Mozambico. Non è mediatica, ma è una guerra

Una regione del Paese africano alla mercé della guerriglia islamista

Distribuzione di aiuti d'emergenza. Perché non c'è pace a Cabo Delgado, la regione a Nord est del Mozambico. Foto afMC.
Mozambico
Enrico Casale

C’era ottimismo a Maputo, la capitale mozambicana. La guerriglia a Cabo Delgado (Nord-est del Paese) sembrava essere stata sedata. La pressione dei soldati mozambicani e dei loro alleati ruandesi e della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale) pareva aver messo all’angolo i miliziani di Ahlu Sunna Wal Jammah, milizia fondamentalista legata allo Stato islamico. Invece, all’inizio di quest’anno, la lotta si è riaccesa. I jihadisti hanno ripreso ad attaccare comunità, villaggi, città. A uccidere, distruggere, terrorizzare. Una violenza continua che viene perpetrata nel silenzio della comunità e dei media internazionali.

Gennaio e febbraio, riportano i missionari locali, sono stati i mesi più feroci, con una sequenza di attacchi compiuti nel distretto di Chiure, dove sono state distrutte 18 chiese cattoliche in altrettanti villaggi attaccati. Ci sono stati alcuni morti e molte persone sono state costrette a spostarsi, aumentando il numero degli sfollati interni, che ha già raggiunto la cifra di un milione. Un altro grande attacco è stato effettuato il 10 maggio quando i jihadisti hanno invaso il capoluogo del distretto di Macomia, provocando alcuni morti, danni ad infrastrutture e diffusi saccheggi. Anche il numero di vittime continua a salire. Una stima provvisoria parla di quattromila morti. La situazione umanitaria è grave. Molti campi di reinsediamento per sfollati, spiegano i missionari, rimangono privi di condizioni adeguate. Quest’anno il raccolto non è stato sufficiente e, quindi, ci sarà fame nei campi di reinsediamento degli sfollati e anche tra le popolazioni che sono tornate ai villaggi attaccati. Mancano medicine e sostegno scolastico.

La milizia islamista

Nato in Tanzania con il nome di Shabab (da non confondere con al-Shabaab della Somalia) nel 2017, il movimento ha assunto la denominazione di Ahlu Sunna Wal Jammah e ha aderito all’Isis. I motivi della diffusione di questa milizia sono complessi, osservano i missionari, si mescolano terrorismo islamico (Isis) e povertà; appropriazione illecita di risorse naturali e minerali e corruzione di alcune figure di potere che cercano un rapido arricchimento attraverso il traffico di droga; tratta di esseri umani e altre attività illecite. Ahlu Sunna Wal Jammah, per raccogliere consensi, si presenta alla popolazione come una formazione legata al territorio. Fa leva sul malcontento dei contadini che si sentono abbandonati ed emarginati dal potere centrale. Grazie al sostegno di una fitta rete di movimenti simili in Tanzania e in Rd Congo, è poi riuscito a rafforzarsi anche militarmente, contrastando con efficacia le forze armate mozambicane, ma anche i mercenari del gruppo Wagner, i soldati sudafricani e i reparti ruandesi.

Gli aiuti della Chiesa

Di fronte a questa sfida, la Chiesa cattolica è scesa in campo sostenendo più di 250mila sfollati con assistenza sanitaria, trasporti, cibo, costruzione di rifugi, sostegno scolastico, sostegno psicosociale e assistenza spirituale. La Chiesa cattolica è impegnata in questo sostegno attraverso la Caritas diocesana di Pemba, il settore emergenza della diocesi di Pemba e attraverso il coinvolgimento diretto del personale missionario nelle parrocchie in cui si trovano. Molte persone bisognose bussano alle porte di preti e suore in cerca di aiuto. «Purtroppo, da quando in Europa e in Medio Oriente sono iniziate guerre più mediatiche – commentano amari i missionari -, il nostro problema è passato in secondo piano e gli aiuti non arrivano più come una volta. Senza aiuto, la Chiesa rischia di non poter aiutare le altre vittime bisognose degli attacchi jihadisti».

Enrico Casale

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