È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.
Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.
Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.
Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.
La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.
Nuovi, diocesi e vescovo
Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.
Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.
La nuova diocesi
La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.
In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.
Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.
Cercando la pace
Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.
Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.
Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».
Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.
Una sfida infinita
Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.
Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.
Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.
Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.
Le armi della pace
L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.
Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».
Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».
E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.
Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».
Risultati
«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».
Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».
Una Chiesa sempre più incarnata
L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.
All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.
Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.
Scuola e salute
Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.
Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.
Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.
I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.
Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.
Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.
Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace.
Gigi Anataloni
(1 – continua)