Rwanda. Sempre e solo lui, Paul Kagame
Il «presidente» uscente è stato confermato senza problemi e senza avversari. Al potere dal 2000, potrebbe rimanere fino al 2034.
Il 15 luglio 2024, i cittadini rwandesi si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente (oltre che rinnovare il Parlamento). Ufficialmente, c’erano tre candidati. Ma, in realtà, si sapeva già quale sarebbe stato il risultato. E infatti, come ci si aspettava, il capo dello Stato uscente Paul Kagame si è confermato alla guida del Paese anche per i prossimi cinque anni con oltre il 99% dei voti (secondo i risultati provvisori annunciati la sera del 15 luglio).
Formalmente, Kagame è presidente del Rwanda dal 2000. In realtà, è il leader di fatto del Paese dal 1994. Prima di darsi alla politica era il comandante del Fronte patriottico rwandese (Fpr), il movimento armato di esuli tutsi che, nel 1994, aveva posto fine al genocidio. Dopo la vittoria dell’Fpr, Kagame è diventato vicepresidente e, soprattutto, ministro della Difesa: essendo il capo delle forze armate, era in grado di controllare l’intero Paese.
Nel 2000 poi, ha ufficialmente raggiunto la massima carica dello Stato e non l’ha più abbandonata. Nel 2003, 2010 e 2017, Kagame ha registrato sempre più del 90% dei consensi in tornate elettorali che, secondo osservatori indipendenti e attivisti per i diritti umani, erano ben lontane dall’essere libere e trasparenti.
Nel 2015, per ovviare al limite dei due mandati sancito dalla Costituzione, il leader dell’Fpr ha ottenuto l’approvazione di un emendamento che riduceva la lunghezza della presidenza da sette a cinque anni. In questo modo, veniva azzerato il conteggio dei mandati già svolti. Ma non solo. Kagame si era anche assicurato un’eccezione specifica per sé stesso: la possibilità di competere per un altro mandato di sette anni (quello che si è appena concluso) prima di due ulteriori da cinque. L’allora 59enne presidente si era garantito il potere fino al 2034. Cioè quasi a vita.
Nessuno stupore quindi per il 99,15% registrato al voto del 15 luglio. Dopotutto, come avvenuto anche in passato, Kagame aveva già da tempo messo fuori gioco qualsiasi sfidante pericoloso. Le candidature di Victoire Ingabire e Bernard Ntaganda, ad esempio, erano state entrambe rifiutate, sostenendo che – poiché i due stavano scontando delle vecchie condanne (politicamente motivate secondo molte organizzazioni per i diritti umani) – non potevano candidarsi.
La Commissione elettorale nazionale poi, nel vagliare le nove candidature giunte, aveva ristretto ulteriormente il cerchio. Oltre a Kagame, aveva accettato solo altri due nomi. Tra gli esclusi, figurava anche Diane Rwigara, leader del Partito per la salvezza del popolo, accusata di non aver raccolto un numero sufficiente di firme. Storica oppositrice di Kagame, già poco prima del voto del 2017 Rwigara era stata arrestata, impedendole di sfidare il presidente.
Gli unici due ammessi all’elezione sono stati Philippe Mpayimana, candidato indipendente, e Frank Habineza, leader del Partito dei verdi democratici. Entrambi avevano già sfidato Kagame nel 2017, ottenendo percentuali irrisorie (inferiori all’1%). Quest’anno non è cambiato nulla.
Il clima in cui si è tenuto il voto, apparentemente, era tranquillo. Ma in realtà, pochi giorni prima dell’elezione, Amnesty international (Ong internazionale per i diritti umani) aveva espresso la sua preoccupazione per «minacce, detenzioni arbitrarie, persecuzioni sulla base di accuse false, uccisioni e sparizioni forzate» ai danni di diversi membri dell’opposizione.
Anche i giornalisti sono attaccati. Infatti, il Rwanda è 144esimo su 180 Paesi nella classifica di Reporter senza frontiere sulla libertà di stampa. Come scrive l’organizzazione, «il panorama dei media rwandesi è uno dei più poveri in Africa. I canali televisivi sono controllati dal governo o da azionisti del partito di maggioranza. La maggior parte delle stazioni radio si concentra su musica e sport per evitare problemi. Non c’è un giornale di respiro nazionale. Il giornalismo investigativo non è praticato e i giornalisti che hanno tentato di diffondere contenuti critici su YouTube o altre piattaforme online sono stati duramente condannati».
Dunque, di fronte a tali livelli di autoritarismo e repressione non ci si poteva aspettare un risultato elettorale differente. Kagame resta alla guida del Paese, ma lo aspettano mesi complessi, soprattutto in politica internazionale. Il fronte dei conflitti congolesi è sempre più caldo: un recente report delle Nazioni Unite ha denunciato la presenza illegale di circa 3mila-4mila soldati rwandesi nell’Est della Repubblica democratica del Congo. La sconfitta dei conservatori inglesi alle elezioni dello scorso 4 luglio, invece, ha sancito il blocco del controverso accordo tra Gran Bretagna e Rwanda sulla deportazione dei richiedenti asilo a Kigali.
Vedremo come affronterà tutto ciò Kagame, sempre più l’«uomo forte del Rwanda».
Aurora Guainazzi