Perù. Il dittatore che non chiese perdono

«Ci ha lasciato il miglior presidente che il Perù abbia mai avuto. Grazie a lui è scomparso il terrorismo, ha costruito scuole, ha aiutato tanta povera gente. Vola molto in alto, presidente». È uno dei tanti commenti celebrativi apparsi sui social dopo la morte di Alberto Fujimori, avvenuta a Lima lo scorso 11 settembre, all’età di 86 anni.

Equiparandolo a un padre della Patria, il governo di Lima ha indetto tre giorni di lutto nazionale (12, 13 e 14 settembre), l’esposizione del corpo al Museo della Nazione e i funerali di Stato. Decisioni discutibili per una persona altamente divisiva e condannata a 25 anni (16 dei quali scontati in carcere), ma forse inevitabili considerata la debolezza dell’attuale presidente, Dina Boluarte (prima donna alla guida del Paese). Secondo una recente inchiesta di Datum, la presidente è molto impopolare avendo una percentuale di approvazione di appena il 5%, la più bassa degli ultimi 44 anni. Né va molto meglio Gustavo Adrianzén, il suo primo ministro, che non raggiunge le due cifre (è all’8%).

Nato nel 1938 da una famiglia di immigrati giapponesi (però, curiosamente, soprannominato «el Chino»), ingegnere agrario, genitore di quattro figli (Keiko Sofía, Hiro Alberto, Sachi Marcela e Kenji Gerardo), Alberto Fujimori è stato presidente del Paese andino dal 1990 fino all’aprile del 1992 quando, dopo un autogolpe attuato con l’aiuto dell’esercito (Fujimorazo), scelse la via dell’autoritarismo. Nelle vesti di dittatore rimase al potere fino a novembre del 2000, anno in cui, travolto da uno scandalo di corruzione, si dimise dal Giappone dove era fuggito.

A Fujimori vanno riconosciuti due meriti, uno in campo economico e uno nell’ordine pubblico. Nel primo caso, applicando un modello neoliberista di lacrime e sangue (noto come Fujishock), riuscì a riportare sotto controllo un’inflazione che era arrivata a toccare il settemila per cento. Nel secondo caso, debellò i due principali gruppi guerriglieri che insanguinavano il Paese, il Movimiento revolucionario túpac amaru (Mrta) e, soprattutto, Sendero luminoso (Pcp-Sl). Quest’ultimo viene considerato responsabile della metà dei 69mila morti accertati, stando ai dati della Commissione per la verità e la riconciliazione (Cvr), istituita nel 2001. Abimael Guzmán, líder máximo dell’organizzazione terroristica, fu catturato nel settembre del 1992.

Per raggiungere i suoi obiettivi politici, el Chino non si fermò davanti a nulla. Per esempio, sterilizzò – mediante la legatura delle tube – migliaia di donne (la cifra ufficiale è di 272.028) delle comunità rurali andine tra il 1990 e il 1999. Altra misura fu la costituzione di una organizzazione paramilitare con compiti di antiterrorismo denominata Grupo Colina. Il gruppo fu responsabile di almeno due massacri di civili innocenti, quello di Barrios Altos (15 persone assassinate) e quello de La Cantuta (con l’uccisione di un professore universitario e nove studenti).

Keiko Fujimori, figlia di Alberto e politica navigata, è l’erede principale del fujimorismo. È stata candidata presidenziale per tre volte e, con tutta probabilità, lo sarà anche in futuro.

Nel Paese andino la comunità giapponese (conosciuta come «comunidad nikkei») si è costituita a partire da fine Ottocento e oggi conta circa 200mila persone e sei generazioni. Di essa Alberto Fujimori è stato il rappresentante più noto ma anche – come abbiamo sommariamente spiegato – il più controverso. «Il dittatore e assassino – ha commentato la giovane congressista Sigrid Bazán – è morto senza pagare un solo sol di risarcimento [alle vittime]. La sua eredità di corruzione e violazioni dei diritti umani non viene cancellata con la sua morte». Né va dimenticato – aggiungiamo noi – che la figlia Keiko (candidata presidenziale nel 2011, 2016 e 2021) rimane una leader politica con molto seguito. Per questo è facile prevedere che, anche dopo la morte del suo fondatore, il fujimorismo influenzerà ancora a lungo la società peruviana.

Paolo Moiola




I Rohingya del Myanmar, ancora sfollati e rifugiati

 

A sette anni dallo scoppio della crisi che interessò il popolo dei Rohingya, gruppo etnico di religione musulmana stanziato nella parte occidentale del Myanmar, la comunità internazionale è ancora alle prese con una questione di difficile soluzione.

Sette anni fa, avvenne il primo esodo a seguito dello sfollamento forzato su larga scala di 750mila Rohingya che, sotto la pressione dell’esercito birmano, per sfuggire alla pulizia etnica, varcarono il confine e si stabilirono in Bangladesh, in particolare nella località di Cox’s Bazar.

La loro vita in campi profughi, organizzati in quell’area di confine grazie al governo di Dacca e agli aiuti della comunità internazionale, apparve fin dal principio molto critica.

Difficile la distribuzione di beni di prima necessità per il sostentamento. Per non parlare di istruzione, sviluppo, reinserimento sociale o occupazione per offrire un futuro agli sfollati che risultano apolidi, dunque privi di ogni diritto e riconoscimento.

Inoltre, negli anni, «nuovi problemi di sicurezza e le incertezze sui finanziamenti compromettono tutti gli aiuti», ha avvisato di recente l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur).

Sconsigliato anche il piano di rimpatrio nell’ex Birmania: nello Stato di Rakhine, in Myanmar, l’escalation del conflitto ha peggiorato le condizioni dei Rohingya rimasti nei distretti originari.

Data la guerra civile in corso nel Paese, lo sfollamento interno è ai massimi storici, oltre 3,3 milioni di sfollati all’interno del Paese. Tra questi, circa 130mila sono Rohingya che si trovano nel Rakhine settentrionale e vivono in mezzo al fuoco incrociato, vittime dei combattimenti tra l’esercito regolare e i miliziani dell’Arakan army, organizzazione militare locale tra quelle che sfidano la giunta birmana al potere.

«I civili di etnia Rohingya in Rakhine stanno sopportando il peso delle atrocità commesse dall’esercito del Myanmar e dall’opposizione dell’Arakan Army», ha spiegato Elaine Pearson, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, presentando l’ultimo rapporto sugli abusi nell’area.

In Bangladesh, a sua volta attraversato dalla crisi politica culminata con la fuga dell’ex presidente Sheikh Hasina, il governo provvisorio di Muhammad Yunus ha mostrato una certa solidarietà auspicando che i rifugiati Rohingya possano rientrare in Myanmar in piena sicurezza, dignità e diritti. Sebbene, dunque, un ritorno dignitoso, volontario e sostenibile in Myanmar resti la soluzione ricercata dalle autorità, mancano le condizioni sul terreno per renderla possibile.

In attesa di una soluzione, la vita per i Rohingya in Bangladesh resta sospesa. I rifugiati hanno bisogno di assistenza immediata e di aiuto per costruire il loro futuro: il 52% di loro ha meno di 18 anni e molti sono nati in esilio o hanno trascorso i primi anni di vita nei campi profughi.

Nel 2024, le agenzie umanitarie hanno richiesto 852 milioni di dollari per assistere circa 1,3 milioni di persone, ma i finanziamenti internazionali per coprire quella necessità sono insufficienti. Per questo le razioni alimentari sono state ridotte, i centri sanitari devono far fronte alla carenza di personale medico e di medicinali, la bassa qualità dell’acqua causa epidemie di colera ed epatite; le opportunità di formazione professionale sono ridotte.

La nazione, poi, affronta inondazioni catastrofiche che colpiscono milioni di cittadini e anche comunità che ospitano i rifugiati, aggravando la situazione che, nota l’Acnur, richiede allora «un sostegno globale ampio e sistematico».

Paolo Affatato

 




Mauritania. Crescono le migrazioni verso le Canarie

 

Raggiungere le Canarie vuol dire entrare in Europa. Una speranza che accomuna tanti giovani africani che decidono di lasciare il proprio Paese alla ricerca di migliori condizioni di vita. Per farlo, negli ultimi anni, un numero sempre più crescente di loro sta volgendo il proprio sguardo verso questo piccolo arcipelago, una comunità autonoma spagnola al largo della costa nordoccidentale africana.

Una rotta letale, ma frequentata
Qui, la distanza tra Africa ed Europa è relativamente limitata: Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 95 chilometri dalla costa marocchina. Ma il viaggio per arrivarci nasconde profonde insidie.
Secondo Caminando fronteras (un’organizzazione per la protezione dei diritti dei migranti), la rotta per le Canarie è la più pericolosa tra tutte quelle percorribili per raggiungere la Spagna. Ciò a causa di condizioni meteorologiche spesso avverse e della mancanza sistematica di operazioni di ricerca e salvataggio rapide ed efficaci. Non è un caso infatti che, solo nei primi cinque mesi del 2024, in questo lembo di mare, siano morte 4.808 persone (il 95% di tutte le vittime registrate tra gennaio e maggio lungo tutte le rotte per la Spagna).
Nonostante ciò, negli ultimi mesi, gli arrivi alle Canarie hanno registrato un’impennata. Ad esempio, a gennaio 2024, nell’arcipelago sono sbarcati 7.270 migranti: un aumento del 1.184% rispetto allo stesso mese del 2023. E la tendenza, nel periodo successivo, non ha accennato a diminuire.

Nuove rotte in risposta alle politiche europee
La crescita degli sbarchi alle Canarie è direttamente riconducibile alle politiche migratorie dell’Unione europea (Ue) o dei singoli Stati membri. Recentemente, infatti, raggiungere l’Europa (e, in questo caso specifico, la Spagna) attraverso il Mar Mediterraneo o le enclave di Ceuta e Melilla è diventato sempre più complicato, a causa dell’esternalizzazione europea delle frontiere e delle politiche repressive dei Paesi nordafricani.
Con molti di essi (tra cui Egitto, Libia, Tunisia e Marocco) l’Ue ha siglato accordi che prevedono la concessione di fondi per contenere i flussi. In Nordafrica, spesso, le risorse sono utilizzate per potenziare la guardia costiera e i centri di detenzione: il risultato è che abusi e violazioni dei diritti umani sono diventati sempre più frequenti.
Addirittura, secondo una recente inchiesta giornalistica, il denaro europeo finanzia (e l’Ue ne è consapevole) operazioni per cui decine di migliaia di migranti intercettati in mare sono riportati indietro e abbandonati nel deserto o in aree remote. Quella che per l’Ue è semplice «gestione dei flussi», nell’indagine assume il nome di «desert dumps», letteralmente «discariche nel deserto».
Dunque, raggiungere l’Europa attraverso la rotta mediterranea è diventato sempre più difficile. E, perciò, numeri sempre maggiori di migranti optano per strade alternative, anche se più pericolose, come quella atlantica. I cui punti di partenza principali sono il sud del Marocco, il Senegal e la Mauritania.

Dal Senegal alla Mauritania
Fino alla fine del 2023, la maggioranza di coloro che sbarcavano alle Canarie proveniva dal Senegal. Con l’inizio del 2024, invece, c’è stata un’impennata delle partenze dalla Mauritania. Dalle sue coste, ad esempio, arrivava l’83% dei migranti giunti a gennaio 2024. A determinare questo spostamento del luogo privilegiato di partenza sono state soprattutto le politiche migratorie spagnole, supportate dall’Ue.
Lo scorso ottobre, di fronte a un picco di arrivi alle Canarie, la Spagna ha reagito in modo repentino. Il ministro dell’Interno Fernando Grande-Marlaska si è recato in Senegal con l’intento di affrontare la questione migratoria in modo drastico. Ha ottenuto dalla controparte senegalese controlli più serrati lungo la costa e maggiori rimpatri. Nel mentre, Frontex (l’agenzia europea di frontiera) e la Guardia civil (la gendarmeria spagnola) hanno iniziato a pattugliare le acque territoriali senegalesi. La polizia militare spagnola ha anche realizzato operazioni nelle principali città lungo la costa, sia in Senegal che in Gambia.
Mentre gli spazi di partenza dal Senegal si restringevano sempre di più, i migranti hanno iniziato a spostarsi nella vicina Mauritania. Le reti criminali per il traffico di esseri umani, già presenti nel Paese, hanno rapidamente sfruttato l’occasione, iniziando ad ammassare numeri sempre maggiori di persone su piccole barche fatiscenti, i cayucos.
Ancora una volta, l’Ue ha reagito siglando un accordo da 210 milioni di euro con la Mauritania finalizzato a contenere i flussi. L’ennesimo tassello di una politica repressiva che ha già ampiamente dimostrato di non funzionare. E che, anzi, continua a provocare sistematiche violazioni dei diritti umani nei Paesi di partenza e innumerevoli morti in mare.

Aurora Guainazzi




Kenya. Mons. Muheria sulle proteste dei giovani

Monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya, parla delle proteste della «generazione Z» nel Paese. «La violenza non va bene ma gridano contro la corruzione e per avere un futuro».

«Le leadership non vogliono ascoltare il grido dei giovani ma loro chiedono solo un futuro, un lavoro e la fine della corruzione». A parlare delle proteste che negli ultimi mesi hanno visto in Kenya migliaia di giovani in piazza è monsignor Anthony Muheria, arcivescovo metropolita di Nyeri e vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici del Kenya.

A Roma per la visita ad limina in Vaticano e per l’incontro con Papa Francesco, il vescovo parla del suo Paese che «è arrivato davvero vicino alla rivoluzione. I ragazzi hanno assaltato il Parlamento… sono arrivati fino al Parlamento», scandisce con il volto ancora preoccupato. Un’ondata, quella della «generazione Z» del Kenya, che «era cominciata pacificamente e che poi purtroppo è sfociata nella violenza».

Il vescovo condanna questa deriva e anche il fatto che «i giovani sembrano come chiusi nei loro circoli, soprattutto sui social», ma allo stesso tempo chiede al governo e alle istituzioni di ascoltare il loro «grido».

La storia del Kenya, d’altronde, è simile a quella di molti Paesi dell’Africa dove la povertà, ma anche la corruzione nella gestione delle risorse, tolgono il futuro alle nuove generazioni.

Molti tentano il lungo viaggio per arrivare in Europa, ma altri protestano fino al sangue. «Il governo è arrivato con la milizia – racconta monsignor Muheria -, e molti giovani sono stati uccisi. Ragazzi nella maggior parte dei casi laureati, ma che non hanno un lavoro e non vedono il futuro».

La corruzione è uno dei problemi più sentiti: «Le autorità devono essere trasparenti, dare conto dei soldi che spendono. Il costo della vita e le tasse aumentano ma non le entrate delle famiglie».

Alla gente del suo Paese il vescovo però dice di non seguire la logica del male minore quando, per esempio, si va a votare. «Noi, come Chiesa, siamo molto preoccupati, perché è sempre più difficile instaurare un dialogo con questi ragazzi. Il problema è grande: come arrivare a formare e incoraggiare questa generazione? Quando c’è la disperazione deve esserci un aiuto».

Con coraggio i vescovi hanno allora avviato corsi di formazione sociale e politica con la speranza che «nel giro di dieci anni creaca una leadership che possa essere un punto di riferimento per la società».

Di fronte a un’Europa nella quale il dibattito sui migranti è sempre più acceso, il vescovo fa presente che in Africa ci sono «da oltre vent’anni milioni di sfollati interni. In Etiopia 900mila, in Uganda un milione e 700mila, da noi in Kenya i rifugiati sono 700mila. È un problema grande perché non ci sono le risorse per consentire loro di uscire dai campi. Ci sono giovani nati nei campi profughi che non sono mai usciti di lì. È come se non ci fosse una via d’uscita».

La Chiesa africana dunque lancia un appello, anche alla comunità internazionale, perché «possa essere garantita a queste persone condizioni di vita dignitose». Sono per lo più persone che scappano dalle guerre in Congo, Rwanda, Sudan, Nigeria, «e queste guerre vanno avanti da anni e la situazione politica non aiuta il loro rientro nei Paesi di origine».

C’è anche il problema degli attentati degli islamisti: «In Kenya, grazie a Dio, sono anni che non si verificano. Ma i terroristi di al-Shabaab sono sempre un pericolo anche per noi. In altri Paesi», prosegue il vescovo facendo riferimento ai recenti attacchi terroristici in Burkina Faso soprattutto contro i cristiani, «anche se i fondamentalisti sono una piccola minoranza, fanno molto rumore». Con i loro attentati minano infatti quel dialogo tra diverse fedi che «è invece molto buono», sottolinea monsignor Muheria.

C’è anche un altro «estremismo religioso», come lo definisce il vescovo Keniano: quello dei leader delle sette religiose che «pretendono di essere cristiani ma pensano solo ai soldi e fondano il loro potere sulla disperazione e sulla credulità della gente».

In questo quadro difficile c’è però una fede cristiana gioiosa e in crescita: «In Africa c’è una vera e propria esplosione delle vocazioni. Quest’anno nella mia diocesi sono entrati in seminario centocinquanta ragazzi. Ma per altrettanti non è stato possibile entrare perché non abbiamo abbastanza fondi economici per aprire le porte a tutti coloro che lo chiedono».

Manuela Tulli




Mongolia. Un ospite imbarazzante

 

Vladimir Putin, presidente russo e criminale di guerra, è arrivato a Ulaanbaatar, capitale della Mongolia, il 3 settembre, formalmente per una commemorazione storica. Accolto nella grande piazza Sükhbaatar da un picchetto di guardie in eleganti uniformi rosse e blu (a somiglianza di quelle indossate ai tempi di Genghis Khan, il fondatore dell’impero mongolo), il leader russo è apparso impettito e tirato a lucido come la propaganda richiede.

Si è trattato del suo primo viaggio in un paese aderente alla Corte penale internazionale. In quanto tale, la Mongolia avrebbe dovuto procedere all’arresto dell’ospite, considerato che, da marzo 2023, sul capo di Putin pende un mandato di cattura per crimini di guerra emesso dalla Corte. Circostanza che, come ampiamente prevedibile (e, a onor del vero, comprensibile), non si è verificata.

Comunista per quasi settant’anni, dal 1990 la Mongolia è uno stato democratico con regolari elezioni (le ultime si sono tenute a fine giugno) e un’economia di mercato. Tuttavia, dal punto di vista economico, Ulaanbaatar dipende per larga parte dai due regimi autoritari che lo schiacciano come un sandwich: a Nord la Russia, a Sud ed Est la Cina.

Mappa della Mongolia, paese asiatico senza sbocco al mare e schiacciato tra due regimi autoritari, a Nord la Russia, a Sud e ad Est la Cina.

Stando all’agenzia mongola Montsame, Putin ha incontrato nell’ordine il presidente Khurelsukh Ukhnaa, il primo ministro Oyun-Erdene Luvsannamsrai e Amarbayasgalan Dashzegve, responsabile del Parlamento (il cosiddetto Grande Khural). Gli incontri – si legge – sono serviti per rafforzare i rapporti di cooperazione economica tra i due stati. Occorre ricordare che Mosca fornisce al Paese (ricco di risorse minerarie, ma privo di uno sbocco al mare) la maggior parte del suo carburante e una notevole quantità di elettricità. Esiste, inoltre, un altro elemento che favorisce le relazioni tra i due stati: dal 1940, la Mongolia ha adottato l’alfabeto cirillico russo.

Due sono le indicazioni generali che la visita di Putin nel Paese asiatico ha posto in evidenzia: la prima è la conferma della volontà russa di insistere senza soluzione di continuità sulla polarizzazione della politica mondiale, la seconda è l’intrinseca debolezza di un’istituzione quale la Corte penale internazionale la cui efficacia è, al momento, praticamente pari a zero.

Paolo Moiola




Corea del Sud. Voglia di armi nucleari

 

«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.

Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.

Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.

Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.

Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.

Lorenzo Lamperti