«Gli Stati Uniti sarebbero disposti a favorire un programma in grado di dotare la Corea del Sud di sottomarini a propulsione nucleare come fatto con l’Australia?». Primi giorni di giugno, Shangri-La dialogue di Singapore, il massimo vertice sulla sicurezza dell’Asia-Pacifico. Un delegato di Seul pone questa domanda a Lloyd Austin, il capo del Pentagono, che risponde in maniera evasiva. È il segnale di qualcosa di molto piu ampio: la Corea del Sud sta accarezzando l’idea di dotarsi di armi nucleari.
Un tema tabù, anche per la volontà dichiarata da sempre di Washington di perseguire la denuclearizzazione della penisola. Eppure, dopo anni di continuo innalzamento delle tensioni con la Corea del Nord, l’opinione pubblica e la posizione del governo in materia sta rapidamente mutando. Soprattutto dopo il recente accordo di mutua difesa siglato a Pyongyang tra Kim Jong-un e Vladimir Putin, che preoccupa non poco Seul.
Un recente sondaggio condotto dal potente think-tank Korea Institute for National Unification, un’entità statale, ha rilevato che il 66% degli intervistati ha espresso «sostegno» o «forte sostegno» per un deterrente nucleare indipendente, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto allo scorso anno. Alla richiesta di scegliere, il numero di intervistati che ha espresso una preferenza per il possesso di armi nucleari proprie da parte di Seul rispetto al ricorso alle truppe statunitensi è aumentato di quasi 11 punti percentuali rispetto al 2023, superando per la prima volta il sostegno alla presenza militare di Washington.
Storicamente, la Corea del Sud si affida all’alleato statunitense per la «deterrenza estesa», con la consapevolezza che Washington è disposta a dispiegare i propri mezzi militari, comprese se necessario le armi nucleari, in difesa di Seul. E gli Stati Uniti si sono sempre opposti fermamente allo sviluppo di un proprio arsenale nucleare da parte della Corea del Sud, per il timore che questo possa far naufragare gli sforzi di non proliferazione globale e dare una scusa alla Corea del Nord (ma anche alla Cina) per giustificare l’accelerazione del rafforzamento del proprio arsenale. Ma molti sudcoreani sono convinti che i tempi siano cambiati e l’approccio classico non basti più a garantire la sicurezza.
Dopo gli incontri di Singapore e Hanoi tra Kim e Donald Trump, dal 2019 il dialogo è naufragato. Nella primavera del 2020 la Corea del Nord ha fatto saltare in aria il centro di collegamento intercoreano di Kaesong e dal 2022 ha aumentato esponenzialmente il ritmo dei test missilistici. Sempre nella primavera del 2022, le tensioni sono aumentate dopo la vittoria alle elezioni presidenziali sudcoreane del conservatore Yoon Suk-yeol, che ha abbandonato la linea dialogante del predecessore Moon Jae-in per adottare una retorica della risposta «colpo su colpo».
Anche a causa della guerra in Ucraina e del timore di un crescente allineamento tra Cina e Russia, Seul ha rafforzato drasticamente la propria alleanza militare con gli Usa e ha avviato una partnership con la Nato.
Da qualche mese, è stato anche cancellato l’accordo intercoreano del 2018 che aveva ridotto le manovre militari lungo la frontiera. Il tutto in seguito al lancio del primo satellite spia nordcoreano, che secondo la Corea del Sud sarebbe avvenuto con il sostegno di Mosca. Pyongyang ha ricominciato a muoversi nei pressi della zona demilitarizzata, con brevi sconfinamenti di truppe e la costruzione di nuove strutture. Seul ha risposto con una serie di esercitazioni estese con gli Usa. Le due Coree hanno anche dato una svolta a livello politico-retorico. Kim ha fatto emendare la Costituzione per etichettare il Sud come «nemico principale e immutabile». Yoon ha presentato un piano di unificazione che non prevede alcun ruolo per Kim e il sistema politico nordcoreano. Insomma, Nord e Sud iniziano a pensare che la riunificazione possa avvenire solo cancellando l’altra metà.
Rispetto al passato, le capacità sempre più avanzate della Corea del Nord e la revisione della dottrina nucleare del regime per consentire attacchi preventivi in un’ampia gamma di scenari stanno spingendo diversi deputati sudcoreani a chiedere una rivalutazione della politica in materia di armi. Le voci in tal senso potrebbero aumentare di tono qualora Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. In Corea del Sud ricordano bene cosa è successo durante il suo primo mandato, con la richiesta di aumenti monstre delle spese militari per mantenere i circa 29mila militari statunitensi sul territorio del Paese asiatico. Pretese talmente esose da provocare una sospensione delle trattative. Con l’arrivo di Joe Biden, si è invece trovato rapidamente l’accordo per un aumento ridotto al 4% delle spese. Non solo. L’amministrazione democratica ha rafforzato la rete di alleanze in Asia-Pacifico, favorendo il disgelo tra Corea del Sud e Giappone e fornendo nuove e ampliate garanzie sull’ombrello nucleare americano in caso di crisi.
Non a caso, Seul sta provando, sottotraccia, a trattare con la Casa Bianca il rinnovo dell’accordo prima delle elezioni o comunque del cambio della guardia tra Biden e il suo successore, nonostante la scadenza sia nel 2025. La mossa è pensata per evitare di dover trattare nuovamente con Trump, il cui ritorno, al di là degli effetti concreti, potrebbe causare conseguenze psicologiche, con i sudcoreani che presumibilmente si convincerebbero ancora di più che è necessario fare da soli. E che forse è meglio avere un proprio «ombrello», piuttosto che fare affidamento su quello altrui.
Lorenzo Lamperti