Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

a cura di Gigi Anataloni

Un gigante della Missione

Gent.mo padre Gigi,
grazie per il ricordo di padre Oscar Goapper nel recente articolo (del sito rivistamissioniconsolata.it in occasione del 25° del suo passaggio al Cielo). Ricordo ancora quel pomeriggio del 1999 in cui mio papà, dispiaciuto e triste, mi comunicò la notizia, arrivata per telefono, della sua morte. Sapere che non c’era più, dopo così poco tempo da quella laurea con quegli anni di sacrifici e gioie che con amicizia avevo accompagnato come altri, era stato devastante.

Padre Oscar si era laureato in Medicina e chirurgia a Milano, Università degli studi, il 7 marzo 1994, con 110 e lode. Ricordo la commozione, non solo dei confratelli e amici presenti, ma anche dei professori che hanno ascoltato la sua tesi che parlava di Neisu.

Il 7 Luglio 1994 raccontava così il suo ritorno in Africa da medico e missionario: «Carissimi, alla fine sono tornato al punto di partenza, dopo viaggi con peripezie e qualche avventura che in Africa non mancano mai.

Il viaggio fino alla capitale Kinshasa, tutto regolare, il problema è l’aeroporto sommerso sempre nel caos, ma tutto è andato bene perché ci aspettava padre Celestino (Marandu) che ci ha accompagnato per fare tutte le pratiche, anche il visto d’ingresso dopo un’ora e mezza di attesa.

Dopo una settimana in capitale abbiamo preso il volo interno, in un altro piccolo aeroporto, dove tutto è calmo e tranquillo, un aereo a elica che ci ha portati attraverso il cielo africano fino a Isiro, dopo cinque ore di volo. Sull’aereo non si contano i 25 posti, ma i chili, così che più ne stanno e meglio è, la gente viaggia in piedi, accatastati uno sull’altro, tra le borse. Siamo in Africa e tutto è possibile.

Arrivati all’aeroporto nessuno ci aspettava, perché l’aereo era arrivato parecchie ore prima del previsto, poi il superiore ci ha dato l’auto e dopo qualche ponte avventuroso, dopo esserci fermati una ventina di volte lungo la strada per salutare la gente che accorreva dappertutto, siamo arrivati a 300 metri dalla missione. Qui la gente ha bloccato l’auto e sono sceso a piedi tra canti, urli di donne, lacrime, saluti, abbracci, spinte varie. Ho avuto paura e molta emozione allo stesso tempo. Vi confesso che in dieci anni non avevo mai visto i Mangbetu così, mi ha ripagato tanto delle pene, preoccupazioni, fatiche. Tutto, in un momento è stato cancellato».

Padre Oscar ha continuato ad operare e visitare fino all’ultimo giorno. Ha curato un orto di piante medicinali per sopperire ai medicinali che mancavano, ha dato tutto se stesso per la gente che passava per l’ospedale di Neisu, ha fatto crescere medici, infermieri che oggi continuano a dare aiuto, pace e speranza in quell’angolo di Africa dove è rimasto il suo cuore. Un grande grazie (come direbbe padre Oscar) a loro e a tutti coloro che permettono la continuazione di questa opera.
Grazie padre Oscar.  Grazie padri della Consolata per fare memoria e ricordare a tanti questo gigante della Missione.

Carlo
15/05/2024

 

Grazie del bel ricordo di un missionario che ha davvero dato tutto, anche la sua vita (1951-1999). È stato mio compagno di studi a Torino, l’ho visitato nell’83 a Neisu dove esisteva solo un centro di salute molto spartano (vedi le foto), che ha poi trasformato in un centro di eccellenza a servizio dei più poveri, nel cuore dell’Africa. Ricordarlo il 18 maggio è stato un momento bello anche per me mentre, con la memoria, visualizzavo quel posto così remoto trasformato da area di lazzaretti a centro che difende e promuove la vita.


A proposito di Beniamino

Ho letto con molto interesse l’articolo di Angelo Fracchia titolato: «Tamar, una palma nel deserto» (MC 04/2023). Se può avere un valore la mia opinione, condivido in toto il contenuto: bravo Angelo.

Mi permetto solo di suggerire una correzione descrittiva poiché, confrontando il testo biblico, risulta che Beniamino è nato durante il viaggio di ritorno di Giacobbe, nell’ultimo tratto prima di arrivare ad Efrata; il parto è stato drammatico per mamma Rachele perché lei morì subito dopo (Gen 35,16-20).

Questa precisazione mi permette di rilevare l’inesattezza della frase del testo di Angelo Fracchia dove scrive: «A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato)». In verità la testimonianza di Tamar è descritta sì al cap. 38, ma precedentemente Giacobbe con tutto il suo clan ha trovato residenza al di là di Migdal-Eder (Gen 35, 21) e subito dopo il narratore descrive tutta la famiglia di Giacobbe precisando che ha avuto 12 figli, compreso Beniamino (Gen 35, 22-26).

Il cap. 36 è tutto dedicato alla discendenza di Esaù e il 37 inizia con la storia di Giuseppe e i suoi fratelli tra i quali già vive Beniamino.

Storia che però viene interrotta, come scrive giustamente Angelo, col cap. 38 per fare spazio alla drammatica esperienza di Tamar e di Giuda, alla quale Angelo fa un commento che, a mio avviso, non fa una piega.

So che l’imprecisione descrittiva che mi sono permesso di sottolineare, non toglie nulla al bel commento di Angelo. Potrebbe anche essere che, non essendo io un biblista, mi sia lasciato sfuggire dei particolari che invece confermano che Beniamino non fosse ancora nato; casomai chiedo venia.

Comunque sia, il commento di Angelo è molto bello. Scusate il mio essermi intromesso. Buon lavoro.

Luigi Guarisco
13/05/2024

Bravo a Luigi Guarisco, e non solo in riconoscenza per i troppo generosi complimenti. Disattenzione mia abbastanza rilevante di cui chiedo scusa, ma che è anche l’occasione per ringraziare commosso per tanta delicata attenzione. Mi resta da capire come abbia potuto incorrere in una simile scivolata, ma sono veramente grato per la doverosa correzione.

Angelo Fracchia,
13/05/2024


Da semplice chiesa a cattedrale

Egregio direttore,
un saluto a lei, ai suoi lettori e un augurio di pace a tutti.

Mi chiamo Bertillo Possamai. Sono abbonato a MC da moltissimi anni. Inoltre, sono un ex allievo dei Missionari della Consolata, avendo frequentato la scuola media a Biadene (Treviso).

Dei missionari, miei educatori e professori, conservo un costante e riconoscente ricordo. I padri Tullio Bosello, Adolfo De Col, Domenico Pizzuti e altri, me li porto ancora nel cuore. Il loro esempio di dedizione mi accompagna ancora oggi, anziano di 84 anni.

Un detto latino recita: «Non scholae sed vitae discimus» (non si studia per la scuola, ma per la vita). È anche il mio caso. Questo grazie ai miei maestri missionari.

Porto nel cuore, in modo speciale, anche padre Angelo Pizzaia, mio compagno di scuola a Biadene. Dopo diversi anni ci siamo ritrovati, lui missionario in Tanzania ed io geometra a Vidor (Treviso). Un giorno padre Angelo mi disse:

– Bertillo, perché non manifesti il tuo spirito missionario con qualcosa di concreto.

– Che cosa intendi dire, Angelo?

– Tu sei un geometra. Perché non disegni una chiesa per il Tanzania?

Disegnai una chiesa da costruirsi nella modestissima missione di Mafinga, diocesi di Iringa. Sempre a contatto con i missionari della Consolata. Per diverso tempo ho fatto la spola tra il mio studio di geometra a Vidor e la chiesa in costruzione a Mafinga (vedi foto sotto). E non mancavo di incontrare il mio compagno di scuola, padre Angelo. Il nostro incontro era sempre una festa, dove non mancava una bottiglia di Prosecco, che mettevo in valigia per l’occasione. Ma, se io edificavo una chiesa, padre Angelo «edificava la mia persona» (insieme alla mia famiglia) con la sua generosità e la sua fede cristallina.

Quando nel 2018 padre Angelo Pizzaia morì, dopo aver annunciato per tanti anni il Vangelo nelle diocesi di Iringa e Dar es Salaam, il suo funerale a Onigo (Tv), suo paese natale, lasciò un segno profondo.

Sto scrivendo questa lettera a Dar es Salaam, mentre mi appresto a ritornare in Italia. Lo credereste? Quella stessa chiesa, che io terminai nel 2003, oggi è una cattedrale con un nuovo vescovo, Vincent Mwagala, la cui consacrazione è avvenuta il 19 marzo 2024. Ed io c’ero con mia figlia Simona, il genero Gianni e l’amica Ivana. Una celebrazione che dire solennissima è poco. Al termine il nuovo vescovo mi disse: «Geometra Possamai, grazie. Se non ci fosse stato lei, non ci sarebbe neppure questa cattedrale ed io non sarei vescovo».

Bertillo Possamai
25/03/2024, Dar es Salaam


Che possiamo fare?

Da quindici mesi sono nonna di un cucciolo, Jonatan, che è la gioia e l’interessamento di tutta la famiglia. La dedizione della sua mamma è totale e a volte a rischio della sua stessa salute.

Sarà forse per questo che i fatti di Alessia Pifferi e la sua condanna all’ergastolo mi hanno colpito in modo spropositato. E il mio cuore non trova pace: Alessia ha lasciato morire la sua bimba di 18 mesi, abbandonandola sola in casa, senza assistenza alcuna.

I neonati sopravvivono solo se attorniati dall’interessamento affettuoso di quelli che stanno loro intorno. La mamma e la sorella di Alessia hanno esultato per la sua condanna all’ergastolo. Non sta a me giudicare se sia una condanna esemplare, oppure no. Ma questi fatti chiamano in causa tutta la società. Possibile che nessuno si sia reso conto che questa mamma così insussistente rispetto ai propri doveri, avrebbe dovuto essere supportata? Poteva essere segnalata ai servizi sociali! C’è una dimensione di corresponsabilità che riguarda ognuno di noi!

Le nostre città nascondono persone fragili che possono far male a se stesse o agli altri. Sappiamo essere attenti a quelli che ci stanno attorno? A volte non conosciamo neanche il nostro vicino di pianerottolo. Passiamo indifferenti davanti al mendicante che porge il cappello per l’elemosina.

Siamo ancora cristiani? Siamo ancora umani? Chissà quanti altri casi simili nascondono le nostre anonime città: non è sufficiente scandalizzarsi quando diventano fatti di cronaca nera.

È necessario prevenire. Cosa possiamo fare nel nostro piccolo?

Mira Mondo,
maggio 2024

Cara Mira,
come lei sono anch’io pieno di domande e faccio fatica a trovare risposte. Nonno anch’io – almeno per età – vengo da un mondo dove la privacy non si sapeva cos’era, le case avevano le porte aperte, tutti sapevano tutto di tutti e i bambini giravano in libertà. Mi rendo conto che, invece, oggi abbiamo un sistema di vita che ci vuole isolare e tagliar fuori dalle relazioni di vicinato per trasformarci in un branco di consumatori anomini che riempiono i centri commerciali, gli stadi, le spiagge e le piste da sci.

Sono ammucchiate per poterci spremere, senza darci però il tempo di relazioni umane profonde, di interessarci gli uni degli altri o farci carico delle gioie e dolori reciproci. E così succedono fatti come quello di Alessia, ma anche come quelli di anziani che vengono trovati morti nella loro casa dopo giorni se non mesi. Che fare?

Come cristiani abbiamo un «luogo» che può aiutarci a guarire le nostre relazioni: la parrocchia, nel suo significato originale di «vicinato». Lì, celebrando davvero la «domenica» come famiglia di Dio, nell’ascolto della sua Parola e facendo festa insieme come fratelli e sorelle, possiamo trovare l’energia per rinnovare le nostre relazioni in una logica di amore e di cura reciproca.

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a cura di Gigi Anataloni

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