L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.
I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.
Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.
I «patti» dell’Ue
Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.
Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.
Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.
La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.
Il punto di vista dell’Oim
Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.
L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.
L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.
Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?
«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.
Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».
Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?
«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.
Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”. Noi lo diciamo da tempo ormai.
Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.
Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».
Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?
«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.
Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.
Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.
Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.
Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».
In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?
«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.
Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.
Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.
Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».
Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?
«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.
Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.
Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.
Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.
Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.
Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».
Mattia Gisola