Giappone. Addio «Costituzione pacifista»?

 

Si chiama, o meglio si chiamava, Douglas MacArthur. Il suo nome non era solamente quello del più celebre generale dell’esercito degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, ma viene usato ancora oggi per etichettare la costituzione del Giappone, il grande ex rivale di Washington, ora invece suo più stretto alleato sul fronte orientale. Il motivo è semplice. La costituzione introdotta nel secondo dopoguerra da Tokyo fu appunto imposta dagli Usa e ora il governo nipponico vuole provare a riformarla dopo decenni di dibattito.

Prima ancora della resa dopo il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, proprio MacArthur aveva ricevuto l’incarico di comandante supremo delle forze alleate in Giappone. Non solo. Il generale fu anche dotato di potere di controllo assoluto sulle istituzioni, imperatore Hirohito compreso. Evitò l’abdicazione del sovrano non toccando le antiche tradizioni, in cambio però di profonde garanzie sul fatto che il Paese asiatico non sarebbe mai più stato una minaccia militare per gli Stati Uniti e i suoi vicini asiatici. Ed ecco allora l’entrata in vigore di una Costituzione che viene definita «pacifista».

L’articolo chiave è il numero 9, che stabilisce che «Il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere le controversie internazionali». A tal fine, l’articolo prevede che «le forze terrestri, marittime e aeree, così come un altro potenziale bellico, non saranno mai mantenute». Formalmente, il Giappone non ha un vero e proprio esercito, bensì delle Forze di autodifesa. Si tratta sostanzialmente di una forza militare de facto che dal 1954 sostituisce le forze armate prebelliche. Nel corso degli anni, alcuni tribunali nipponici hanno persino ritenuto incostituzionali le Forze di autodifesa, anche se la Corte Suprema non si è mai pronunciata sulla questione.
Ora, però, il Giappone si sta muovendo per rivedere o abolire del tutto le restrizioni dell’articolo 9. Un tema quasi tabù, menzionato diverse volte nel corso degli anni ma mai affrontato in modo profondo. L’esigenza è divenuta più impellente contestualmente all’ascesa militare della Cina. Dopo le tensioni sulle isole contese Senkaku/Diaoyu, nel 2014 il governo dell’allora premier Shinzo Abe ha approvato una reinterpretazione dell’articolo 9 per consentire al Giappone di impegnarsi in una «autodifesa collettiva».
Ma anche questo non è più abbastanza. Nelle scorse settimane, il premier Fumio Kishida ha rotto gli indugi chiedendo al Partito liberaldemocratico (al potere quasi ininterrottamente da decenni) di accelerare il dibattito sulla revisione costituzionale. «L’era in cui ci si limitava a parlare della Costituzione è finita. Ora è il momento di camminare e iniziare a pensare a come realizzarla», ha dichiarato Kishida, che ha sottolineato la necessità di menzionare esplicitamente le Forze di autodifesa nella Carta e di stabilire una clausola che consenta di estendere i mandati dei deputati in caso di emergenza nazionale.

La linea non cambia nemmeno dopo l’annuncio delle dimissioni di Kishida, anzi in vista delle elezioni per la presidenza del partito, che il 27 settembre decreteranno anche chi sarà il prossimo premier, il dibattito pare destinato a rafforzarsi. Diversi aspiranti alla carica di primo ministro, dalla donna di riferimento dell’ala ultraconservatrice Sanae Takaichi alle l’ex ministro della Difesa Shigeru Ishiba fino all’ex ministro della Sicurezza economica Takayuki Kobayashi, praticamente tutti i candidati hanno dichiarato che la riforma costituzionale è una delle loro priorità.
Secondo un recente sondaggio di Kyodo News, il 65% dell’opinione pubblica giapponese ritiene in realtà che non sia necessario affrettare il dibattito sulla revisione costituzionale, ma il governo la pensa diversamente. La guerra in Ucraina ha accelerato una serie di processi già in atto e il Giappone è il Paese che più di tutti teme un potenziale coordinamento tra Cina, Russia e Corea del Nord. Di più. Il Giappone è il Paese più direttamente coinvolto dalle tensioni su Taiwan. Basti pensare che durante le vaste esercitazioni militari cinesi dell’agosto 2022, condotte in risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, quattro degli 11 missili lanciati dalle forze armate di Pechino sono finiti nelle acque della zona economica speciale giapponese.
Kishida è stato il primo (e più convinto) leader a connettere il fronte occidentale con quello orientale, sostenendo già dal maggio 2022 che l’Asia orientale rischia di diventare la «prossima Ucraina». Tokyo ha rafforzato in modo drastico l’alleanza militare con gli Stati Uniti e ha partecipato per la prima storica volta al summit Nato di due anni fa. Ancora: Kishida ha riavviato i rapporti con la Corea del Sud dopo anni di tensioni commerciali e diplomatiche, disgelo suggellato dal summit di Camp David di agosto 2023 con Joe Biden e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol. Kishida è poi tornato a Washington la scorsa primavera, firmando accordi trilaterali che hanno coinvolto per la prima volta anche le Filippine. Per non parlare del rafforzamento dei rapporti di difesa con India e Australia. Insomma, il Giappone è diventato l’epicentro di una rete di sicurezza asiatica che in qualche modo potrebbe anche attutire un eventuale parziale disimpegno statunitense, da non escludere nel caso di un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca dopo le elezioni di novembre.
Ecco perché il Giappone sente di dover rivedere la sua costituzione. Pechino si lamenta e mette in guardia il vicino dal non rievocare il suo «passato militarista». Ma a Tokyo sono convinti che i tempi siano cambiati e che avere meno vincoli sul fronte militare sia necessario per sostenere la propria sicurezza. Lecito attendersi nuovi sviluppi, e altrettante tensioni, nel futuro prossimo.

Lorenzo Lamperti