un’eco dei Malavoglia nella storia narrata) assume connotati nuovi con l’irruzione dell’emergenza migranti che viene a sconvolgere la vita degli abitanti e il loro rapporto con il mare.
Non tutti gli isolani sono inclini a sopportare passivamente la marea umana che si abbatte sulle loro spiagge. Il turismo, la nuova dimensione appena scoperta e che apre le porte a un futuro di minori sacrifici e stenti, viene messo a dura prova da questa ennesima sfida che arriva dal mare. Eppure, in mezzo a tutto il marasma che sconvolge la placida esistenza della gente del posto, si viene a creare uno spazio favorevole per la solidarietà e l’altruismo. Tanto il codice del mare, che non prevede di lasciar morire un uomo in balia delle onde, come il senso di fraternità che tocca l’animo dei protagonisti investono gli abitanti dell’isola di un imprevedibile e nuovo senso di responsabilità.
È inutile dire che la storia fittizia di «Terraferma» ricalca quella purtroppo vera e sofferta di Lampedusa. Come non ricordare del resto i gesti di accoglienza dei lampedusani, per altro lodati anche dal Papa? Si tratta di gesti compiuti da gente semplice, sovente povera, messa in crisi da una situazione diventata ingestibile. Nonostante tutto, di fronte all’emergenza per molti di loro è impossibile dire: «Non tocca a me».
Per la (nostra) generazione cresciuta a pane e Alberto Sordi è costato rinunciare al mito dell’italiano «tutto sommato brava gente», sempre pronto a redimersi da una vita da brigante grazie a un atto di eroismo finale e catartico con cui prende finalmente e responsabilmente in mano la propria vita. Basta avere la possibilità di andare un po’ in giro per il mondo, oppure la magnanimità di incontrare chi da fuori viene a vivere nel nostro paese, per capire che non siamo più buoni o meno buoni di tanta altra gente. Anche qui in Italia c’è chi incassa la testa fra le spalle e tira diritto senza voltarsi, lasciando che l’altrui persona badi a se stessa, risolva i suoi problemi da sola. Anche qui c’è chi pensa: «Chissenefrega, io cosa c’entro … non ho tempo, non mi sento, non sono capace e, alla fine della fiera, non sono problemi miei!». Se così non fosse, e non fosse sempre stato, Giuseppe Allamano non avrebbe avuto bisogno di dare, all’epoca, una pillola dei cui effetti benefici si sente il bisogno anche oggi.
Certamente l’ambito a cui preferibilmente l’Allamano si riferiva era quello formativo dei missionari della Consolata. Tante sono le volte in cui ricorreva questa espressione, segno dell’importanza che egli dava all’aspetto della partecipazione alla vita comunitaria ai fini della missione e alla dimensione della responsabilità personale. «Non dire mai non tocca a me» è infatti più di una raccomandazione, è un appello alla responsabilità e alla vocazione cristiana, prima ancora che religiosa e missionaria. Anzi, proprio perché indirizzato alla compartecipazione nella vita sociale e alla creazione di migliori relazioni fra le persone, questo appello puntava a una crescita che doveva essere innanzi tutto umana.
In un mondo dove si considera etico chi osserva il principio di reciprocità, la radicalità di questa pillola è un elemento che spariglia le carte, confonde, mette in crisi. Il do-ut-des è un regolatore sociale potente. «Io do perché tu mi hai dato» oppure «do perché aspetto di ricevere». Se contravvengo a questa consuetudine vengo punito. In questo contesto, io dirò «tocca a me» soltanto quando sarà il mio turno, aspettando che tu abbia fatto il tuo e Tizio il suo; in caso contrario mi sentirò autorizzato, e giustamente, a non fare assolutamente niente. Se tu vuoi che io faccia, inizia tu a fare quanto ti compete. Meglio che nulla, verrebbe da dire; meglio che l’inazione dovuta a pigrizia (non ne ho voglia), a ignoranza non contrastata (non sono capace), alla pretesa di un diritto acquisito (non l’ho mai fatto, non vedo perché dovrei farlo ora, non mi compete), ecc. La lista potrebbe essere lunga. Quante meravigliose ragioni per dire: «Non tocca a me!».
Nel mondo del lavoro, dove relazioni e competenze sono regolate da un contratto, diventa più difficile uscire da schemi di reciprocità che stanno normalmente alla base di un qualsiasi accordo fra le parti. Non mancano per fortuna esempi, anche se pochi, di circoli virtuosi operati in alcuni luoghi in cui il datore di lavoro fa un po’ più di quello che gli spetta e il dipendente non si tira indietro nei momenti del bisogno. Questi pochi, ma illuminati esempi ci dicono che rifiutare «il non tocca a me» può diventare persino eversivo se ci si crede, se si entra in una dinamica differente, se si spezza il vincolo del do-ut-des.
Non sfuggono elementi abbastanza contraddittori che caratterizzano il momento attuale e lo rendono complesso, articolato, difficile da decifrare. Da una parte sembra evidente che la gratuità stenta a imporsi nelle relazioni fra le persone. Tutto va pagato, retribuito, tutto ha un prezzo: ti do se mi dai o, al massimo, darai. Se non s’intravedono possibilità di guadagno, gratificazione, crescita, ci si sgancia: «Non tocca a me, sorry». Questo, verrebbe da dire, capita anche nelle migliori famiglie!
Oggi, purtroppo, si avverte infatti un crescente disimpegno a vari livelli. La persona ne accusa le conseguenze, senza però rendersi conto del ruolo che lei stessa potrebbe positivamente giocare, o senza forse avere il coraggio di fare il primo passo per dare alle relazioni un indirizzo differente. La famiglia è il primo ambito in cui tale disimpegno appare evidente e tale fenomeno assume aspetti devastanti, per le ripercussioni che si hanno in molti altri ambiti. La scuola sente il disimpegno della famiglia, così come la comunità cristiana, ecc. Tutti gli ambiti educativi sono coinvolti e ciascuno reclama un’attenzione maggiore dell’altro, mettendo a nudo un circolo, questa volta decisamente vizioso, da cui sembra impossibile uscire.
Per contro, bisogna anche sottolineare una certa reazione a questo modo diffuso di interpretare la vita. Da poco l’Istat ha pubblicato uno studio sul volontariato oggi in Italia, evidenziando come, nonostante notevoli differenze fra una zona e l’altra del paese, il tasso percentuale di persone impegnate in attività di volontariato sia oggi aumentato notevolmente. Sono più di 6 milioni gli italiani di età superiore ai 14 anni che hanno svolto nel 2013 un’attività di volontariato. Oltre 4 milioni di essi lo ha fatto in collaborazione con organizzazioni di vario tipo, mentre i restanti hanno prestato servizio direttamente, in maniera indipendente, a favore di altre persone, di comunità o dell’ambiente. Il tasso di volontariato è oggi pari al 12,6 per cento della popolazione, ovvero un italiano su 8. Dà speranza a pensare che nel 1993 il tasso era del 6,9 per cento e raggiungeva il 10% nel 2011.
Dati incoraggianti che ci dicono che esiste dunque una via per interpretare la realtà in modo differente; il cristiano dovrebbe esserne innanzitutto cosciente e saperla indicare a tutti in modo chiaro e luminoso. Nel Vangelo, infatti, la logica del rapporto padrone–dipendente viene spezzata per sempre. L’uomo è figlio, non servo. Partecipa degli utili «chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna», Mt 19, 29, ma è anche chiamato a farsi carico degli oneri. In particolare, deve condividere la «politica aziendale» ed essere pronto a sacrificarsi per i beni di famiglia («se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua», Lc 9, 23). Il cristiano è invitato a essere coerede del creato di cui è parte, ma di cui è anche custode responsabile, project manager del lavoro di redenzione di Dio.
Ciò significa imparare a dire dei sì e dei no, significa assumere delle responsabilità sentendosi piloti e non passeggeri della propria vita e di quanto ci circonda. Le famiglie (o le comunità religiose, a cui Giuseppe Allamano si rivolgeva direttamente) sono ottimi banchi di prova per vedere se uno cresce in questa dimensione o se rimane fermo a mercificare diritti e doveri cercando di farli quadrare in bilancio, riuscendo magari pure a guadagnarci qualche cosa.
«Non dire mai non tocca a me, perché tocca a tutti». L’Allamano lo raccomandava anche ai missionari partenti, come un lascito importante, una di quelle cose da mettere in valigia, magari all’ultimo momento, ma da non dimenticare assolutamente. «Dobbiamo essere tutti uniti fra noi», interessandoci delle cose comuni, superando la mentalità di chi si vede realizzato solo ed esclusivamente nel compito che gli viene dato. Parafrasando un esempio da lui fatto: il gas lasciato acceso è un pericolo per la casa, forse nessuno è stato incaricato di spegnerlo, e allora che cosa si fa? Ci si adopera in un’azione preventiva o si aspettano i pompieri perché tanto «tocca a loro»?
Oggi, sta purtroppo diventando stereotipata l’immagine del religioso accomodato nella sua vita e, proprio per questo motivo, accomodante nei confronti di tutto ciò che minaccia la vita del Regno. Il ripetere «non tocca a me» ammazza lo spirito stesso della vita religiosa che presuppone la sequela di qualcuno, Cristo, che ha rifiutato la tentazione del «passi da me questo calice» per farsi carico, responsabile fino in fondo della missione affidatagli. Giuseppe Allamano, che vedeva nella vocazione missionaria la perfezione di quella religiosa e sacerdotale, non tollerava spiriti tiepidi, non desiderosi di dare il 101% alla causa del Vangelo.
Non si può non leggere nella pillola di questo mese il desiderio profondo di vedere una cristianità con le maniche rivoltate, pronta a offrire impegno, creatività e testimonianza in tutti gli aspetti della vita in comune. «Tocca a me» partecipare della vita politica del mio paese, contribuire a migliorare l’educazione dei figli, creare modelli di convivenza pacifici e solidali sul territorio, inventare strategie di economia sostenibile o scegliere che tipo di ambiente voglio lasciare a chi verrà dopo di me.
È un’illusione pensare che il girare la testa dall’altra parte lasci le cose come stanno. Sul lungo termine le cose peggiorano e s’incancreniscono, così come i cuori diventano più aridi, incapaci di dare, di aprirsi all’altro, di creare qualcosa di nuovo.
Nella sua famosa «Lettera ai giudici», Don Milani ricordava questo come uno dei principi fondanti della sua pedagogia: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario del motto fascista “Me ne frego”». Di sicuro, per il priore di Barbiana il principio era irrinunciabile e rimaneva valido anche di fronte alla tentazione di una vita più comoda, ma meno realizzante: «Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: – Il priore non riceve perché sta ascoltando un disco –. Volevo anche scrivere sulla porta – I don’t care più –, ma invece me ne care ancora, molto.» (Lettera di Don Milani a Francuccio Gesualdi, 4 aprile 1967).
Pillole «Allamano» 8: Fare bene il bene … e senza rumore
«I miei anni sono più pochi, ma fossero pur molti, voglio spenderli in fare il bene e farlo bene: io ho l’idea del Ven. Cafasso, che il bene bi sogna farlo bene, e non rumorosamente» (Conferenze IMC, I, 116).
Un tempo si usava portare a scuola un quaderno, lasciarlo nelle mani dei compagni affinché ciascuno a turno potesse scrivere un messaggio, un augurio o fare semplicemente una decorazione come ricordo. Ovvia mente anche l’insegnante era chiamata in causa e doveva corredare le pagine di tutti gli alunni con un saluto, un disegno, una massima beneaugurante. Ricordo a questo proposito una storiella che si raccontava in casa, forse proprio nel pe riodo in cui era iniziato questo scambio di diari anche con i compagni miei e di mio fratello. La maestra di non ricordo più quale membro della nostra famiglia aveva restituito il quaderno al mio povero parente con tre o quattro pagine strappate e diverse cancellature ancora visibili, segno evidente che l’operazione le era costata fatica e si era dimostrata più complicata del previsto. Il risultato di tanto sforzo, condensato in una massima scritta a incoraggiamento morale del mio congiunto, prendeva forma alla fine di tutta quella devastazione. Era una sorta di testamento spirituale che potesse rimanere a imperitura memoria del corpo docente (cosa che di fatto avvenne), il cui testo recitava: «Fai bene ciò che fai!». Era chiaro l’intento educativo che sottolineava l’importanza di mettere impegno nel fare le cose, agendo in modo consapevole e non trasandato. Peccato che in quell’occasione alla predica non fosse seguita un’applicazione adeguata. Sulla necessità di fare il bene, in effetti, vi sono poche controversie. Il problema, semmai, è riuscire a farlo bene.
Il primo articolo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratel lanza». Mi sembra interessante il fatto che prima di elencare e affermare i diritti inalienabili dell’essere umano, il testo dica ciò l’essere umano è (libero, uguale agli altri in fatto di dignità e diritti, razionale e dotato di coscienza…), ed esprima il mandato uni versale ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. L’articolo termina dunque con un appello a costruire il bene comune, a «fare il bene» perché valore condiviso, di tutti, universale. «Fare il bene» è un’attività che appartiene alla sfera dell’umano, alla legge naturale che regola l’ordine delle cose di questo mondo. Il bene non è soltanto un’idea tra scendente che va al di là del quotidiano, la realtà dove l’individuo vive ed agisce, ma anche ciò che l’uomo mette in pratica per vivere in maniera armonica la sua vita sociale e politica. Quella di questo mese è dunque una pillola che può essere assunta da chiunque, credente o non cre dente, per il solo fatto che punta alla felicità del l’uomo nella sua dimensione personale e sociale, in dipendentemente dalle convinzioni di carattere filosofico, culturale o religioso. Del resto, chi non vorrebbe poter condurre una vita armonica, felice e se rena?
Chiaramente, letto in ottica cristiana, il consiglio di Giuseppe Allamano assume una profondità ulte riore. Il precetto di fare il bene si radica nella mis sione propria dell’uomo di continuare l’opera crea trice e redentiva di Dio. Dio crea, e vede che quanto creato è buono. Questa bontà deve essere preservata perché il disegno di Dio non comprende il male, se non come frutto di un esercizio improprio della libertà dell’uomo. Anzi, nel progetto originale, l’uomo viene nominato il custode della creazione, creato a immagine e somiglianza di Dio, creato buono per fare il bene.
Tuttavia, basta poco per rendersi conto come le cose non funzionino esattamente così. Anzi, basta vivere in maniera cosciente per costatare come il male imponga spesso la sua presenza, una presenza misteriosa che non si può comprendere fino in fondo e, per questa ragione, tanto più angosciante. Fiumi di parole si sono scritte e si scrivono sul problema del male; ma anche lì dove pare che una scintilla di ragione riesca a imporsi sul buio, un’ingiusti zia, un lutto, un atto di cattiveria gratuita, una malattia fanno improvvisamente piombare nel buio del mistero chi cerca di capire.
Cristo è la risposta di Dio all’esistenza del male. Gesù non spiega, ma carica sulle sue spalle la croce e assume su di sé il male del mondo, esprimendo con la sua azione la massima espressione di bene: dare la vita per i propri fratelli. Fare il bene sempre e comunque è la risposta di Dio all’esistenza del male. Lasciarsi vincere dal risentimento o dalla disperazione di fronte a una situazione di dolore significa, per quanto umanamente comprensibile, fare il gioco del male, lasciarsi avvolgere dalle sue spire, restarne imprigionato. Rispondere con il bene dà un senso nuovo alla nostra vita. È la logica dell’a more incondizionato, del perdono e della riconcilia zione con se stessi, gli altri, il mondo ciò che costruisce e conserva il bene.
Fare il bene …e farlo bene
Tuttavia, il bene è fragile e va trattato con cura. Non solo: il confine tra bene e ciò che non lo è risulta essere molto più labile di quanto si possa pensare. Sul fatto che sia ne cessario, anzi imperativo, fare il bene ci possiamo trovare quasi tutti d’accordo. Più difficile è stabilire confini di quando il bene è di fatto tale, o di quanto non lo è. Il bene imperfetto non è un bene. L’unico bene è quello fatto bene e perché sia veramente tale occorre farlo con prudenza e con sapienza. Un atto può essere buono o cattivo in sé, ma vi sono al tri fattori importanti, che vanno tenuti in conto. L’intenzione di chi compie l’atto non inficia la bontà dell’atto, che in sé continua a essere buono o cattivo, ma un’intenzione non retta fa indubbiamente perdere punti morali alla mia azione. Il narcotrafficante colombiano Pablo Escobar è stato in sé un grande benefattore e molti poveri hanno beneficiato del suo aiuto. Tuttavia, sebbene migliaia di persone ne scortarono il feretro il giorno del suo funerale, le biografie non lo ricordano esattamente come un angelo della carità. Parimenti, inutile dirlo, una buona intenzione non può convertire un atto cattivo in qualcosa di diverso. Rubare, ammazzare, giurare il falso sono sempre atti in sé non buoni, in dipendentemente dalle intenzioni di chi li compie. Detto questo, salta immediatamente all’occhio l’im portanza di un terzo elemento: quello delle circo stanze. La lettura sapiente di queste ultime è ciò che ci aiuta ad avere tutti gli elementi affinché si possa fare il bene e farlo davvero bene. Atti buoni, sostenuti da intenzioni altrettanto buone e gene rose, possono diventare occasione di un bene non fatto bene e creare situazioni di dipendenza nelle persone che vorremmo fare oggetto del nostro bene, oppure non rispondere agli effettivi bisogni della situazione su cui si vuole intervenire. O ancora, si può fare una buona azione, con rettissima intenzione, ma farlo con tale malagrazia, prepotenza, sufficienza, arroganza, paternalismo, ecc. da far risultare il nostro bene un completo fallimento. È chiaro che sull’argomento si potrebbero spendere fiumi di inchiostro. Pensiamo a quante esperienze si potrebbero raccogliere facendo raccontare episodi di vita vissuta in cui il bene non è stato fatto bene. Genitori, insegnanti, religiosi… Chiunque nella sua vita ha avuto modo di relazionarsi con gli altri potrebbe, raccontandosi, arricchire il campionario di errori, più o meno involontari, commessi nel tenta tivo di fare del bene.
Giuseppe Allamano desiderava che i suoi missionari potessero salvaguardarsi da questo rischio. Da uomo pratico qual’era, si dimostrava cosciente del fatto che la perfezione non apparteneva a questo mondo, ma allo stesso tempo cercava di preparare i suoi alle esigenze della missione, che richiedeva, perché molto impegnativa, delle risposte eccellenti.
Giuseppe Allamano, vero innamorato della preghiera, era anche cosciente che quest’ultima dovesse essere «aiutata» dalla persona stessa ad incarnarsi nelle situazioni che avevano bisogno di essere toccate e illuminate. Alcune sue insistenze di ventano per noi un insegnamento importante per poter fare bene il bene da compiere.
La prima è l’attenzione che egli vuole i suoi missionari mettano nel conoscere la realtà che li circonda. Conoscere bene lingua, cultura, storia, usi e costumi di un posto aiuta ad analizzare le circostanze e prevedere le conseguenze dei nostri atti. Fare il bene bene presuppone conoscere l’altro. Per fare ciò bisogna innanzitutto essere presenti, stare con l’altro lì dove egli vive. Questo vale per un genitore con i figli, così come per un educatore con le persone che gli sono affidate o per un prete con la sua comunità. Le relazioni «toccata e fuga» si nutrono di buone in tenzioni, ma nella maggior parte dei casi non sanno esprimere un bene ben fatto. Anche lo studio aiuta e Giuseppe Allamano era oltremodo esigente in merito con i suoi missionari a conoscere il contesto e a operare bene. La lunga permanenza dell’Allamano in confessionale, esercizio in cui era pignolo con i preti a lui affidati, lo aveva poi reso esperto nell’arte dell’ascolto. Chi l’ha conosciuto e ne ha dato testimonianza ha ricordato come si fosse sentito da lui ascoltato e, per questo motivo, capito. Fare il bene costa: fatica, tempo, energie e a volte anche denaro. Eppure, quante risorse e quante opportunità sono andate sprecate per aver semplicemente equivocato il bisogno vero dell’altro, per non averlo saputo ascoltare.
Vi sono poi due consigli specifici per fare bene il bene che Giuseppe Allamano trae da suo zio San Giuseppe Cafasso, a cui deve molto della sua ricchezza spirituale, e sono diretti a migliorare la persona in quanto tale, affinché questa ponga attenzione ai dettagli del proprio agire, per permettere al bene di rendersi evidente togliendo spazio al male. Oggi, usando un termine a noi più familiare, potremmo dire che l’Allamano consigliava la pratica del discernimento: mettersi davanti a Gesù e chiedersi come lui si sarebbe comportato in una determinata situazione, arricchendo così la lettura della realtà con quell’abbandono nella fede che dovrebbe guidare ogni azione del buon cristiano. Dopodiché, una volta identificato il come agire, buttarsi a capofitto, «come se quell’azione fosse l’ultima della vostra vita», affinché la mancanza di determinazione o di energia non debba successivamente penalizzare i buoni effetti del nostro fare il bene.
Si capisce che per Giuseppe Allamano «fare il bene bene» significa soprattutto «essere bene». Formarsi al bene permette di dare agli altri ciò che si è, con naturalezza, spontaneità, competenza… amore. Essere bene vuole anche dire volere il bene dell’altro in quanto altro, escludendo o non considerando i benefici, le grazie, i favori che ne potrei conseguire come agente del bene. Escludere i secondi fini per mette di vivere il bene con la vera umiltà di chi vuole farlo perché l’altro e soltanto l’altro ne possa beneficiare. Forse è vero che il bene non lo si fa: il bene in quanto tale è, e noi lo possiamo soltanto rappresentare, convertendolo magari anche in un qualcosa di concreto. Nel nostro delirio di occidentali tutti dediti al fare, il non essere protagonisti del bene che facciamo, ma lasciare diventare gli altri protagonisti del bene che noi semplicemente testimoniamo, sarebbe una rivoluzione copernicana, di quelle di cui sono capaci i Santi, come Giuseppe Al lamano.
Una volta stabilito questo si capisce perfettamente che il bene deve essere «silenzioso», deve sapersi presentare alla ribalta senza pompa e senza trombe. pubblicizzare incessantemente ciò che facciamo non aiuta a essere migliori di ciò che siamo, anzi! Il bene fa fatto bene… e senza rumore.