Con l’odore delle pecore. Padre Gazzera, nuovo vescovo coadiutore di Bangassou


Lui è un innamorato del Paese. Ma la nomina a vescovo non se l’aspettava. La crisi storica in Centrafrica colloca questo Stato in fondo a tutte le classifiche di sviluppo. La ricetta, per padre Aurelio, è investire nell’educazione dei  giovani. Per un futuro di pace.

Un missionario in prima linea. Un sacerdote che ha vissuto gran parte della sua vita in uno dei Paesi più instabili al mondo. Aurelio Gazzera, religioso dell’ordine dei Carmelitani e oggi vescovo di Bangassou, è uno di quei «pastori con l’odore delle sue pecore addosso», che piacciono tanto a papa Francesco. A testimoniarlo è la sua stessa biografia. Nato a Cuneo, ha lasciato ben presto la provincia Granda per entrare giovanissimo nel seminario minore dei Carmelitani scalzi di Arenzano. Già nella sua formazione di sacerdote (sarà ordinato nel 1989) trascorre un anno nella delegazione carmelitana centrafricana. Ma è dal 1992 che il suo destino si lega più strettamente al Centrafrica dove ricopre diversi incarichi: assistente al seminario minore della missione Yole (1992-1994), direttore del primo ciclo del medesimo seminario minore (1994-2003) e poi parroco di San Michele di Bozoum (2003-2020) e superiore della delegazione dei carmelitani scalzi (2014-2020).

Dal 2003 diventa responsabile della Caritas di Bouar e, dal 2020, è membro della comunità di Baoro, incaricato dei cristiani dei villaggi della savana e direttore della scuola meccanica di Baoro.

La «fiera» di Bozoum

A Bozoum crea un evento unico per tutto il Paese: la fiera agricola. «Vengo dalla provincia di Cuneo, una terra contadina, e in Africa ho incontrato contadini – spiega padre Aurelio -. Qui coltivano manioca, fagioli, arachidi in piccoli campi. Si tratta di un’agricoltura di sussistenza che permette di raccogliere il minimo per la sopravvivenza delle famiglie. Esistono però coltivazioni più estese di riso. Ed è un elemento positivo perché il riso ha un buon mercato, si vende bene e può garantire entrate alle famiglie di coltivatori». E proprio per creare un mercato, padre Aurelio nel 2004 si inventa, insieme a Secours Catholique (Caritas francese), la fiera. Una iniziativa che, da allora, si è ripetuta ogni anno, nonostante le difficoltà che il Paese stava attraversando.

«Nel 2024 – osserva padre Aurelio -, la fiera agricola e pastorale di Bozoum si è tenuta dal 26 al 28 gennaio. Siamo arrivati alla 19a edizione. La fiera è un unicum in Rca: non c’è niente di simile in tutto il Centrafrica. È uno spazio di esposizione e vendita di prodotti agricoli, cui partecipano le cooperative della regione. I più lontani sono venuti da Ngaundaye, Ndim e Bocaranga: regioni molto toccate dalle violenze. Ed abbiamo voluto a tutti i costi aiutarli a venire».

La fiera è un’occasione per vendere e acquistare prodotti agricoli, macchinari e sementi. Il giro d’affari di quest’anno è di 80 milioni di franchi cfa (120mila euro). «È una cifra considerevole – continua padre Aurelio -, in un Paese dove il reddito pro capite è intorno ai 400 euro annui».

Repubblica centrafricana. Fedeli durante una messa a Bema, Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Socialità e dialogo

«La fiera non è solo un evento commerciale. Gli stand sono una festa di colori e di sorrisi. Il lavoro di tanti mesi trova qui la bellezza dei prodotti, la gioia di esporre (e di mostrare l’aspetto positivo dell’agricoltura) e la soddisfazione di vendere tanto in poco tempo.

Qui non c’è differenza tra cristiani o musulmani, tra persone di diverse etnie. C’è uno splendido clima di amicizia e di confronto».

La guerra e papa Francesco

La Repubblica Centrafricana è un Paese senza sbocco sul mare che, da anni, lotta contro conflitti e instabilità. La nazione è stata scossa da molte guerre civili e colpi di stato, causando una crisi umanitaria che ha colpito milioni di persone. Il conflitto più recente è iniziato nel 2012, quando una coalizione di gruppi ribelli conosciuta come Seleka ha rovesciato il governo del presidente François Bozizé. La Seleka, composta principalmente da musulmani, ha iniziato a prendere di mira le comunità cristiane, tra le quali sono nate in risposta le milizie note come «anti balaka».

Il conflitto è stato caratterizzato da violenza diffusa, violazioni dei diritti umani e lo sfollamento di centinaia di migliaia di persone.

Nel 2015, papa Francesco ha aperto la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, la capitale centrafricana, dando il via all’anno Santo. «Bangui diviene la capitale spirituale del mondo – ha detto Francesco -. In questa terra sofferente sono rappresentate tutte le sofferenze del mondo. Per Bangui, per tutti i Paesi che soffrono la guerra, chiediamo la pace: tutti insieme chiediamo amore e pace». E ha poi aggiunto: «A tutti quelli che usano ingiustamente le armi di questo mondo, io lancio un appello: deponete questi strumenti di morte; armatevi piuttosto della giustizia, dell’amore e della misericordia, autentiche garanzie di pace».

La visita di papa Francesco e l’apertura della Porta Santa a Bangui avevano fatto sperare in una svolta, ma le tensioni sono continuate.

Gruppi di ribelli oggi controllano quasi i due terzi del territorio nazionale, mentre le risorse naturali (legname, oro, uranio, ecc.) hanno attirato le attenzioni di numerose potenze straniere. «A pagare questa situazione di incertezza è la popolazione civile che vive nel terrore che si possano ripetere le tensioni e, con esse, possano tornare violenze, saccheggi, distruzioni – spiega padre Aurelio. Gli ultimi dodici anni sono stati terribili per il Centrafrica e le persone non vogliono rivivere quello stato di devastazione e timore continui. Qui da noi le autorità sono già fuggite in zone più sicure. La popolazione si sente abbandonata».

Il Paese è tra i più poveri al mondo, con alti livelli di insicurezza alimentare, malnutrizione e malattie. Il conflitto ha interrotto la produzione agricola e il commercio, portando a un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari e della fame diffusa. «Il governo centrale non è in grado di sostenere l’economia – continua padre Aurelio -. Manca la sicurezza, mancano le infrastrutture. Ricche piantagioni di caffè, tabacco e pepe sono state abbandonate perché è impossibile portare i prodotti sui mercati. I contadini sono così costretti a vivere con quel poco che coltivano vicino a casa».

Aurelio vescovo in Rca

padre Aurelio con monsingnor Juan Josè Aguirre, in visita in Spagna.. Foto Aurelio Gazzera

Il 23 febbraio scorso padre Aurelio è stato nominato vescovo coadiutore di Bangassou da papa Francesco. Una notizia che lo ha sorpreso. «Più leggo e studio, e più mi sento piccolo e incapace, e non all’altezza – ha scritto in una lettera inviata al vescovo di Cuneo-Fossano, diocesi da cui proviene -. Il ministero episcopale è un affare serio! […] Ho accettato per amore di Dio. E mi vengono alla mente le parole tra Gesù e Pietro, dopo la Risurrezione: “Gli disse per la terza volta: Simone di Giovanni, mi ami? Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo. Gli rispose Gesù: Pasci le mie pecorelle (Gv. 21,17)”. Ho accettato per amore della Chiesa. L’anello che il vescovo porta, è segno di questa fedeltà. Dalla Chiesa ho ricevuto tutto: la Fede, la Speranza, la Carità».

Padre Aurelio ha accettato anche per amore del Centrafrica: «È un Paese “non facile” (qui usa un eufemismo, nda). Sono 33 anni che il Signore mi ha fatto la grazia di viverci. Non ho ancora capito tutto. Anzi. Ma lo amo, come amo la diocesi di Bangassou che mi è affidata, data in sposa. Momenti di gioia, momenti di dolore. Un mosaico di bellezza e di sofferenza, di semplicità e di complicazioni. Di volti, di sorrisi, di bambini, di giovani e di adulti».

Una zona complessa

La diocesi di Bangassou si trova in una regione molto difficile, scossa ancora da forti tensioni. «Dopo il referendum costituzionale (del 30 luglio 2023, ndr) – continua padre Aurelio -, a livello centrale si è affermata un po’ di stabilità. Nel Nord Ovest e nel Sud Est, anche se i combattimenti si sono fatti un po’ più radi, le tensioni non sono scomparse.

Nella mia diocesi ci sono due aree particolarmente rischiose: una è Bakouma, nei pressi di un importante sito di uranio, dove a inizio aprile sono state uccise decine di persone; l’altra è Mboki, attaccata e occupata dai ribelli e dove si sono registrati scontri con gli anti balaka Azande a Ni Kpi Be.

Queste tensioni hanno profonde conseguenze sulla popolazione. Non parlo solo dei problemi economici. Adulti e bambini vivono nella costante paura di attacchi e massacri. Lo stress legato a questi fatti è alto e incide anche sulla psiche delle persone».

Repubblica centrafricana. una classe della scuola primaria di Nyakari (Bangassou). Foto Aurelio Gazzera

Russi e cinesi

In tutto il Centrafrica è molto forte la presenza straniera. Esaurita l’influenza francese, ex potenza coloniale, hanno preso gradualmente spazio i russi e i cinesi. Entrambi hanno una forte presenza nel Paese. Pechino è più discreta ed è interessata soprattutto alla gestione e allo sfruttamento (spesso selvaggio) delle risorse naturali (legno, oro, uranio, ecc.). Mosca invece ha una presenza più evidente soprattutto in campo militare. Di fronte alla crescente insicurezza, il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra ha offerto ai russi ampie concessioni sulle miniere in cambio della protezione militare dei mercenari di Mosca. «La loro presenza è molto evidente – osserva padre Aurelio -. Nel Paese si vedono un po’ ovunque sia tecnici sia militari russi. Non si nascondono e conducono politiche e alleanze locali che, spesso, non sono allineate alle strategie del governo centrafricano».

Secondo padre Aurelio, «bisogna disarmare i cuori e le mani. E poi questo è un Paese che ha bisogno di infrastrutture, di sviluppo. Invece non si vede nessun impegno. Le strade sono sempre più disastrate, nella capitale stessa. Se si pensa che per percorrere 750 chilometri ci vogliono un paio di settimane in macchina, nella stagione secca, vuol dire che la carenza è grande. Ci vorrebbe un impegno più serio, non tanto da parte della comunità internazionale quanto dalle autorità locali». Padre Aurelio, però, è ottimista. «Lavoriamo molto attraverso l’educazione dei giovani. Siamo convinti che è proprio attraverso la formazione delle nuove generazioni che si può costruire un futuro migliore. È un cammino lungo, ne siamo convinti, ma è l’unica strada per cambiare davvero, nel profondo».

I fedeli sono molto legati alla Chiesa cattolica. La devozione è forte. «Come Chiesa cattolica – conclude padre Aurelio – cerchiamo di stare sempre a fianco delle persone, di essere presenti e di condividere le loro sofferenze. La Chiesa cattolica lavora per incoraggiare tutti i tentativi di soluzione pacifica dei conflitti e per portare una parola di speranza in un Paese che pare avere perso la fiducia nel futuro».

Enrico Casale

Repubblica centrafricana. Strada nella diocesi di Bangassou. Foto Aurelio Gazzera

Archivio

Marco Bello, Centrafrica, Regioni contro la guerra, MC aosto 2022

 




Bosnia. Memorie della guerra


È stata l’ultima guerra in Europa del XX secolo. Con episodi di genocidio. Il conflitto degli anni 90 in ex Jugoslavia pare lontano. Ma i popoli che ne sono stati coinvolti hanno costruito i loro memoriali. La nostra collaboratrice li ha visitati.

«Sarajevo ha due parvenze e due volti: uno oscuro e severo, l’altro luminoso e amabile». Così il premio Nobel Ivo Andrić descriveva nel racconto «Uno sguardo su Sarajevo» la capitale della Bosnia-Erzegovina.

Esistono luoghi nel mondo che portano impressi i segni di ciò che è stato. Segni non cancellabili o che, più semplicemente, non si vogliono cancellare.

Questo è sicuramente il caso della città di Sarajevo. Per abbracciare tutta con un solo sguardo basta salire in cima al Trebević, il monte che la sovrasta. Pochi minuti dal centro città alla cima della montagna. Giunti al belvedere si può comprendere come questo luogo, nascosto fra i monti, fosse un luogo perfetto per un assedio: nessuna via di scampo, se non i boschi attorno all’abitato, che ancora oggi rappresentano un rischio. Non tutte le mine antiuomo, infatti, sono state rimosse.

L’assedio di Sarajevo, da parte delle forze serbe, durò dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. È stato il più lungo della storia bellica del XX secolo.

Sarajevo, ponte tra oriente e occidente, era una città nella quale le culture cristiana, musulmana ed ebrea si amalgamavano in un mix pacifico. Un mix che i sarajevesi, abituati alla convivenza, vedevano come normale. Una realtà scomparsa negli anni Novanta, quando il feroce assedio delle forze serbe pose fine alla pace.

Memorie

Oggi camminando per le vie di questa vivace città (con circa 320mila abitanti, ndr) non si può fare a meno di notare come, a fianco di locali alla moda e negozi scintillanti, i palazzi presentino ancora i segni della guerra.

Segni che nessuno vuole cancellare a imperitura memoria di un passato di sangue, e che anzi, vengono esaltati così da renderli più evidenti, come fossero monumenti.

Sui marciapiedi, sulle mura, è facile vedere le cosiddette «rose di Sarajevo», (in bosniaco sarajevske ruže). Si tratta di simboli commemorativi realizzati riempiendo di resina rossa i fori dei proiettili di mortaio che, durante l’assedio, hanno colpito la città.

Ancora oggi all’interno di Markale, il mercato all’aperto tristemente noto per due attentati nei quali persero la vita più di cento persone, si può vedere a terra l’enorme foro di un colpo di mortaio, al cui interno si scorge ancora una parte dell’ordigno. I bordi frastagliati del foro sono dipinti di rosso, come le rose di Sarajevo.

Se il museo dei Crimini contro l’umanità, presente in questa città e a Mostar, è una visita doverosa, altrettanto potente e commovente è la galleria fotografica «Galerija 11/07/95».

Si tratta della prima galleria d’arte in Bosnia-Erzegovina dedicata alla memoria delle 8.372 persone che persero la vita nel genocidio di Srebrenica. Aperta simbolicamente il 12 luglio 2012, un giorno dopo l’anniversario della strage, contiene un’esposizione permanente di ciò che è rimasto. Immagini dal campo dei sopravvissuti, ritratti di famiglia, ritrovamenti di ossa nelle fosse comuni, foto di graffiti offensivi e scritte dei Caschi blu dell’Onu sulle mura del complesso della «Forza di protezione delle Nazioni Unite». Il tutto per ricordare come un monito quello che fu e che si spera non debba accadere di nuovo.

Autori dell’esposizione sono il Centro memoriale di Srebrenica-Potocari, l’Associazione movimento delle madri delle enclavi di Srebrenica e di Zepa, l’Istituto per le persone disperse della Bosnia Erzegovina, l’Iniziativa dei giovani per i diritti umani Yihr/Fama, il Cinema for peace foundation, il Video archivio del genocidio, il Genocide film library Bosnia-Herzegovina e il fotografo Tarik Samarah.

Poco fuori dalla città, vicino all’aeroporto, si trova il cosiddetto «Tunnel della speranza»: costruito dagli assediati bosniaci a partire dal gennaio del 1993 per collegare la città a un’area del territorio bosniaco molto più estesa passando al di sotto dell’area neutrale dell’aeroporto istituita dalle Nazioni Unite.

La galleria permise ai bosniaci di oltrepassare l’embargo internazionale di armi e di fornire ai combattenti le armi necessarie, oltre a far arrivare cibo e medicinali a chi era bloccato nella città sotto assedio. Con i suoi ottocento metri di lunghezza e solo 1,60 di altezza, il tunnel rappresentò per molti l’unica via di salvezza.

Oggi è possibile visitarne una parte: percorrendone circa venti metri, si può avere un’idea di cosa voleva dire avere come unica via di fuga un luogo tanto angusto.

Il Ponte vecchio (Stari most) di Mostar, ricostruito. Bosnia. Foto Valentina Tamborra

Srebrenica

Uno dei più terribili eccidi dai tempi dell’Olocausto avviene nella piccola cittadina di Srebrenica, lungo la valle del fiume Drin, le cui acque segnano il confine tra la Bosnia e la Serbia.

È l’11 luglio del 1995: le truppe serbo bosniache del generale Ratko Mladić – soprannominato in seguito «il boia di Srebrenica» – invadono la città, dichiarata «zona protetta» nel 1993, e uccidono più di 8mila persone del gruppo etnico bosgnacco (bosniaci musulmani). La popolazione della piccola enclave in territorio bosniaco viene decimata. Un detto locale recita: «Chi è sopravvissuto non può avere sentimenti in corpo».

Oggi arrivare a Srebrenica da Sarajevo significa compiere un viaggio in una memoria viva: a gestire e fare da guida al Memoriale, ci sono alcuni dei sopravvissuti al genocidio.

I locali di quella che un tempo era la base dei Caschi blu delle Nazioni Unite sono oggi sede di un museo che porta il visitatore all’interno di quello che fu uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale.

Alle pareti, fotografie e installazioni video raccontano l’inazione dei Caschi blu dovuta al fatto che le risoluzioni Onu, votate sino a quel momento, non davano ai militari i mezzi e il benestare per agire. I Caschi blu assistettero impotenti alla cattura, attorno al compound, di circa duemila uomini tra i 12 e i 70 anni che vennero destinati all’esecuzione. Donne, anziani e bambini, in tutto circa ventimila, furono deportati e subirono stupri e violenze.

Ancora oggi molti sono i corpi non ritrovati e si procede alla ricerca e alla successiva verifica tramite esame del Dna. Il cimitero che fronteggia l’ex base delle Nazioni Unite sembra estendersi all’infinito: file e file di lapidi bianche in marmo, le più vecchie, interrotte da quelle più nuove, verdi, di legno.

Una distesa di morti che finalmente hanno un nome, un luogo dove piangerli. L’11 luglio di ogni anno una lunga processione parte da Sarajevo per raggiungere Srebrenica: si seppellisce ciò che è stato ritrovato negli ultimi dodici mesi – siano poche povere ossa o i resti di abiti o oggetti personali -, si dà loro degna sepoltura affinché ancora una volta resti viva la memoria di ciò che è stato.

Sarajevo, le rose, ovvero dipinti nati dai danneggiamenti delle bombe. Foto Valentina Tamborra

Dove il tempo si è fermato

Se si vuole avere un’idea dello straordinario paesaggio che circonda Sarajevo e se si vogliono «dimenticare» per un attimo i segni della guerra, è d’obbligo una visita a Lukomir. Si tratta dell’unico villaggio non toccato dalla guerra dei Balcani. Si trova a 110 km da Sarajevo e a 1.469 metri sul livello del mare, vicino al monte più alto del paese, il Bjelašnica. Affascinante ma insignificante da un punto di vista strategico, è riuscito a non veder sconvolta la propria esistenza e ancora oggi ospita quella che è una delle ultime comunità di pastori musulmani.

Il paesaggio è straordinario: un canyon profondo quasi 800 metri fa da sfondo a un villaggio che sembra fermo nel tempo. Casupole a pianta quadrata sormontate da tetti aguzzi, Lukomir è uno dei villaggi d’Europa ininterrottamente abitati da più anni.

Fra i viottoli di sassi e terra, vivono circa sessanta persone che si prendono cura dei propri animali, per lo più pecore e galline, difendendoli dagli attacchi dei lupi che da queste parti sono tutt’altro che rari. Raggiungere Lukomir comunque, è possibile solo per circa tre o quattro mesi l’anno. Durante il lungo inverno, infatti, la strada che conduce a questo luogo remoto rimane chiusa per neve.

Il Ponte vecchio, Stari most, di Mostar, bombardato nel novembre 1993 e sostituito da una passerella. Qui nell’agosto 1994. Foto Marco Bello

Lo Stari moste il cimitero violato

Il ponte di Mostar è forse uno dei simboli più dolorosi e vivi nella memoria di chi ha vissuto o visto – anche solo dal soggiorno di casa propria seduto davanti alla tv – la guerra dei Balcani. È il 9 novembre del 1993 quando, sotto i colpi dell’artiglieria croato-bosniaca, crolla lo Stari most, il Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico ottomano – oggi riconosciuto come patrimonio Unesco – che unisce le due rive del fiume Neretva.

Oggi ricostruito, fa da sfondo al paesaggio da cartolina che Mostar offre a chi vi arriva per la prima volta.

Eppure basta guardarsi intorno, parlare con gli abitanti, soffermarsi nelle vie periferiche della cittadina, per ritrovare, come a Sarajevo, colpi di proiettile sulle mura delle abitazioni o segni di mortaio a terra.

Oggi a preservare la memoria di ciò che è stato, esistono dei «free walking tours», nei quali guide locali raccontano la città e ciò che ha subito.

La ferma volontà di non dimenticare è una legge non scritta in Bosnia-Erzegovina dove persino nella periferia di Mostar le vecchie case abbandonate e disastrate sono diventate monumenti alla memoria.

Opere d’arte, installazioni permanenti – come quella che rappresenta un bimbo che si dondola su un’altalena appesa a un vecchio palazzo crivellato dai colpi dei proiettili -, riportano costantemente alla memoria ciò che è stato.

Purtroppo, però, nonostante gli sforzi e il continuo parlare di pace e di convivenza fra culture, il seme della violenza non è ancora stato estirpato e ne è triste prova il cimitero partigiano che sorge alle porte di Mostar. Creato dall’architetto belgradese Bogdan Bogdanovic, il monumento eretto per accogliere le spoglie degli antifascisti jugoslavi morti durante la Seconda guerra mondiale, è oggi un cumulo di macerie. Nel giugno del 2022 infatti, le oltre 600 steli dell’opera monumentale sono state fatte a pezzi.

Molte le manifestazioni antifasciste che si sono mosse in difesa di questo luogo. Le accuse che vengono rivolte alla politica locale sono quelle di aver lavorato negli anni alla riabilitazione di episodi e personaggi storici del periodo fascista. Forte la denuncia dell’attivista Samir Beharic: «Generazioni di giovani croati sono state cresciute in un ambiente dove i collaboratori nazisti venivano onorati, in alcune parti di Mostar, le strade sono dedicate ai responsabili dei massacri contro gli ebrei bosniaci».

Ciò che rimane di un viaggio in Bosnia-Erzegovina oggi, è l’impressione di un paese ferito ma dignitoso e fiero della propria resistenza. Un paese che, pur guardando avanti, non vuole lasciarsi alle spalle il passato e resta deciso a fare del dolore memoria viva e potente.

Valentina Tamborra

Sarajevo, Bosnia. Musici in un locale notturno. Foto Valentina Tamborra.

 




La liberazione continua


La presenza della Consolata a Roraima ha una portata di livello storico. Nonostante questo, non riusciamo ancora ad averne una visione globale. Le fasi dell’evangelizzazione e le idee per il futuro.

La missione che i nostri due istituti dei missionari e delle missionarie hanno portato avanti a Roraima ha un valore enorme a livello storico. Si tratta del lavoro con gli Yanomami, i Wapichana, gli Ingarikó, i Wa-Wai e diversi altri.

Ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma secondo me non abbiamo ancora la visione generale della profezia che è questa esperienza, sia per la storia del Brasile sia della missione stessa. Forse è la missione più completa che abbiamo realizzato.

Le fasi

Parlando di evangelizzazione in generale, la possiamo suddividere in tre fasi. Le prime due sono l’annuncio e l’adesione personale all’annuncio di chi lo riceve, ovvero il cammino di fede. La terza, che spesso manca, è il cambiamento sociale che la buona novella deve indurre. Il Vangelo, infatti, deve portare una rivoluzione sociale, un miglioramento della condizione umana.

A Roraima siamo riusciti ad andare avanti anche su questa terza fase e per questo la ritengo una missione completa.

Questa parte io la chiamo «cammino di liberazione». Anche questo percorso mi piace dividerlo in tre momenti. C’è il progetto di liberazione, ovvero il progetto di Dio, come quando chiedeva al suo popolo ebreo di uscire dall’Egitto e liberarsi dalla schiavitù.

Poi c’è la stabilità, una volta raggiunti gli obiettivi di liberazione del popolo: vuol dire che il cammino ha portato i suoi frutti.

Infine, l’ultimo passaggio: una volta arrivati alla terra promessa cosa si fa? Anche questa è una grande sfida.

Il cammino di liberazione

Applichiamo questo percorso a Roraima. Questo cammino è stato fondato su un progetto fatto insieme, missionari e missionarie con i capi dei vari gruppi indigeni. Un cammino che toccava non solo la promozione umana ma anche la spiritualità.

L’obiettivo era l’omologazione della terra (registrazione ufficiale di area protetta), ovvero gli indigeni avrebbero potuto dire «questa è casa nostra». E, sappiamo, la terra è davvero importante per i popoli indigeni. Fa parte dei diritti dell’uomo.

È stato un percorso di assemblee con i vari gruppi, con tutti i leader indigeni. Lo hanno chiamato «O la va, o la spacca». Ad esempio, hanno deciso che dovevano smettere di bere alcol. Se nella comunità qualcuno avesse bevuto, il missionario non l’avrebbe più seguita, non avrebbe più officiato battesimi e matrimoni, nulla, e la comunità sarebbe rimasta isolata.

Anche l’adesione ad alcuni progetti, come «Una vacca per l’indio», senza egoismi o protagonismi. Erano posizioni molto forti. Si creava un controllo sociale per portare avanti il cammino di liberazione. Questa era la prima forza di quel momento.

La seconda forza di questo primo periodo è stato il gruppo di missionari presenti. Erano molto uniti e solidali tra loro. Avevano tutti sposato la causa indigena, certo ognuno con la sua caratteristica, ma l’hanno portata avanti insieme. In una zona immensa come quella dove operavamo, se ci sono poche missioni isolate che portano avanti il progetto, si fa fatica. È l’unità d’intenti che fa parte dello stile di Giuseppe Allamano.

La terza forza è stata il metodo, ovvero il coinvolgimento diretto della gente e dei suoi leader.

In sintesi: progetto chiaro e condiviso; unità dei missionari che lo portano avanti; coinvolgimento della popolazione.

Un altro punto importante era che fosse un cammino in comunione con la chiesa locale. È vero che in quel periodo i missionari della Consolata erano anche la chiesa locale. Eravamo gli unici e avevamo anche il vescovo.

All’epoca i missionari hanno avuto anche un’altra intuizione. Si sono detti: «Finché la lotta resta interna, difficilmente saremo ascoltati, perché restiamo una minoranza. Dobbiamo portare questa lotta al mondo. In questo modo il governo riceverà pressioni dalla comunità internazionale». È il concetto di lobbying, che per quel tempo, gli anni 80, era una novità. Questo, talvolta, ha attirato critiche perché poteva sembrare segno di protagonismo. Ma occorreva uscire dal cortile, e in questo caso ha pagato.

La terra promessa

L’omologazione è stata raggiunta e i garimpeiros (minatori illegali, ndr) cacciati, almeno in un primo momento. E adesso? Il popolo ha raggiunto la terra promessa, si sono innescate delle nuove dinamiche. Ci sono quelli che si dimenticano il cammino di sofferenza fatto, arrivano altri che proprio non lo conoscono.

A livello delle persone, c’è chi ritorna a bere l’alcol, altri si mangiano tutte le vacche.

C’è una seconda questione: i missionari non sono più gli stessi. La maggioranza di quelli che si trovano a portare avanti la seconda fase del cammino di liberazione non sono quelli che lo hanno compiuto. Se non hai fatto il cammino è difficile poi vivere la liberazione.

Molti dei nuovi missionari arrivano da un altro continente, l’Africa, dove ci sono dimensioni di lotta diverse. Molti di loro sono alla prima esperienza missionaria e forse non hanno ancora chiaro cosa sia la missione.

Manca la memoria, e non è facile recuperarla dagli anziani.

padre Corrado Dal Monego, con due Yanomami, in una maloca nei pressi di Catrimani (2011). Foto Archivio MC

Un nuovo percorso

Abbiamo iniziato a impostare un nuovo percorso, quando ancora ero superiore generale. La domanda di base era: «Con i missionari attuali come possiamo continuare ad accompagnare questo popolo nel proprio cammino di liberazione?».

Adesso a Roraima c’è una pluralità di situazioni. Ci sono molti missionari di altri istituti. Le priorità della diocesi sono cambiate: l’appoggio ai popoli indigeni non è più esclusivo.

Dalle ultime riunioni che abbiamo fatto a Roraima, sono state suggerite due azioni importanti.

La prima: costruire dei locali e valorizzare il Centro di documentazione indigena (realizzato negli anni da fratel Carlo Zacquini, ndr). Esso aiuta a recuperare la memoria, quindi prendere decisioni condivise da tutti e coinvolge la diocesi.

La seconda: partecipare – come semplici membri, non come responsabili -, ai movimenti indigeni nati per la difesa dei valori e delle conquiste fatte.

Provocazioni

Infine, voglio lanciare tre provocazioni. Quale preparazione occorre, come missionario, per condurre un popolo alla liberazione? Dopo gli studi, abbiamo gli strumenti e l’umiltà di metterci a camminare con la gente?

Il missionario, oggi più che mai, deve essere compagno di viaggio, colui che «condivide il pane con».

Il Vangelo deve avere una forza eversiva, cambiare la vita. Altrimenti che Vangelo è, se non porta vita migliore?

Stefano Camerlengo

 




House of Mercy, casa di tutti


La Mongolia, dove il 28 giugno ci sono state le elezioni legislative, ha affrontato un inverno fra i più freddi della sua storia recente, perdendo milioni di capi di bestiame. Eppure è un Paese in crescita, tra grandi diseguaglianze e grandi opportunità. La Chiesa e i missionari ne accompagnano il cammino.

«Quando sono arrivato in Mongolia, nel 2004, Ulaanbaatar, la capitale, era una cittadina tranquilla, quasi sonnacchiosa. Poi è iniziato lo sfruttamento su scala industriale delle miniere, soprattutto di carbone, rame e oro, e l’economia è decollata».

Padre Ernesto Viscardi, missionario della Consolata classe 1951, racconta così l’inizio dei suoi vent’anni di missione in Mongolia e, anche adesso che da poco è stato trasferito a lavorare nella casa generalizia a Roma, quando parla di quei luoghi e delle persone che li abitano usa la prima persona plurale, come si fa con un paese e un popolo a cui si sente ormai di appartenere. «Certo, questa crescita ha generato anche problemi ambientali, corruzione e diseguaglianze: ma piano piano li stiamo affrontando».

Le difficoltà a cui padre Ernesto si riferisce riguardano ad esempio la contraddizione fra l’aumento delle esportazioni di carbone verso la Cina, che l’anno scorso hanno superato i 50 milioni di tonnellate@, e l’esigenza planetaria di ridurre le emissioni di gas serra per far fronte alla crisi climatica. E anche gli scandali legati alla corruzione e alla distrazione di fondi pubblici, con la vendita illegale di carbone , e le mancate restituzioni dei prestiti alla Banca di sviluppo della Mongolia da parte di aziende legate ad alcuni membri della classe politica@.

La cattedrale di Ulaanbatar il giorno della visita di papa Francesco, 14/09/2023

Un’economia in espansione

«La Mongolia», continua padre Viscardi, «è un paese giovane, in crescita economica, alla ricerca di una sua affermazione e presenza mondiale: insomma, un paese che ha un presente e un futuro». Diciannovesimo paese al mondo per superficie (è grande cinque volte l’Italia), la Mongolia ha una popolazione di 3,4 milioni di abitanti, di cui la metà vive nella capitale Ulaanbaatar. La crescita economica attesa per l’anno in corso, riportava ad aprile l’Asian development bank (Adb), è del 4%: c’è un rallentamento rispetto al 7% del 2023@, ma si tratta comunque di una crescita sostenuta, trainata dal settore minerario e dall’espansione della spesa pubblica.

È stata l’esportazione di carbone, acquistato per la quasi totalità dalla Cina che lo utilizza soprattutto per la produzione di acciaio@, a sostenere il settore minerario, ma un ruolo importante continua ad averlo anche il rame, estratto dalla più grande miniera del paese, quella di Oyu Tolgoi, di proprietà del governo mongolo per il 34% e del colosso anglo australiano Rio Tinto@ per il 66%. Altre risorse importanti sono l’oro, l’argento, il molibdeno e le terre rare@, impiegate in numerosi prodotti e tecnologie attuali, dai motori elettrici ai display ottici. Nel 2023 inoltre il gruppo francese Orano ha firmato un accordo per lo sfruttamento della miniera di uranio di Zuuvch Ovoo, nel Sud Est della Mongolia@.

Quanto al settore agricolo, riferiva sempre Adb, ci si aspetta una contrazione, perché l’inverno 2023/2024 è stato uno dei più rigidi della storia recente@, con fenomeni di freddo estremo – o dzud, in lingua mongola – che ha toccato i -47°C nelle regioni del Nord e dell’Ovest. «Sono morti almeno 4 milioni di animali», conferma padre Ernesto: «Non è stato come lo dzud del 2010, in cui ne morirono almeno il doppio, ma le perdite sono ingenti. In un paese con una media di 20 capi di bestiame per abitante, 65 milioni in totale, si fa preso a capire quanto questo settore determini la vita di migliaia di persone».

Le stime citate a fine maggio dal portale Reliefweb, quantificavano in 7,2 milioni i capi di bestiame persi, l’11% del totale. Le famiglie rimaste completamente senza animali risultavano essere 4.957 e, secondo l’Unicef, i bambini le cui esigenze di salute mentale, nutrizione e istruzione rischiavano di non venire soddisfatte erano circa 24mila.

Ulaanbaatar e la sua crescita

«Guardando Ulaanbaatar dalle colline che la circondano, fino a pochi anni fa si vedeva una coltre di smog che la copriva», racconta padre Ernesto. «Era la capitale più inquinata del mondo, ma oggi la situazione sembra migliorata, anche grazie all’uso del “carbone pulito” invece di quello grezzo». Si tratta di bricchetti di carbone lavorato in modo da ridurre le emissioni@, e sono diverse le fonti che confermano il miglioramento della qualità dell’aria della città, non solo rispetto al fumo emesso ma anche alla presenza di polveri sottili.

Il carbone viene usato dalle fasce più povere della popolazione per scaldare le abitazioni. In particolare nei cosiddetti gher district, i quartieri che si sono formati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso con l’arrivo, dalle zone rurali e dalle steppe, di famiglie che per diversi motivi – spesso la perdita del bestiame – avevano dovuto spostarsi in città. Le gher (iurta in russo, gher in mongolo) sono le tende tradizionali, smontabili e trasportabili, nate per ospitare le famiglie di allevatori in movimento con il bestiame. A queste, si affiancano anche casette a un piano, molto essenziali. «Mentre l’elettricità arriva quasi dappertutto», continua padre Ernesto, «altri servizi come l’acqua corrente e il gas non sono disponibili nei quartieri più poveri, e le persone per scaldarsi devono bruciare carbone».

Ulaanbaatar ha raddoppiato la propria popolazione negli ultimi vent’anni e, secondo diverse proiezioni, nel 2035 raggiungerà i due milioni di abitanti.

Secondo i dati più recenti dell’ufficio nazionale di statistica (2022)@, il tasso di povertà nel paese è del 27%, supera il 35% nelle zone rurali mentre scende al 23% nelle città. Nella capitale, i poveri sono il 21,6%, una persona su cinque. Nel 2023 il tasso di inflazione è stato dell’8%, in calo rispetto al 13% dell’anno precedente, ma ancora sufficiente per erodere di molto il potere d’acquisto delle famiglie.

La mancanza di un’adeguata nutrizione e di accesso a servizi sanitari di base, l’alcolismo, i problemi di salute mentale e la violenza domestica accompagnano e, a loro volta, aggravano le condizioni di povertà.

House of Mercy, casa di tutti

È alle persone che si trovano in queste situazioni che si rivolge la House of Mercy (Casa della misericordia), un centro dove persone con diversi tipi di problemi possono trovare un rifugio: un «punto di riferimento per una molteplicità di interventi caritativi, mani tese verso i fratelli e le sorelle che faticano a navigare tra i problemi della vita», l’ha definito papa Francesco che l’ha inaugurata lo scorso 4 settembre al termine del suo viaggio apostolico in Mongolia, Paese nel quale i cristiani sono circa 1.500.

«Il discorso del papa il giorno dell’inaugurazione e benedizione della House of Mercy@ è la nostra magna carta, sintetizzando i valori fondamentali e lo stile che ispirano il lavoro del centro», spiega il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar, che ripercorre anche le tappe dell’ideazione del progetto.

L’immobile che lo ospita era stato per anni una scuola materna ed elementare gestita dalle suore di San Paolo di Chartres, che nel 2019 decisero di venderlo per concentrarsi sul lavoro in un nuovo edificio scolastico nel quartiere di Bayankhooshoo. Monsignor Marengo, missionario della Consolata all’epoca appena nominato vescovo, si consultò con il nunzio apostolico Alfred Xuereb e con tutte le istanze della Chiesa locale, e prese la decisione di comprare la struttura. Gli istituti e congregazioni avevano già delle loro attività nei settori della carità e dell’assistenza, per questo, continua il cardinale, «ci rendemmo conto che serviva un luogo che fosse espressione della Chiesa locale in sé, non di un ente specifico, e che aiutasse le parrocchie a concentrare in un luogo le iniziative di carità, così da “alleggerire” il loro servizio e dare anche un’immagine più corretta di quello che sono, cioè non primariamente degli spazi di erogazione di servizi ma soprattutto dei luoghi di avvicinamento alla fede».

Per avviare la ristrutturazione occorreva individuare almeno alcune delle attività da svolgere nell’edificio. «Dall’analisi della realtà», ricorda monsignor Marengo, «capimmo che dovevamo rivolgerci alle persone senza fissa dimora, spesso affette da dipendenze come l’alcolismo, che d’inverno rischiano di morire congelate se rimangono all’esterno; oppure alle madri sole con figli a carico e spesso anche vittime di violenza domestica, che hanno bisogno di un riparo; o, ancora, alle famiglie che arrivano in città dalla campagna e hanno bisogno di una sistemazione temporanea». Altri utilizzi del centro, che da fine maggio ha iniziato a offrire il servizio mensa, si definiranno con il tempo, una volta che sarà pienamente attivo, «in base alle priorità di carità che scopriremo lavorandoci».

Cibo, sanità, riparo, ascolto

Il centro si trova nel distretto di Bayangol, che ha un tasso di povertà del 15%, quindi più basso della media cittadina, ma è attraversato da forti disparità nel tenore di vita, che si manifesta nel mescolarsi di comunità urbane e rurali e nel giustapporsi di complessi residenziali di lusso, gher tradizionali, condomini dai costi abbordabili e case unifamiliari.

Al piano terra, il centro ha un ambulatorio di primo soccorso che raccoglie l’esperienza della Saint Mary’s Clinic, una piccola struttura sanitaria attiva per oltre un decennio vicino alla cattedrale. «Oggi», continua monsignor Marengo, «con l’apertura di un centro sanitario pubblico a poca distanza dalla cattedrale, ha più senso per noi trasferire le attività della clinica all’interno della House of Mercy e offrire lì un servizio di primo soccorso, per indirizzare poi i pazienti bisognosi di cure più complesse agli ospedali della città, sempre in coordinamento con le autorità pubbliche».

Oltre all’ambulatorio, il piano terra ospita la mensa, la cucina e dei locali di ricovero temporaneo, soprattutto per l’inverno, mentre al primo piano si trovano le camere di accoglienza per le donne che fuggono dalla violenza domestica o da altri pericoli e, al secondo piano, le camere per il personale, i volontari e gli ospiti a breve termine, oltre a una sala di formazione e una cappella.

«Non possiamo ancora indicare con precisione un numero di beneficiari», spiega fratel Andrew Tran Le Phuong, religioso salesiano e coordinatore del centro. «Inizieremo con un numero di persone che sia gestibile per noi in questo momento, in base alle nostre risorse umane, finanziarie e all’esperienza da acquisire. La Casa della Misericordia non è solo un centro di servizi ai bisognosi, è un luogo in cui aiutiamo i poveri a riconnettersi con la famiglia e la società».

La responsabile locale delle attività sarà Otgongerel Naidansuren Lucia, Oghi, come la chiamano tutti, una donna mongola la cui disabilità – usa protesi per camminare poiché è priva degli arti inferiori dal ginocchio in giù e delle mani – non le ha impedito di guidare, usare il computer e il cellulare e diventare una risorsa fondamentale per la Chiesa locale, con la quale lavora da 18 anni, prima in una parrocchia e, ora, al centro.

In linea con le indicazioni del Papa, la House of Mercy cercherà di avvalersi il più possibile del lavoro dei volontari laici. L’idea del volontariato, continua fratel Andrew, ha un importante elemento educativo, anche per cambiare la visione distorta secondo cui i missionari hanno molte risorse e sono qui per fornire servizi. Questo è un modo per educare le persone all’idea che non tutto è riducibile a un rapporto economico.

La collaborazione per mandare avanti il centro, riprende il cardinale Marengo, è aperta davvero a tutti: «Ai missionari e religiosi cattolici che vorranno venire a dare il loro tempo per servire i pasti, per ascoltare le persone, per fare attività con le madri e i bambini, ma anche ai nostri amici protestanti e buddisti e ai volontari internazionali. Perché questo servizio per la Chiesa non è semplicemente assistere: è manifestare la propria identità».

Chiara Giovetti


ATTIVITÀ AIUTATE DA MCO

Oltre alla House of Mercy, sostieniamo anche alcune altre attività dei missionari e missionarie della Consolata.
Il progetto Amico Saint Paul Mongolia@ ha contribuito a creare a Zuunmod, circa quaranta chilometri a sud di Ulaanbaatar, un Children and youth centre, cioè un centro per l’infanzia e la gioventù con attività di doposcuola, creando un parco giochi e sistemando gli spazi e i materiali didattici del laboratorio di lingua e musica.

Il Centro «Il sole che sorge» a Chingeltei, nella periferia Nord di Ulaanbaatar, accompagna circa una trentina di bambini nella crescita personale e nello studio, con un aiuto per fare i compiti ma anche spazi di socializzazione e apprendimento attraverso giochi, sport, attività creative come il canto, la danza e il disegno e un mini Centro ricreativo estivo portato avanti con l’aiuto di volontari locali@.

Ad Arvaiheer, città di circa 30mila persone a 437 chilometri a Sud Ovest di Ulaanbaatar, i missionari hanno diverse attività fra cui il Day care centre che ha sede in una gher attrezzata presso la missione e offre attività educativa e pasti a una trentina di bambini dai 2 ai 5 anni; un programma di doposcuola e di attività ricreative per bambini e ragazzi; un progetto di formazione in attività sartoriali per circa trenta donne della zona e altre attività che sono descritte nei dettagli sul sito dei missionari della Consolata in Mongolia@.

Chi.Gio.

 




Il pastore bello


Il pastore conosce le sue pecore ed è conosciuto da loro.
Il mercenario non conosce le sue pecore e non si lascia conoscere.
Il pastore, se vede il lupo, si mette in mezzo tra il lupo e le pecore per proteggerle.
Il mercenario, se vede il lupo, manda avanti le pecore perché lo proteggano.

Il pastore dà la sua vita per le sue pecore (Gv 10,11-16), perché le sue pecore sono la sua vita, la sua gioia.

Il mercenario salva la propria vita. Non vorrebbe sacrificare le pecore, perché gli sono utili,
ma se è necessario per mettersi al sicuro, lo fa.

Quando il pastore è assunto in cielo, le sue pecore diventano pastore le une per le altre
e, tutte insieme, pastore per quelle che non sono ancora con loro.

Quando il mercenario muore, le sue pecore gareggiano per prendere il suo posto, il suo potere.
E calpestano le altre. Vogliono le altre con loro solo per se stesse.

Tu, Signore sei il nostro pastore. Non manchiamo di nulla.
Noi siamo le tue pecore, ci chiami per nome, ci custodisci, non lasci che nulla ci colpisca,
non lasci che moriamo in eterno.
Raccogli ogni minuto di ogni ora di ogni giorno delle nostre vite.
E tieni tutto con te.

Inviati come pastori,
raduniamo in Lui la vita nostra e di chi ci è affidato,

buona estate missionaria
da
amico

Luca Lorusso


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L’economia di Gandhi


Il Mahatma propone una «vita vivibile», in cui si persegue la pace. L’economia deve essere al servizio della persona e non il contrario. Ciascuno può fare la sua parte. Ad esempio scegliendo la «povertà volontaria».

L’azione nonviolenta richiede un intervento in prima persona di ognuno.

Su questo assunto si basa il libro di Erica Cupelli.

La visione di Gandhi è illuminante ancora oggi, così come lo era, ad esempio, nell’81, quando l’economista Romesh Diwan ebbe a dire, a riguardo della crisi economica di quegli anni: «Questa crisi è stata portata in superficie a causa dell’incapacità della teoria economica di spiegare gli attuali fenomeni di stagflazione (recessione e inflazione concomitanti, ndc), produttività e altro. La questione riguarda concetti alquanto fondamentali: razionalità, massimizzazione, minimizzazione, ottimizzazione, equilibrio. Senza questi fondamenti, l’intero edificio logico dell’economia neoclassica cade».

Economia gandhiana

Il cuore dell’economia di Gandhi è già stato trattato – ma non in italiano – dall’economista Das Amritananda, secondo il quale il Mahatma suggerisce di badare all’impatto dello sviluppo tecnologico sul lavoro e sulle persone: «Aumenterà la povertà? Lo stile di vita delle persone migliorerà? Quali saranno le conseguenze per l’ambiente? Solo attraverso la realizzazione del pieno impiego i poveri diverranno membri della forza lavoro tale da permettere loro di provvedere autonomamente alla loro sussistenza con dignità».

«Lavorare meno, lavorare tutti!», è uno slogan che ricordo di aver urlato per le strade di Milano, alle manifestazioni degli anni 70 e 80. Può darsi che sia stato gettato allora quel seme che mi ha portato poi a decidere di lavorare meno, guadagnare meno, avere meno per poter scegliere di non fare un lavoro che non voglio, o che non è etico, o che sfrutta qualcuno, o che uccide (compresi gli animali), ecc.

Su questa scia ho trovato nel libro di Erica Cupelli pagine di proposte operative su come organizzare il lavoro, altro che «sogni utopici».

Trascrivo alcuni passaggi: «Gandhi propone una “vita vivibile”, in cui si persegue la pace. Per questo motivo si dovrà lavorare quanto basta per comprare il pane quotidiano, così che il resto del tempo possa essere dedicato a ciò che ha vero valore, non la ricchezza materiale, ma ciò che nobilita l’anima. Allora ci si potrà prendere cura dei propri figli, assistere le persone anziane, fare volontariato, coltivare le proprie passioni, mentre, al tempo stesso, molte più persone potranno lavorare. Il miglior lavoratore sarà dunque colui che si sente a suo agio nella semplicità, l’unica via che può portare alla felicità, fatta di affetti, emozioni, vita. Con la speranza di aver illustrato in modo adeguato i fondamenti etici dell’economia gandhiana, la sfida […] sarà quella di tradurli in concetti praticabili, pur essendo consapevoli del fatto che ciò diventerà possibile solo con una profonda e sincera trasformazione del cuore».

Otto punti, un regolamento

Ditemi se non siete d’accordo con le indicazioni qui sotto, dal paragrafo Attenzione al lavoratore: «1. le ore di lavoro non superino le 6 giornaliere e le 32 ore settimanali; 2. l’orario sarà flessibile per venire incontro alle esigenze personali di ognuno; 3. l’ambiente sia quanto più possibile naturale e pieno di luce; 4. non vi siano turni notturni, eccetto per quei lavori che, per il benessere della società, richiedono tale servizio (esempio: medici, infermieri, pompieri, poliziotti); 5. nel caso di turno notturno, una persona deve essere remunerata maggiormente rispetto a un turno normale; 6. il turno di notte deve essere svolto a rotazione e non più di una volta alla settimana per ogni lavoratore; 7. venga promossa la cultura tramite l’inserimento di biblioteche negli ambienti di lavoro; 8. siano inseriti dei corsi di aggiornamento periodici […]».

Sette punti, un programma

Gli aspetti fondamentali dell’economia gandhiana possono riassumersi in sette punti: 1. proprietà nonviolenta e comunitaria gestita tramite l’amministrazione fiduciaria, cioè la delega ad alcuni esperti interni alla comunità; 2. produzione nonviolenta e uso di tecnologie appropriate; 3. consumo consapevole e limitazione volontaria del possesso dei beni superflui; 4. lavoro nonviolento e lavoro per il pane; 5. cooperazione; 6. distribuzione nonviolenta delle risorse e uguaglianza; 7. socialismo comunitario e nonviolento.

Undici consigli, una realtà

A riprova del fatto che la proposta di questo libro per un’economia diversa non è un sogno utopico, ci sono le testimonianze della vita nei villaggi indiani ai tempi di Gandhi, Vinoba Bhave e altri: «Gli ashram divennero di fatto dei luoghi di sperimentazione diretta in cui il non possesso, l’uguaglianza, il non sfruttamento, l’amministrazione fiduciaria e la scelta di una vita semplice come espressione della povertà volontaria, caratterizzavano ogni membro».

La visione di Gandhi, sperimentata nei villaggi e negli ashram indiani, si basa su questi consigli, applicabili in ogni comunità: 1. allenamento spirituale per autodisciplinarsi; 2. decentramento; 3. valorizzazione dei punti di forza della comunità; 4. scelta e utilizzo di tecnologie che siano a servizio dell’uomo; 5. incoraggiamento al lavoro manuale; 6. cura e attenzione alla natura; 7. servizio alla comunità; 8. liberazione da ciò che vincola e rende schiavi; 9. tutela dell’eguaglianza (economica e socio politica); 10. condivisione di ciò che si ha; 11. scelta di una vita semplice.

La scelta di una vita semplice è l’espressione della «povertà volontaria», formula che mi piace di più di «semplicità volontaria», anche se può spaventare.

Riassuntino colorato

Se tutte le parole lette finora sono state troppe, le trovate riassunte nella copertina del libro, i cui colori riassumono il modello gandhiano in modo immediato: il verde (valori, cultura, società) contiene e fonda il blu (economia), e non viceversa, come scrive l’autrice Erica Cupelli: «Lo schema visualizza il modello gandhiano, che guarda il mondo secondo i valori etici che […] fondano una economia al servizio dell’uomo e non viceversa».

Cinzia Picchioni


Piccola bibliografia

  • Mohandas Karamchand Gandhi, Una grande Anima. Pensieri spirituali per la vita concreta, a cura di N. Salio e C. Toscana, Red edizioni, Como 1998, pp. 128, 7,23 €.
  • Nanni Salio (a cura di),
    Gandhi. Economia gandhiana e
    sviluppo sostenibile
    , Seb27, Torino 2000, pp. 84, 12,50 €.
  • John Ruskin, Cominciando dagli ultimi, San Paolo, Milano 2014, pp. 128, 12 €.
  • Michael J. Sandel, Quello che
    i soldi non possono comprare.
    I limiti morali del mercato
    , Feltrinelli, Milano 2015, pp. 233, 11 €.
  • Roberto Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella, Assisi 2005, pp. 296, 15,90 €.
  • Ernst Friedrich Schumacher,
    Piccolo è bello. Uno studio di economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Milano 2011, pp. 310, 18 €.