Si è concluso il 25 marzo 2024, con la premiazione il concorso dal titolo «Siamo tutti fratel Argese – la cura del creato» organizzato dalla onlus Nostra Africa, dagli amici dei Missionari della Consolata e con il patrocinio del comune di Martina Franca. Vi hanno partecipato le scuole di ogni ordine e grado del territorio cittadino. Il concorso è giunto aIla terza edizione.
Fratel Giuseppe Argese (1932-2018), nativo di Martina Franca e missionario della Consolata, è una celebrità in città dove è iscritto tra le persone «patriae decor» (cioè decoro della patria) sulla lapide all’entrata del palazzo ducale sede del municipio.
Ogni anno, dalla sua morte, l’onlus Nostra Africa in collaborazione con i Missionari della Consolata ne mantiene viva la memoria. Particolarmente attivo è padre Pio Callegari, che per diversi anni è stato nella stessa missione con fratel Argese ed è quindi la persona più adatta a divulgare l’opera meravigliosa di Mukiri (il silenzioso, come lo chiamavano i suoi amici africani) sia a Martina Franca che in diverse parrocchie di Taranto. Fin da subito fu presa in considerazione l’idea di una attività regolare per far conoscere, specie ai giovani a Martina, l’ideale e l’opera di fratel Argese, sia per il suo grande amore per gli africani che per il profondo rispetto e cura che aveva dell’ambiente, del creato (che si rispecchiava anche nella ricchezza e varietà del suo orto – vedi foto -, curato come un giardino, ndr).
È nata così l’idea di un concorso tra le varie scuole di Martina.
Queste le tematiche affrontate negli ultimi tre anni scolastici.
2021- 2022: «Siamo tutti fratel Argese: l’acqua».
2022 – 2023: «Siamo tutti fratel Argese: la siccità».
2023 – 2024: «Siamo tutti fratel Argese: la cura del creato».
Ogni anno padre Pio, visita le scuole della città per presentare agli studenti di vario ordine la persona, gli ideali e il lavoro di Mukiri. La Nostra Africa, con il patrocinio del comune e associazioni/privati, ha finanziato tre premi di 1.000 € ciascuno.
Ecco i premiati di quest’anno (nelle foto qui di fianco):
1 C – Amedeo di Savoia
Perché gli elaborati grafici e multimediali degli alunni rappresentano coerentemente le problematiche ambientali e sociali del tema del concorso. Dai lavori emerge la consapevolezza delle sfide ambientali e sociali della società in cui viviamo e del suo futuro, l’individuazione del proprio ruolo di cittadinanza attiva per una nuova vivibilità della terra e della società.
1 C – Giovanni XXIII
Perché gli alunni, attraverso un e-book, lavori di animazione e un testo poetico hanno espresso con racconti fantastici, descrizione di esperienze e simulazioni, una conoscenza dei temi dell’ambiente originale e creativa auspicando la salvaguardia e la bellezza del creato.
Istituto Maria Ausiliatrice – scuola primaria S. Teresa
Perché gli alunni hanno evidenziato nei lavori grafici e multimediali con consapevolezza l’importanza delle risorse naturali della terra ponendosi positivamente per un impegno responsabile e diretto nella cura dell’ambiente e delle sue specie viventi.
I premi verranno spesi per migliorie dell’ambiente scolastico.
La manifestazione è stata definita «interessante e lodevole» dal pubblico che ha letteralmente gremito la sala consigliare. La vicesindaca e gli assessori presenti si sono compiaciuti con gli ideatori e organizzatori del concorso per aver scelto una tematica attualissima che ha consentito a oltre trecento ragazzi e ai loro docenti di riflettere sull’attuale condizione del pianeta terra.
Margherita Martucci Martina Franca, 13/05/2024
Giubileo di 75 anni
«La vergine mi inspira a fondare l’Istituto dei fratelli». Così affermava mons. Attilio Beltramino, missionario della Consolata, fondatore dell’Istituto dei Servi Cordis Immaculati Mariae (Scim). È un istituto di diritto diocesano, fondato dal primo vescovo della diocesi di Iringa in Tanzania nel lontano 31 maggio 1949.
Da allora sono passati esattamente 75 anni. È giubileo!
L’8 giugno 2024, festa del Sacro Cuore di Maria, si sono svolte le celebrazioni a Tosamaganga, dove sorge la casa madre dell’istituto. Quel giorno ha visto numerosissime persone, da diverse parti del Tanzania, radunarsi per ringraziare il Signore per le cose grandi che ha operato in questi 75 anni. Erano presenti il presidente della Conferenza episcopale del Tanzania mons. Gervas Nyaisonga, il nunzio apostolico mons. Angelo Accattino, l’arcivescovo di Songea mons. Damian Dallu, il vescovo di Iringa mons. Tarcisius Ngalalekumtwa, il vescovo di Mpanda mons Eusebius Nzigilwa e i nuovi vescovi di Njombe e Mafinga, Monsignori Kyando e Mwagalla (foto qui sotto).
«Il giubileo è un momento di grazia, ma anche un momento per chiedere perdono per non essere stati coerenti alla propria vocazione religiosa e alla vita cristiana. È soprattutto un momento per rinnovarsi, in modo tale che, celebrando il prossimo giubileo del centenario, possiamo essere cresciuti in numero e qualità», ha sottolineato il superiore generale dell’istituto fratello Christopher Chavala.
Mons. Nyaisonga nella sua omelia ha sottolineato l’importanza di avere Maria come modello, lei che ha avuto un cuore immacolato. «Colpisce, ha detto, notare che il fondatore ha voluto che i fratelli rispecchino Maria, cioè abbiano un cuore immacolato. Solo chi ha un cuore pulito, immacolato, può servire efficacemente la Chiesa e l’umanità».
Nell’occasione si è celebrato pure il cinquantesimo della vita religiosa del fratello Gaspar Chongolo.
L’istituto ha il carisma di servire l’umanità in modo olistico, cioè il corpo e l’anima in modo profondo e costante nella catechesi, formazione, educazione, edilizia, e sanità.
In questi 75 anni l’istituto ha contato 143 membri. Al momento presente ci sono 98 fratelli con voti perpetui, 45 professi, 12 novizi e 5 postulanti e 25 aspiranti. Svolgono il loro apostolato nelle diocesi di Iringa, Mbeya, Sumbawanga, Mpanda, Mwanza, Geita, Moshi, Mbulu e Dar es Salaam. Il beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato prossimamente, in questa occasione avrebbe detto: «Carissimi fratelli Scim, il Signore vi benedica e dia coraggio, e avanti in Domino». Il bello deve ancora venire.
Baba Godfrey Msumange 13/06/2024 – Mafinga
Matteo, ciao
«Nessuno è ancora riuscito a spiegarmi come mai, durante la stagione dell’harmattan (un vento molto forte e polveroso, ndr), quando ti trovi polvere rossa anche fra i denti, i mucchi di cotone nei campi rimangono bianchi immacolati».
È questa frase la prima cosa che mi viene in mente quando penso a padre Matteo Pettinari.
Questa, e l’immagine di un cartone di uova appoggiato sulle gambe, sue e mie, mentre eravamo seduti nel doppio sedile per il passeggero tipico di molti 4×4, con padre Ramón Lázaro Esnaola (nella foto sotto) alla nostra sinistra che guidava da Dianra a Dianra Village, dove stavamo andando per visitare il centro di salute che Matteo accompagnava.
Era mattina presto, saranno state le sei. Il cartone di uova serviva per il programma nutrizionale del centro e io tentavo di proteggerlo dai sobbalzi del 4×4 tenendolo fermo con le mani. Matteo lo bloccava invece con i gomiti, perché con le mani reggeva un tablet, dal quale leggeva le lodi mattutine: «Abbiamo giusto quaranta minuti di strada», aveva detto poco prima con un gran sorriso, quasi a infondermi un po’ di forza dopo aver constatato la mia aria non proprio vispa per via della levataccia, «è perfetto per iniziare con una preghiera questa bella giornata di sole».
Ho conosciuto Matteo lavorando all’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus, mi piace pensare che siamo cresciuti professionalmente insieme nel corso di oltre un decennio. Il rapporto di stima e di simpatia si era creato all’inizio via mail e via whatsapp, ma poi nel 2017 sono andata in Costa d’Avorio e lì ho avuto la possibilità di passare più tempo con lui visitando la missione, il dispensario e le sue casette della salute, la chiesa allora non ancora completata e la piccola ma vivace comunità di Sononzo.
Da quel momento, dopo averlo visto al lavoro e dopo le lunghe chiacchierate sulla Costa d’Avorio, sulla missione, sulla cooperazione, essere in contatto con Matteo non è più stato soltanto come seguire un bravo collega che presentava opportunità e problemi di lavoro, ma come ascoltare un amico con cui condividere, benché da lontano, difficoltà, soddisfazioni, timori, sogni.
Il suo modo di lavorare mi era piaciuto da subito: Matteo era preparato, studiava, si informava, sapeva con esattezza che cos’era un progetto, in tutto quello che faceva ci metteva cura, precisione, attenzione. Parlava un francese e uno spagnolo eccellenti, modulandone anche la pronuncia per avvicinarsi a quella dell’interlocutore e risultare sempre chiaro ed efficace.
Ma col tempo ho capito che c’era uno strato più profondo, che andava oltre la padronanza della lingua, o l’aver appreso e l’applicare una tecnica, o la semplice volontà di fare le cose bene: Matteo ci metteva quella cura perché sapeva che dietro ogni progetto, ricevuta, dato statistico, rapporto sulle attività, dall’altro capo di ogni connessione internet, c’era una persona. Un paziente, o un lavoratore del centro di salute, un collega, un confratello o un membro di un’associazione amica, un donatore, un benefattore, un parrocchiano.
Fare e dire le cose bene era il suo modo di dirti: io ho a cuore te e la relazione che creo con te, perché questa è la cosa più importante. Le relazioni e la loro capacità di costruire una comunità in cui nessuno sia più solo, in cui ognuno abbia dignità e si senta responsabile dell’altro. È per questo che lavorare con lui sfuggiva alla logica del semplice aiutare e assistere e diventava un condividere, un immergersi, un capire ogni volta un pezzetto in più: della Costa d’Avorio, di Dianra, del mondo e anche di noi stessi.
Quanto ho imparato da te, Matteo. Mi mancheranno molto i tuoi vocali: «Chiara, ciao, ho sentito i tuoi messaggi, ti rispondo al volo, che sto andando [al centro di salute, a un incontro, in chiesa, alla sottoprefettura, …], scusa, poi ci sentiamo con calma, però intanto dimmi: come stai?».
Mi mancheranno il tuo modo di prenderti cura, la tua ironia bonaria, fatta per sdrammatizzare, alleggerire. Mi mancherà la tua curiosità, la tua voglia di capire, il tuo costante sforzo di concentrarti su ogni persona e sul presente senza perdere la visione d’insieme e senza smettere di immaginare il futuro. Mi mancherà la tua intelligenza limpida e generosa.
Ciao Matteo, grazie davvero.
Il mio modo di portarti con me sarà fare del mio meglio perché non si rompa neanche un uovo, affinché tutti arrivino a destinazione.
Chiara Giovetti 14/06/2024 – Senigallia
«Machina sapiens» e guerra
La competizione tra Cina e Stati Uniti, le due maggiori potenze mondiali, è totale. Nella corsa agli armamenti la sfida è anche a colpi di Intelligenza artificiale (Ia), la nuova frontiera tecnologica dell’umanità.
Negli ultimi anni, il panorama geopolitico globale è stato rivoluzionato da una nuova e insidiosa corsa agli armamenti, non basata solo su missili o carri armati, ma su qualcosa di ancora più potente: l’Intelligenza artificiale (Ia).
In questo contesto, Cina e Stati Uniti si trovano al centro di una sfida epocale, investendo risorse senza precedenti nello sviluppo di tecnologie avanzate che potrebbero ridefinire il futuro della sicurezza internazionale. Le dinamiche di questa competizione tecnologica stanno già cambiando l’equilibrio dell’economia globale.
Secondo il Digital economy report della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo del 2021, le grandi aziende tecnologiche come Apple, Amazon, Meta e la cinese Huawei detengono il 90% della capitalizzazione di mercato nel settore. Esse stanno scommettendo fortemente sul digitale, investendo ingenti risorse in infrastrutture all’avanguardia. Questa strategia consente loro di acquisire un potere di mercato senza precedenti, sia sotto il profilo finanziario che economico, e di esercitare un controllo significativo sulle enormi quantità di dati personali degli utenti, rafforzando ulteriormente la loro posizione dominante a livello globale.
Ciò che serve
Le tre componenti fondamentali per sviluppare sistemi avanzati di Ia sono: algoritmi innovativi, una grande quantità di dati per addestrare i modelli e, infine, chip moderni e potenti e in grande quantità per supportare l’enorme potenza di calcolo necessaria. Questo introduce un rischio di natura militare e geopolitica, poiché il principale centro di produzione dei microchip a livello mondiale si trova attualmente a Taiwan.
Gli Stati Uniti e la Cina sono leader nella ricerca avanzata e nell’utilizzo delle tecnologie di intelligenza artificiale. Per la Cina, questa è una priorità nazionale di massima importanza.
Il presidente Xi Jinping lo ha chiaramente delineato nel piano per la «grande rinascita della nazione cinese» entro il 2049 presentato durante il XX Congresso del Partito comunista cinese. Un rapporto del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti del 2023 conferma l’intenzione della Cina di superare l’Occidente nella ricerca sull’intelligenza artificiale entro il 2025 e di diventare leader mondiale entro il 2030.
La difesa nell’era dell’Ia
In ambito militare, l’uso dell’Ia è essenziale per la raccolta di informazioni, il monitoraggio del campo di battaglia e la localizzazione del nemico, contribuendo a una decisiva previsione delle mosse dell’av-
versario. Elaborando grandi quantità di informazioni, gli algoritmi possono penetrare i sistemi di difesa avversari.
L’integrazione tra ambiti militari e civili rappresenta uno dei pilastri della strategia cinese. L’obiettivo è di creare un database comune accessibile a tutti gli istituti di ricerca scientifica, le università, le aziende e il corpo militare cinese.
Baidu – la Google cinese – e altre aziende tech hanno invocato la collaborazione con il settore della difesa, rendendo molte delle tecnologie sviluppate utilizzabili per operazioni belliche dall’esercito cinese. Fino ad oggi, la strategia militare del paese ha dato priorità ai sistemi e alle attrezzature da combattimento senza equipaggio (droni, missili autonomi, sottomarini).
Usa contro Cina
Nella frenetica rincorsa per avanzare nel campo dell’Ia, anche la Cina si trova a dover affrontare numerosi ostacoli, tra cui significative carenze negli standard tecnici e nelle piattaforme software. Difficoltà maggiorate a seguito delle restrizioni imposte dal governo Usa a Nvidia, azienda americana (da poco la più capitalizzata al mondo) leader nell’esportazione di chip verso la Cina. Il segretario al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo, ha dichiarato che queste nuove normative mirano a impedire alla Cina di ottenere chip avanzati, essenziali per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, soprattutto in ambito militare.
Queste restrizioni mettono in luce le difficoltà che il gigante asiatico deve affrontare nel raggiungere l’autosufficienza in settori vitali come quello dei semiconduttori.
Ia, droni e nuove guerre
L’integrazione dell’Intelligenza artificiale nel settore militare sta radicalmente trasformando il concetto di guerra. Un esempio significativo di questa rivoluzione è rappresentato dagli avanzamenti nel campo dei droni.
I test condotti dagli Stati Uniti hanno evidenziato le straordinarie potenzialità di questi dispositivi per le operazioni militari. I micro droni Perdix (solo 30 centimetri di apertura alare) hanno dimostrato capacità avanzate, tra cui quella di decidere in autonomia e collettivamente tra loro, il volo in formazione adattivo e l’autoriparazione.
William Roper, direttore dello Strategic capabilities office (Sco), ha dichiarato: «A causa della natura complessa del combattimento, i Perdix non sono individui pre programmati e sincroniz- zati, ma un organismo collettivo che condivide un cervello distribuito per il processo decisionale e si adatta l’uno all’altro come gli sciami in natura».
Nel 2017, il governo statunitense ha lanciato il Progetto Maven, un programma volto a creare sistemi in grado di elaborare le immagini dei droni e rilevare automaticamente potenziali obiettivi. Per farlo mettono insieme e analizzano dati per renderli utilizzabili operativamente, in modo più preciso e affidabile di quanto potrebbe mai fare la capacità umana. I sistemi sviluppati grazie a questa iniziativa sono stati utilizzati in operazioni contro l’Isis in Medio Oriente e, più recentemente, dall’Ucraina nel conflitto con la Russia.
Errato sarebbe escludere i possibili margini di errore dei sistemi automatizzati. Infatti, le precedenti esperienze hanno rivelato problematiche che aumenteranno esponenzialmente nell’era dell’Ia. Non a caso è stato creato l’Ai incident database, un’enciclopedia online degli incidenti di Intelligenza artificiale conosciuti, sotto la voce «errori epocali».
Proliferazione e pericoli
La prudenza degli Stati Uniti nell’adozione di tecnologie autonome, motivata da una profonda consapevolezza dei rischi, si contrappone all’approccio più aggressivo della Cina. Tuttavia, questa competizione non si limita a una semplice rivalità bilaterale, ma coinvolge una dimensione globale, dove la proliferazione di droni e sistemi autonomi potrebbe facilitare l’accesso a tecnologie avanzate anche a nazioni più piccole e gruppi paramilitari.
Mentre il confronto tra le due superpotenze richiama alla mente i giorni della Guerra fredda, l’impiego dell’Ia in campo militare introduce sfide uniche e complesse.
La facilità di produzione e l’economicità del software che alimenta queste armi autonome potrebbero trasformare i conflitti moderni, rendendo la gestione e il controllo delle nuove tecnologie una priorità cruciale. Pertanto, è indispensabile che le grandi potenze globali intraprendano un dialogo mirato a sviluppare una legislazione comune sull’uso dell’Ia in ambito militare. Questo dialogo dovrà essere guidato dall’urgenza di prevenire escalation e conseguenze catastrofiche, assicurando che l’elemento umano rimanga centrale nel processo decisionale.
La «Dichiarazione politica sull’uso militare responsabile dell’intelligenza artificiale e dell’autonomia» del 2023, rilasciata dal governo statunitense rappresenta un passo nella giusta direzione, tracciando linee guida che enfatizzano la responsabilità umana nell’impiego di queste tecnologie.
L’«Ai act»: le regole dell’Europa
Facendo un passo storico verso la regolamentazione delle tecnologie emergenti, nel marzo 2024 il Parlamento europeo ha adottato il «Regolamento sull’Intelligenza artificiale» (Ai act), una normativa volta a creare un quadro giuridico armonizzato per l’uso dei sistemi di Ia nell’Unione europea. Questo regolamento mira a bilanciare l’innovazione tecnologica con la protezione dei diritti fondamentali dei cittadini.
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che la legge dell’Ue sull’Ia rappresenta «il primo quadro giuridico globale in assoluto in materia di intelligenza artificiale a livello mondiale». L’obiettivo è proteggere i diritti fondamentali, la democrazia, lo Stato di diritto e la sostenibilità ambientale dai sistemi di Ia ad alto rischio, creando al contempo le condizioni per una continua innovazione.
Il regolamento stabilisce obblighi basati sui possibili rischi e sul livello d’impatto delle applicazioni introdotte, imponendo rigorosi controlli per le aziende che utilizzano l’Ia.
Non solo «chatbot» e «deep fake»
I controlli saranno applicati sulla base di quattro possibili scenari di rischio: inaccettabile, alto, limitato o minimo. I sistemi che presentano un rischio inaccettabile sono quelli che vanno contro i valori e i principi fondamentali dell’Ue, come il rispetto della dignità umana, della democrazia e dello Stato di diritto.
A rischio elevato sono considerati gli scenari che possono avere un impatto sui diritti fondamentali o la sicurezza dei cittadini. Sono soggetti a rigorosi controlli prima di essere immessi sul mercato europeo. In questa categoria si trovano le applicazioni sanitarie, giudiziarie e quelle per l’assunzione del personale.
Il rischio limitato è rappresentato dai sistemi di intelligenza artificiale che possono influenzare alcuni diritti o idee degli utenti, in misura però minore rispetto ai sistemi ad alto rischio. Appartengono a questa categoria le applicazioni utilizzate per produrre o modificare contenuti audiovisivi (deep fake) o per fornire assistenze personalizzate (chatbot). Gli utenti hanno il diritto di sapere che stanno interagendo con un robot o che un’immagine è stata creata dall’intelligenza artificiale.
Se il rischio è minimo o nullo le applicazioni non sono soggette a particolari controlli.
Gli aggiornamenti periodici, necessari per affrontare le sfide emergenti e le innovazioni tecnologiche, dimostrano l’impegno dell’Ue nel mantenere il regolamento al passo con i tempi. Monitorare costantemente l’implementazione e l’impatto dell’Ai Act sarà fondamentale per assicurare che le normative rimangano efficaci e pertinenti. L’Ue si conferma all’avanguardia sul fronte dei diritti, ma fatica a tenere il passo della tecnologia.
Secondo una relazione della Corte dei conti europea, l’Ue ha avuto finora poco successo nello sviluppare un dialogo comune. Si stima che il divario tra gli Stati Uniti e l’Ue in termini di investimenti complessivi nell’Ia sia più che raddoppiato tra il 2018 e il 2020 (l’Ue è rimasta indietro per più di 10 miliardi di euro). L’assenza di strumenti di governance e il mancato monitoraggio sugli investimenti non hanno prodotto dati sugli obiettivi raggiunti. Bruxelles ha stanziato i fondi senza incentivare un contributo privato. Inoltre, si deve fare di più per assicurarsi che i risultati dei progetti di ricerca finanziati in tema di Ia siano pienamente commercializzati o sfruttati.
Nel tentativo di recuperare il terreno perso, nel giugno 2024 l’Ue ha istituito l’Ai Office. Guidato dall’italiana Lucilla Sioli, è incaricato di coordinare l’applicazione del Ai act e di gestire la politica di investimento in questo campo.
Antropocentrica e planetocentrica
In Europa, il Regno Unito, pur fuori dall’Unione, è il maggiore investitore, seguono Francia e Germania che hanno intrapreso percorsi ben definiti.
La strategia dell’Italia arriva a fine 2021 con il «Programma strategico sull’Intelligenza artificiale» e la creazione di un Fondo nazionale. L’intelligenza artificiale dovrebbe non solo aumentare la produttività, ma anche evolversi in sinergia con lo sviluppo sostenibile.
L’obiettivo della Commissione europea è di promuovere una Twin transition, una doppia transizione che integra i diritti e le regolamentazioni per gli individui con gli obiettivi di sostenibilità. L’Ai deve essere, quindi, non solo «antropocentrica», ma anche «planetocentrica», come affermano i dirigenti della Commissione.
In definitiva, per competere efficacemente a livello globale, è essenziale che tutti i Paesi europei lavorino insieme per superare frammentazioni e carenze, costruendo una visione comune che integri normative, innovazioni tecnologiche e investimenti finanziari.
Raffaele Bevilacqua, Federica Mirto
Glossario essenziale
IA, DI COSA PARLIAMO?
L’enciclopedia Treccani definisce l’Intelligenza artificiale (Ia) – in inglese, Artificial intelligence (Ai) – come la «disciplina che studia se e in che modo si possano riprodurre i processi mentali più complessi mediante l’uso di un computer». Questo obiettivo è perseguito attraverso algoritmi (sequen di istruzioni matematiche) e software (programmi che leggono le istruzioni per il computer).
In altri termini, i software di Ai sono capaci di eseguire autonomamente un compito o una finalità definita, prendendo decisioni che solitamente sono affidate alle persone. Il termine AI è stato coniato dal matematico e informatico statunitense John McCarthy (1927-2011) nel 1956.
L’Ia generativa – spiega il sito di Klondike – è una sottocategoria dell’Intelligenza artificiale in grado di creare autonomamente nuovi contenuti. I software di Ai generativa partono da «prompt» (richieste o descrizioni) formulate dall’utente per generare contenuti come immagini, testi, audio, video, codici di programmazione e molto altro ancora. Per esempio, l’Ai generativa può scrivere un articolo per MC, fare il riassunto di un libro, svolgere un compito scolastico, fare una diagnosi medica.
L’algoretica è lo studio dei problemi e dei risvolti etici connessi all’applicazione degli algoritmi. «Le implicazioni sociali ed etiche delle Ai e degli algoritmi – ha scritto Paolo Benanti già nel 2018 – rendono necessaria tanto un algoretica quanto una governance di queste invisibili strutture che regolano sempre più il nostro mondo per evitare forme disumane di quella che potremmo definire una algocrazia».
È ancora più esplicito quanto si legge sul sito di Rome call for Ai ethics, della vaticana «Renaissance foundation»: «Il settore digitale e l’intelligenza artificiale sono il motore del cambiamento epocale in atto. Lo sviluppo tecnologico influenza tutti gli aspetti della vita, portando con sé il rischio potenzialmente elevato di una società sempre più diseguale e asimmetrica, privata di significato e governata da algoritmi. Pertanto, se si vuole che l’Ia sia all’altezza della sfida del rispetto della dignità di ogni essere umano, è necessaria un’etica che non funga da strumento di contenimento, ma piuttosto da strumento di indirizzo e di pianificazione».
Attualmente però la necessità richiamata nella dichiarazione di Roma si scontra con una situazione ben sintetizzata da Laura Turini, avvocata esperta di Ai: «Il futuro dell’intelligenza artificiale è in mano ai privati. Questo è il problema vero».
Paolo Moiola
L’Intelligenza artificiale secondo Francesco
L’uomo non sia «cibo per gli algoritmi»
Giugno 2024: per la prima volta nella storia, un papa ha partecipato al G7, ospitato quest’anno in Puglia. È stato invitato per parlare di Intelligenza artificiale. Un invito non casuale: in un contesto di cambiamenti tecnologici senza precedenti, il Vaticano risulta essere all’avanguardia nella sua comprensione, fornendo un punto di riferimento per i leader politici globali.
Infatti, già nel 2020, ben prima dell’avvento degli strumenti di Ai generativa come ChatGpt, il Vaticano, attraverso la «Pontificia accademia per la vita», aveva firmato la dichiarazione d’intenti «Rome call for Ai ethics» (Roma chiama per una Ia etica). Siglato insieme a Microsoft, Ibm, Fao e il Dipartimento Italiano per l’innovazione tecnologica, questo importante documento stabilisce le linee guida etiche da seguire nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Il fenomeno della rapida ascesa dell’intelligenza artificiale ha suscitato pensieri contrastanti tra lo stupore e il disorientamento come ha ribadito papa Francesco in occasione della 58ª Giornata delle comunicazioni sociali del 12 maggio 2024. Nello stesso messaggio il pontefice ci invita a non essere solo degli osservatori di fronte al cambiamento, ma ad accoglierlo con la sapienza che distingue l’essere umano. Perché – sottolinea il papa – non possiamo pretendere sapienza dalle macchine.
Sebbene il termine «intelligenza artificiale» sia ormai diffuso, il papa ritiene che sia fuorviante, poiché le macchine non possiedono la capacità di decodificare il senso dei dati come gli esseri umani. Le macchine possono memorizzare e correlare un’enorme quantità di informazioni, ma è l’uomo che deve interpretare e dare loro significato. Questa osservazione mette in luce una verità essenziale: l’uomo non può essere ipnotizzato dalla propria creazione al punto da credersi onnipotente. La tecnologia dovrebbe essere uno strumento al servizio dell’umanità, non un sostituto della nostra capacità di pensiero e discernimento. Il papa pone una serie di domande cruciali per il nostro tempo: come tutelare la dignità dei lavoratori nel campo della comunicazione? Come garantire la trasparenza e la responsabilità delle piattaforme digitali? Come evitare che l’uso dell’Ia conduca a nuove forme di sfruttamento e disuguaglianza?
Questi interrogativi non hanno risposte facili, ma sono essenziali per costruire un futuro in cui la tecnologia sia al servizio dell’uomo e non il contrario. Il papa ci ricorda che la risposta dipende da noi: possiamo scegliere se diventare «cibo per gli algoritmi» o nutrire di libertà e sapienza i nostri cuori.
In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, il richiamo del papa alla prudenza e alla riflessione etica è più che mai pertinente. Solo con una visione equilibrata e responsabile possiamo sperare di trasformare le sfide del presente in opportunità per un futuro più giusto e umano. Egli esorta la comunità internazionale a lavorare insieme per adottare un trattato che regoli lo sviluppo e l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, affinché essa non diventi uno strumento di dominio ostile e di nuova ingiustizia sociale.
Figura di riferimento dell’attuale governo italiano è padre Paolo Benanti, francescano e teologo, professore straordinario di Etica della tecnologia presso la Pontificia Università Gregoriana e presidente della «Commissione Ia per l’informazione» nonché unico italiano tra i 39 esperti dell’advisory board sull’Ia delle Nazioni Unite. In un’intervista con l’agenzia Dire padre Benanti ha ricordato che «l’intelligenza artificiale è un moltiplicatore e quindi può moltiplicare anche le disuguaglianze».
R.B e F.M.
A tutto G.A.S.
Oggi, cinque milioni di italiani si nutrono (anche) tramite un gruppo di acquisto solidale. Dalla nascita del primo Gas, trent’anni fa, le reti di economia solidale sono cresciute opponendo il modello della collaborazione a quello della competizione.
I gruppi di acquisto solidali, o Gas, sono formati da persone e famiglie che si aggregano per comprare insieme alcuni prodotti di uso quotidiano, seguendo i principi della solidarietà e della sostenibilità. Questo li porta a scegliere produttori piccoli e locali, rispettosi dell’ambiente e delle persone, con cui entrare in relazione diretta.
Il concetto che sta alla base dei Gas è quello di «filiera corta», cioè dell’avvicinamento fra produttore e consumatore, sia in termini geografici, privilegiando le aziende più vicine, sia in termini «funzionali», saltando gli intermediari.
Economia solidale
La nascita dei Gas segue quella dei loro fratelli maggiori nella famiglia dell’economia solidale. In Italia, infatti, le esperienze di costruzione di un’altra economia iniziano negli anni 80 con il commercio equo e solidale, la finanza etica e il turismo responsabile.
Gli anni 90 vedono invece fiorire esperienze legate al consumo: il consumo critico, i bilanci di giustizia e, appunto, i Gas.
Il primo Gruppo di acquisto solidale si costituisce ufficialmente a Fidenza (Pr) trent’anni fa, nel 1994. I suoi fondatori, insieme alla critica al modello di sviluppo dominante, ingiusto e insostenibile, mettono le esigenze concrete del quotidiano, ovvero la necessità di mangiare cibi sani e gustosi, portatori di significati e di relazioni.
La rete si allarga
Questa pratica inizia a diffondersi in tutta Italia con il passaparola, e altri gruppi si formano sull’esempio del primo.
Nel 1997 nasce la rete di collegamento tra i Gas per scambiare informazioni e organizzare eventi e progetti.
I vantaggi ambientali, sociali e personali della diffusione dei Gas sono numerosi e su diversi livelli: dal punto di vista ambientale, la preferenza di prodotti locali riduce il consumo di energia e l’inquinamento dovuti al trasporto; la scelta di prodotti biologici aiuta a conservare il terreno; inoltre, il tipo di confezioni e di distribuzione diminuiscono di molto gli imballaggi e gli scarti.
Dal punto di vista sociale, questo modo di acquistare pone attenzione alle modalità di produzione, quindi al lavoro, evitando lo sfruttamento, migliorando le condizioni del produttore grazie al giusto prezzo che gli viene riconosciuto e favorendo le relazioni tra i diversi soggetti.
Dal punto di vista personale, un Gas consente al singolo che vi fa parte di ottenere prodotti ottimi, di accrescere le proprie relazioni, di avere una maggiore conoscenza di ciò che acquista e, infine, di risparmiare denaro a parità di qualità dei prodotti.
Si viene a stabilire così un patto tra produttori e consumatori, ricercando lungo la filiera le condizioni migliori per tutti i soggetti coinvolti.
Molte forme
Anche se tutti i Gas utilizzano gli stessi criteri guida nella ricerca dei produttori, riassumibili con i termini «piccolo», «locale» e «solidale», i singoli gruppi si organizzano in modalità molto diverse tra loro. Ne esistono alcuni composti da poche famiglie e altri che superano il centinaio; la maggioranza dei Gas non ha una struttura formale riconosciuta, ma molti sono anche quelli costituiti in associazione.
Al di là delle differenze, i Gas si riconoscono per il loro modo di operare: dopo aver scelto da quali produttori rifornirsi, periodicamente il gruppo raccoglie al suo interno le richieste per i prodotti disponibili; queste vengono sommate per formare l’ordine complessivo del gruppo per ciascun produttore, il quale in seguito lo consegna in un luogo e un tempo definito. Il giorno della consegna, i membri del gruppo passano a ritirare la loro parte. Gli ordini dei prodotti vengono fatti periodicamente, con una frequenza che può variare da settimanale a mensile a stagionale, a seconda dei prodotti. Il gruppo, poi, si incontra periodicamente per confrontarsi sui propri acquisti, sui produttori, sui diversi temi collegati, per vivere un po’ di convivialità.
Dai Gas alle reti locali di economia solidale
Dopo i primi anni un po’ pionieristici, i Gas hanno continuato a moltiplicarsi attraverso il passaparola e la «gemmazione» a partire dai gruppi già esistenti, e a collegarsi in rete.
Nel 2014, dopo 20 anni dalla fondazione del primo, i Gas censiti in Italia erano un migliaio. Quelli effettivi erano probabilmente almeno il doppio.
Oggi è difficile dare una stima della misura del fenomeno. Secondo un sondaggio svolto per il Rapporto sul consumo responsabile 2022 curato dall’Osservatorio per la coesione e l’inclusione sociale, in Italia l’8,6% della popolazione adulta afferma di acquistare tramite un gruppo di acquisto solidale; stiamo quindi parlando di circa cinque milioni di persone che si nutrono, almeno in parte, tramite questa modalità di consumo.
I dati preliminari del 2024 mostrano che i Gas «tengono», anzi danno segni di crescita.
Le diverse reti che si sono create, sia a livello locale che nazionale, favoriscono la nascita di progetti più ampi che collegano diversi Gas, produttori e altri soggetti.
Sono così nate in questi anni molte collaborazioni lungo filiere gestite direttamente dai soggetti coinvolti nei diversi passaggi dal campo alla tavola, estendendo lo schema anche ad altri prodotti e servizi: dal pane alle patate, dalla «pummarola» agli avocado, dal vino alla carne, dai detersivi al tessile e all’energia.
Questi progetti estendono su scala più ampia gli stessi principi di mutuo aiuto che stanno alla base delle pratiche dei Gas: le relazioni tra pari e la ricerca di soluzioni che possano soddisfare nel modo migliore possibile le esigenze dei diversi soggetti coinvolti.
Allo stesso modo, i Gas e i loro intrecci di relazioni sono attivi nella costruzione di reti di economia solidale legate al territorio, identificate con il termine Distretti di economia solidale (Des).
I Gas al passaggio d’epoca
Nel 2024 i Gas compiono trent’anni; l’anniversario è diventato un’occasione per riflettere insieme su cosa è successo in questo tempo, ma soprattutto su come affrontare il futuro.
Molte cose sono cambiate, e ci rendiamo conto di entrare in una nuova era, quella che Gigi Anataloni su Missioni Consolata (marzo 2024) chiama «nuovo feudalesimo». Un’era segnata dal riscaldamento globale e dal capitalismo delle piattaforme, che altri chiamano tecnofeudalesimo. Chi vuole costruire un mondo equo e sostenibile si interroga su come attraversare le diverse crisi della nostra società.
Una cosa che abbiamo imparato è che la legge della collaborazione, quella che Pablo Servigne e Gauthier Chapelle, chiamano «l’altra legge della giungla», è quella che ci consente di vivere meglio. Mentre la prima legge della giungla, quella nota della competizione, consente agli individui di primeggiare gli uni sugli altri, la legge della solidarietà si dimostra vincente a livello di gruppo: i gruppi che vivono meglio nel loro ambiente sono quelli che collaborano maggiormente; infatti, quando le condizioni sono ostili, collaborare è una questione di sopravvivenza.
I Gas e le altre forme di economia solidale hanno in questo un’enorme utilità: ci mostrano che l’altra legge della giungla, quella del mutuo aiuto, ha un suo valore e una sua forza, e ci allenano ad applicarla.
Speranza attiva
Le reti che si sviluppano lungo le filiere sono quelle che ci possono aiutare ad attraversare le avversità. È il caso del Furgoncino solidale (vedi box qui sotto): quando i produttori romagnoli colpiti dall’alluvione sono stati invitati a «salire a bordo» del furgoncino, hanno ricevuto un sostegno attraverso l’inserimento dei loro prodotti in una rete di distribuzione gestita insieme da Gas e produttori.
È questo il modo in cui le reti di solidarietà si attivano, prefigurando la capacità di generare risposte praticabili che aiutano tutti a stare meglio, fornendo strumenti concreti per rispondere agli eventi avversi, mostrando il mondo come lo vorremmo e alimentando in questo modo la speranza attiva.
La strategia del bambù
In questa resistenza alle derive della nostra società, per costruire un mondo equo e sostenibile, i Gas e le altre pratiche degli stili di vita hanno a nostro avviso un ruolo fondamentale: quello di formare un intreccio sotterraneo che conserva e porta il nutrimento.
La foresta di bambù ha una strategia particolare per resistere alle avversità: le canne che noi vediamo svilupparsi verso l’alto sono ancorate a un reticolo di rizomi, delle specie di radici, che si estendono in larghezza sotto la superficie del terreno. L’intreccio dei rizomi delle diverse piante sostiene le canne. In caso di vento forte o neve, queste si piegano, ma quando le condizioni avverse sono terminate ritornano alla loro posizione grazie alla loro flessibilità e alla piattaforma di rizomi intrecciati che le sostiene. Inoltre, i rizomi penetrano il terreno e colonizzano nuovi territori.
I Gas e le altre pratiche degli stili di vita sono come i rizomi che si sviluppano in estensione sotto la superficie, attaccati alle canne che crescono verso l’alto e ne costituiscono la parte visibile: i produttori, le filiere, le campagne, i progetti, le attività economiche.
La resistenza della foresta alle avversità si basa sull’intreccio sotterraneo tra le diverse piante; le canne catturano la luce del sole con le loro foglie, ma si sostengono su una rete di rizomi fitta ed estesa; sono questi a distribuire il nutrimento e scavare il terreno.
La forza della foresta sta nell’estensione dell’intreccio e delle connessioni sotterranee, nel sostegno reciproco tra la parte visibile e quella invisibile.
Pensiamo che il ruolo dei Gas sia mantenere ed estendere lo strato vitale sotterraneo, penetrando nuovi terreni e portando nutrimento ai germogli che in primavera crescono verso la luce del sole.
Le reti e i reticoli dei gruppi e delle organizzazioni che costruiscono un mondo equo e sostenibile, connessi e intrecciati tra loro, attraversano l’epoca tecnofeudale conservando la vita e nutrendo i germogli.
Effetto Gas
In occasione del trentennale dalla nascita del primo Gas, numerosi gruppi e altri soggetti interessati a riflettere su come affrontare il passaggio d’epoca che stiamo vivendo si sono incontrati alla giornata «Effetto Gas» organizzata alla fiera Solidalia a Collecchio (Parma) il 25 maggio 2024, dopo un percorso di preparazione durato un anno.
Solidalia è la festa dell’economia solidale lanciata nel 2022 dal Des Parma. Tra banchetti, incontri, laboratori, giochi e musica è l’occasione per conoscere produttori, progetti e prospettive dell’economia solidale (solidalia.org).
Qui si sono tenuti lavori di gruppo per confrontarsi e identificare proposte e priorità sul futuro dei gruppi di acquisto solidale; si tratta di lavori in corso, nella volontà di mettere in gioco sempre più il ruolo dei Gas facendo tesoro dell’esperienza fatta e per guardare avanti.
In questi trent’anni moltissimi progetti sono nati e sono stati portati avanti. Alcuni di essi erano presenti tra i banchetti e gli incontri a Solidalia.
Abbiamo considerato come l’esperienza dei Gas costituisca un modello con alcune caratteristiche ancora oggi molto utili, pur nel nuovo contesto: favoriscono le relazioni paritarie all’interno del gruppo, la fiducia e la collaborazione; costituiscono un’azione concreta che alimenta la speranza sulla possibilità di resistere e modificare la situazione in cui ci troviamo; sviluppano le reti di cui abbiamo bisogno per affrontare le crisi; seguono una strategia «rizomatica» che si basa sulla forza dei legami e delle connessioni sotterranee; nutrono il sogno della costruzione di un mondo equo e sostenibile che passa anche dal nostro stile di vita.
Un modello con una forma flessibile che può essere rimescolata e reinventata per affrontare le nuove sfide del passaggio d’epoca attuale.
In questo modo i Gas nutrono la speranza, una speranza attiva, come descritta da Rebecca Solnit nell’introduzione alla raccolta di saggi sull’emergenza climatica Not too late (non è troppo tardi).
«La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio. Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita. La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che vale la pena fare qualcosa a prescindere da come andrà a finire».
Andrea Saroldi*
*Andrea Saroldi promuove da tempo i Gruppi di acquisto e le Reti di economia solidale come strumenti per il benvivere.
Su questi temi ha scritto numerosi articoli e pubblicato, insieme ad altri autori, Giusto movimento, Invito alla sobrietà felice, Gruppi d’acquisto solidale, Costruire economie solidali, Il capitale delle relazioni, Un’economia nuova, dai Gas alla zeta.
È presidente della Associazione GasTorino e cura il sito www.economiasolidale.net.
– Massimo Acanfora, Piccola guida al consumo critico, Altreconomia 2016.
– Massimo Acanfora (a cura), Il libro dei Gas, Altreconomia 2015.
– Tavolo Res (a cura), Un’economia nuova, dai Gas alla zeta, Altreconomia 2013.
– Marco Binotto, Comunicazione solidale. Storia e media del consumo responsabile e dei gruppi d’acquisto solidale. Postfazione di Jason Nardi, Guerini scientifica, Milano 2023.
Progetti in corso
Numerosi sono i progetti dell’economia solidale in corso che collegano diversi soggetti lungo le filiere, anche su scala nazionale. Alcuni di questi sono coordinati dalla Ass. Co-energia sui temi della sovranità energetica e della sovranità alimentare (www.co-energia.org).
Nel campo della distribuzione, il progetto del Furgoncino solidale (furgoncinosolidale.it) unisce i produttori e i Gas di diversi territori con un furgone che lungo il suo percorso consegna gli ordini ai Gas e preleva i prodotti dai produttori viaggiando, così, sempre carico.
Le notizie e gli aggiornamenti sulle diverse iniziative sono disponibili sul sito della Ries, la Rete italiana di economia solidale (rete-ries.it) e sul sito economiasolidale.net.
A.S.
Raccontare liberazioni. Teologia e femminismo brasiliani
Le storie di alcune donne cristiane impegnate per la liberazione propria e delle loro comunità narrano di un modo di essere Chiesa. Incontriamo l’autrice di un libro che, descrivendo alcune esperienze del passato, vuole aprire a buone pratiche per oggi e domani.
Neide Furlan, nata il 14 marzo 1957, è una donna brasiliana. Quando Viviana Premazzi, autrice del libro Per una società e una Chiesa senza esclusioni, la incontra nel 2005, vive nella diocesi di Lages, nello stato di Santa Catarina, zona Sud del Paese: uno dei territori più poveri dove la terra è nelle mani di pochi latifondisti.
L’ingiustizia è la radice dell’impoverimento della popolazione, e la condizione subalterna delle donne fa parte della situazione generale di oppressione.
Neide, moglie di un sindacalista camponeso (contadino), ha capito che la lotta per la terra e la dignità è diversa se si è donne o uomini. E, osservando la situazione attorno a sé, ha deciso di impegnarsi anche lei per i diritti dei contadini, in particolare per quelli delle donne camponesas.
Per anni è coordinatrice regionale del Movimento de mulheres camponesas (Movimento delle donne contadine).
Il suo impegno l’ha portata a prendere una laurea in storia. Pensa, infatti, che per lavorare nei movimenti sociali sia necessario conoscere il passato e i meccanismi che hanno generato l’ingiustizia. Non una storia generale, però, ma una storia specifica, di un luogo e di persone precisi. In particolare, pensa che la riscoperta delle storie di alcune donne che in passato hanno avuto ruoli di liberazione per i loro popoli possa aiutare la lotta delle donne del presente.
Data la sua formazione cattolica e il suo impegno nelle comunità ecclesiali di base (Cebs) approfondisce anche le figure femminili presenti nella Bibbia, perché crede che la Parola liberi.
Neide, Romilda e le altre
La storia di Neide è contenuta nel libro di Premazzi, pubblicato nel 2023 da Effatà editrice con il sottotitolo Teologia e femminismo in Brasile.
Assieme alla sua, l’autrice racconta anche la storia di Romilda che, a sua volta ispirata dall’esperienza delle Cebs, dalla teologia della liberazione e dalle donne della Bibbia, si impegna nella società e nella Chiesa per la liberazione della donna nelle vesti di leader di comunità, catechista, ministra della Parola e dell’eucaristia, animatrice di un gruppo famiglia.
Marione, invece, è una suora della Divina Provvidenza che lavora con le donne del barrio São José proponendo corsi di cucito, di teologia e di Bibbia, perché esse acquistino maggiore dignità e rispetto da parte degli uomini della comunità.
Proprio come Neide, anche Viviana Premazzi, lombarda, 43 anni, ha raccolto e raccontato le storie di alcune donne brasiliane per fare – ci dice – la sua parte nella costruzione di una società e una Chiesa senza esclusioni.
Pur pubblicandolo nel 2023, l’autrice ha lavorato sul materiale del libro nel 2005. Ha conosciuto Neide, Romilda, Marione e molte altre persone impegnate per la liberazione degli oppressi, durante un viaggio in Brasile per la sua tesi di laurea in Scienze politiche. Una volta laureata, ha lasciato decantare il testo finché non ha incrociato una ragazza induista e il suo scoraggiamento nei confronti della condizione delle donne nelle religioni. «In occasione di un evento interreligioso a Roma – scrive Premazzi nell’introduzione -, una ragazza di religione induista […] ha detto che non ci sarebbe mai stato nulla da fare per le donne nelle religioni, perché sono intrinsecamente misogine ed escludenti, perché perpetuano una cultura di sottomissione, violenza ed oppressione […]. Le sue parole mi hanno catapultato a vent’anni fa […]. Ho chiesto la parola […] e le ho detto che […] capivo benissimo quello che stava vivendo e che l’avevo vissuto anche io e che questa ricerca mi aveva portato in Brasile a cercare, scoprire e trovare un altro modo di vivere la religione e di essere Chiesa per le donne […]». A quel punto ha deciso che valeva la pena riproporre quelle esperienze ai lettori di oggi.
Tanti «Brasili»
Ci colleghiamo online con Viviana Premazzi poco prima dell’inizio dell’estate. Si trova a Malta, dove vive dal 2018, ma è in procinto di «scappare»: quando l’isola si riempie di turisti, preferisce andare altrove.
Nata a Venegono Inferiore (Va), Viviana è da sempre impegnata in ambito sociale ed ecclesiale.
Nella quarta di copertina si legge su di lei che «ha un dottorato in sociologia delle migrazioni e un master in gestione dei conflitti interculturali e interreligiosi. Ha lavorato come ricercatrice, consulente e formatrice per organizzazioni, università e centri di ricerca in Europa, Nord America, Africa e Medio Oriente». Nel 2018 ha fondato a Malta il Global mindset development, una società di consulenza sul dialogo interculturale e interreligioso al servizio di aziende, Ong, enti pubblici, scuole, università, per «aiutare a formare – dice – una mentalità inclusiva e globale».
Le domandiamo come è nata la sua relazione con il mondo missionario e con il Brasile.
«Conosco i missionari Comboniani fin da piccola – risponde -. Quando sono partita per il Brasile per la tesi, sono andata tramite loro. In quegli anni ho incontrato anche i Missionari della Consolata grazie a suor Angela Puricelli che mi ha fatto conoscere i progetti che padre Giordano Rigamonti faceva nelle scuole della mia zona tramite l’Associazione Impegnarsi serve. Poi mi sono trasferita a Torino dove ho lavorato per il Fieri, il Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione, per l’Università di Torino, la Banca Mondiale e l’Oim, sempre sul tema delle migrazioni, seconde generazioni, identità, culture. Nel 2009 sono tornata in Brasile con i Missionari della Consolata per raccogliere materiale da usare poi nelle scuole. Sono stata a Catrimani con gli Yanomami e a Raposa con i Macuxì. Nei miei viaggi ho scoperto che esistono tanti “Brasili”. La prima volta sono andata a Rio Grande do Sul, al forum sociale di Porto Alegre, la seconda volta sono andata per la tesi nella diocesi di Lages, a Santa Catarina, la terza volta in Amazzonia, a Salvador de Bahia, a Fortaleza, a Vittoria, poi in Paranà e infine di nuovo in Santa Catarina».
Chiesa e liberazione
Viviana racconta che la sua ricerca sulla teologia femminista è nata in risposta a un suo sentimento di disagio: «Ero una giovane donna impegnata nel mondo ecclesiale, associativo, ecc. Stavo bene, ma, allo stesso tempo c’era qualcosa che mi mancava, che non mi tornava. Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre ho sentito parlare di teologia della liberazione, e ho capito che quella poteva essere una risposta alle mie domande. Ho deciso quindi di fare la tesi su una delle sue declinazioni: la teologia femminista, e mi ci sono buttata. Ho scoperto, così, e approfondito la realizzazione di una Chiesa strumento di liberazione per gli oppressi».
Donne nella diocesi di Lages
La conoscenza di una realtà specifica come quella della diocesi di Lages è stata fondamentale per lei, per vedere come la teologia femminista della liberazione si fosse incarnata nella vita di persone e comunità.
«Un comboniano mi ha messa in contatto con Maria Soave Buscemi, una missionaria laica italiana, una teologa, che ha vissuto tutta la vita in Brasile. A Lages ha lavorato molti anni per la diocesi e poi fondato, insieme ad altri, e anche con il sostegno di realtà italiane, il Centro ecumenico di studi biblici che molto ha fatto e continua a fare.
L’incontro con Soave è stato fondamentale: lei viveva come le persone, tra le quali stava, e io sono potuta entrare nelle comunità da eguale, non come una che andava per aiutare.
È stata Soave a permettermi di conoscere molte donne impegnate a livello ecclesiale che avevano trovato il loro empowerment in una certa modalità di lettura della Bibbia e di vivere la comunità. Donne impegnate a livello sociale. Donne impegnate in politica».
L’accaparramento da parte di pochi ricchi delle risorse fondamentali del territorio, l’acqua e la terra, provoca ancora oggi nella diocesi di Lages un forte impoverimento della popolazione. Ai tempi delle ricerche di Viviana, la Chiesa locale affrontava la povertà tramite l’esperienza delle comunità ecclesiali di base che incarnavano la teologia della liberazione diventando scuole di partecipazione ecclesiale, sociale e politica.
Oggi, ci dice Viviana, la vita delle diocesi è cambiata: quella di Lages era una delle ultime fedeli alla teologia della liberazione, ma nel tempo, per vari motivi, tutti i movimenti si sono raffreddati. Non sono spariti, ma sono diventati più sotterranei, e l’unica esperienza sopravvissuta ufficialmente è il Centro ecumenico di studi biblici, nonostante Soave oggi sia nel Mato Grosso.
Raccontare le donne
Chiediamo a Viviana in che modo le storie di Neide e delle altre donne parlano del patriarcato e della teologia femminista della liberazione.
«Per quanto riguarda la riflessione sul patriarcato, ad esempio, l’attenzione di Neide alla storia locale è un elemento fondamentale. Io, ad esempio, sono di Venegono Inferiore, un paesino nel quale da qualche anno si stanno riscoprendo alcune storie di streghe locali. Queste rappresentano un’occasione per riflettere non solo su come le donne sono escluse, ma anche su come vengono raccontate. Le ricerche storiche hanno mostrato che esse, dopo essere state sfruttate da alcuni signori locali, a un certo punto sono state accusate di stregoneria per interessi politici.
La riscoperta della storia locale sotto questo profilo è un insegnamento che Neide e le altre mi hanno lasciato».
Oltre al modo in cui le donne sono raccontate, per Viviana è importante riflettere anche sul modo in cui le donne sono escluse dal racconto della storia. «Anche nella Bibbia succede qualcosa di simile. Se io non vedo raccontate altre donne come me nella Bibbia e nella storia, penso di essere sbagliata a volere stare in questa storia. Ed è facile farmi sentire sbagliata se oggi decido di avere un ruolo, perché in qualche modo mi viene detto che io, in quanto donna, un ruolo non ce l’ho.
La cosa rilevante, secondo me, del lavoro fatto da persone come Neide, è la volontà di portare alla luce il ruolo delle donne, e di dirlo ad altre, oltre all’impegno diretto nella Chiesa, nei movimenti, nella politica».
La teologia femminista è stata il contesto ecclesiale nel quale le esperienze di Neide e delle altre hanno trovato casa. La lettura della Bibbia sperimentata nelle comunità ecclesiali di base, a volte condotte da coppie, altre volte da donne, è stata uno degli strumenti di emancipazione. In questo senso, ci dice Viviana, le storie di queste donne parlano della teologia femminista.
Stare con gli oppressi
Nel suo libro, Viviana Premazzi dedica uno spazio molto ampio, i primi tre capitoli, ad approfondire cosa è la teologia della liberazione e la sua declinazione femminista. Domandiamo all’autrice di darci qualche indicazione sintetica. «L’idea di fondo – risponde – è che una persona non è povera per colpa sua, ma perché vive una situazione di oppressione. Allora l’obiettivo della Chiesa è quello di aiutare questa persona a liberarsi. Riprende l’immagine della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto sotto la guida di Mosè.
Il passaggio fatto dalla teologia femminista è questo: la condizione di sfruttamento socio economico non è la stessa per gli uomini e per le donne, così come la teologia indigenista afferma che l’oppressione subita dai popoli nativi ha i suoi caratteri specifici, la teologia nera parla della condizione degli afrodiscendenti, e così via.
La domanda che queste teologie suscitano è: “Da dove deriva la mia situazione di oppressione socio economica, o di genere? Come attuare la liberazione?”».
Gli strumenti sono, oltre alla riflessione teologica, quello della lettura della Parola e quello della comunità. «Dalla teologia della liberazione nascono le comunità ecclesiali di base: la teologia non è una cosa che si fa da soli, ma assieme, e partendo dal basso, come accadeva alle prime comunità cristiane. Partendo dal suo popolo, la Chiesa si deve domandare: “Stiamo con i potenti o con i poveri?”».
Comunità ecclesiali di base
Viviana ci racconta che il titolo del suo libro ricalca quello delle linee guida per la diocesi di Lages consegnate alla curia nel 2005 dalla rete delle Cebs dopo un processo partecipativo. «Quando hanno presentato queste linee guida intitolate “Per una società e una Chiesa senza esclusioni”, la curia voleva togliere il termine “Chiesa”. Ma le comunità hanno insistito perché il cammino dell’inclusione anche nella Chiesa è ancora lungo.
Il primo nucleo delle comunità sono le famiglie, cioè il luogo delle relazioni affettive. In quelle zone in Brasile la maggior parte delle famiglie sono composte da donne sole con i figli, quindi i gruppi di famiglie sono spesso gruppi di donne.
La leadership è a rotazione, e ciascuno porta il suo talento. Le decisioni vengono prese in modo partecipativo. Nelle Cebs esiste anche la decima, un’autotassazione per sostenere, oltre alle attività ecclesiali, anche le persone bisognose all’interno della comunità».
Retroutopia
Il libro di Viviana Premazzi è composto da cinque capitoli: i primi tre sulla teologia della liberazione, il quarto, sulla diocesi di Lages al tempo del viaggio dell’autrice, il quinto su alcune figure di donne.
La teologa Maria Soave Buscemi, nella prefazione, parla del testo di Premazzi prima paventando il rischio che esso proponga una «retrotopia» – il racconto di qualcosa di bello, ma morto -, poi parlando di «retroutopia» – il racconto di un passato che può far scorgere nel presente simili segni di liberazione -.
«Anche io inizialmente avevo paura che il libro fosse retrotopia – conclude l’autrice -: cioè il racconto di una cosa bella, ma appartenente al passato, finita nella forma in cui l’avevo conosciuta. Un bel ricordo.
Però è fondamentale continuare a riflettere. Guardare indietro serve per sognare e pianificare qualcosa per l’oggi e il futuro. Anche per riconoscere le stesse cose che adesso magari hanno altre forme e non sono ancora state riconosciute.
Quello che racconto nel libro, che ha una collocazione spazio temporale precisa, non è un unicum. Esiste da altre parti. E dobbiamo parlarne».
Luca Lorusso
Messico. Claudia, doctora y presidenta
Lei è Claudia Sheinbaum Pardo, delfina di Amlo, il presidente uscente. Guiderà il secondo paese dell’America Latina per popolazione. Un paese in crescita ma afflitto da una violenza endemica.
Nel paese dei femminicidi – nel 2023 sono stati 827 -, dal primo di ottobre una donna, la doctora Claudia Sheinbaum, sarà alla guida del Messico. Nelle elezioni dello scorso 2 giugno ha battuto – nettamente (36 milioni di voti contro 16,5, oltre 30 punti percentuali di scarto) – un’altra donna, la senatrice di origini indigene Xóchitl Gálvez.
Il dato (ufficiale) dei femminicidi è certamente drammatico, ma la contesa elettorale tra due donne indica che nel Paese latino-americano è in corso un cambiamento radicale. Inevitabilmente lento, ma effettivo.
Forse il passo più significativo può essere individuato nel decreto del 6 giugno del 2019, soprannominato «paridad de genéro en todo». Con esso furono modificati nove articoli della Costituzione messicana per applicare la parità di genere nelle candidature e nei posti negli organi esecutivo, legislativo e giudiziario, a livello federale, statale e municipale.
I sei anni di Amlo
Claudia Sheinbaum prenderà il posto del suo mentore Andrés Manuel López Obrador (Amlo), fondatore di Morena (oggi primo partito del Paese) e presidente tanto popolare quanto controverso. Fin dalla sua entrata nell’arena politica, la missione di Amlo è stata riassunta in una frase: «Por el bien de todos, primero los pobres» (Per il bene di tutti, prima i poveri), affermazione meritoria, ma molto impegnativa. Di sicuro, dopo decenni di dominazione dei due partiti conservatori (Pan e Pri), la sua presidenza – forse catalogabile come «populismo di centrosinistra» – è stata una novità assoluta.
Nei sei anni del suo mandato la spesa pubblica per programmi sociali è aumentata in modo significativo, ma i problemi fondamentali – l’insicurezza e la povertà su tutti – non hanno trovato soluzione.
Nonostante sei aumenti del salario minimo giornaliero (passato dagli 88 pesos del 2018 agli attuali 249, pari a circa 13 euro), il livello della povertà è rimasto alto. Secondo i dati di Coneval (un organismo costituzionale autonomo), ben 46,8 milioni di persone vivono in povertà, pari al 36,3 per cento della popolazione del paese. Di queste, oltre nove milioni (7,1 per cento) sono afflitte da povertà estrema.
Per gli strani giochi della politica e dell’economia, nel sessennio di Amlo i miliardari messicani hanno visto incrementare (di molto) le proprie fortune. Dietro a Carlos Slim (diciassettesimo nella classifica mondiale di Forbes), ci sono altre 13 persone: questo ristrettissimo gruppo di privilegiati – racconta un rapporto di Oxfam Mexico – controlla l’8 per cento dell’economia complessiva del paese.
Non è andata meglio in tema di sicurezza. La politica di Amlo sintetizzata nello slogan «abrazos, no balazos» (abbracci, non proiettili) è fallita, stando al numero degli omicidi e delle sparizioni, sempre altissimo.
Nei primi quattro mesi del 2024 la media è stata di 81 omicidi al giorno. Nelle statistiche degli ultimi sei anni impressionano poi due cifre: l’uccisione di 9 sacerdoti cattolici (vedere riquadro) e di 44 giornalisti (5 nel 2023 più uno scomparso).
Secondo Article 19, organizzazione messicana indipendente e apartitica che promuove la libertà d’espressione, nel 2023 nel Paese latino-americano ci sono state 561 aggressioni a giornalisti o mezzi d’informazione, un numero più alto rispetto ai governi che hanno preceduto quello di Amlo.
Questa è la pesante eredità di Obrador. Detto ciò, chiedersi se Claudia sarà una mera esecutrice delle volontà del presidente uscente, suo grande sponsor e padre politico, è un ragionamento dal vago sapore maschilista: dubitare della sua autonomia decisionale perché donna?
Il curriculum di Claudia
Nata in una famiglia di ebrei non praticanti, padre chimico con genitori della Lituania, madre biologa con genitori della Bulgaria, laureata in fisica all’Universidad Autónoma de México (Unam), un master a Berkeley e un dottorato, Claudia Sheinbaum è stata sindaca di Città del Messico.
Da anni, Amlo parla di «quarta trasformazione» della vita messicana. Nelle sue intenzioni si tratta di un indispensabile passaggio storico dopo le precedenti tre fasi: la guerra d’indipendenza (1810-1821), il periodo della riforma (1858-1861) e gli anni della rivoluzione (1910-1917), culminati con la promulgazione della Costituzione messicana (5 febbraio 1917).
Claudia Sheinbaum ha promesso più volte che continuerà sulla strada segnata da Amlo per dare seguito alla quarta trasformazione.
Sarà poi interessante vedere come la presidenta affronterà la questione climatica in un Paese che ne sta già patendo le conseguenze con picchi straordinari di calore e gravi carenze di acqua.
Il curriculum parla a suo favore, avendo lei collaborato con gli scienziati delle Nazioni Unite riuniti nel Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc). Le sue scelte prima dell’elezione sono però state contraddittorie. È stata infatti accusata di aver appoggiato il Tren Maya, la grande opera di Amlo contestata dagli ambientalisti.
Sul fronte energetico, Claudia Sheinbaum ha confermato di voler incrementare le fonti rinnovabili, senza dimenticare che il Messico è l’undicesimo produttore mondiale di petrolio tramite la Pemex (Pétroleos mexicanos), compagnia interamente di proprietà statale. La presidenta afferma che non sarà privatizzata, nonostante sia gravata da molti debiti.
Il vicino di casa
Il giorno seguente alla vittoria elettorale di Claudia Sheinbaum, il presidente americano Joe Biden ha chiamato l’eletta per complimentarsi.
Tutto prevedibile, considerato che Messico e Stati Uniti condividono molti affari e molti problemi. Il Paese latino-americano è il secondo socio commerciale degli Usa dopo il Canada. Inoltre, 11 dei 12 milioni di messicani nati in patria ma che vivono all’estero risiedono negli Stati Uniti, generando un enorme flusso di rimesse. Infine, dalla frontiera settentrionale del Messico – 3.169 chilometri di lunghezza – transitano la gran parte dei migranti illegali diretti negli Usa, una delle questioni più dibattute nella contesa elettorale tra Biden e lo sfidante Trump.
Le dimensioni del problema sono evidenziate da un dato: nel solo mese di dicembre 2023, la polizia di frontiera Usa ha fermato 250mila migranti che cercavano di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.
Cosa accadrà se nelle elezioni del 5 novembre dovesse prevalere il candidato repubblicano? Durante la lunga e scorrettissima campagna elettorale, Trump ha affermato che, dopo la sua vittoria (che lui dà per certa) farà espellere milioni di immigrati senza documenti. Secondo il Pew research center, questi sono circa 11 milioni. Di questi 4,1 milioni (il 40 per cento) sono messicani, risultando di gran lunga il principale gruppo di immigrati senza documenti (irregolari), precedendo nell’ordine quelli provenienti da El Salvador, India, Guatemala e Honduras.
La previsione
Oltre ai problemi citati, la situazione messicana è complicata da un’altra questione rilevante, interna al Paese.
Il presidente Amlo ha, infatti, proposto un pacchetto di venti riforme costituzionali, alcune molto interessanti (su diritti e ambiente), altre più opinabili (su organi giudiziari e guardia nazionale).
Per essere approvate, esse necessitano una maggioranza qualificata sia alla Camera che al Senato. Vedremo cosa accadrà in questi mesi di transizione tra le due presidenze.
Avendo in mente quanto accaduto alle (poche) colleghe latinoamericane elette alla medesima carica, possiamo prevedere che Claudia Sheinbaum, doctora y presidenta, avrà un compito duro.
Ed è molto probabile, anzi quasi certo, che sarà osservata e valutata con più severità rispetto a un presidente maschio.
Paolo Moiola
La Chiesa cattolica messicana e la neopresidente
BUONI PROPOSITI
Al contrario di altri paesi latinoamericani, in Messico la Chiesa cattolica ha resistito meglio all’erosione di fedeli per mano delle Chiese evangeliche. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Inegi, 2020), i cattolici sono il 77,2 percento della popolazione. Questo non significa che non ci siano problemi. Per esempio, la Chiesa cattolica messicana ha avuto un rapporto piuttosto conflittuale con il presidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo). A parte le tematiche sensibili (aborto, eutanasia, gender), l’accusa principale è di non aver fatto abbastanza contro la violenza del crimine organizzato. Violenza di cui è stata vittima la stessa Chiesa: durante la presidenza di Amlo sono stati ben nove i sacerdoti assassinati.
Di discendenza ebraica, la neopresidente ha spesso affermato di essere cresciuta in una famiglia laica con entrambi i genitori che si professavano atei. Questo non le ha impedito di incontrare papa Francesco in Vaticano lo scorso 15 febbraio.
Dopo la sua vittoria, la Conferenza episcopale messicana (Cem) ha rilasciato un comunicato di felicitazioni e di speranza.
«Oltre a sottolineare il privilegio di essere la prima donna a raggiungere la più alta carica del Paese, eleviamo le nostre preghiere affinché, con la responsabilità e la saggezza che la carica richiede, e cercando sempre il bene comune, possa condurre il Messico verso orizzonti migliori», ha scritto, tra l’altro, la Cem nel suo messaggio.
Pa.Mo.
Niger. Creatività al lavoro
Vi ricordate le start up di giovani nigerini di cui avevamo scritto nel marzo 2023? Avevamo incontrato alcuni protagonisti del progetto «Obiettivo lavoro», gestito da due Ong italiane. Le attività sono terminate e li abbiamo contattati per sapere come è andata.
Abbiamo parlato in video chiamata con il coordinatore del progetto Obiettivo lavoro, gestito dalla Ong Cisv in partenariato con Africa 70. Le attività, iniziate a fine 2020, consistevano nell’aiuto a start up di giovani imprenditori e a cooperative.
Moussa Arohalassi Halidou, dottorato in nutrizione, con oltre tredici anni di esperienza nel campo dello sviluppo, pare soddisfatto: «È un progetto fuori dal comune, rispetto a quelli che si trovano oggi in Niger. Gli iniziatori delle micro imprese e i membri delle cooperative sono stati responsabilizzati rispetto all’uso dei fondi, sia per gli investimenti iniziali che per le attività. Sono stati loro a studiare e proporre gli investimenti da fare. Noi, équipe di progetto, abbiamo verificato la fattibilità delle loro idee».
Responsabili della gestione finanziaria, dunque, ma anche della scelta dei fornitori e del rapporto con i clienti.
Soddisfazioni
Per quanto riguarda le micro imprese, l’équipe di progetto ha fatto una selezione delle 36 migliori idee di start up, su circa 500 domande ricevute. È stato quindi dato un appoggio formativo nelle materie della gestione d’impresa e dell’amministrazione. Ogni start up ha poi ottenuto un pacchetto di fondi (tra i 5 e i 6mila euro) per gli investimenti iniziali, ricevuti a rate dopo aver presentato un pano aziendale soggetto ad approvazione.
Quindi, l’équipe del progetto è rimasta al fianco di imprenditrici e imprenditori in una forma permanente di tutoraggio. «Noi siamo stati lì a verificare quello che le micro imprese facevano, per orientarle e dare consigli», continua Moussa, soddisfatto dei risultati. «Il progetto Obiettivo lavoro ha permesso a molte micro imprese di partire. Non esistevano, e il progetto le ha accompagnate a formalizzarsi, e poi a cominciare le loro attività».
Oggi però il progetto è terminato, e il tempo di accompagnamento è scaduto: «Avere a disposizione un periodo più lungo per accompagnare le start up aiuterebbe gli imprenditori a ridurre certe difficoltà che devono affrontare per portare le imprese a realizzare un maggiore volume di affari e quindi creare impiego.
Questo è uno degli obiettivi del progetto: creare lavoro per giovani e donne. Lo abbiamo raggiunto con le cooperative, ma non ancora con le micro imprese. Ogni start up dovrebbe creare dai due ai tre posti. Purtroppo, a fine progetto, non c’erano ancora questi numeri. È qualcosa che si vede sul medio lungo termine: quando una micro impresa decollerà, allora assumerà personale».
Difficoltà
Ma le difficoltà non sono mancate, come ricorda il coordinatore. A partire dal colpo di Stato del 26 luglio dello scorso anno (cfr MCnotizie. Niger. Colpo di stato: i militari padroni del Sahel), e dalle conseguenti sanzioni imposte dalla Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che hanno bloccato il sistema finanziario nigerino. Ricorda Moussa: «Le sanzioni internazionali hanno reso più complesso l’arrivo dei fondi dall’Italia, ma anche i versamenti delle rate alle singole micro imprese, che poi dovevano realizzare, esse stesse, gli investimenti, ad esempio per l’acquisto di macchinari o di materiali. Tutto questo ha complicato il programma».
Inoltre, occorre ricordare che in tutta l’area del Sahel, imperversano diversi gruppi armati jihadisti, rendendo insicuri vasti territori. «Il Paese non è totalmente stabile e ci sono zone nelle quali sono frequenti gli attacchi da parte di gruppi armati. Le cooperative e le micro imprese nella regione di Tillaberi hanno avuto questo problema, mentre quelle nella capitale Niamey e a Zinder non sono state toccate».
Gli chiediamo come hanno proceduto: «Le nostre équipe non potevano visitare i partner, seguirli e dare loro consigli perché era troppo pericoloso. Per i momenti di formazione e le riunioni facevamo venire i responsabili a Niamey. Inoltre, in alcune zone, le strutture esistenti, come uffici e magazzini, sono state saccheggiate dai gruppi armati. Tutto questo ha penalizzato le start up di quell’area».
Niger Shine Lady’s
Dopo aver sentito Moussa, abbiamo contattato alcuni imprenditori che sono riusciti a partire.
Lei si chiama Leila Barry, e si definisce imprenditrice sociale. Ha 34 anni ed è laureata in comunicazione d’impresa all’Università di Niamey. Ha un buon lavoro nel settore amministrativo, ma non le bastava. «L’idea della creazione della micro impresa Niger shine lady’s mi è venuta perché facevo borse e scarpe in cuoio e desideravo formare alcune ragazze del mio quartiere a produrle perché diventassero autonome sul piano economico. Dopo alcuni anni, quando ero capo progetto per una Ong internazionale che si occupava della salute delle donne, ho notato che le ragazze più povere avevano difficoltà a procurarsi gli assorbenti. Allora mi è venuta l’idea di insegnare loro la confezione di assorbenti igienici riutilizzabili».
Leila ha iniziato con l’ideazione del prodotto, ha poi realizzato qualche piccolo investimento con i propri fondi: «Pensavo ai bisogni delle ragazze che stavo seguendo». In seguito, il progetto le ha permesso di acquisire le macchine da cucire elettriche e le competenze in gestione.
Leila continua appassionata: «Gli obiettivi della mia micro impresa inizialmente erano la confezione di assorbenti riutilizzabili ma anche la fornitura di servizi associati per le ragazze in difficoltà, in tutto il Paese. In secondo luogo, avevo l’idea di creare qualche posto di lavoro, indispensabile per il funzionamento dell’attività. Ovviamente con una gestione rigorosa, per raggiungere la sostenibilità economica nel tempo. Ma sempre con grande attenzione agli aspetti sociali e ambientali».
Leila racconta che ci sono state anche difficoltà di tipo culturale, in quanto il tema è ancora considerato tabù dalla maggior parte della gente in Niger. Oggi però l’impresa funziona e oltre lei vi lavorano la sua assistente, un sarto e un guardiano.
Terra di Adamo
Ismael Hassane Adamou è un ingegnere nigerino di 32 anni. È a capo di un laboratorio che fa test sui materiali dell’edilizia. Qualche tempo fa, ha avuto un’idea: «Si può avere un terreno a Niamey, ma costruire una casa è piuttosto complicato. Allora ho pensato a un’alternativa al mattone in cemento, economica e pure più adattata al nostro clima. Ho scoperto un tipo di mattone di terra compattata con una particolare forma a incastro, che mette insieme economicità e un maggior confort all’interno della casa».
Si tratta di mattoni fabbricati con speciali presse, che compattano ad alta pressione una miscela di terra lateritica (molto diffusa in Niger) con una percentuale di cemento.
Ismael: «Ho chiamato la mia impresa Terre d’Adam (Terra di Adamo). L’obiettivo principale è quello di diffondere la costruzione con la terra, in quanto i suoi vantaggi sono innegabili e, in seconda battuta, di aiutare a risolvere la crisi di alloggi che c’è a Niamey. Oggi, infatti, in questa città è molto complicato trovare una casa in affitto o in acquisto ben costruita.
Questi mattoni sono economici perché usano meno cemento di quelli normali, ma sono comunque molto solidi. Inoltre, la costruzione avviene più rapidamente grazie alla struttura a incastro. Anche questo fa diminuire i costi complessivi».
Ismael, preparato tecnicamente, ha allargato le sue conoscenze grazie al progetto Obiettivo lavoro: «Ho acquisito alcune competenze cruciali, soprattutto in contabilità e in gestione, che mi hanno permesso di strutturare la micro impresa e renderla redditizia».
La start up produce attualmente tra i 120 e i 200 mattoni al giorno, utilizzando una pressa manuale. «Ma con la pressa semi automatica che stiamo per installare, potremo moltiplicare questo numero per 20», riprende soddisfatto Ismael. «Inoltre – continua -, l’appoggio passo passo di Cisv fino dall’apertura dell’impresa è stato fondamentale, perché mi ha permesso di sentirmi aiutato e seguito in tutto il processo. È stato molto importante per me. Mi sono sentito come in famiglia».
Oggi, la start up, è pronta a mettersi sul mercato. Impiega un responsabile della produzione e tre operai.
Cerimonie e compost
«Mi chiamo Rahamatoulaye Alio Sanda Almou, detta Ramatou, ho 27 anni, sono nigerina e ho studiato farmacia all’Università di Niamey. Quando ero studentessa, mi è venuta l’idea di creare una micro impresa. Ho avuto la possibilità di seguire una formazione in gestione d’impresa, e questo mi ha spinto a creare la mia attività. Ho scelto il settore dei servizi igienico sanitari con l’idea di trasformare i rifiuti organici in concime».
L’idea era buona: «Ma non è stato facile. Volevo creare la mia micro impresa, mi sono subito scontrata con i primi problemi: come finanziarla e quindi realizzarla?». Ramatou ha partecipato ad alcuni concorsi per le idee di start up nazionali e regionali. Ne ha vinto uno, e con i fondi ricevuti ha comprato la prima «toilette mobile» che pensava di affittare agli enti locali, con l’obiettivo di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri della capitale ma anche di ottenere concime organico.
«Mi sono scontrata con il problema delle abitudini e degli usi della popolazione. Come portare le persone a utilizzare le toilette?». Nel frattempo, è arrivata la pandemia e tutto si è fermato. «Mi sono detta: devo essere resiliente e riflettere su come rimodulare le attività della micro impresa. Ho quindi orientato l’attività al privato, che mi pareva più recettivo per utilizzare questo servizio. L’idea era quella di fornire servizi a chi organizza eventi privati e cerimonie, come i matrimoni, i battesimi, che coinvolgono molte persone». I servizi si sono ampliati all’affitto di sedie e tendoni per gli eventi, molto utilizzati nel paese.
«Devo dire che la pandemia è stata una difficoltà, ma anche un fattore determinante che mi ha fatto cambiare gli obiettivi della micro impresa. Inoltre mi ha spinta a cercare dei partenariati con progetti come Obiettivo lavoro».
Ramatou ha chiamato la sua start up «Sapta», che in haussa, la lingua più parlata in Niger, significa pulito o pulizia. Selezionata dal progetto di Cisv, ha potuto acquisire le attrezzature che le mancavano. Inoltre, lei e i suoi colleghi, hanno seguito formazioni di marketing, gestione aziendale e contabilità.
Oggi Sapta impiega quattro persone, di cui due permanenti e la altre a cottimo.
Polli che passione
Moumuni Saley ha 31 anni, è sposato e ha una figlia di due anni: «Il mio lavoro è gestire progetti in ambito sanitario, perché ho un master di secondo livello in gestione di progetti e programmi di salute pubblica. Però ho anche alcune certificazioni in fabbricazione di incubatrici per le uova, in orticoltura, in avicoltura moderna e biologica. Inoltre, ho competenze in gestione d’impresa.
La mia idea di micro impresa è nata perché avevo un sogno: creare una fattoria integrata, che comprendesse la piscicoltura, l’orticoltura e l’avicoltura. Era una passione che non avevo potuto seguire con gli studi».
La start up Complex Agro vende polli, pulcini e uova, produce e vende incubatrici, e fornisce assistenza dopo la vendita, consulenze e formazioni.
«Il progetto Obiettivo lavoro mi ha permesso di fare il salto di qualità. Prima facevo tutto questo a casa e in modo informale, in piccole quantità, non avevo i mezzi tecnici e finanziari. Adesso, dopo avere ricevuto tre formazioni sulla gestione d’impresa e una sull’avicoltura biologica, e dopo il finanziamento per le infrastrutture, tecnicamente sono più forte. È come se mi avesse fatto progredire di otto anni di lavoro in uno solo. Sono passato a un livello superiore per realizzare il mio sogno».
Marco Bello, con la collaborazione di Issa Yakouba
Solo e in compagnia (Gv 6,1-59)
Con il sesto capitolo, il Vangelo di Giovanni ci stimola ad accelerare e approfondire il cammino. Lo fa innanzi tutto segnalando che ci troviamo a Pasqua (6,4), osservazione che può sembrare inutile se si dimentica che proprio a Pasqua dell’anno precedente Gesù aveva espresso il suo giudizio sul culto nel tempio (2,13-17) e che in quella dell’anno successivo morirà in croce.
Lo fa anche con un racconto, quello della moltiplicazione dei pani, che, a differenza dei Vangeli sinottici, qui fa da preludio a una riflessione sull’eucaristia che ci saremmo aspettati di trovare più avanti, ossia durante l’ultima cena (dove invece è assente).
Infine, l’evangelista inizia a parlare con insistenza del rapporto di Gesù con il Padre, e per la seconda volta nel suo percorso ricorre a un «Io sono» (6,20) su cui torneremo presto.
Si arriverà a un certo punto nel capitolo a esplicitare che nessuno ha visto Dio e solo Gesù lo può far conoscere (6,46), un tema che percorre sottotraccia tutto il Vangelo fin dall’inizio. Ciò che fa Gesù è ciò che farebbe il Padre. Guardare il Figlio, dunque, significa guardare anche chi lo ha mandato.
Diventa allora significativo il gioco di Gesù che un po’ si ritira in solitudine, un po’ si mostra ai suoi e alle folle.
Il capitolo 6 si apre con Gesù che si ritira con gli apostoli sul monte (6,2-3) per evitare le folle che lo seguono per le sue guarigioni. Ma da lì le vede venire verso di lui, e non solo non le scaccia, ma si chiede come fare a dare loro da mangiare. A quel punto Gesù intuisce che la gente vuole «prenderlo per farlo re» (6,15), quindi si ritira sul monte da solo. Mentre lui è sul monte, i discepoli passano senza di lui dall’altra parte del lago, ma vengono colti da una tempesta. D’improvviso Gesù compare camminando sulle acque, e li porta a destinazione invitandoli a non avere paura (6,16-21).
Infine, Giovanni si avventura in una descrizione abbastanza contorta dello stupore della gente, che cerca Gesù faticando a trovarlo (6,22-25). Il fatto che la descrizione non sia lineare non è un errore dell’evangelista. Anzi, egli, proprio in questo modo attira lì la nostra attenzione, perché ci rendiamo conto ancora una volta che Gesù, che è cercato, potrebbe sottrarsi alla folla, e un po’ lo fa, ma si lascia anche trovare, per commozione e perché vede che gli altri hanno bisogno di lui.
Il volto del Padre
Abbiamo già detto che l’«Io sono» è uno degli elementi che ci suggeriscono un «cambio di marcia» di Giovanni. Il momento è quello in cui Gesù, camminando sulle acque, compare ai discepoli che stanno faticando a gestire la barca nel mare in tempesta. Loro, come è comprensibile, al vederlo si spaventano, ma Gesù li rassicura dicendo «Io sono» (6,20). Si tratta di una formula che potrebbe essere banale, il nostro «sono io», ma già nel Primo Testamento sono parole che richiamano la rivelazione del nome divino a Mosè: «Dirai agli israeliti: “Io sono mi ha mandato a voi”» (Es 3,14). Nel Vangelo di Giovanni la formula diventa solenne. Gesù, infatti, dice molte volte «io sono»: il pane di vita (nel capitolo 6), la luce del mondo (8,12), la porta delle pecore (10,7.9), il buon pastore (10,11.14), la risurrezione e la vita (11,25), la vera vite (15,1.5). Addirittura, in alcuni casi non aggiunge nulla, ma si limita a dire «Io sono» (8,24.28.58; 13,19), che sicuramente ha un tono solenne e divino.
Già una volta Gesù nel Vangelo aveva usato questa formula, parlando con la samaritana (4,26), ma là poteva sembrare un uso più semplice e «banale»: la donna parla del messia, Gesù le svela «Sono io, che parlo con te». Nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque in tempesta, invece, le stesse cominciano a sembrare qualcosa d’altro, anche perché sono dette da chi sta compiendo un’impresa sovrumana.
In queste righe del Vangelo di Giovanni, Gesù inizia ad alludere alla propria dignità divina, e nello stesso tempo continua a dichiararsi inferiore e in comunione con il Padre, del quale è la visibilità.
Quello che mostra in questo capitolo è allora il volto di un Padre che non avrebbe bisogno della compagnia degli umani, eppure sceglie di mettersi a disposizione, di lasciarsi trovare, sapendo che sono loro ad aver bisogno di lui. Il volto di un Dio che è padrone degli elementi (moltiplica i pani, calma la tempesta facendo arrivare subito a riva), ma non si sostituisce alla libertà e alla fatica degli esseri umani: sfama cinquemila persone, ma a partire non dal nulla, bensì da cinque pani d’orzo e due pesciolini (pasto scarno anche per chi lo aveva portato, ma che intanto deve essere messo a disposizione, deve essere perduto per essere ritrovato), e fa giungere a riva marinai che però intanto avevano provato a remare. Un Dio al servizio degli uomini, ma senza sostituirsi a loro.
Quello che Gesù mostra è un Dio che non usa mai gli elementi di cui è Signore per arrecare un danno, ma sempre e soltanto per il bene.
Un Padre che, come Gesù, sarebbe autosufficiente, ma sceglie di non stare da solo. E un Padre che interviene poco, per salvaguardare la libertà degli umani, ma quando lo fa interviene solo salvando, sfamando, mai punendo.
Che cosa dobbiamo fare? (Gv 6,26-35)
Negli Atti degli Apostoli la reazione al primo discorso di Pietro in cui si racconta la vicenda di Gesù è «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37). Al versetto 28 del capitolo 6 di Giovanni, anche la folla che cerca Gesù sull’altra riva del lago e lo trova, gli domanda: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». È comprensibile, umano e anche ammirevole: di fronte alla scoperta di una interpretazione diversa della nostra vita, chiedersi in che cosa cambiare è generoso e onesto. Gli interlocutori di Gesù, insomma, non sono né superficiali né ipocriti. Ma la risposta di Gesù spiazza, sulla linea di ciò che aveva lasciato intuire nel dialogo con la donna di Samaria (Gv 4,23-24): «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (6,29).
A essere significativi e sorprendenti sono almeno due aspetti. Il primo è che il «da fare» non sia qualcosa che deve essere fatto. Se è vero che le parole senza azioni sono vuote, è però ancora più vero che a essere significative nelle relazioni umane sono le intenzioni: il bambino che vuole aiutare la mamma provando a farle trovare al rientro a casa una pietanza che però è immangiabile non verrà rimproverato, ma probabilmente la farà commuovere. E orientando il rapporto con Dio non nel fare, ma nel credere (pisteuete), nell’affidarsi, nel confidare (questo è il senso profondo di un verbo che resta un po’ ambiguo), Gesù riorienta il rapporto degli esseri umani con Dio sull’unica cosa che conta, ossia la relazione. Vuoi fare l’opera di Dio? Fidati di lui, affidati a lui, vivi in una relazione di amicizia, di affetto, dove a essere decisivo non è ciò che fai, ma l’intenzione con cui vivi. Questo sembra essere per Gesù il cuore della morale religiosa: vivere una relazione autentica, profonda, di affetto con Dio. Quello che si fa, di conseguenza, è frutto di questa relazione.
Ma c’è anche un altro aspetto decisivo, perché in realtà Gesù non invita a credere in Dio, ma «in colui che egli ha mandato», ossia in Gesù stesso. In modo chiaro si afferma ciò che era già stato intuito prima e che ora diventa più esplicito: il Dio invisibile si può vedere e incontrare in Gesù.
Di fronte alla comprensibile perplessità degli interlocutori («Che segno compi perché ti crediamo?»), Gesù, alludendo alla manna del deserto, donata ogni giorno da Dio al suo popolo nel tempo dell’Esodo, parla del pane. Non solo i pani moltiplicati, ma un cibo che possa nutrire. Gesù, cioè, non si limita a dire: «Guarda che miracoli faccio, guarda come sono potente!», ma invita a cogliere che quello che lui fa è al servizio della vita di chi incontra, è destinato a nutrire, a sfamare. Gesù mostra un Padre che non vuole essere adorato e riverito, ma che si dona perché i suoi amici non patiscano fame o sete. Colui che può sfamare e dissetare, sulla linea dell’incontro con la donna samaritana, è Gesù. Poi, dalla dimensione fisica siamo invitati a passare a quella esistenziale, perché non viviamo soltanto di pane, ma di relazioni e senso della vita che sono ciò di cui abbiamo più bisogno.
Non si tratta di qualcosa a cui Gesù arrivi marginalmente o di recupero: «La volontà del Padre mio è che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna» (6,40).
Si parla della risurrezione nell’ultimo giorno, ma se ne parla al presente. Perché Gesù e il Padre vogliono la vita degli esseri umani, e questo desiderio non distinguerà tra il futuro e l’adesso.
Il cristiano non faticherà a capire che qui in fondo si parla dell’eucaristia, ma, persino più che nei sinottici, è chiaro che non la si potrà più intendere semplicemente come rito, bensì come gesto che rimanda a tutta l’esistenza di Dio: l’eucaristia raccoglie in un punto ciò che il Padre e Gesù fanno sempre, donare la vita per far vivere gli esseri viventi.
Figlio di Giuseppe o del Padre? (Gv 6,36-59)
Quello che Gesù afferma è pesante, intenso. Svela un volto di Dio che forse fatichiamo a immaginre: talora abbiamo la tentazione di pensare a un Dio giudice severo che castiga in modo durissimo chi si comporta male (cioè, gli altri). Invece, qui Giovanni ci mostra un Dio amante della vita e pronto a donarsi per nutrire l’umanità. Ma svela anche un Gesù che pretende di far conoscere il Padre, che si pone come tramite indispensabile: «Il pane della vita sono io!» (6,35).
Anche noi avremmo probabilmente reagito come gli interlocutori: «Costui non è Gesù, il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre?» (6,42). C’è un primo livello di contestazione che capiamo immediatamente: «Chi ti credi di essere? Sappiamo chi sei!». Ma questo tradisce un sottinteso più profondo: ci aspettiamo che Dio sia completamente diverso dall’uomo, non abbia rapporti con la nostra quotidianità. È un pensiero che percorre gran parte dell’umanità, non solo cristiana: vedendosi limitati e imperfetti, gli uomini pensano che Dio sia completamente diverso da loro. Ecco perché ci sembra convincente che Dio non si capisca, parli lingue strane, si nasconda misteriosamente in riti incomprensibili, dietro a muri o fumi di incenso. Quello che Gesù ha suggerito, che il Padre sia visibile in lui, e che Dio sia interessato a fare vivere e nutrire l’umanità, invece, contraddice questa lontananza e divisione.
Gesù mostra un divino che poteva anche rimanere lontano dall’umano, ma che ha voluto abbattere le distanze, è entrato nell’umanità fino in fondo, si occupa degli esseri umani non per farsi servire e riverire ed è pronto a farsi cibo e bevanda, per farli vivere, di bene (6,55-56).
Questo è possibile a Gesù perché a tale scopo è stato inviato dal Padre, di cui è immagine (6,57). Gesù è così perché è il Padre a essere così, pronto a donare se stesso perché gli esseri umani abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza. Non a caso Gesù può dire che chi si nutre di questo cibo, vivrà in eterno (6,58).
Angelo Fracchia (Il volto del Padre 07- continua)
Cina. L’offensiva culturale di Xi
L’attacco agli Stati Uniti e all’Occidente da parte del presidente cinese è sistematico e totale. Mira a sostituire idee e valori con la visione cinese. Ma a una disamina attenta emergono le molte contraddizioni di Pechino.
Si dice fosse la città più grande al mondo, con lunghe mura di argilla e un imponente palazzo reale all’interno. Stiamo parlando delle antiche rovine di Liangzhu, risalenti a 5.300 anni fa, ben mille anni prima della dinastia Shang, la prima ad apparire nella documentazione storica scritta.
Quella fiorita sul delta del fiume Azzurro, nell’area che oggi corrisponde alla periferia di Hangzhou, viene considerata tra le culture neolitiche tecnologicamente più avanzate al mondo: quelle rovine ospitano i resti della più antica struttura di ingegneria idraulica di tutta la Cina.
Liangzhu non è però solo la culla della civiltà cinese. Il sito archeologico offre anche i presupposti ideologici per un nuovo ordine internazionale, così come vagheggiato da Pechino: più «democratico» e inclusivo rispetto all’architettura mondiale definita dall’Occidente dopo la Seconda guerra mondiale.
Può sembrare strano, ma le ambizioni riformiste (qualcuno dirà «revisioniste») della leadership cinese attingono a piene mani a quel lontano passato. Per capire perché, occorre arrotolare il nastro al 15 marzo 2023, quando il presidente Xi Jinping, intervenendo a un meeting con i partiti politici stranieri, ha proposto una nuova soluzione alle «molteplici sfide globali»: «Tolleranza, coesistenza, scambi e apprendimento reciproco tra le diverse civiltà svolgono un ruolo insostituibile nel far avanzare il processo di modernizzazione dell’umanità», ha spiegato Xi.
La globalizzazione «armonica» di Xi
Da quel discorso ha preso forma uno dei pilastri della politica estera cinese: la Global civilization initiative (Gci), l’ultima di tre iniziative che, insieme, suggeriscono come perseguire lo sviluppo economico mondiale (la Global development initiative), il mantenimento della sicurezza internazionale (la Global security initiative), e appunto la gestione delle relazioni diplomatiche (la Gci). Secondo quest’ultima, ogni Stato ha una sua cultura specifica e specifici valori che meritano rispetto. Pertanto, è possibile convivere armoniosamente solo rinunciando all’imposizione di relazioni gerarchiche e astenendosi dall’interferire nelle questioni interne degli altri paesi. Non esiste un modello politico economico migliore o universalmente valido.
Si tratta di una visione che promuove la saggezza degli antichi principi confuciani e taoisti (dell’«armonia senza uniformità» e «della coesistenza armoniosa delle differenze») come ricetta per affrontare guerre, discriminazioni razziali, competizioni geopolitiche tra paesi: i mali della contemporaneità che Pechino attribuisce alle vecchie potenze occidentali, smaniose di esportare il proprio sistema democratico in giro per il mondo. Oltre che da Confucio e Laozi, il trittico Gdi-Gsi-Gci trae ispirazione dal concetto di «comunità dal destino condiviso», teorizzato dalla leadership cinese negli anni Novanta. Xi lo ha reso uno dei principi cardinali della sua politica estera prima ancora di avviare la Belt and road initiative (Bri), il progetto infrastrutturale volto a riportare l’ex Celeste Impero al centro delle dinamiche economiche e geopolitiche globali. Il presupposto è che «il futuro di tutti i paesi è oggi strettamente connesso» e che «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono «aspirazioni comuni» verso cui tendere.
Relativizzazione dei valori e nessuna ingerenza
Se la Bri punta soprattutto a infondere sviluppo materiale, le tre nuove sigle gettano invece i presupposti teorici per un nuovo modello di governance mondiale. Ergo, alla Cina non basta più presentarsi come il paese in via di sviluppo diventato seconda economia mondiale. Vuo-le che allo status economico corrisponda un riconoscimento politico e culturale.
È un’ambizione maturata nel corso di decenni, oggi più esplicita alla luce dei «profondi cambiamenti mai visti in cento anni di storia», come direbbe Xi: le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno evidenziato come una cospicua parte di mondo condivida il malcontento di Pechino nei confronti della postura occidentale nei due conflitti. Per quanto discutibile e largamente retorica, nel cosiddetto Sud globale la «neutralità» cinese viene apprezzata più della conclamata vendita di armi americane a Kiev e Tel Aviv.
Sul giudizio pesano le promesse mancate del Nord del mondo in merito alla necessità di riformare gli organi multilaterali, ancora troppo poco rappresentativi dei paesi emergenti. Esigenza di cui la Cina si è resa portavoce, dall’interno, incoraggiando l’ampliamento delle vecchie istituzioni internazionali (come il G20 e il Consiglio di sicurezza dell’Onu); dall’esterno, incentivando la nascita di piattaforme concorrenziali, a partire dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che nel 2024 hanno accolto altri quattro membri (Etiopia, Egitto, Iran ed Emirati arabi uniti).
Come appare evidente, gli effetti della Gci non sono esclusivamente «culturali», almeno non in senso stretto. Difficile non notare come la relativizzazione dei valori promossa dalla sigla smentisca l’universalità dei diritti umani, che Pechino subordina al raggiungimento del benessere economico. Mentre, sottoposta a un’interpretazione westfaliana della sovranità (lo Stato-nazione), l’ingerenza della comunità internazionale nelle dinamiche politiche dei paesi viene respinta sempre e comunque. Anche davanti all’«operazione militare speciale» di Putin in Ucraina o a una possibile (ri)unificazione di Taiwan alla Cina continentale.
Teoria e realtà
C’è chi ritiene che la missione civilizzatrice di Xi strizzi l’occhio alle autocrazie amiche. Riferimenti alla Gdi, Gsi e Gci, sono ormai una costante nei comunicati congiunti durante gli incontri con gli emissari del Sud globale. Eppure, l’approccio autoreferenziale dell’iniziativa cinese rischia di limitare notevolmente la cerchia degli ammi-
ratori. Se «pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà» sono principi incontestabili, è impossibile non riscontrare come nel mondo reale Pechino fatichi a rispettarne il significato letterale. Basta pensare all’espansionismo militare nel Mar cinese meridionale, che la Repubblica popolare rivendica quasi tutto per sé e dove negli ultimi mesi pescherecci e guardia costiera delle Filippine sono stati respinti a cannonate d’acqua. O alla repressione delle minoranze musulmane nello Xinjiang, la provincia cinese al confine con l’Asia centrale. Difficile parlare di rispetto per le differenze culturali quando le diversità vengono annullate persino dentro i confini nazionali.
La superiorità cinese
Scricchiola anche l’assioma dell’«equità», tanto caro al Sud globale. A parole la Cina sostiene la tradizionale architettura internazionale con al centro le Nazioni Unite: l’organizzazione, che meglio esprime le istanze dei paesi in via di sviluppo, figura esplicitamente nei documenti fondativi delle tre nuove iniziative globali di Pechino. Eppure, balza all’occhio come la retorica dei media statali spesso non esiti a rimarcare l’eccezionalità della tradizione cinese.
In una lettera scritta per commemorare il sito archeologico di Liangzhu, Xi ha affermato che la civiltà cinese, essendo «aperta e in costante cambiamento» da oltre 5.000 anni, «assorbe le parti migliori di altre civiltà da tutto il mondo». Riprendendo lo stesso concetto sulla rivista teorica Qiushi, lo scorso maggio il presidente spiegava senza giri di parole che «dal punto di vista della tradizione culturale, la civiltà cinese è l’unica civiltà al mondo che è continuata fin dall’antichità senza interruzioni. L’effetto combinato di molteplici fattori ha consentito alla nazione cinese di modellare gradualmente una mentalità nazionale e una psicologia culturale indipendenti e autonome nel suo sviluppo storico».
Questa autonomia, profondità e longevità – aggiunge il leader – attribuisce alla civiltà cinese «un fascino unico che è diverso dalle altre civiltà del mondo».
Tra le righe, si scorge una malcelata forma di «suprematismo culturale» molto antica che, se in epoca imperiale si manifestava nei confronti dei paesi «vassalli» del vicinato asiatico, oggi spesso emerge per scoperchiare i «doppi standard» degli Stati Uniti, modello di democrazia solo quando si tratta di criticare i paesi rivali.
Non potendo ancora rivendicare una superiorità economica (che, peraltro, oggi pare allontanarsi), a Pechino non resta che reclamare un primato immateriale: il tema della pochezza culturale degli Stati Uniti, il «nuovo mondo» senza storia, ricorre frequentemente sui media cinesi. D’altronde, oltre la Muraglia, proprio lo scontro geopolitico con Washington sembra aver rinvigorito quell’orgoglio per il passato negli ultimi vent’anni un po’ offuscato dai numeri luccicanti del Pil.
Il rapporto con gli Stati Uniti
Nelle relazioni con gli Usa, c’è un prima e c’è un dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Quello è stato il momento in cui la competizione sino-americana è debordata sul piano ideologico. Che sia stato così, è diventato evidente, però, solo nell’aprile di due anni dopo quando, parlando al Future security forum, l’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di stato degli Usa, Kiron Skinner, ha rimarcato come per «la prima volta» Washington si trovasse a fronteggiare «una grande potenza» non caucasica.
Da quel momento, per parte dell’establishment americano, la cultura e l’identità razziale sono diventate criteri per stabilire la natura – cooperativa o conflittuale – delle relazioni con gli altri Stati. Tanto che l’autorevole analista cinese Wang Jisi recentemente ha constatato come ormai «il dibattito politico e ideologico tra la Cina e gli Stati Uniti è essenzialmente definito dalle direttrici del nazionalismo, della cultura e della civiltà – “l’Oriente contro l’Occidente” – non tra socialismo e capitalismo, o tra proletariato e borghesia».
Contro le contaminazioni
È quindi la Cina che attacca o va considerata «legittima difesa»? Come spiega Xi sul Qiushi, «Sin dai tempi moderni, l’afflusso delle tendenze culturali occidentali ha avuto un impatto sulle tradizioni culturali e sul mondo spirituale del popolo cinese. Alcune persone hanno gradualmente perso la loro soggettività culturale. Come riconquistare la spina dorsale culturale è diventata una questione importante, legata alla sopravvivenza e allo sviluppo della nazione cinese». Un compito spettante al Partito comunista che, investito di una «missione storica», lo porterà avanti concentrandosi da una parte «sulla civiltà materiale», dall’altra «sulla civiltà spirituale». Il messaggio è chiaro: la prosperità economica non può prescindere dallo «sviluppo della cultura socialista». Non solo perché, come dice Xi, la Cina si sente minacciata dalle contaminazioni ideologiche esterne, ma anche perché dietro l’apparente sicurezza della leadership cinese si nascondono timori e debolezze. Impossibile non notare, infatti, come l’enfasi attribuita al passato glorioso serva a sviare l’attenzione dalle difficoltà del presente.
In patria, il rallentamento della crescita economica (scesa al 5% dal 10% del 2010) sta affossando gli stipendi; oltreconfine le disponibilità economiche più contenute hanno indotto una riduzione degli investimenti nel Sud globale.
Radici confuciane e marxismo
In cerca di nuove fonti di legittimazione, Pechino guarda indietro. Erede della Cina imperiale e maoista, la leadership comunista guidata da Xi sta investendo massicciamente nell’archeologia e nella ricerca storica per valorizzare tanto le radici confuciane quanto i «geni rossi» del Paese. Nella stanza dei bottoni viene utilizzato il termine «le due integrazioni», formula che sta a indicare la capacità con cui il Partito ha saputo armonizzare «i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e il meglio della sua cultura tradizionale, adattando continuamente il marxismo al contesto cinese e alle esigenze dei tempi».
Occorreranno mesi, forse anni, prima di poter giudicare il valore geopolitico della controffensiva culturale di Xi.
Dall’altro lato del Pacifico qualche perplessità già c’è. Per R. Evan Ellis, docente presso il United states army war college, in molte parti del mondo – proprio quelle a cui ammicca la Gci -, i concetti di «civilizzazione» e «modernità» sono ancora associati alla dominazione coloniale e all’emarginazione delle popolazioni indigene.
Senza bisogno di guardare troppo lontano, nello Xinjiang usi e costumi locali vengono considerati sintomo di arretratezza in contrapposizione al progresso economico e sociale delle province cinesi abitate dall’etnia maggioritaria Han. A quanto pare, i «doppi standard» non sono una prerogativa solo dell’Occidente.
Alessandra Colarizi
La lanterna resta accesa. Padre Bernardo Sartori, missionario
L’ultima volta che lo incontro è a Roma, lungo Via San Pancrazio. Un caldo giorno d’estate del 1968. Sono in autobus, quando scorgo sul marciapiedi una veste nera e una barba bianca.
«Ferma, ferma! – grido al conducente del bus -. C’è un’emergenza!». L’autobus si ferma fra lo stupore generale. Le porte a fisarmonica del mezzo si aprono.
Corro da lui, distante circa 70 metri, e lo chiamo: «Padre Bernardo!».
Quando mi vede, esclama: «Varda, varda el fiòl de Marino» (Guarda, guarda il figlio di Marino).
«Cosa fai qui a Roma?», mi chiede.
«Sto studiando teologia».
Conversiamo un po’. Naturalmente in dialetto veneto.
Padre Bernardo Sartori, quando ti incontra, chiunque tu sia, ti fa sentire «unico» nella sua vita. Così è anche per me in questo giorno romano.
Tuttavia, le persone accolte nel suo cuore sono migliaia e migliaia: a Falzé di Trevignano (Treviso), suo paese natale, a Troia (Foggia), dove ha operato come animatore missionario e, soprattutto, in Uganda, che lo vedrà missionario per 49 anni filati.
Padre Bernardo ha una parola speciale «solo per te». Una parola gioiosa.
Alla fine del nostro incontro nella capitale mi prende per mano dicendo: «Méname casa, parché me son pers qua a Roma» (Portami a casa, perché mi sono perso qui a Roma).
Padre Bernardo Sartori dal 2022 è «venerabile». Presto sarà «beato». Un fulgido esempio della Chiesa missionaria.
Quella stupida guerra
Bernardo Sartori nasce il 20 maggio 1897. Una frazione con meno di mille persone, tutta campi di frumento, granoturco, foraggio per vacche e buoi, gelsi per i bachi da seta e filari di viti. Ma spesso la metà dei raccolti è roba del «paròn». I contadini, infatti, in stragrande maggioranza sono fittavoli o mezzadri.
Fra i «paroni» c’è pure un conte. I bambini, quando lo vedono passare per strada fumando il sigaro, lo sbeffeggiano con la cantilena: «Conte coe braghesse onte / conte col capel de paia / conte canaia» (Conte con i pantaloni unti / conte con il cappello di paglia / conte canaglia).
Quei «paroni», con le loro mogli e amanti, sono spesso «canaglie», incuranti della fame e pellagra che affligge i contadini.
Un giorno padre Angelo Pizzolato, frate cappuccino di Falzé, durante un’omelia denuncia: «La nostra gente è rimasta povera a causa di due, tre signorotti».
Povera è pure la famiglia di Bernardo Sartori. Ad esempio: per pagare la retta del seminario diocesano, dove Bernardo studia da prete, i genitori devono togliersi la polenta dalla bocca. Polenta, perché il pane lo mangiano solo i «paroni».
Scoppia la Prima guerra mondiale (1914-1918). È «la grande guerra».
«Un’inutile strage», come lamenta il papa Benedetto XV. Falcia la vita a 10 milioni di persone. I caduti italiani sono 650mila (senza contare i civili) e i mutilati 450mila.
Nel 1917 anche Bernardo Sartori, ventenne, viene arruolato e mandato sul fiume Isonzo.
Una notte le mitragliatrici degli austriaci crepitano furiose a pochi passi da lui, le granate gli piovono intorno come arpie seminando morte. I cadaveri si ammassano al suolo tra urla disperate. Bernardo dice a se stesso: «È finita anche per me».
Poi si inginocchia, stringe la corona del rosario e prega: «Madonna santa, non farmi morire in questa stupida guerra. Io voglio andare fra i neri dell’Africa».
Amico lettore, se ti capita di entrare nella chiesa parrocchiale di Falzé, sosta davanti all’altare della Madonna del Carmine. Fra i vari ex voto «per grazia ricevuta» ne troverai uno firmato «Chierico Bernardo Sartori». Testimonia la sua vittoria in «una stupida guerra».
Da Troia a Ortisei
«Io voglio andare fra i neri dell’Africa».
Quella notte, sotto una tempesta di bombe, Bernardo Sartori promette di diventare missionario. E missionario sarà sulla scia di san Daniele Comboni, fondatore dell’omonimo istituto missionario.
Ordinato sacerdote il 31 marzo 1923, padre Bernardo è pronto per il grande balzo verso l’Africa, ma lo scoprono tisico con i polmoni bucati. La morte lo attende impietosa. Il tubercolotico, però, guarisce, ancora «per grazia ricevuta» dalla Madonna del Carmine di Falzé.
Ora si parte? Non ancora. Nel 1927 il superiore dei Comboniani lo manda a Bovino, in provincia di Foggia, per iniziare un seminario missionario. Però il seminario nascerà nella vicina, gloriosa ed antica Troia, che nulla ha a che fare con la Troia della seducente Elena, descritta dal poeta greco Omero.
Siamo sempre nel foggiano. Qui padre Bernardo e alcuni comboniani fanno i preti, risiedono in una casa (un ex convento) dedicata a «Maria Mediatrice di tutte le grazie». Sennonché «la Mediatrice» non c’è. Mancano pure i quattrini per comprarne un’immagine.
La notizia giunge fino al vescovo Fortunato Farina, che mette mano al suo portafoglio.
Padre Bernardo, in fatto di Madonne, ha gusti fini. Non si accontenta di immagini qualsiasi, magari rabberciate con lo spago. Per Troia, Bernardo esige una Maria Mediatrice pregevole, artistica, nuova di zecca. Soprattutto che parli al cuore dei troiani.
A tal scopo raggiunge Ortisei, in Alto Adige, dove si intagliano statue sacre in legno pregiato.
«Non voglio “una Madonna nordica”, perché io sono missionario nel Sud Italia – esordisce padre Bernardo di fronte all’artigiano altoatesino -. Inoltre, deve essere una Madonna missionaria».
«Si spieghi meglio, reverendo, perché lei sta andando sul difficile», replica l’artigiano dall’accento teutonico.
«La Madonna – spiega padre Sartori – tenga in una mano il piede di Gesù Bambino e con l’altra ne sorregga il braccio, quasi voglia porgerlo ai fedeli visitatori. Insomma, una Madonna che presenti a tutti Gesù salvatore del mondo». Oggi, secondo la mariologia moderna, la Madre del Signore è immagine e inizio della Chiesa, che avrà il suo compimento domani e dopo domani. Nel frattempo, Maria, per il travagliato popolo di Dio, «brilla quale segno di sicura speranza e consolazione» (Lumen Gentium 68). Infine, nel 1965, al termine del Concilio Ecumenico Vaticano II, papa Paolo VI (oggi santo) dichiarerà Maria «Madre della Chiesa». La dimensione mariana è uno dei cardini della spiritualità del nostro missionario.
Maria, Sultana d’Africa
Emoziona il tenore Andrea Bocelli, cieco, quando canta: «Con te partirò. Paesi che non ho mai veduto e vissuto con te, adesso sì li vedrò».
Finalmente anche padre Bernardo Sartori parte. Parte per un paese mai visto. È l’Uganda dei martiri Carlo Lwanga e dei suoi 21 compagni (alcuni anglicani). Parte il 5 novembre 1934 con in cuore tutte le persone cui ha comunicato la sua passione missionaria in Italia.
Quando arriva a Gulu, trova ad attenderlo fratel Arosio, un amico fin dai tempi di Troia.
«Ciao, vecchio. Cosa sei venuto a fare in Uganda?», lo canzona Arosio.
«Sono venuto a costruire chiese per la Madonna», sorride Bernardo.
«Ed io ti aiuterò», conclude Arosio.
«Costruire chiese per la Madonna». Grazie al sostegno dei compaesani di Falzé, degli amici di Troia e di altri benefattori, padre Bernardo costruirà numerose chiese in onore della Madre del Signore.
Ne ricordo quattro: Maria Sultana d’Africa a Lodonga, Maria Madonna di Fatima a Koboko, Maria Regina Mundi a Otumbari, Maria Madre della Chiesa a Arivu.
A Lodonga la vita è particolarmente complessa, perché è controllata in tutto dai musulmani. I colonialisti inglesi, che dominano l’Uganda, ritengono che a Lodonga l’Islam diventerà presto l’unica religione dell’intera tribù dei Logbara. Però padre Sartori erige una barriera con Maria, Sultana d’Africa. Ebbene, l’avanzata islamica si arresta. Nel 1961 i musulmani sono 30mila, e 30mila rimarranno a tutt’oggi, mentre i cattolici aumenteranno. Inoltre, parecchi musulmani abbracceranno il Cristianesimo. Di qui l’affermazione: «L’unico missionario capace di convertire i musulmani è padre Bernardo Sartori».
C’è «una logica soprannaturale» nel missionario: Maria è la porta dell’evangelizzazione (ad Iesum per Mariam). Così la chiesa materiale è il coronamento visibile di un’altra realtà più importante: la nascita della Chiesa viva.
Alla costruzione di chiese padre Bernardo abbina sempre un’altra opera assai più impegnativa e significativa: l’annuncio della «lieta notizia».
Ecco, allora, le interminabili visite alle comunità cristiane a piedi, in bicicletta o con la famosa moto a monocarrello; ecco le interminabili maratone sacramentali, le istruzioni, le penitenze. Il tutto accompagnato da una predicazione appassionata, canti coinvolgenti e una costante promozione sociale e spirituale.
Last but not least, tanta preghiera personale e altrettanta affabilità verso tutti.
Solo così si spiegano le conversioni dei seguaci di Muhammad.
Quello storico mattino
Dal 1971 il missionario vive le drammatiche vicende della bizzarra quanto brutale dittatura di Idi Amin Dada, nonché la sua caduta nel 1979, conseguente alla guerra Uganda-Tanzania.
Nel 1979 l’esercito del Tanzania invade l’Uganda fino alla capitale Kampala. È una dura «ritorsione», giacché i soldati di Amin hanno invaso per primi il Tanzania a Kagera.
Il Tanzania pagherà salatissima, in termini economici, quella invasione di «liberazione», mentre l’Uganda sprofonderà nella guerra civile.
Nella missione di Arivu tanti cristiani di padre Bernardo cercano scampo nel Congo (allora Zaire). Il missionario li segue, profugo tra i profughi.
Nel 1980 ritorna in Uganda e il 28 aprile rimane coinvolto in una sparatoria a Otumbari.
Da giugno a luglio 1982, padre Bernardo è nuovamente profugo in Congo. Instancabile nella pastorale e nell’assistenza alla popolazione abbattuta nel fisico e nel morale.
Ritorna in Uganda, nella missione di Ombaci. Ha 85 anni. È molto stanco.
Ma ogni mattina sosta in chiesa dalle ore 4 alle 8. Come se non bastasse, trascorre notti intere in preghiera.
Pure quel mattino, mentre in cielo si rincorrono le stelle sotto lo sguardo assorto della luna, il missionario entra in chiesa facendosi luce con una lanterna al cherosene.
È storico quel mattino, perché è il mattino di Pasqua del 3 aprile 1983.
Ora padre Bernardo Sartori giace esamine sul pavimento della chiesa al cospetto del Santissimo. È ritornato alla casa del Padre.
La lampada è ancora accesa, segno di una fede che ha vinto la morte.
L’arrivederci del popolo di Uganda al suo missionario è una apoteosi di commozione e riconoscenza senza pari.
La notizia raggiunge la gloriosa Troia, che proclama il lutto cittadino.
Mentre la modestissima Falzé canta l’alleluia pasquale, perché il loro indimenticabile compaesano è risorto.
Francesco Bernardi
L’articolo si rifà liberamente al libro «La sfida di un uomo in ginocchio» (padre Bernardo Sartori, missionario comboniano in Uganda), scritto da Lorenzo Gaiga, Emi, Bologna 1985.
I Padroni del mondo.
Lo strapotere delle aziende tecnologiche
Sono nate promettendo l’uguaglianza e la fine dei monopoli. Ma presto hanno rivelato la loro vera faccia. Come le aziende Big tech sono diventate il Grande fratello di Orwell.
Nella storia della pubblicità rimane una pietra miliare. È lo spot della durata di un solo minuto, con cui, senza mai mostrare il prodotto, venne reclamizzato il primo Macintosh di Apple: un personal computer che, negli intenti di Steve Jobs, avrebbe dovuto affermarsi (e così è stato) come un oggetto rivoluzionario. Ambientato in un futuro distopico, in cui domina una sorta di Grande fratello, lo spot, firmato dal grande regista Ridley Scott, andò in onda una sola volta nel 1984, durante una pausa di gioco del Super Bowl. Eppure lasciò un segno indelebile nell’immaginario collettivo, veicolando l’idea che – grazie ad Apple – sarebbe finito lo strapotere di chi, all’epoca Ibm, deteneva il monopolio dei computer. Finalmente accessibile a tutti, il pc avrebbe liberato l’umanità da una sorta di cappa, tipica di una società totalitaria come quella descritta nel romanzo «1984» di George Orwell.
Quarant’anni dopo, sappiamo com’è andata a finire: nell’arco di pochi decenni, i nuovi protagonisti del mondo della comunicazione sono diventati giganti ingombranti e pericolosi, assai più dell’Ibm del 1984. Nel frattempo, gli attori della rivoluzione digitale – Steve Jobs, Bill Gates, Jeff Besoz, solo per citare i più noti – diventavano i profeti della «nuova era».
È stato coniato un neologismo per indicare il pool di colossi che oggi hanno dimensioni economiche pari a quelle di alcuni Stati, una potenza tecnologica straordinaria (già adesso e, ancor più, in futuro grazie all’intelligenza artificiale), oltre che una capacità di influenza sui cittadini senza precedenti. L’acronimo Gafam allude a Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Quelli che, nel suo libro Rete padrona (Feltrinelli) Federico Rampini, già 10 anni fa, chiamava «i nuovi padroni dell’universo».
Jobs, Gates & company
Sebbene le aziende in questione siano diverse fra loro per vari aspetti (vedi box Salobir), è diventato ormai comune l’utilizzo dell’acronimo Gafam al quale oggi andrebbe forse aggiunta un’ulteriore M. Il riferimento è a Elon Musk, patron di Tesla e di molte altre aziende, divenuto particolarmente famoso da quando, nel 2022, ha acquistato Twitter, poi diventato X. Particolare curioso: anche «il visionario Musk» ha accompagnato l’acquisto di Twitter con una dichiarazione che voleva essere profetica: «L’uccello è stato liberato». A soli due anni di distanza, il cinguettio dell’uccellino in questione sa più di agonia che non di libertà.
Se ci occupiamo qui di un tema come questo, in apparenza per addetti ai lavori, è perché urge avere più consapevolezza del potere e delle strategie dei Gafam, così da utilizzarne i prodotti in modo adeguato. Già, perché tutti, in un modo o nell’altro, siamo fruitori dei tanti servizi offerti da queste aziende.
Dell’importanza dei social e del peso delle imprese che li hanno lanciati, ce ne siamo accorti, in modo particolare dopo il 2016. Ormai è documentato da inchieste giornalistiche e studi scientifici come in quel fatidico anno – sia nel caso del referendum sulla Brexit quanto nelle elezioni che portarono alla vittoria di Donald Trump – un ruolo importante venne giocato dalle fake news, veicolate ad arte proprio sui social. Un fenomeno talmente nuovo e grave che per definirlo fu coniata un’espressione inquietante, «post verità», che l’Oxford english dictionary indicò come parola dell’anno proprio nel 2016. Quanto alle fake news e agli effetti di quello che gli studiosi chiamano «disordine informativo», ci siamo resi conto di quanto pesino nella vita di una comunità soprattutto durante la pandemia, quando un’informazione corretta, rispetto ad esempio ai vaccini, ha determinato la vita o la morte di tante persone.
«Mostri a cinque teste»
Sono ormai numerosi i libri che mettono sotto accusa i Gafam e le loro strategie, oltre che i loro comportamenti (tra questi l’allergia ai sindacati e il frequente ricordo all’elusione fiscale). Un pamphlet, uscito in Francia nel 2023 a firma di Philippe Gendreau, definisce i Gafam niente di meno che «un mostro a cinque teste». Sotto accusa è, anzitutto, l’enorme potere economico da essi acquisito. Un esempio fra i tanti: a gennaio di quest’anno Apple aveva raggiunto un valore di mercato di tremila miliardi di dollari, più dell’intero Pil della Francia, la settima economia del mondo. Il rapporto Oxfam 2024 conferma: «Le “Big tech” dominano i mercati: tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online fluiscono a Meta (Facebook e altri), Alphabet (Google) e Amazon, e oltre il 90% delle ricerche online viene effettuato tramite Google».
Tale preoccupante trend già qualche anno fa era finito sotto la lente della Commissione antitrust della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, che in un rapporto di 449 pagine, così dipingeva i Gafam: «Aziende che una volta erano start up da strapazzo che sfidavano lo status quo sono oggi divenute i tipi di monopoli che non si vedevano dall’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie. Benché queste aziende abbiano apportato indubbi benefici alla società, il dominio di Amazon, Apple, Facebook e Google ha un prezzo. Queste società tipicamente controllano il mercato mentre vi competono». La concentrazione di potere economico è tale che i Gafam sono anche gli unici che possono compiere acquisizioni di altre aziende del settore: non a caso Facebook (ora di Meta) ha comprato prima WhatsApp e poi Instagram, sborsando cifre astronomiche, che pochissimi altri al mondo avrebbero potuto investire.
Il nuovo petrolio
Con il loro dominio nel settore tecnologico, dai software all’e-commerce, di fatto i Gafam sono ormai indispensabili per miliardi di persone che ogni giorno li usano: pensiamo, ad esempio, a quante ricerche sul web ogni giorno vengono effettuate tramite Google, a quante mail viaggiano grazie a Gmail, a quanti messaggini quotidianamente ci scambiamo su Whatsapp, quanti prodotti vengono acquistati su Amazon e così via. Tale dominio tecnologico, pressoché incontrastato, ha reso questi colossi i principali controllori di quello che oggi viene chiamato «il nuovo petrolio»: i dati personali che, coscienti o meno, ogni giorno affidiamo alle piattaforme mentre interagiamo con loro. Un autentico tesoro. È proprio a partire da questa oceanica massa di informazioni personali – prelevate, lavorate e vendute – che sta prendendo forma quello che la studiosa Sushana Zuboff ha chiamato «il capitalismo della sorveglianza».
Più in generale, le conseguenze sulle persone prodotte da queste aziende sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il «Wall Street Journal» del 27 gennaio 2021 ha scritto che «abbiamo perso il controllo di ciò che vediamo, leggiamo – e persino pensiamo – a favore delle più grandi società di social media». Franklin Foer, nel suo I nuovi poteri forti, descrive «come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi». Il giornalista statunitense Max Fisher nel suo La macchina del caos va oltre, quando denuncia: «Questa tecnologia esercita un’attrazione talmente forte sulla nostra psicologia e sulla nostra identità, ed è talmente pervasiva nella nostra vita, da cambiare il nostro modo di pensare, di comportarci e di relazionarci con gli altri. L’effetto finale, moltiplicato su miliardi di utenti, è quello di cambiare la società stessa in cui viviamo».
Un terreno (troppo?) fertile
Come siamo arrivati fin qui? Accanto a ragioni tecniche ed economiche, va ricordato il terreno culturale fertile del quale sono cresciuti i Gafam. Complici e miopi, ubriacati dal mito dell’underdog che diventa uomo di successo, in tanti, per anni, abbiamo osannato acriticamente personaggi quali Steve Jobs, Bill Gates e altri. Troppo bella la favola delle start up che nascevano dal nulla (di solito in mitici garage) per poi sbaragliare il mercato. Troppo seducente l’ideologia della Silicon Valley, anche se poi, nel giro di pochi anni, si è rivelata una Valle oscura (come suona il titolo del libro con cui Anna Wiener smonta il mito del più “cool” pezzo d’America).
«C’è stata un’indulgenza eccessiva», sintetizza per i lettori di MC Stefania Garassini, giornalista e studiosa, che già nel 1993 aveva fondato la rivista «Virtual», il primo mensile dedicato alla cultura digitale in Italia. «Non c’è dubbio – spiega Garassini – che l’avvento delle tecnologie digitali sia stato accolto da un alone di ottimismo. Del resto, affascinava molti l’utopia californiana, ossia l’idea che il pc garantisse l’accesso universale al sapere, una partecipazione più democratica e una cittadinanza più informata. Poche, molto poche le voci critiche in quel periodo. Dopo l’esplosione della bolla speculativa che ha colpito nel 2000 le aziende cosiddette «dot.com», l’economia del digitale è ripartita alla grande grazie al web 2.0. Non c’è stata critica all’inizio perché era dominante un pregiudizio positivo; in più, era difficile prevedere come si sarebbe evoluto il tutto». Continua Garassini: «Tra i pochi ad aver messo in guardia circa possibili effetti problematici del digitale segnalo
Howard Rheingold, autore di Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio. La tesi era chiara: c’è la possibilità che la tecnologia si riveli uno strumento molto adatto a promuovere un’esasperata commercializzazione dei nostri dati. “Quando il Grande Fratello arriverà, non stupitevi se avrà le sembianze di un commesso del supermercato”. È andata proprio così, la situazione ci è sfuggita di mano».
Piattaforme nel mirino
Dalle stelle alle stalle. Per lunghi anni i Gafam hanno conquistato fette di mercato sempre più ampie, ottenendo successo e popolarità in moltissimi Paesi del mondo. A quale prezzo? Amaro il bilancio che Valerio Bassan fa nel suo recente libro Riavviare il sistema. «La nascita di grandi monopoli tecnologici ha profondamente trasformato la struttura di internet. L’ingerenza autocratica di aziende e governi l’ha frammentata. E la diffusione di modelli di business basati su “datificazione” e sorveglianza ha disumanizzato il ruolo delle persone su internet». Gli fa eco padre Eric Salobir, nel suo Dieu et la Silicon valley: «Il mondo hi-tech è in crisi. Una crisi che non ha cessato di amplificarsi a partire dallo scandalo di Cambridge Analytica. Aggiungiamoci alla rinfusa le questioni dell’anonimato online, delle fake news e delle falle nella sicurezza informatica. Tutte cose che in comune hanno l’erosione della fiducia nelle nuove tecnologie. Un senso di inquietudine è venuto a gettare ombre sullo stupore, del resto sempre più relativo, ispirato dalle loro promesse».
Non da oggi, stanno emergendo una serie di problemi che hanno portato i Gafam a salire, loro malgrado, alla ribalta mondiale in più occasioni. A febbraio il Ceo di Meta è stato convocato per l’ottava volta dal Congresso americano, insieme ai responsabili di alcune delle principali piattaforme (TikTok, YouTube, Twitter-X e altre). Nello stesso mese la città di New York ha aperto una causa contro TikTok, Facebook, Instagram, YouTube e Snapchat ritenendoli responsabili di aver peggiorato la salute mentale di minori e adolescenti. Il 13 marzo la Camera dei rappresentati americana ha approvato a larga maggioranza una legge che apre la strada al divieto di usare TikTok negli Usa. Questa serie di interventi – stando a quanto scrivono alcuni – avrebbe spinto Musk e altri big delle aziende della Silicon Valley, storicamente simpatizzanti per i Democratici, a cambiare cavallo, sposando Trump in vista del voto di novembre.
L’influenza sulla politica
Altro paradosso: il sogno di una trasformazione digitale che avrebbe aumentato i diritti di tutti è naufragato schiantandosi contro un uso politico dei prodotti Gafam, in particolare dei social. Abbiamo così assistito all’uso efficace di Facebook e altri social da parte di autocrati e dittatori che sono riusciti a inasprire il controllo su dissidenti e voci critiche, anziché favorire la partecipazione popolare, come negli auspici dei pionieri del web. Ricordate la Primavera araba? Lo strumento di Twitter, che servì per infiammare le folle, è stato il medesimo poi utilizzato per diffondere fake news dai detentori del potere. In un articolo uscito sull’Huffington post il 3 giugno, l’autore – un russo di cui viene taciuto il nome per ragioni di sicurezza – sostiene che «i giganti del web, tra profitto e libertà di parola in Russia, spesso sacrificano la seconda ai fini del primo».
La questione di un utilizzo equilibrato delle piattaforme riguarda da vicino il futuro della democrazia. Come sottolineava Gianni Riotta il 6 giugno su Repubblica: «L’arena cruciale della nostra vita politica quotidiana è, da una generazione, la rete e le elezioni per la Casa bianca fra Trump e il presidente Biden a novembre, avranno nel web il campo di battaglia decisivo». Alla luce di tutto questo, appare urgente quindi che la politica intervenga in maniera decisa sul tema delle Big tech, se si vogliono conservare intatti i pilastri della corretta informazione, della trasparenza e della democrazia, altrettanti capisaldi per una convivenza che si possa definire civile. L’alternativa è che nei prossimi mesi si possano ripetere, negli Stati Uniti, le incredibili scene cui abbiamo assistito in occasione dell’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021: un’azione coordinata per mezzo di Facebook.
Il tango si balla in due
In attesa che siano meglio regolamentati i Gafam, cosa possiamo fare noi, utenti di Google e dei social o clienti di Amazon? Nel marzo 2021, Nick Clegg, capo delle relazioni pubbliche di Facebook, rispose con un lungo post a chi accusava il social di Zuckerbeg di faziosità. Il titolo era Tu e l’algoritmo: per ballare il tango bisogna essere in due. Al netto dello spirito polemico, Clegg ha ragione su un punto: quanto noi utenti siamo consapevoli dell’uso che facciamo dei prodotti dei Gafam? Quanto stiamo (o meno) attenti alla nostra privacy? E così via.
Il giornalista Gigio Rancilio dal giugno 2016 cura su Avvenire la rubrica «Vite digitali». Interpellato da MC, spiega: «In un mondo dove moltissime delle nostre azioni sono tracciate, è evidente che ogni nostra scelta assume un valore economico, politico e sociale.
Pensiamo all’informazione: non è la stessa cosa cliccare su un generico contenuto prodotto dall’ennesimo creator o sull’inchiesta di un giornale. Tutto ciò produce conseguenze ben precise. Ognuno di noi vota quotidianamente, con le tante azioni digitali che compie. Diventa allora necessario saper cercare con intelligenza e, in secondo luogo, valutare criticamente il risultato di quanto ci viene proposto: è l’attività più importante che come cittadini digitali – dagli adolescenti ai nonni – siamo chiamati a compiere». Chiude Rancilio: «Per quanto ci chiedano un surplus di vigilanza, sarebbe sbagliato eliminare le tecnologie e l’intelligenza artificiale dalle nostre vite. È facile spaventarsi delle conseguenze, ma siamo chiamati alla responsabilità e, in ogni caso, abbiamo sempre il dovere della speranza».
Gerolamo Fazzini
La macchina del caos
Facebook: 3 miliardi di utenti
Con i suoi tre miliardi di utenti e una potenza di fuoco senza eguali, Facebook, che ha da poco compiuto 20 anni, è il più fortunato, ma anche il più criticato, dei social al mondo.
Nel febbraio scorso la prestigiosa rivista Wired ha scritto: «A due decenni esatti dal lancio, possiamo dirlo: non avremmo dovuto fidarci. La storia del social network fondato da Mark Zuckerberg è infatti costellata di scandali, controversie, invasioni della privacy, disinformazione, inquietanti esperimenti di ingegneria sociale e addirittura violenza alimentata tramite quella che era nata come una innocua piattaforma per aiutare amici e parenti a restare in contatto».
Non meno taglienti le parole di Sheera Frenkel e Cecilia Kang in apertura del loro volume
Facebook: l’inchiesta finale (Einaudi, 2021), frutto di un lavoro giornalistico immane: «Un potente monopolio che ha fatto grossi danni. Ha abusato della privacy degli utenti e ha fomentato la diffusione di contenuti tossici e dannosi raggiungendo tre miliardi di persone».
A detta di molti, oltre che per lo scandalo di Cambridge Analytica, Zuckerberg dovrebbe rivolgere le sue scuse, in particolare, a milioni di utenti di Paesi in via di sviluppo dove, complice l’età media molto bassa, il suo social è particolarmente diffuso. Nel 2021 Alexandre Piquard ha firmato su Le Monde un caustico pezzo dal titolo Facebook non sa le lingue, nel quale afferma: «Alcuni documenti interni all’azienda rivelano che in molti paesi, soprattutto quelli più instabili, il social network non è in grado d’impedire o limitare la diffusione dei contenuti violenti e discriminatori». Come documenta, con abbondanza di esempi. La macchina del caos di Max Fisher, i social, in particolare Facebook (per colpa di algoritmi progettati per aumentare ad ogni costo il coinvolgimento dei fruitori, anche a costo di puntare su contenuti divisivi e premiare spesso i fautori dell’odio), hanno, in molti casi, esasperato le posizioni politiche, esacerbato le divisioni religiose, contribuendo a seminare violenza. Il tutto in Paesi quali Myanmar, Sri Lanka, India, Indonesia. Anche una giornalista coraggiosa come la filippina Maria Ressa, vincitrice del Nobel per la pace nel 2021, nel suo libro Come resistere a un dittatore (La nave di Teseo, 2023), racconta come lei stessa inizialmente aveva utilizzato Facebook per le sue battaglie pro-democrazia, ma si sia vista costretta a fare marcia indietro, dopo essersi accorta dei perversi meccanismi che regolano la piattaforma di Zuckerberg.
G.F.
Dio e la Silicon Valley.
Eric Salobir
Fondatore di Optic, il primo think tank affiliato al Vaticano che ha a che fare con la tecnologia, il domenicano Eric Salobir è, insieme a fra Paolo Benanti, francescano, tra gli uomini di Chiesa più esperti in tema di rivoluzione digitale. In un bel volume uscito in Francia nel 2020 (e presto in Italia, per i tipi di Lev), dal titolo Dieu et la Silicon Valley, invita a non cedere a facili schematismi: «La Silicon Valley non è il paradiso, ma non si riduce alla visione caricaturale rappresentata dall’acronimo Gafam. E poi c’è il fatto che le entità di questa sigla sono profondamente diverse tra loro, tanto nei servizi che offrono come nei loro motti o slogan: che cosa c’è di comune tra il Don’t be evil, l’imperativo categorico di Google presente nel suo codice etico, e il Work hard. Have fun. Make history di Amazon? Non si possono assimilare in una stessa parola, Gafam, aziende dalla cultura e dal business model così differenti».
G.F.
Quali sono le alternative ai Gafam.
Incontro con Valerio Bassan, giornalista esperto digitale
Giornalista, già docente universitario, autore dell’apprezzatissima newsletter «Ellissi», Valerio Bassan è un acuto osservatore del mondo digitale, come prova il suo libro «Riavviare il sistema». MC lo ha intervistato, per capire se ci sono alternative percorribili ai prodotti «Made in Gafam».
Per quanto potenti siano le Big Tech, alcune vittorie sul fronte della privacy negli ultimi anni i consumatori le hanno ottenute. Quali e come?
«Dal 2018, anno in cui fu varato il Gdpr (regolamento della Ue in materia di trattamento dei dati e privacy, ndr), i cittadini hanno visto uno sforzo da parte dell’Unione europea nel regolamentare lo strapotere delle grandi aziende tecnologiche. Due leggi recenti come il Digital markets act e il Digital services act sono state implementate con l’obiettivo di porre un freno a pratiche commerciali considerate scorrette, e di aprire le “scatole nere” degli algoritmi che i colossi tech utilizzano per rafforzare il proprio dominio. Tutto starà nel vedere come queste leggi – perfettibili, ma che rappresentano un primo storico passo avanti – verranno implementate. L’effetto potrebbe essere ampiamente positivo per chi risiede nel continente. Resta da vedere se ci sarà un impatto a livello globale, dato che molte di queste aziende operano al di fuori dei confini Ue».
La stragrande maggioranza di noi utilizza Google Chrome come browser. Altri usano Firefox. Potrebbe valer la pena cambiare abitudini?
«I browser sono la nostra porta d’accesso principale al web, e per questo svolgono un ruolo di intermediazione che è quasi invisibile ai nostri occhi ma rimane estremamente potente e influente; plasmano la nostra esperienza di internet e sono i canali di irrigazione da cui transitano moltissimi nostri dati. Ma non tutti i browser sono uguali. Firefox, ad esempio, così come Brave, sono tra i più attenti alla nostra privacy. Oltre a proteggere meglio le nostre informazioni, sono progettati per aiutarci a fare scelte consapevoli su come investiamo il nostro tempo e la nostra attenzione online, il tutto con un’esperienza di navigazione equiparabile a quella di browser più dominanti come Chrome. Installarli è facile e sono anch’essi gratuiti, dunque non ci sono reali motivi per non provarli da subito».
Passiamo alle app di messaggistica: la più nota in assoluto è senz’altro Whatsapp. Conviene abbandonarla e dirottarci su Signal? Se sì, perché?
«Signal è un’ottima app, con tante funzioni che ci permettono di salvaguardare la nostra privacy; inoltre, essendo di proprietà di una fondazione non profit, ci garantisce che i nostri dati non verranno mai usati per fini commerciali. Per quanto la apprezzi e la usi spesso, mi viene tuttavia difficile immaginare un mondo senza Whatsapp, che è molto diffusa e altrettanto semplice da utilizzare. Con così tanti utenti è impossibile ipotizzare una reale migrazione di massa verso un’alternativa: è la logica protettiva dei giardini recintati, in cui vince chi ha sfruttato al meglio l’effetto network. Ed è per questa stessa ragione che subito dopo Whatsapp troviamo Messenger, un servizio che appartiene alla stessa azienda, Meta. Forse solamente quando l’interoperabilità sarà più diffusa avremo più possibilità di scelta, e quindi saremo liberi di decidere di utilizzare l’app più sicura per ricevere i messaggi di chiunque».
Quando Musk si è impadronito di Twitter, trasformandolo poi in X, parecchi utenti sono migrati su Mastodon, tra questi un intellettuale del calibro di Vito Mancuso. Ebbene: Mastodon si presenta come «il social networking che non è in vendita». E reclamizza i suoi servizi sostenendo che «la tua home feed dovrebbe essere riempita con ciò che conta di più per te, non con ciò che una corporation pensa che dovresti vedere». C’è da fidarsi?
«Mastodon è un progetto decentralizzato, e in quanto tale nessuno può guadagnarci: non c’è un proprietario e nessuno può controllarne ogni spazio, come invece succede con le piattaforme private delle Big Tech. Ci riporta a un’idea primordiale della rete, quella del cyberspazio, in cui non c’è una reale sovranità all’interno degli spazi di discussione, che su Mastodon si chiamano “istanze”, e quindi non c’è una reale possibilità di monetizzazione. Insomma, c’è da fidarsi, ma la vera domanda è un’altra: e cioè quante persone siano disposte a spostarsi all’interno di un social decentralizzato, perdendo i propri follower e following, e ritrovandosi in un ecosistema più povero di contenuti, influencer e creator».
Veniamo ai servizi e-mail o cloud. Quali ti senti di consigliare?
«Di servizi di e-mail e cloud alternativi ce ne sono tantissimi. I più etici e conosciuti a livello internazionale sono sicuramente lo svizzero Protonmail e il tedesco Tutanota. In Italia c’è poi il progetto tecnologico e politico insieme di Autistici/Inventati, che nasce come servizio open source pensato appositamente per attivisti e collettivi».
Infine. Per chi volesse fare a meno di Google, ci sono motori di ricerca alternativi? Che ne pensi di DuckDuckGo?
«I motori di ricerca sono un altro grande gatekeeper e meriterebbero di vedere il proprio monopolio messo quantomeno in discussione – cosa tutt’altro che semplice. DuckDuckGo è una buona alternativa perché non raccoglie né condivide le informazioni personali degli utenti, né traccia le ricerche. Certo, a volte i risultati possono non essere all’altezza di quelli di Google, specialmente in termini di rilevanza e aggiornamento. Con la diffusione dell’AI, però, stiamo assistendo alla genesi di una nuova era, in cui il ruolo dei motori di ricerca cambierà: questi sistemi ci forniranno sempre più risposte direttamente nella ricerca, grazie alla generazione di testi, e diminuiranno i link verso pagine esterne, trattenendo gli utenti al loro interno. Purtroppo, questo nuovo scenario indebolirà i concorrenti più indipendenti: a essere più performanti saranno i motori di nuova generazione che potranno spendere più soldi nella creazione di sistemi più sofisticati e negli accordi con i fornitori dei contenuti. E quindi temo che, ancora una volta, in primissima fila resteranno i servizi delle Big Tech come ChatGPT (di OpenAi, finanziata da Microsoft, che ha la sua Ai Copilot, integrata nel motore di ricerca Bing, ndr) e Gemini (di Google), che hanno capitali da investire molto più grandi rispetto ai competitor indipendenti, come Perplexity o la stessa DuckDuckGo».
G.F.
Come la vita è diventata virtuale
Breve storia della rivoluzione digitale
È una storia di quarant’anni. E sta continuando con evoluzione sempre più rapida. Ha cambiato le abitudini e il modo di relazionarsi di miliardi di persone nel mondo. Ma non è tutto positivo. Ripercorriamone le tappe.
Questa sintetica cronologia ricapitola alcune delle principali tappe del processo che ha visto l’affermazione su scala globale dei Gafam, soprattutto il lancio e la successiva diffusione di alcuni dei più famosi prodotti tecnologici e social media del mondo.
1969. Nasce Arpanet negli Usa, la prima rete di computer a uso militare e accademico, da essa sarà originata Internet nel 1983.
1975 Nasce Microsoft.
1982. Appare il sistema operativo McDos. Il settimanale statunitense «Time» dedica la copertina al personal computer come «macchina dell’anno». L’anno dopo nasce il «mouse».
1984. Attiva dal 1977, Apple mette sul mercato Macintosh, il primo pc destinato al largo consumo con un’innovativa interfaccia grafica. Nello stesso anno, in Cina, viene fondata Lenovo, che gradualmente si specializzerà nel campo dei pc.
1985. Microsoft introduce il sistema operativo Windows, con applicazioni come Word ed Excel, che conosceranno grande fortuna e che, insieme ad altri programmi, verranno poi ribattezzati Office nel 1990.
1989. Il 12 marzo Tim Berners-Lee presenta ai suoi capi al Cern di Ginevra quello che poi diverrà il World wide web, il principale servizio di internet.
1991. Grazie a Linus Torvalds, studente finlandese di ingegneria, decolla Linux, uno dei sistemi operativi open source più utilizzati anche oggi.
1992. A dicembre viene inviato il primo Sms della storia, messaggio di 160 caratteri.
1994. Il giovane Jeff Bezos fonda Amazon.
1995. Con il nuovo sistema operativo Windows 95, Microsoft consolida la propria leadership nel settore. L’azienda, che Bill Gates e Paul Allen avevano fondato vent’anni prima, diverrà uno dei pilastri dei Gafam.
1998. ll 6 maggio è la data di esordio di iMac, uno dei prodotti più importanti nella storia di Apple perché rappresenta l’introduzione del design nel mondo dell’informatica.
Il 4 settembre Larry Page e Sergey Brin, due studenti della Stanford University, lanciano il motore di ricerca Google, in un garage di Menlo Park. Pochi anni dopo, verranno introdotti nel motore di ricerca annunci pubblicitari targhettizzati sulla base delle ricerche degli utenti. Si affermerà così Google AdWords, la piattaforma pubblicitaria della compagnia, che porterà in breve Google a diventare uno dei colossi del settore tech.
1999. Il 19 gennaio arriva sul mercato il primo telefono Blackberry, per l’epoca un oggetto straordinario: consente infatti di mandare e ricevere messaggi tramite una tastiera Qwerty. Il 21 luglio viene messo in commercio il primo modello di iBook: un altro prodotto di grande successo targato Apple, per la lettura di libri non cartacei.
2000. A inizio anno decolla Baidu, il primo motore di ricerca cinese che diventerà il secondo al mondo, dietro Google. La Commissione europea mette nel mirino Microsoft per sfruttamento di posizione dominante; seguono due condanne rispettivamente nel 2004 e nel 2008.
2001. Il 15 gennaio nasce Wikipedia, enciclopedia online a contenuto libero. Diverrà una delle tappe più importanti dell’evoluzione di internet nel decennio 2000-2009. Nello stesso anno Apple lancia l’iPod, rivoluzionario sistema per la fruizione di brani musicali in digitale. Steve Jobs presenta la nuova strategia di Apple: il pc al centro, come «hub» di una serie di nuovi dispositivi. Nasce la digital lifestyle.
2002. Da un team di quattro persone, fra le quali Reid Hoffman, nasce LinkedIn; il lancio ufficiale avviene il 5 maggio 2003. È uno dei primissimi social; impiegato principalmente nello sviluppo di contatti professionali e nella diffusione di contenuti specifici relativi al mercato del lavoro, nel 2016 verrà acquistato da Microsoft.
Nello stesso periodo si afferma il rivoluzionario Google News, un servizio di aggregazione di notizie offerto da Google che raccoglie contenuti da migliaia di fonti in tutto il mondo. A cadenza biennale Google introdurrà una serie di servizi di grande successo: Gmail nel 2004 (che presto diventerà il servizio di posta elettronica più usato al mondo), Google Maps nel 2006, Google Chrome nel 2008, il social network Google+ nel 2011.
2004. Il 4 febbraio Mark Zuckerberg, studente di Harvard, vara The Facebook, che nell’agosto 2005 diventa semplicemente Facebook. Ha così inizio l’era dei social. Nello stesso anno Google sbarca a Wall Street: quello che all’inizio era un semplice motore di ricerca è diventata un’azienda tra le più grandi al mondo.
2005. Il 23 aprile viene pubblicato il primo video su YouTube, dal titolo «Me at the zoo». L’ideatore è Jawed Karim, allora ventisettenne. La piattaforma verrà acquistata da Google nel 2006, per 1,65 miliardi di dollari.
2006. È un anno chiave. Il 21 marzo Jack Dorsey fonda Twitter, un nuovo social che si caratterizza per la brevità dei messaggi (140 caratteri che poi passeranno a 280). A settembre Facebook lancia il News Feed, il flusso di aggiornamenti dai profili degli amici; partono anche le prime critiche sulla tutela della privacy. Negli Usa solo l’11% delle persone usa i social, nel 2014 saranno già i due terzi del totale. Nel medesimo anno Yahoo prova ad acquistare Facebook, allora con «soli» 8 milioni di utenti, offrendo un miliardo di dollari, ma Zuckerberg lascia cadere la proposta.
2007. Nasce iPhone di Apple, che combina, in un piccolo e leggero dispositivo portatile, tre prodotti: un telefono cellulare, un iPod con touch control e un rivoluzionario dispositivo di comunicazione. Lo slogan promozionale – che sintetizza il segreto del futuro successo degli smartphone – suona: «Do everything in one place».
Il 19 novembre 2007 Amazon – già affermatosi il più importante store online – introduce Kindle, che nell’arco di poco tempo si impone come l’e-book reader più popolare del mondo.
2008. Facebook è ormai un fenomeno globale (è l’anno del boom di iscrizioni in Italia). L’azienda vale oltre 15 miliardi di dollari. Nasce il sistema operativo per dispositivi mobili Android di Google, che poi diventerà uno standard per i prodotti non Apple. Un anno dopo nasce WhatsApp.
2010.Il 27 gennaio sul mercato approda l’iPad, il tablet di Apple: un dispositivo multi touch in grado di riprodurre contenuti multimediali e con la possibilità di accedere a internet. Nello stesso anno Apple acquista Siri per 200 milioni di dollari, rendendola l’assistente virtuale presente negli iPhone e negli altri dispositivi. Il 6 ottobre Kevin Systrom e Mike Krieger lanciano Instagram.
2011. In gennaio nasce quella che diventerà la piattaforma sociale per eccellenza in Cina: WeChat. È un sistema di messaggistica e social network (come WathsApp). Su iniziativa di Justin Kan ed Emmet Shear, il 6 giugno decolla un nuovo social: Twitch. Piattaforma di condivisione di videogiochi che verrà acquisita nel 2014 da Amazon per 970 milioni di dollari.
2013. Facebook acquista Instagram per un miliardo di dollari; nello stesso anno si quota in Borsa.
2014. Il 19 febbraio Facebook compra WhatsApp per 19 miliardi di dollari. Un mese dopo, per un miliardo di dollari, acquista Oculus, un’azienda che produce visori per la realtà virtuale.
2015. L’ultimo nato nella casa di Cupertino, il 24 aprile, è l’Apple Watch: un orologio da polso con funzioni da iPhone. Ottobre segna una tappa decisiva nella storia di Google: viene fondata Alphabet, la holding cui fanno riferimento tutte le società controllate del gruppo fondato da Larry Page. Ormai lo spettro di attività si è ampliato molto e comprende tecnologie nel campo della robotica e dei droni, la guida autonoma di veicoli, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (con DeepMind) e ricerche nel campo delle scienze della vita (grazie a Verily).
2016. In giugno Microsoft si conferma uno dei colossi delle Big tech, acquistando LinkedIn per 26,2 miliardi di dollari. Il 2016 – con il referendum sulla Brexit e le elezioni Usa vinte da Trump – passerà alla storia soprattutto per l’influsso dei social sulla politica. Le piattaforme di proprietà di Facebook vengono usate quasi dal 70% degli americani, ciascuno dei quali in media ci passa circa 50 minuti al giorno. Nel frattempo, un rapporto documenta i danni (polarizzazione estrema, discorsi di odio…) che la piattaforma sta producendo in Myanmar, dove ormai la quota di utenti che riceve news solo da Facebook si sta avvicinando al 40%.
2017. Il 16 giugno, acquistando la catena di supermercati bio Whole Foods Market, Amazon realizza la più grande acquisizione della sua storia: oltre 13 miliardi di dollari. Il 20 settembre sbarca sul web un nuovo social, prodotto dalla società cinese ByteDance: TikTok. È un social per la condivisione video, molto usato dai teenagers che conoscerà, in pochi anni, un’enorme diffusione.
2018. Il 17 marzo scoppia lo scandalo Cambridge Analytica: Facebook viene accusata dal New York Times di aver utilizzato in modo illegale i
dati di decine di milioni di utenti a scopo elettorale. Un mese dopo Zuckerberg finisce davanti al Congresso Usa. Alla società viene comminata una super multa da 5 miliardi di dollari. In novembre un nuovo reportage del New York Times denuncia il coinvolgimento del social di Zuckerberg nelle ingerenze e violazioni di privacy legate alle elezioni russe.
2019. Kindle (di Amazon) arriva a coprire l’80% del mercato dei dispositivi per la lettura dei libri digitali.
2021. In febbraio l’Australia vara una legge che obbliga Google e Facebook a pagare una licenza agli editori per l’impiego dei loro contenuti. In ottobre Facebook cambia nome, diventando Meta; il riferimento è al Metaverso, la nuova tecnologia dove la presenza virtuale – promette Zuckerberg – sarà equivalente e parallela a quella fisica, grazie a un dispositivo di realtà virtuale.
20222. Gli utenti di Facebook arrivano a quota 1,9 miliardi. Ma, per la prima volta, il numero cala rispetto all’anno precedente. Dopo un lungo periodo di espansione e assunzioni, Meta licenzia 11mila dipendenti. In ottobre Elon Musk acquista, per ben 44 miliardi di dollari, Twitter, poi ribattezzato come X. A gennaio 2024 la nuova piattaforma registrerà un crollo del valore di oltre il 70%.
2023. In estate l’intera famiglia Meta (che include Facebook, Instagram, WhatsApp, Threads e altri) arriva a contare 3,88 miliardi di utenti attivi mensili, quasi la metà degli abitanti del pianeta. La rivista Economist commenta: «Facebook e i suoi imitatori non hanno fatto solo soldi. I social media sono diventati il modo principale con cui si usa internet e una parte importante della vita delle persone». In ottobre Microsoft – che produce Xbox – completa la più grande acquisizione della storia dei videogiochi, assumendo il controllo di Activision Blizzard al prezzo di 69 miliardi di dollari. Intanto Gmail arriva a contare quasi 2 miliardi di indirizzi.
2024. Gli Usa approvano una legge che, in nome della sicurezza nazionale, impone a TikTok di separarsi dalla società ByteDance per poter operare negli Stati Uniti (il timore è che sia controllata dal governo cinese). 30 aprile: la Commissione europea apre un’inchiesta su Facebook e Instagram, sospettati di non aver rispettato i loro obblighi in tema di lotta alla disinformazione in vista delle elezioni europee di giugno. Il 16 maggio: Bruxelles mette nuovamente nel mirino le due piattaforme, accusate di alimentare comportamenti di dipendenza nei minori. Dal 29 maggio, grazie a Tap to Pay, anche in Italia chi ha un’attività commerciale può accettare pagamenti contactless via iPhone.
Gerolamo Fazzini
Apple come esperienza «religiosa».
Strategie di marketing
Il grande studioso Umberto Eco, una trentina di anni fa, scrisse: «È mia profonda persuasione che il Macintosh sia cattolico e il Dos protestante; anzi, il Macintosh è cattolico controriformista, e risente della ratio studiorum dei gesuiti. Perché è festoso, amichevole, conciliante, dice al fedele come deve procedere passo per passo per raggiungere – se non il regno dei cieli – il momento della stampa finale del documento» (la citazione si trova in Come viaggiare con un salmone, La nave di Teseo, 2016).
Potrà stupire questo riferimento religioso al mondo dell’informatica, ma, in realtà, i guru del digitale – a cominciare da Steve Jobs – hanno fatto di tutto per sfruttare il desiderio degli utenti di appartenere a un gruppo di «eletti», caratterizzato dalla conoscenza di una «verità nascosta ai più». Emblematica la presentazione del libro di Antonio Guerrieri che uscì per Mimesis nel 2013 con il titolo Apple come esperienza religiosa: «Apple rappresenta per molti suoi appassionati qualcosa in più di una corporation dell’informatica: nella maniera di presentarsi al pubblico e nei sentimenti suscitati nei Mac-user, mostra somiglianze con quanto viene tradizionalmente attribuito alle religioni. Dalla scelta della mela, simbolo del peccato e della conoscenza, alla volontà di differenziarsi in modo eretico-rivoluzionario dall’ortodossia di Ibm e Microsoft: c’è un che di realmente religioso nel culto di Apple e nell’ammirazione, e quasi devozione, di tanti per la figura di Jobs».
Non vi basta? C’è un aneddoto illuminante. In un documentario Bbc Three del 2011 dal titolo Secrets of superbrands vengono descritte le strategie di marketing di Apple. Uno dei registi assistette all’inaugurazione di un Apple store a Covent Garden (il famoso quartiere di Londra) e le scene cui si trovò davanti somigliavano «più a un incontro di preghiera evangelical che non all’occasione per comprare un telefono o un computer portatile». Qualcosa del genere non è accaduto anche da noi ogni volta in cui ha aperto un nuovo punto vendita del colosso di Cupertino?
G.F.
Cosa succede in Cina.
Gafam versus Batx
L’oligopolio delle Big Tech non è solo un fenomeno «made in Usa». C’è, come sappiamo, un grande Paese in cui non solo i Gafam non hanno accesso, ma nel quale nessuno sente la mancanza né di Facebook né di Google: la Cina. Tuttavia, ciò non significa che nella Repubblica popolare non esistano posizioni di fatto dominanti. L’acronimo per definire queste aziende è Batx che indica Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi.
Baidu è il motore di ricerca più diffuso in Cina, l’equivalente di Google. Come Amazon, Alibaba opera invece nel segmento dell’e-commerce. Tencent è l’azienda che ha sviluppato WeChat, una piattaforma di instant messaging che unisce al suo interno funzioni per lo shopping. Xiaomi, infine, è leader mondiale nel campo della telefonia 5G. Come spiegava Vittoria Mamerti in un pezzo sulla rivista «Valori» del giugno 2021, il giro di affari di queste aziende non ha niente da invidiare ai colossi della Silicon Valley.
G.F.
Per approfondire.
Bibliografia essenziale
Per una buona introduzione generale all’argomento Gafam si possono leggere I nuovi poteri forti. Come Google, Apple, Facebook e Amazon pensano per noi di Franklin Foer (uscito negli Usa nel 2017 e l’anno dopo tradotto in Italia da Longanesi) oppure The four. I padroni. Il Dna segreto di Amazon, Apple, Facebook e Google (Hoepli, 2018), a firma di Scott Galloway, imprenditore e docente universitario statunitense. Assai più recente, focalizzato sulla rete, ma con molteplici e preziosi riferimenti al ruolo delle piattaforme, è il volume di Valerio Bassan, giornalista e digital strategist, dal titolo Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla, uscito pochi mesi fa per Chiarelettere (vedi intervista pag. 38).
Molto ricco di informazioni, impegnativo, particolarmente adatto ai giornalisti o a chi si interessa di comunicazione, è La macchina del caos. Così i social media hanno ricablato il nostro cervello, la nostra cultura e il nostro mondo. L’autore è Max Fisher, giornalista del New York Times. Uscito negli Usa nel 2022, è stato pubblicato in Italia l’anno scorso da Linkiesta Books. Infine, Il capitalismo della sorveglianza di Sushana Zuboff è uno dei testi di assoluto riferimento a livello mondiale. Apparso negli Usa nel 2019, Luiss University Press l’ha pubblicato nel 2023 con una nuova edizione. Chi vuole avventurarsi nella lettura di questo testo tenga presente che è documentatissimo ma non alla portata di un lettore comune. In risposta a quest’ultimo è uscito da poco il provocatorio Come distruggere il capitalismo della sorveglianza, di Cory Doctorow, per Mimesis.
G.F.
Hanno firmato il dossier:
Gerolamo Fazzini
Nato a Verona nel 1962, dopo aver diretto il settimanale locale Il Resegone, è stato inviato e poi caporedattore delle pagine di Catholica di Avvenire dal 1997 al 2001. Ha diretto Mondo e missione, mensile del Pime (Pontificio istituto missioni estere) per 12 anni. Dal 2014 lavora per il gruppo editoriale San Paolo come consulente di direzione per il settimanale Credere e il mensile Jesus. È docente a contratto di «Media e informazione» al Dams dell’Università Cattolica (sede di Brescia). È autore di numerosi libri, alcuni dei quali tradotti all’estero.
A cura di:
Marco Bello, giornalista, direttore editoriale di MC.