Atomica. L’umanità al bivio


In soli 45 minuti di guerra nucleare morirebbero 85 milioni di persone. L’atomica non è un elemento tra gli altri della politica mondiale. È quello centrale. E rende la guerra obsoleta. Ricordare Hiroshima e Nagasaki per impedire la «soluzione finale» dell’umanità.

Nel 2019 un gruppo di ricercatori dell’Università di Princeton, guidati dal professor Alex Glaser, svolse una simulazione sugli effetti di una guerra nucleare tra Russia e Nato.

Il modello era basato sulla reale dotazione nucleare delle potenze in campo e sui rispettivi obiettivi strategici. Aveva come ipotesi di avvio un primo colpo «tattico» nucleare inviato dall’esclave russa di Kaliningrad – l’antica Königsberg, città di Immanuel Kant, autore, tra l’altro, del progetto Per la pace perpetua – con l’obiettivo di fermare l’avanzata della Nato verso i confini russi, e la conseguente risposta nucleare Usa-Nato.

La previsione fu che in soli 45 minuti si sarebbero causati 85,3 milioni di morti, senza contare le vittime legate agli effetti successivi delle radiazioni.

Un’immane e repentina ecatombe. La morte dell’umanità e della civiltà. Quella distruzione di mondi della Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, evocata da Robert Oppenheimer («sono diventato morte, distruttore di mondi»), il fisico a capo del progetto Manhattan, quando assistette all’effetto dirompente dell’esplosione della bomba Trinity nel deserto di Los Alamos, test definitivo dopo il quale il presidente degli Usa Harry Truman diede il via allo sganciamento delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, il 6 e il 9 agosto del 1945. Come abilmente narrato nel film di Cristopher Nolan (vedi MC 6/2024).

Hiroshima e Nagasaki

Ricordiamo brevemente i fatti. Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti Usa desecretati, affermano sempre più convintamente che il governo giapponese era pronto ad arrendersi già da un mese quando piovve le prima bomba atomica il 6 agosto 1945 e, sicuramente, prima che arrivasse la seconda.

Il presidente Truman, però, che era da poco succeduto a Roosevelt, non intendeva dissipare i risultati della costosissima tecnologia messa a punto segretamente con il progetto Manhattan, e diede ugualmente il via libera allo sganciamento dei due ordigni atomici.

«La vera posta in gioco – ha scritto Zygmunt Baumann su quella decisione ne Le sorgenti del male, 2021 – può essere facilmente dedotta dal trionfante discorso presidenziale il giorno successivo alla distruzione di centinaia di migliaia di vite a Hiroshima: “Abbiamo fatto la scommessa scientifica più audace della storia, una scommessa da due miliardi di dollari – e abbiamo vinto!”».

Tre giorni dopo, il 9 agosto, la stessa funesta scommessa venne riversata anche su Nagasaki.

Furono 220mila le vittime dirette delle due esplosioni, quasi esclusivamente civili inermi, e circa 150mila quelle successive: persone morte per le conseguenze delle radiazioni. Il più grande e impunito crimine di guerra della storia dell’umanità.

La guerra è obsoleta

Mentre si chiudeva la Seconda guerra mondiale, si inaugurava la cosiddetta Guerra fredda con la sua corsa agli armamenti. Iniziava un’era inedita nella quale l’umanità aveva la possibilità dell’autodistruzione.

Non passarono neanche dieci mesi da quel cambio di paradigma nella guerra moderna, avvenuto a spese degli inermi abitanti delle due città giapponesi, quando in Italia cominciarono i lavori dell’Assemblea costituente. Essa aveva perfettamente chiaro che la guerra non era ormai più utilizzabile, non solo «come strumento di offesa della libertà degli altri popoli», ma neanche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Dopo gli oltre sessanta milioni di morti causati dalla guerra appena conclusa, le armi nucleari avrebbero dovuto rendere definitivamente obsoleta la guerra, una realtà da archiviare tra i ferri vecchi della storia.

L’articolo 11, posto tra i Principi fondamentali della Costituzione, dice proprio questo, e obbliga, implicitamente, a ricercare e costruire le alternative alla violenza bellica («pace con mezzi pacifici», recita la Carta delle Nazioni Unite). Alternative compatibili con la continuazione della specie umana sulla terra. È l’etica della responsabilità che innerva la Costituzione e attraversa la parte migliore del pensiero politico del Novecento.

Sul filo del rasoio

Un esempio luminoso di questo pensiero è il Manifesto per il disarmo nucleare, composto nel 1955 da Albert Einstein e Bertrand Russell. Sottoscritto da illustri scienziati del tempo, da Max Born a Linus Pauling, è di una disarmante attualità: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

Secondo Einstein e Russell l’alternativa ormai è radicale: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». Un quesito che, per noi, qui e ora, è più attuale che mai.

Vale la pena aggiungere che nel 1955, uno dei momenti di maggiore crisi durante la Guerra fredda, le lancette del Doomsday clock – l’orologio dell’Apocalisse, il simbolico indicatore del pericolo nucleare per l’umanità messo a punto dal «Bollettino degli scienziati atomici» fin dal 1947 a Chiacago – era fissato pericolosamente a due minuti dalla mezzanotte, l’ora della fine dell’umanità.

Oggi la situazione è peggiorata: nel gennaio 2023, a quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la nuova posizione delle lancette era a 90 secondi dalla mezzanotte, il punto più pericoloso mai raggiunto per la sicurezza dell’umanità. Stessa situazione confermata nel gennaio di quest’anno.

«L’umanità è sul filo del rasoio – ha ribadito Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, lo scorso 8 giugno -: il rischio che venga usata un’arma nucleare ha raggiunto livelli mai visti dai tempi della Guerra fredda».

Responsabilità e realismo. Bandire le armi atomiche

Eppure, salvo alcuni «grandi vecchi» come papa Francesco ed Edgar Morin, entrambi intervenuti all’Arena di Pace di Verona del 18 maggio scorso (seppure il secondo con un video messaggio registrato), decisori, intellettuali e media sembrano, in grande maggioranza, non avere la percezione del pericolo che stiamo correndo, in questo varco della storia, con la continua escalation della guerra tra potenze nucleari in corso in Europa, dimenticando colpevolmente la lezione di filosofi come Günther Anders che avevano messo al centro della propria riflessione esattamente la situazione dell’umanità nell’epoca della possibilità dell’autodistruzione atomica. Secondo Anders, nella nostra epoca, qualunque azione politica, in particolare all’interno di un conflitto internazionale, non può non tenere conto della «situazione atomica».

La tesi secondo la quale le armi atomiche sarebbero solo uno degli elementi in gioco nello scenario politico è un inganno. È vero piuttosto che lo scenario atomico è il contesto nel quale avvengono le cosiddette azioni politiche (Tesi sull’età atomica, in Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki).

L’agire politico, dunque, per essere dotato di responsabilità e realismo deve tenere conto dell’esistenza delle armi nucleari. Deve ritrovare «il coraggio di aver paura». La paura, infatti, è segno di consapevolezza e ha un valore euristico, cioè di strumento per conoscere la realtà, oltre che di sprone alla mobilitazione.

Ricordare, dunque, lo sganciamento delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non è – non può essere – la celebrazione di un irripetibile evento storico passato, ma rappresenta – deve rappresentare – la presa di coscienza dello stato presente del mondo. Della sua attuale riproducibilità: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima – scrive Anders – è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima».

Se questa possibilità è ormai irreversibile sul piano delle competenze tecnologiche – e appare sempre più vicina -, è tuttavia modificabile attraverso l’acquisizione dei saperi etici che consentano di imboccare l’unica uscita di sicurezza esistente: la cancellazione delle armi nucleari dalla faccia della terra, con la loro definitiva proibizione, e il superamento della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.

Si tratta di colmare ciò che Anders chiama lo «scarto prometeico», ossia la frattura che passa tra l’infinita capacità produttiva di distruzione e la nostra capacità immaginativa delle conseguenze.

In un pianeta nel quale, mentre la crisi sistemica globale moltiplica i conflitti, i governi moltiplicano le armi e le guerre, è necessario declinare il piano etico del dover essere sul piano politico della possibilità di essere ancora: dando un’ulteriore chance all’umanità attraverso precise scelte di disarmo, a partire dall’adesione al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari.

Parliamo del Trattato Onu voluto dall’azione dal basso dei popoli attraverso la campagna Ican, vincitrice del Nobel per la Pace nel 2017. In vigore dal 22 gennaio 2021, esso mette fuori legge le testate atomiche, ma non è stato sottoscritto né dai nove governi dei paesi atomici (Usa, Russia, Cina, India, Pakistan, Gran Bretagna, Francia, Israele, Corea del Nord), né dai governi dei paesi che «ospitano» testate altrui. Come l’Italia che «custodisce» tra le basi militari di Ghedi (Brescia) ed Aviano (Pordenone) diverse decine di testate atomiche statunitensi, facendo così della Pianura Padana il primario obiettivo di un possibile attacco nucleare su territorio europeo. Preparandone «il non essere più», come nella realistica simulazione di Princeton.

Bomba e soluzione finale

Mentre scrivo queste righe, i popoli europei stanno votando per le elezioni del Parlamento di Strasburgo. Questo mi fa tornare in mente le note preparatorie, probabilmente dell’87, per il testo di un intervento mai svolto di Alberto Moravia al Parlamento europeo, dove l’intellettuale italiano era stato eletto nel 1984 (oggi inserito in appendice al suo L’inverno nucleare): «Nei primi anni del dopoguerra, la situazione era questa: la Germania nazista aveva elaborato una teoria (quella della cosiddetta soluzione finale ossia del genocidio totale) che giustificava la bomba come la sola arma che permettesse la strage di massa ma non aveva saputo creare la bomba. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica dal canto loro non avevano alcuna teoria che giustificasse la bomba ma avevano la bomba. Anzi, gli Stati Uniti, nel 1945, avevano costruito e lanciato la bomba […]. Al processo di Norimberga – continua lucidamente Moravia -, la teoria della bomba (cioè della soluzione finale) fu solennemente condannata come una teoria contraria alle leggi della guerra. Ma non ci si accorse che non bastava condannare la teoria ma si doveva mettere fuori legge l’arma nucleare che di quella teoria era l’indispensabile corollario. Questa mancata consapevolezza del segreto e strettissimo rapporto tra bomba e teoria della soluzione finale impedì di rendersi conto che Hitler, lungi dall’essere stato sconfitto, era il vero vincitore della Seconda guerra mondiale».

Saprà l’Europa, questa volta, impedire il dispiegamento della soluzione finale dell’umanità, con la resistenza attiva e nonviolenta contro la Terza guerra mondiale, che, se sarà, sarà nucleare? A ciascuno il compito urgente di fare la sua parte.

Pasquale Pugliese

Nel mondo, in Europa, in Italia

Secondo l’ultimo rapporto Ican (la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari), nel 2023, i nove Stati dotati di armi atomiche hanno speso complessivamente 10,7 miliardi di dollari in più rispetto al 2022 per i loro arsenali nucleari, raggiungendo la cifra di 91,4 miliardi.

Lo scorso 17 giugno il Sipri (l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sul numero di testate nucleari presenti nel mondo. Scrive: «All’inizio del 2024, nove Stati – Usa, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele – possedevano circa 12.121 armi nucleari, di cui 9.585 potenzialmente disponibili a livello operativo. Si stima che circa 3.904 di queste testate siano state schierate con le forze operative, di cui circa 2.100 mantenute in uno stato di alta allerta operativa, circa 100 in più rispetto all’anno precedente».

Riguardo alla presenza di testate nucleari Usa sul territorio italiano, più avanti, nel rapporto si stima che a inizio 2024 ci fossero circa 100 bombe non strategiche schierate in Europa per un potenziale utilizzo da parte di aerei da combattimento statunitensi e alleati. Le bombe, controllate dall’aeronautica americana, sono presenti in sei basi aeree in cinque stati membri della Nato: Kleine Brogel in Belgio; Büchel in Germania; Aviano e Ghedi in Italia; Volkel nei Paesi Bassi; e İncirlik in Turchia.

Luca Lorusso

 




Transizione, miti e realtà


Abbandonare i combustibili fossili è un’impresa complicata e costosissima. Trovare le materie prime sostitutive lo è altrettanto. Con queste premesse, non ci sono dubbi che la transizione «verde» sarà un’impresa.

Prima il carbone, poi il petrolio, dopo il gas, fatto sta che, più o meno, da 250 anni utilizziamo combustibili fossili per produrre energia. Il risultato è che abbiamo emesso così tanta anidride carbonica da avere provocato l’innalzamento medio della temperatura terrestre di oltre un grado centigrado. Con inevitabili ricadute sul clima che ormai ha perso la regolarità di qualche decennio fa come testimoniano lo scongelamento dei ghiacciai, i lunghi periodi di siccità, le piogge torrenziali che devastano agricoltura e territori. Quando ormai il danno è già stato fatto, i centri di potere stanno meditando di fare qualcosa per mettere un freno alla produzione di anidride carbonica. L’obiettivo universalmente dichiarato è il raggiungimento di emissioni nette uguale allo zero per il 2050. Come dire che per quella data la CO2 prodotta dovrà essere ridotta di circa due terzi rispetto a quella prodotta oggi in modo da riportarla nei limiti di capacità di assorbimento del sistema vegetale presente sul pianeta.

La transizione energetica

Per riuscirci bisogna cambiare radicalmente modo di produrre energia e la parola d’ordine a livello planetario è diventata «transizione energetica» che significa un altro modo di produrre energia elettrica, di produrre calore in ambito industriale e domestico, di alimentare i mezzi di trasporto.

In ambito elettrico le nuove strategie sono il solare, l’eolico, l’idroelettrico. Ma c’è anche chi insiste nel rilancio di tecniche azzardate come le centrali nucleari, mentre si stanno conducendo ricerche nel campo della fusione nucleare, che poi significa riproduzione sulla Terra di quanto avviene all’interno del sole. Quanto alla mobilità, la nuova frontiera è rappresentata dai mezzi elettrici alimentati a batteria o celle a idrogeno.

Tra il dire e il fare: chi paga il passaggio?

La transizione energetica (o green) è tanto facile a dirsi, quanto difficile da attuarsi perché si tratta di un’operazione mastodontica con ripercussioni enormi sia sul piano finanziario che ambientale. Ad esempio, rispetto al primo aspetto, quello finanziario, la European round table, l’associazione delle principali multinazionali europee, valuta che, da qui al 2030, solo in Europa servirebbero 700 miliardi di euro per rinnovare e ammodernare il sistema di produzione e trasmissione elettrica. Fino al 2050 il costo previsto a tale scopo è di 2.300 miliardi di euro. E siamo appena all’ambito elettrico. Nel contempo vanno rinnovati anche gli altri comparti energetici: i riscaldamenti interni alle abitazioni, le fornaci interne alle aziende, la propulsione dei mezzi di trasporto che devono passare dai motori a scoppio ai sistemi alimentati da batterie elettriche o da batterie a idrogeno. Il tutto, poi, va esteso a livello mondiale, considerando anche che ci sono continenti, come quello africano, dove centinaia di milioni di persone non godono ancora di alcun tipo di fornitura elettrica.

In conclusione, secondo i calcoli effettuati dalla banca d’investimento britannica Barclays Bank, da qui al 2050 servono fra i 100mila e i 300mila miliardi di dollari, a livello mondiale, per sostituire il parco energetico oggi basato sui combustibili fossili. Come termine di paragone, si tenga conto che 100mila miliardi corrispondono all’intera ricchezza prodotta in un anno a livello mondiale.

I soldi sono un problema e il primo nodo della transizione energetica è: chi deve sobbarcarsi la spesa? La risposta dipende dall’orientamento politico, ma è verosimile che, chi più chi meno, tutti dovranno fare la propria parte: governi, imprese e famiglie, sapendo che ai governi tocca anche l’attività di regolamentazione e di indirizzo. Tutte iniziative che presentano la propria complessità, ma che sono ampiamente superabili se sostenute da un’adeguata volontà politica. Ciò che invece è di difficile soluzione riguarda gli effetti sociali e ambientali che la transizione green è destinata a sollevare.

La transizione complicata: i microchip non sono immateriali. Foto Brian Kostiuk – Unsplash.

Il materiale dell’immateriale

L’affermarsi dell’informatica ci ha fatto credere di essere entrati nell’era dell’immateriale, il tempo in cui si riesce a operare a distanza senza bisogno di alcun mezzo di trasporto né di energia per il loro movimento. Ma si tratta di un’illusione. A questo mondo, d’immateriale non c’è niente, neanche il pensiero, perché, per funzionare, il cervello ha bisogno di nutrimento, ossia di materia. E così pure i nostri congegni elettronici: per funzionare richiedono non solo energia, ma anche materia per dare forma alla tecnologia da cui dipendono. Né tragga in inganno la leggerezza dei microchip, emblema della moderna tecnologia informatica. I microcircuiti all’interno dei nostri computer e dei nostri cellulari sono distillati di processi produttivi che hanno impiegato una quantità di materiale assai più elevato del risultato finale.

Più esattamente per ottenere un microchip di appena due grammi servono 1,5 chilogrammi di combustibili fossili, 0,073 chilogrammi di composti chimici, 31,9 litri d’acqua e 0,7 chilogrammi di gas (in particolare azoto). Come dire che per produrre un microchip ci vuole una quantità di risorse materiali 17mila volte più alta del suo peso finale. Risorse entrate nel ciclo produttivo, ma poi rimosse una volta assolta la propria funzione. E, si noti bene, rimosse, ma non dissolte, bensì gettate in qualche angolo del pianeta sotto forma di rifiuto. Ogni prodotto che usiamo nasconde da qualche parte la zavorra degli scarti di produzione che gli esperti chiamano «zaino ecologico».

I nuovi materiali sono «critici»

I rifiuti nascosti sono solo uno dei problemi che accompagnano i nuovi materiali su cui si basa la transizione energetica. Altrettanto preoccupante è la nuova dipendenza che si sta profilando: il vecchio sistema energetico dipendeva dai combustibili fossili, il nuovo dipende da pochi minerali su cui è già lotta aperta per il loro accaparramento. L’Unione europea ha stilato una lista di 34 minerali strategici ai fini della transizione energetica, di cui alcuni già ampiamente inseriti nella tradizione industriale, altri solo marginalmente. Fra i primi possiamo citare il rame, l’alluminio, il nickel, che nel nuovo corso diventeranno ancora più importanti per il posto occupato nei dispositivi utili alla produzione e alla trasmissione di corrente elettrica. Fra i secondi risaltano il litio, il cobalto, la grafite, ma anche le terre rare, un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, tra cui cerio, lantanio, scandio (vedi MC giugno 2024). Un insieme di materiali che trovano un’ampia applicazione in tutti i settori della tecnologia avanzata e delle energie rinnovabili. Fondamentali per costruire magneti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche, pannelli solari, sono elementi imprescindibili di apparecchiature di medicina avanzata, di computer, smartphone e tecnologia aerospaziale, compresa quella a fini militari.

I nuovi minerali a fini energetici sono intriganti anche per il lessico che li accompagna. Potevano essere presentati come salvifici, sostenibili, verdi o in qualsiasi altra versione positiva. Invece, sono etichettati da tutti come «critici». Valga come esempio l’Unione europea che in tutti i documenti dedicati all’argomento ne parla come «materie prime critiche». Altrettanto negativamente sono rappresentate dalle associazioni a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ma per ragioni opposte: la società civile teme i rischi per la natura e le popolazioni locali; l’Unione europea teme quelli per la supremazia delle sue imprese. Un timore, quest’ultimo, dettato da due fattori: la scarsità dei minerali e la loro concentrazione in pochi paesi.

Per la verità il capitalismo non si è mai preoccupato della disponibilità di risorse. Ha eletto come zona di crescita economica una porzione ridotta di mondo: soltanto questa aveva il diritto di fare razzia per ogni dove. In altre parole, i paesi occidentali si sono sempre arrogati il diritto di perseguire la crescita infinita, certi che i limiti del pianeta non sarebbero mai stati un ostacolo. Ma oggi che molte altre aree geografiche si sono avviate lungo la strada della crescita economica, il vecchio capitalismo occidentale ha cominciato a capire che la crescita infinita non può esistere.

La transizione complicata: la produzione di energia elettrica. Foto Couleur – Pixabay.

Materie prime: chi le ha e chi le sa lavorare

A suonare il campanello d’allarme è perfino l’Ocse, l’ufficio studi dei paesi più ricchi incaricato di elaborare strategie di crescita economica per loro conto. Secondo le sue previsioni, da qui al 2060 la domanda mondiale di materie prime crescerà più del doppio, passando dagli attuali 79 miliardi di tonnellate a 169. Del resto, la pressione sui minerali è già evidente attraverso i prezzi.

Il litio carbonato, solo per citare un esempio, è passato da 20mila dollari a tonnellata nel 2018 a 80mila dollari nel gennaio 2023. Certo, i prezzi hanno sempre un andamento altalenante perché risentono della speculazione finanziaria, ma le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia rispetto alla domanda di minerali a fini energetici non ammettono dubbi. Secondo i suoi calcoli, nel 2040 la domanda di nichel sarà due volte più alta rispetto al 2010, mentre quella di cobalto cinque volte più alta. Quanto al litio, nel 2030 la sua richiesta sarà quattro volte più alta rispetto a oggi. Di conseguenza un quesito si pone con forza: nel futuro ci saranno minerali a sufficienza per tutti? E se non dovessero essercene, chi deciderà chi può averne? Sicuramente un grande decisore sarà il prezzo di vendita, destinato ad aumentare per tutti i minerali: chi potrà comprarli a qualsiasi prezzo sarà il vincitore, gli altri dovranno leccarsi le ferite. A fare da discrimine, insomma, sarà la ricchezza. Ma anche la nazionalità perché saranno avvantaggiati i paesi con riserve nel proprio sottosuolo e con capacità di raffinazione. Una situazione ad oggi molto sbilanciata.

Parlando di estrazione, ad esempio, si scopre che pochi paesi sono produttori di minerali critici. Spicca la Repubblica democratica del Congo per cobalto e tantalio, il Sudafrica per il manganese, la Cina per le terre rare, l’Australia e il Cile per il litio. E se passiamo all’attività di lavorazione e raffinazione delle materie prime, scopriamo che il livello di concenrazione è ancora più marcato.

Da questo punto di vista il primato spetta alla Cina rispetto a una grande quantità di metalli. La sua quota di raffinazione si aggira intorno al 35% per il nichel, al 50% per l’alluminio, al 60% per litio e cobalto, addirittura al 100% per le terre rare pesanti. Uno scenario che spaventa in particolare l’Unione europea, che fra tutte le potenze economiche è quella più sguarnita di minerali e di imprese siderurgiche.

Dalla globalizzazione all’autarchia

Ormai il tempo della globalizzazione, del consideriamoci tutti amici e lasciamo che il mondo sia un unico grande mercato dove ognuno va a comprare dove è più conveniente, è passato. Le imprese non fanno soldi solo per sé, ma sono anche garanzia di introiti per le casse statali e fonte di stabilità occupazionale. Di conseguenza, la politica ha scoperto che troppa globalizzazione fa male agli interessi interni e ha cominciato a tirare il freno. Anche su richiesta di tutte quelle imprese nazionali che dalla globalizzazione ci stavano rimettendo, tutte le grandi potenze economiche stanno virando verso un maggior senso di casa per ridurre la dipendenza dall’estero rispetto alle risorse strategiche. Hanno iniziato gli Stati Uniti ed è seguita a ruota l’Unione europea che, nel marzo 2023, ha varato un regolamento per rilanciare l’apertura di miniere dismesse e siti industriali utili a produrre metalli strategici per la transizione energetica. L’obiettivo dichiarato è che per il 2030 si estragga internamente almeno il 10% dei minerali strategici e si lavori nei paesi europei il 40% dei minerali utilizzati. È anche previsto che il 25% provenga da materie prime riciclate. In ogni caso, il regolamento più che obblighi per i governi, prevede facilitazioni finanziarie e normative per favorire il nuovo corso autarchico. Che, però, non tutti vedono con favore perché l’estrazione si accompagna spesso a processi di alterazione ambientale che inquinano il territorio, compromettono le falde acquifere, pongono a rischio la salute degli abitanti. Di questo tema, però, ci occuperemo nel prossimo articolo.

 Francesco Gesualdi

 




Turismo: si è imparato poco dalla pandemia


Quest’anno segnerà probabilmente il ritorno dei flussi turistici ai volumi precedenti la pandemia. Le speranze che la pausa forzata potesse contribuire a un ripensamento del turismo e alla correzione di alcuni errori sembrano essere in gran parte deluse.

Gli introiti del turismo in Uganda sono cresciuti nel 2023 di quasi il 50%, superando il miliardo di dollari per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid-19. Lo riportava lo scorso marzo il sito di news Semafor@, aggiungendo che il settore dà lavoro a più di 600mila persone nel Paese ed è uno dei maggiori motori dell’economia. Sempre Semafor ad aprile riportava il dato, riferito da W. hospitality group, una società di consulenze con sede a Lagos, Nigeria, secondo il quale le catene alberghiere internazionali avevano in progetto di costruire 524 hotel con oltre 92mila camere in 41 Paesi africani. Due su tre di questi hotel erano progetti delle cinque maggiori catene del mondo: le multinazionali statunitensi Marriott, Hilton, Radisson, la francese Accor e la britannica Ihg Hotels@.

Ritorno ai livelli pre-pandemia

Questi dati di espansione del settore in Africa trovano conferma nelle statistiche ufficiali, in particolare nel Un turism barometer dell’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite che esce quattro volte l’anno@. Secondo Unwto, il turismo internazionale ha raggiunto il 97% dei livelli precedenti la pandemia da Covid-19 nel primo trimestre 2024; si prevede che eguaglierà e forse supererà quei livelli nel corso di quest’anno.

Il dato si riferisce agli arrivi internazionali, cioè alle visite da parte di viaggiatori che passano almeno una notte in un Paese diverso da quello di residenza, ed è una media fra i dati di tutti i Paesi del mondo.

Il Medio Oriente, segnala lo stesso Un turism barometer, ha registrato nel primo trimestre del 2024 la crescita relativa più sostenuta, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2019 (dato che probabilmente non riguarda però Israele, Libano e Palestina, ndr), mentre Africa ed Europa hanno già superato il livello pre pandemia del 5% e dell’1%. Per il resto dell’anno in corso, la previsione a maggio era di un possibile crescita del 2% rispetto ai livelli del 2019, trainata dallo sblocco della domanda accumulata a causa delle passate restrizioni e non ancora soddisfatta, dall’aumento dei collegamenti aerei e da una più forte ripresa delle destinazioni asiatiche, nonostante l’aumento globale dei costi.

Nel 2023, a livello generale, il recupero rispetto all’epoca pre Covid era già stato dell’88%, con poco meno di 1.286 milioni di arrivi internazionali a fronte dei 1.464 del 2019. In termini economici, invece, i dati preliminari indicavano che la meta era già raggiunta l’anno scorso: il prodotto interno lordo diretto del turismo, quello cioè legato alle industrie direttamente in contatto con i visitatori, era infatti stimato a 3.300 miliardi di dollari, cioè il 3% del Pil mondiale: lo stesso del 2019.

L’Unwto a fine giugno non aveva dati più recenti del 2022 circa il numero di lavoratori, ma World travel & tourism council (Wttc), forum degli operatori privati del settore turistico a livello mondiale, quantificava ad aprile in 348 milioni i posti di lavoro legati al settore del turismo e dei viaggi, con un incremento di quasi 14 milioni rispetto al 2019@.

La ripresa del settore turistico è dunque ormai nei fatti. Meno chiari, invece, sono i progressi verso il rispetto dei principi proposti ad esempio dal Global sustainable tourism council (Gstc) nel 2021@ con l’intento di approfittare della battuta d’arresto della pandemia per correggere alcune storture del settore.

AfMC / Adriano Coletto

Turismo e clima

A violare almeno la metà di questi principi è, ad esempio, il cosiddetto last chance tourism, il turismo dell’ultima possibilità. Su Futura network, il sito di dibattito promosso dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS), Flavio Natale commentava qualche mese fa un articolo del New York Times che descriveva questo fenomeno come un tipo di turismo nel quale i viaggiatori pagano cifre spesso molto alte per vedere luoghi che presto potrebbero non esistere più a causa dei cambiamenti climatici: ghiacciai, isole, barriere coralline. Un esempio di questi luoghi è la Mer de glace, cioè il ghiacciaio del Monte Bianco: un turista intervistato dal New York Times racconta che alla sua prima visita, 40 anni fa, il ghiacciaio arrivava appena sotto la piattaforma panoramica, mentre oggi è circa 240 metri più in basso. Natale cita anche un articolo del Guardian su Pond Inlet, un villaggio a maggioranza etnica Inuit nell’Artico canadese dove le principali attività di sussistenza sono la pesca e la caccia di mammiferi marini. A Pond Inlet i turisti vanno a osservare un paesaggio e una fauna in rapido cambiamento: l’Artico, infatti, sta scaldandosi quattro volte più velocemente della media globale, gli orsi polari stanno spostandosi e si prevede che nel 2050 il territorio sarà completamente privo di ghiaccio durante l’estate. Il paradosso di questo turismo è che se da un lato può contribuire ad aumentare la sensibilità delle persone rispetto ai cambiamenti climatici, dall’altro però rischia di accelerare i processi che stanno portando alla scomparsa di quegli stessi ecosistemi. A Pond Inlet il dibattito oppone chi ricava un reddito dalle attività di accoglienza a chi pensa che le navi di turisti spaventino la fauna marina, rendendo più difficile la caccia e aumentando così la dipendenza dell’economia locale dal turismo@.

Il settore del turismo e dei viaggi rappresentavano, in uno studio del Wttc pubblicato a fine 2023 su dati degli anni precedenti, una quota di emissioni di gas serra pari all’8,1% del totale globale nel 2019, diminuita poi a 4,2% nel 2020 e a 4,6 nel 2021. Oggi, con il ritorno degli arrivi internazionali ai livelli pre pandemici, è verosimile che la quota sia di nuovo vicina dal dato del 2019@.

AfMC / Sergio Parmentola

L’impatto su piante e animali

L’industria del turismo non solo emette gas serra, ma sacrifica i migliori alleati che abbiamo per ora a disposizione per catturare l’anidride carbonica: gli alberi. Semafor riferiva a marzo 2024@ che 7,3 milioni di alberi erano stati tagliati in Messico fra il 2019 e il 2023 per realizzare il Tren Maya, la ferrovia turistica e commerciale di 1.525 chilometri che connette Palenque a Cancún e di cui MC ha parlato a novembre 2023@.

Uno dei danni del treno, segnalava Semafor citando il sito messicano Animal Politico, è che il suo passaggio modificherà il sistema di cenotes (grotte) e canali sotterranei, sacri al popolo Maya e necessari per l’approvvigionamento idrico delle comunità dello Yucatán.

Come le piante, anche gli animali subiscono gli effetti del turismo: in Uganda, riportava la rivista Nature a febbraio scorso@, il 59% degli scimpanzé morti negli ultimi 35 anni nel parco nazionale di Kibale sono stati uccisi da agenti patogeni come il metapneumovirus umano, che si manifesta negli esseri umani con sintomi simili al raffreddore ma è spesso letale per gli scimpanzé.

Va meglio agli squali balena, la più grande specie di pesci esistente: ogni anno ci sono 25 milioni di persone in 23 Paesi del mondo che vogliono nuotare con loro. Questo alimenta un giro d’affari da 1,9 miliardi di dollari, ma fa anche crescere i timori riguardo all’impatto negativo che questa esposizione agli umani può avere sugli squali. Fortunatamente, un recente studio pubblicato sul Journal of sustainable tourism realizzato a Ningaloo Reef, nell’Australia occidentale, ha monitorato i movimenti dei pesci dopo aver applicato loro dispositivi biometrici e ha mostrato che gli impatti sono minimi. Lo studio conclude che il turismo legato alla fauna selvatica, se ben gestito – evitando di attirare gli squali con del cibo e di esporli per lungo tempo a grandi quantità di turisti – può essere sostenibile sia per le persone che per gli animali@.

Il turismo che divora

A non essere sostenibile è, invece, la situazione del lago di Como, come raccontava il giornalista Luigi Mastrodonato la scorsa primavera in un articolo@ e in un podcast@ di Internazionale dal titolo «Il turismo ha divorato il lago di Como».

Quello del lago è un ecosistema che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha definito fragile ed esposto a un alto rischio idrogeologico. Si tratta di un territorio selvaggio e impervio, sconosciuto al turismo di massa fino all’inizio degli anni Duemila, quando l’attore statunitense George Clooney ha comprato casa nella zona. Da quel momento, il territorio si è trasformato in una meta di lusso, con la ristrutturazione di ville d’epoca e la costruzione di nuove case per i personaggi famosi e di grandi strutture di accoglienza per ospitare turisti da tutto il mondo: nel 2023 il lago ha sfiorato i 5 milioni di pernottamenti.

Tutto questo ha sottoposto il territorio a stress, perché la cementificazione ha peggiorato la tenuta del terreno facendo aumentare le già frequenti frane. Inoltre, molti abitanti sono stati costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli immobili e per via dello stesso fenomeno che è all’opera da oltre un decennio in tante città del mondo, cioè quello degli affitti brevi per turisti, che i proprietari degli immobili preferiscono ai meno redditizi affitti a lungo termine per persone intenzionate a vivere in modo stabile nel luogo.

A sua volta, lo spopolamento ha fatto diminuire gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza del lago e delle montagne che lo circondano, creando ulteriori difficoltà quando le piogge, rese meno frequenti ma torrenziali dal cambiamento climatico, si abbattono con violenza su un territorio ormai provato.

Il lago di Como è già saturo, spiega Mastrodonato riportando le parole del sociologo Agop Manoukian, come una bottiglia piena che ci si ostini a voler riempire ancora. Eppure, le amministrazioni locali valutano tuttora progetti per la costruzione di un ulteriore complesso da 29mila metri quadrati con hotel, spa, darsene private, e per la creazione di una stazione sciistica a mille metri con neve artificiale sul vicino monte San Primo, così da estendere la stagione turistica anche all’inverno.

AfMC / Ennio Massignan

Convivenza difficile

La convivenza con le attrazioni turistiche è complicata anche altrove: in Tanzania, che deve all’industria del turismo il 5,7% del suo Pil, pari a 2,6 miliardi di dollari, una parte significativa delle attività riguarda i parchi nazionali e la fauna selvatica. Dal 2022 una legge stabilisce compensazioni economiche e materiali per le persone danneggiate da episodi di conflitto tra fauna selvatica e comunità umane. Ma, sosteneva ad agosto dell’anno scorso Laura Hood sul sito The Conversation@, questo conflitto e i suoi effetti sono gestiti in modo inadeguato e il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, come risulta dalle interviste fatte con alcuni abitanti dei villaggi di Kiduhi e Mbamba, al confine con il Parco nazionale Mikumi, il quarto più grande della Tanzania.

Anche i Maasai che vivono intorno al Serengeti, il parco nazionale più noto del Tanzania@ dove adiacente al cratere di Ngorongoro, sono da anni in lotta per mantenere i loro territori che hanno attirato l’attenzione dell’industria turistica internazionale sotto il paravento dell’ecologia e della conservazione.

Lo scorso aprile Stephanie McCrummen, giornalista vincitrice del premio Pulitzer nel 2018, ha raccontato ai microfoni dell’emittente radiofonica Usa Npr, che la presidente del Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha un approccio molto aggressivo nello sviluppo turistico e prevede il trasferimento forzato di circa centomila Maasai dall’area protetta di Ngorongoro ad altre parti del Paese e la creazione di una riserva di caccia di 600 miglia quadrate a uso esclusivo della famiglia reale di Dubai@.

AfMC / Ennio Massignan

Turismo e pace

Il tema della giornata mondiale del turismo, che cade il 27 settembre, quest’anno sarà «Turismo e pace» e a ospitare le celebrazioni sarà Tblisi, capitale della Georgia. Il turismo, si legge nella presentazione della giornata mondiale sul sito del Unwto, può svolgere un ruolo vitale come catalizzatore per promuovere la pace e la comprensione tra nazioni e culture e nel sostenere i processi di riconciliazione. Viceversa, che la guerra arrechi grosse perdite al settore turistico lo ha sottolineato a febbraio scorso l’Unesco in uno studio, che ha quantificato in 19,6 miliardi di dollari i mancati ricavi e in 3,5 miliardi i danni causati dalla guerra alle risorse culturali e turistiche di un Paese come l’Ucraina@.

Anche la guerra a Gaza, riportava già a dicembre Agence France presse, ha determinato un crollo dei flussi turistici verso Israele e una forte riduzione anche nei Paesi limitrofi, come la Giordania e l’Egitto@.

Chiara Giovetti

 




Giuseppe Allamano santo


La vostra santità deve essere speciale, anche eroica e,
all’occasione, straordinaria da fare miracoli.
Ci vuole santità, grande santità.
(Giuseppe Allamano)

È arrivato il giorno tanto atteso, che i nostri cuori aspettavano da tempo: Giuseppe Allamano sarà canonizzato da papa Francesco. L’iter per il riconoscimento del miracolo in favore di Sorino Yanomami si è concluso e ora attendiamo solo la celebrazione di questo evento così luminoso per la nostra famiglia Consolata, il prossimo 20 ottobre, Giornata missionaria mondiale!

Il Bollettino della Santa Sede del 23 maggio scorso annunciava che: «Durante l’udienza

concessa a sua eminenza reverendissima il signor cardinale Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle cause dei santi, il Sommo Pontefice ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare i decreti riguardanti il miracolo attribuito all’intercessione del beato Giuseppe Allamano, sacerdote fondatore dell’Istituto delle missioni della Consolata; nato a Castelnuovo Don Bosco (Italia) il 21 gennaio 1851 e morto a Torino (Italia) il 16 febbraio 1926».

Il beato Giuseppe Allamano, nostro padre fondatore, colui che ci ha dato lo spirito consolatino, è sempre stato una luce per noi. Al termine della vita scrisse con sicurezza: «Mi consola che cercai sempre di fare la volontà di Dio» (Lettera ai missionari e missionarie, 1° ottobre 1923); ecco il suo cammino di santità!

E a noi, suoi figli e figlie, indica che il primo fine dei nostri Istituti è la santificazione dei suoi membri, santità che illumina anche il cammino della vita laicale. Il padre fondatore sempre insisteva: «Prima santi e poi missionari».

Ora che anche la Chiesa lo riconosce proclamandolo santo, questa luce si diffonde in tutti i luoghi, e diventa sempre più un faro per noi, sulle strade della missione.

Ringraziamo il Signore per questo dono fatto a noi e alla Chiesa. Questo tempo benedetto sia un’occasione per sentirlo sempre più «padre» e godere della sua presenza viva in mezzo a noi.

suor Lucia Bortolomasi, Mc, Superiora generale
padre James Bhola Lengarin, Imc, Superiore generale

Partecipnati alla Conferenza di Muranga: prima fila da sinistra: Vignoli, Barlassina, Scarzello, Gays. G.Perlo, Borda Bossana, Bertagna, Giacosa, Cagliero


 Murang’a 2 – prima parte

Dall’uno al tre marzo 1904, a soli due anni dal loro arrivo in Kenya, i primi missionari della Consolata si riunirono nella missione di Murang’a per discutere del loro lavoro di evangelizzazione. I missionari e le missionarie della Consolata hanno celebrato quell’episodio con un evento intitolato: Murang’a 2. Monsignor Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo di Ilheùs, in Brasile, storico di formazione, ha spiegato le premesse che hanno determinato quell’incontro dei missionari e gli effetti che ha generato nella pratica della loro azione evangelizzatrice.

Giuseppe Allamano disse che quando era in seminario gli era sorta la vocazione missionaria, ma i problemi di salute glielo impedirono e fu sconsigliato dal padre spirituale, per cui ha voluto la fondazione dell’Istituto come il suo modo di realizzare la missione. Non potendolo fare direttamente lo ha fatto indirettamente dando ai sacerdoti del clero piemontese, che desideravano andare in missione, la possibilità di partire. Il fondatore, quindi, si è messo in un piano secondario rispetto alla missione; lui aiutava ma i veri protagonisti della missione erano coloro che sarebbero partiti e che l’avrebbero realizzata.

L’Allamano, inoltre, osservava che il clero della diocesi era numeroso e che molti giovani sacerdoti avrebbero potuto fare un servizio alla missione. Da questa constatazione si capisce che egli pensava di fondare un istituto a servizio del suo clero.

L’esplorazione del territorio

L’8 maggio 1902 avvenne la partenza dei primi quattro missionari: padre Tommaso Gays (28), padre Filippo Perlo (26), fratel Luigi Falda (21), fratel Celeste Lusso (18).

Padre Filippo Perlo cominciò una perlustrazione sistematica del territorio per vedere tutte le località dove si sarebbe potuta aprire una stazione missionaria con questo criterio: presenza della ferrovia, distanza dalla stazione principale di Limuru, nella regione del Kikuyu alle falde del monte Kenya, a non più di una giornata di cammino una dall’altra. L’intento era di occupare la zona.

La grandezza di padre Perlo è stata di aver inventato una metodologia missionaria.

Il numero elevato di stazioni e le edificazioni necessarie richiedevano un gruppo consistente di personale e grandi capitali. Ciò che Perlo non aveva. Allora fece sì che fossero i missionari ad andare verso la gente. La cosa più importante non era la struttura della missione ma il contatto con la popolazione locale. Le sue missioni erano baracche di fango e terra battuta, piccolissime, sufficienti per poter dormire una notte. Quelli che dovevano essere grandi erano i magazzini per stipare il materiale proveniente dall’Italia.

Alla fine del 1902 le missioni erano: Limuru (procura), Tuthu (2), Murang’a, Tetu (che diventerà la missione di Nyeri). Non più una sola missione importante, ma piccole missioni. Alla fine del 1903 si potevano contare sette stazioni di missione (l’ultima: Gekondi), una segheria (Tuthu), una fattoria (Tetu-Nyeri) e un collegio dei catechisti (Limuru).

A febbraio del 1904 arrivò il quarto gruppo di missionari dall’Italia, quello che portava anche padre Barlassina (tre padri, due fratelli coadiutori e 12 suore). Tale sistemazione aveva richiesto un ingente sforzo di lavoro materiale, che costituiva un contributo solo indiretto all’evangelizzazione mediante contatti saltuari e occasionali con la popolazione.

L’inizio del 1904 segnò una pausa relativa nell’opera di costruzione. In questo clima maturò l’idea di un incontro di tutti i sacerdoti per un corso di esercizi spirituali e una serie di conferenze in cui tracciare le linee orientative comuni di una metodologia missionaria.

Lavorare era sì essenziale, ma bisognava farlo insieme per salvaguardare l’unità di prospettive e azione che l’Allamano desiderava. Il fondatore, ancor prima della realizzazione delle conferenze, considerò questa iniziativa «ottima cosa e necessaria d’ora in poi ogni anno e, secondo la possibilità, anche più frequente».

Le conferenze di Murang’a

Tutti i missionari della Consolata, sacerdoti e fratelli, si incontrarono a Murang’a dal 1 al 3 marzo del 1904: il mattino era dedicato alla meditazione e preghiera, il pomeriggio alle conferenze.

L’esperienza fu valutata positivamente dai missionari in quanto poterono rinsaldare i legami di fraternità, ricaricarsi spiritualmente e ricevere orientamenti pratici.

Le conclusioni furono inviate a Torino e, in attesa dell’approvazione dell’Allamano, una copia venne inviata a tutte le stazioni di missione.

Il 6 maggio ricevettero l’approvazione dell’Allamano: «Approvo tutte le conclusioni senza eccezione, e desidero che si eseguiscano in ogni loro parte».

Quanto in esse veniva proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto tra la missione vissuta, i principi appresi in Italia e i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di «principianti» del Kikuyu sviluppò un proprio metodo di evangelizzazione. Essi avvertirono che la via della conversione dei Kikuyu era assai più lunga di quanto potesse apparire in Italia e compresero che i buoni rapporti con gli indigeni e le autorità locali erano solo la premessa di un lavoro a lunga scadenza.

monsignor Giovanni Crippa
(Vedi dossier su MC 10/2022)

Partecipanti alal Conferenza di Muranga, Kenya (1-3 marzo 1904). Fotografo P Filippo Perlo




Il futuro ci guarda


Le serie Tv di buona qualità sono interessanti. Si prendono il tempo per dipanare le storie senza tagli. I personaggi sono approfonditi, le descrizioni accurate e le atmosfere complesse. Ne suggeriamo otto. Tra cui alcune di fantascienza per riflettere su dove andiamo.

Sapete che differenza c’è tra un film e una serie? Siete a casa, la sera, sul vostro divano, gli occhi già a mezz’asta, desiderosi di godervi un paio d’ore di relax. Vi hanno consigliato un film. Lo cercate sulle quattro piattaforme cui siete abbonati (ricordate quando la gente faceva i salti mortali per non pagare il canone Rai? Adesso si paga il triplo per le piattaforme private), lo trovate, ma dopo 10 minuti vi rendete conto che: 1. è lento e vi cala ancora di più la palpebra; 2. non vi interessa il tema; 3. è fatto male; 4. ha troppa violenza / è troppo volgare / troppo per adolescenti / troppo per boomer.

Quindi? Quindi vi armate di santa pazienza (nonostante siate stanchi per la giornata di lavoro e il vostro obiettivo fosse quello di rilassarvi, non di fare ricerche affannose) e cercate un altro film. Spesso non va meglio, e la ricerca riprende.

Le serie Tv, invece, hanno il grande vantaggio di dare sicurezza: quando ne iniziate una, sapete che per dieci, venti, cento serate, siete a posto.

Scherzi a parte, le serie hanno una caratteristica che le rende davvero interessanti: si prendono il tempo per dipanare le storie senza sincopi, senza tagli. I personaggi sono più approfonditi, le atmosfere più complesse e le descrizioni più accurate.

Certo, questo se sono di buona qualità, intelligenti, significative. Anche in questo caso la selezione è fondamentale.

Ve ne propongo alcune che giudico addirittura formative: come vedrete, certe serie sono distopiche, cioè di fantascienza: le suggerisco perché sono un bel modo per parlare di noi, mostrandoci dove potremmo andare a finire proseguendo con la nostra affannosa (e spesso ridicola) ricerca di «progresso».

Hijack

Comincio con una serie non distopica, anzi con un bellissimo racconto di soluzione nonviolenta dei conflitti.

Su un aereo, un mediatore si ritrova nel bel mezzo di un dirottamento. Farà di tutto per far arrivare l’aereo a destinazione salvando duecento persone. Anche sopportare di non essere capito e talvolta creduto dall’equipaggio e dagli altri passeggeri che non hanno chiaro il suo ruolo. Proprio come succede a tanti veri mediatori.

Sette episodi, una trama di quelle che spingerebbero i giovani a guardarle tutte in una notte intera, desiderosi di sapere come andrà a finire.

Chernobyl

In questa, di distopica c’è solo l’incredulità: davvero la sciagura è stata causata da una «prova di incidente»? Davvero hanno fatto di tutto per mettere a tacere la tragedia? Ancora adesso non si sa il numero esatto delle persone che sono morte sacrificandosi per andare a spegnere il reattore con mezzi inadeguati.

Cinque puntate – ve lo anticipo, pesantissime – che si concludono con un processo che è un capolavoro di sceneggiatura e di scrittura dei dialoghi.

Sugar

Un poliziesco scanzonato, ma che nel corso delle poche puntate si fa più serio, e pone anche un dilemma non banale: qual è il coinvolgimento giusto da avere nelle vicende altrui? Chi siamo veramente noi, e chi sono gli altri? Non posso dirvi di più perché non voglio anticipare un importante colpo di scena. Ma l’attore, Colin Farrell, è bravissimo e la trama è sottotraccia. Quella principale quasi non ha importanza: se volete cimentarvi nel capire in anticipo dove andrà a finire questo racconto, dovrete fare molta attenzione a certe frasi.

The signal

Bellissima serie con un finale ironico e provocatorio. Una stazione orbitante internazionale rileva un segnale proveniente dallo spazio. Inizia una battaglia tra scienziati: dirlo o non dirlo? Che conseguenze avrà la consapevolezza che una civiltà aliena sta cercando di comunicare con noi? Ovviamente, al trapelare della notizia, le reazioni sono fortemente contrastanti: dall’esercito che pensa subito a combattere alle comunità spontanee che preparano l’accoglienza. E il finale vi farà riflettere per giorni, promesso.

Humans

Entriamo nella distopia più classica. Ventiquattro episodi, tre stagioni (ma voi non dovrete aspettare, è già uscita tutta).

In un futuro prossimo la collaboratrice domestica sarà una cyber cameriera in «finta pelle e ossa». Gentile, educata, onnipresente, diventa cuoca e babysitter, segretaria e, all’occorrenza, amante.

Ma i robot cominciano a parlarsi. E a ribellarsi, pretendendo che i loro diritti vengano rispettati.

La rivolta è nell’aria, anche perché gli umani si dimostrano decisamente poco comprensivi.

Finale da piangere (se fate il tifo per loro, ovvio: se invece anche voi non vedete l’ora di avere un replicante che lavori per voi…).

Westworld

Serie quasi gemella di Humans. Qui i replicanti sono usati come attori di un parco giochi tematico, un Far West dove gli umani possono letteralmente fare di tutto con i «sintetici». E anche qui la ribellione è nell’aria.

Grande prova attoriale di Ed Harris e Anthony Hopkins. Grandissime scenografie. E interessanti riflessioni sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però consiglio solo la prima stagione: nella seconda le cose si complicano inutilmente lasciando spazio allo spettacolo e togliendone alle riflessioni filosofiche.

Scissione

La più intellettuale, la più importante. Un’azienda propone ai suoi dipendenti di creare una scissione tra i ricordi che si hanno dentro e fuori l’azienda. Così i segreti non trapeleranno. Ma la cosa viene proposta come un benefit perché «non ci si porterà più il lavoro a casa».

Gli effetti sono dirompenti, e ci interpellano direttamente su cosa voglia dire agire nella società senza consapevolezza. Una sola stagione, nove puntate e, vi assicuro, bastano e avanzano.

Sweet tooth

Finiamo con una serie, almeno all’inizio, tenera. Racconta in due stagioni e 16 episodi (ma sta arrivando la terza) di un mondo in cui la popolazione umana è decimata da un virus. A causa del virus (ma non è sicuro) e delle devastazioni ambientali causate dagli umani, cominciano a nascere degli esseri ibridi, metà umani e metà animali.

A parte la bellezza delle bambine-orso e dei bimbi-cervo, ben presto questi esseri vengono perseguitati. Il resto lo lascio alle vostre prossime, lunghe serate.

Dario Cambiano