Quest’anno segnerà probabilmente il ritorno dei flussi turistici ai volumi precedenti la pandemia. Le speranze che la pausa forzata potesse contribuire a un ripensamento del turismo e alla correzione di alcuni errori sembrano essere in gran parte deluse.
Gli introiti del turismo in Uganda sono cresciuti nel 2023 di quasi il 50%, superando il miliardo di dollari per la prima volta dall’inizio della pandemia da Covid-19. Lo riportava lo scorso marzo il sito di news Semafor@, aggiungendo che il settore dà lavoro a più di 600mila persone nel Paese ed è uno dei maggiori motori dell’economia. Sempre Semafor ad aprile riportava il dato, riferito da W. hospitality group, una società di consulenze con sede a Lagos, Nigeria, secondo il quale le catene alberghiere internazionali avevano in progetto di costruire 524 hotel con oltre 92mila camere in 41 Paesi africani. Due su tre di questi hotel erano progetti delle cinque maggiori catene del mondo: le multinazionali statunitensi Marriott, Hilton, Radisson, la francese Accor e la britannica Ihg Hotels@.
Ritorno ai livelli pre-pandemia
Questi dati di espansione del settore in Africa trovano conferma nelle statistiche ufficiali, in particolare nel Un turism barometer dell’organizzazione mondiale del turismo delle Nazioni Unite che esce quattro volte l’anno@. Secondo Unwto, il turismo internazionale ha raggiunto il 97% dei livelli precedenti la pandemia da Covid-19 nel primo trimestre 2024; si prevede che eguaglierà e forse supererà quei livelli nel corso di quest’anno.
Il dato si riferisce agli arrivi internazionali, cioè alle visite da parte di viaggiatori che passano almeno una notte in un Paese diverso da quello di residenza, ed è una media fra i dati di tutti i Paesi del mondo.
Il Medio Oriente, segnala lo stesso Un turism barometer, ha registrato nel primo trimestre del 2024 la crescita relativa più sostenuta, con un aumento del 36% rispetto allo stesso periodo del 2019 (dato che probabilmente non riguarda però Israele, Libano e Palestina, ndr), mentre Africa ed Europa hanno già superato il livello pre pandemia del 5% e dell’1%. Per il resto dell’anno in corso, la previsione a maggio era di un possibile crescita del 2% rispetto ai livelli del 2019, trainata dallo sblocco della domanda accumulata a causa delle passate restrizioni e non ancora soddisfatta, dall’aumento dei collegamenti aerei e da una più forte ripresa delle destinazioni asiatiche, nonostante l’aumento globale dei costi.
Nel 2023, a livello generale, il recupero rispetto all’epoca pre Covid era già stato dell’88%, con poco meno di 1.286 milioni di arrivi internazionali a fronte dei 1.464 del 2019. In termini economici, invece, i dati preliminari indicavano che la meta era già raggiunta l’anno scorso: il prodotto interno lordo diretto del turismo, quello cioè legato alle industrie direttamente in contatto con i visitatori, era infatti stimato a 3.300 miliardi di dollari, cioè il 3% del Pil mondiale: lo stesso del 2019.
L’Unwto a fine giugno non aveva dati più recenti del 2022 circa il numero di lavoratori, ma World travel & tourism council (Wttc), forum degli operatori privati del settore turistico a livello mondiale, quantificava ad aprile in 348 milioni i posti di lavoro legati al settore del turismo e dei viaggi, con un incremento di quasi 14 milioni rispetto al 2019@.
La ripresa del settore turistico è dunque ormai nei fatti. Meno chiari, invece, sono i progressi verso il rispetto dei principi proposti ad esempio dal Global sustainable tourism council (Gstc) nel 2021@ con l’intento di approfittare della battuta d’arresto della pandemia per correggere alcune storture del settore.
Turismo e clima
A violare almeno la metà di questi principi è, ad esempio, il cosiddetto last chance tourism, il turismo dell’ultima possibilità. Su Futura network, il sito di dibattito promosso dall’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsviS), Flavio Natale commentava qualche mese fa un articolo del New York Times che descriveva questo fenomeno come un tipo di turismo nel quale i viaggiatori pagano cifre spesso molto alte per vedere luoghi che presto potrebbero non esistere più a causa dei cambiamenti climatici: ghiacciai, isole, barriere coralline. Un esempio di questi luoghi è la Mer de glace, cioè il ghiacciaio del Monte Bianco: un turista intervistato dal New York Times racconta che alla sua prima visita, 40 anni fa, il ghiacciaio arrivava appena sotto la piattaforma panoramica, mentre oggi è circa 240 metri più in basso. Natale cita anche un articolo del Guardian su Pond Inlet, un villaggio a maggioranza etnica Inuit nell’Artico canadese dove le principali attività di sussistenza sono la pesca e la caccia di mammiferi marini. A Pond Inlet i turisti vanno a osservare un paesaggio e una fauna in rapido cambiamento: l’Artico, infatti, sta scaldandosi quattro volte più velocemente della media globale, gli orsi polari stanno spostandosi e si prevede che nel 2050 il territorio sarà completamente privo di ghiaccio durante l’estate. Il paradosso di questo turismo è che se da un lato può contribuire ad aumentare la sensibilità delle persone rispetto ai cambiamenti climatici, dall’altro però rischia di accelerare i processi che stanno portando alla scomparsa di quegli stessi ecosistemi. A Pond Inlet il dibattito oppone chi ricava un reddito dalle attività di accoglienza a chi pensa che le navi di turisti spaventino la fauna marina, rendendo più difficile la caccia e aumentando così la dipendenza dell’economia locale dal turismo@.
Il settore del turismo e dei viaggi rappresentavano, in uno studio del Wttc pubblicato a fine 2023 su dati degli anni precedenti, una quota di emissioni di gas serra pari all’8,1% del totale globale nel 2019, diminuita poi a 4,2% nel 2020 e a 4,6 nel 2021. Oggi, con il ritorno degli arrivi internazionali ai livelli pre pandemici, è verosimile che la quota sia di nuovo vicina dal dato del 2019@.
L’impatto su piante e animali
L’industria del turismo non solo emette gas serra, ma sacrifica i migliori alleati che abbiamo per ora a disposizione per catturare l’anidride carbonica: gli alberi. Semafor riferiva a marzo 2024@ che 7,3 milioni di alberi erano stati tagliati in Messico fra il 2019 e il 2023 per realizzare il Tren Maya, la ferrovia turistica e commerciale di 1.525 chilometri che connette Palenque a Cancún e di cui MC ha parlato a novembre 2023@.
Uno dei danni del treno, segnalava Semafor citando il sito messicano Animal Politico, è che il suo passaggio modificherà il sistema di cenotes (grotte) e canali sotterranei, sacri al popolo Maya e necessari per l’approvvigionamento idrico delle comunità dello Yucatán.
Come le piante, anche gli animali subiscono gli effetti del turismo: in Uganda, riportava la rivista Nature a febbraio scorso@, il 59% degli scimpanzé morti negli ultimi 35 anni nel parco nazionale di Kibale sono stati uccisi da agenti patogeni come il metapneumovirus umano, che si manifesta negli esseri umani con sintomi simili al raffreddore ma è spesso letale per gli scimpanzé.
Va meglio agli squali balena, la più grande specie di pesci esistente: ogni anno ci sono 25 milioni di persone in 23 Paesi del mondo che vogliono nuotare con loro. Questo alimenta un giro d’affari da 1,9 miliardi di dollari, ma fa anche crescere i timori riguardo all’impatto negativo che questa esposizione agli umani può avere sugli squali. Fortunatamente, un recente studio pubblicato sul Journal of sustainable tourism realizzato a Ningaloo Reef, nell’Australia occidentale, ha monitorato i movimenti dei pesci dopo aver applicato loro dispositivi biometrici e ha mostrato che gli impatti sono minimi. Lo studio conclude che il turismo legato alla fauna selvatica, se ben gestito – evitando di attirare gli squali con del cibo e di esporli per lungo tempo a grandi quantità di turisti – può essere sostenibile sia per le persone che per gli animali@.
Il turismo che divora
A non essere sostenibile è, invece, la situazione del lago di Como, come raccontava il giornalista Luigi Mastrodonato la scorsa primavera in un articolo@ e in un podcast@ di Internazionale dal titolo «Il turismo ha divorato il lago di Como».
Quello del lago è un ecosistema che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha definito fragile ed esposto a un alto rischio idrogeologico. Si tratta di un territorio selvaggio e impervio, sconosciuto al turismo di massa fino all’inizio degli anni Duemila, quando l’attore statunitense George Clooney ha comprato casa nella zona. Da quel momento, il territorio si è trasformato in una meta di lusso, con la ristrutturazione di ville d’epoca e la costruzione di nuove case per i personaggi famosi e di grandi strutture di accoglienza per ospitare turisti da tutto il mondo: nel 2023 il lago ha sfiorato i 5 milioni di pernottamenti.
Tutto questo ha sottoposto il territorio a stress, perché la cementificazione ha peggiorato la tenuta del terreno facendo aumentare le già frequenti frane. Inoltre, molti abitanti sono stati costretti ad andarsene a causa dell’aumento dei prezzi degli immobili e per via dello stesso fenomeno che è all’opera da oltre un decennio in tante città del mondo, cioè quello degli affitti brevi per turisti, che i proprietari degli immobili preferiscono ai meno redditizi affitti a lungo termine per persone intenzionate a vivere in modo stabile nel luogo.
A sua volta, lo spopolamento ha fatto diminuire gli interventi di manutenzione e messa in sicurezza del lago e delle montagne che lo circondano, creando ulteriori difficoltà quando le piogge, rese meno frequenti ma torrenziali dal cambiamento climatico, si abbattono con violenza su un territorio ormai provato.
Il lago di Como è già saturo, spiega Mastrodonato riportando le parole del sociologo Agop Manoukian, come una bottiglia piena che ci si ostini a voler riempire ancora. Eppure, le amministrazioni locali valutano tuttora progetti per la costruzione di un ulteriore complesso da 29mila metri quadrati con hotel, spa, darsene private, e per la creazione di una stazione sciistica a mille metri con neve artificiale sul vicino monte San Primo, così da estendere la stagione turistica anche all’inverno.
Convivenza difficile
La convivenza con le attrazioni turistiche è complicata anche altrove: in Tanzania, che deve all’industria del turismo il 5,7% del suo Pil, pari a 2,6 miliardi di dollari, una parte significativa delle attività riguarda i parchi nazionali e la fauna selvatica. Dal 2022 una legge stabilisce compensazioni economiche e materiali per le persone danneggiate da episodi di conflitto tra fauna selvatica e comunità umane. Ma, sosteneva ad agosto dell’anno scorso Laura Hood sul sito The Conversation@, questo conflitto e i suoi effetti sono gestiti in modo inadeguato e il cambiamento climatico sta peggiorando la situazione, come risulta dalle interviste fatte con alcuni abitanti dei villaggi di Kiduhi e Mbamba, al confine con il Parco nazionale Mikumi, il quarto più grande della Tanzania.
Anche i Maasai che vivono intorno al Serengeti, il parco nazionale più noto del Tanzania@ dove adiacente al cratere di Ngorongoro, sono da anni in lotta per mantenere i loro territori che hanno attirato l’attenzione dell’industria turistica internazionale sotto il paravento dell’ecologia e della conservazione.
Lo scorso aprile Stephanie McCrummen, giornalista vincitrice del premio Pulitzer nel 2018, ha raccontato ai microfoni dell’emittente radiofonica Usa Npr, che la presidente del Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha un approccio molto aggressivo nello sviluppo turistico e prevede il trasferimento forzato di circa centomila Maasai dall’area protetta di Ngorongoro ad altre parti del Paese e la creazione di una riserva di caccia di 600 miglia quadrate a uso esclusivo della famiglia reale di Dubai@.
Turismo e pace
Il tema della giornata mondiale del turismo, che cade il 27 settembre, quest’anno sarà «Turismo e pace» e a ospitare le celebrazioni sarà Tblisi, capitale della Georgia. Il turismo, si legge nella presentazione della giornata mondiale sul sito del Unwto, può svolgere un ruolo vitale come catalizzatore per promuovere la pace e la comprensione tra nazioni e culture e nel sostenere i processi di riconciliazione. Viceversa, che la guerra arrechi grosse perdite al settore turistico lo ha sottolineato a febbraio scorso l’Unesco in uno studio, che ha quantificato in 19,6 miliardi di dollari i mancati ricavi e in 3,5 miliardi i danni causati dalla guerra alle risorse culturali e turistiche di un Paese come l’Ucraina@.
Anche la guerra a Gaza, riportava già a dicembre Agence France presse, ha determinato un crollo dei flussi turistici verso Israele e una forte riduzione anche nei Paesi limitrofi, come la Giordania e l’Egitto@.
Chiara Giovetti