Dalle stalle ai laboratori: è la carne cosiddetta «artificiale». In Italia è vietata da una legge ad hoc. Eppure, la carne «normale» ha ormai costi insostenibili. Ambientali ma non solo.
Già prima che i trattori invadessero le strade d’Europa, gli allevatori italiani si erano fatti sentire presso il nostro governo con una richiesta singolare. Chiedevano una legge per proibire la produzione della carne detta «artificiale». Che significa? Da quando in qua la carne si produce nei laboratori invece che nelle stalle? In realtà, succede già negli Stati Uniti e a Singapore, mentre l’Unione europea ci sta pensando. Con grande preoccupazione degli allevatori di tutto il mondo che ovunque si battono contro la carne di laboratorio. Come andrà a finire dipende dalla forza che ogni categoria economica coinvolta nella partita sarà capace di mettere in campo nei confronti della politica. Al momento, in Italia hanno vinto gli allevatori che il 1° dicembre 2023 hanno ottenuto una legge, la numero 172, che vieta la produzione e la vendita di carne da «colture cellulari» nel nostro paese. Il futuro rimane, però, una questione ancora tutta aperta.
Allevamenti, metano e cereali
L’interesse degli studiosi per la carne prodotta in laboratorio è di vecchia data, ma ha avuto un’accelerazione da quando abbiamo capito che i cambiamenti climatici sono una cosa seria e che sono dovuti in gran parte all’agire dell’essere umano. Una responsabilità che risiede nella produzione eccessiva di gas a effetto serra. Di quei gas, cioè, che, accumulandosi in atmosfera, intrappolano i raggi solari provocando un surriscaldamento della superficie terrestre. Il gas maggiormente responsabile del fenomeno è l’anidride carbonica, ma ce ne sono anche altri come il protossido d’azoto e il metano. Ed è proprio quest’ultimo a chiamare maggiormente in causa la responsabilità degli allevamenti.
La Fao stima che i gas serra associati all’allevamento animale ammontino a 7,1 gigatonnellate, pari al 14% di tutti i gas serra prodotti dall’agire umano a livello mondiale. In sintesi, un settimo dei gas serra proviene dagli allevamenti animali principalmente come metano, prodotto non tanto dalle deiezioni, quanto dalla digestione dell’erba. Più precisamente il metano si forma nell’apparato digerente dei ruminanti: mucche, bufali, pecore, capre, cammelli, che passano ore e ore ogni giorno a ruminare l’erba che altrimenti non potrebbe essere digerita. Il processo di digestione è coadiuvato da batteri anaerobi produttori di una grande quantità di metano che l’animale espelle attraverso la bocca e la via intestinale.
Nel conteggio della Fao, tuttavia, oltre al metano emesso direttamente dai ruminanti, sono comprese anche le emissioni di anidride carbonica connesse alla produzione di soia, nonché mais e altri cereali dati in pasto agli animali.
Si stima che tra il 35 e il 40% dell’intera produzione mondiale di cereali sia destinata agli animali, una quota destinata a salire considerato l’aumento del consumo di carne.
Suoli, falde, acqua
Per di più i problemi ambientali creati dall’allevamento animale riguardano anche altri ambiti, come testimonia il territorio della Lombardia, dove suoli e falde sono contaminati dall’alta concentrazione di allevamenti. Altrettanto catastrofico è l’impatto sul consumo di acqua (ne servono 15 tonnellate per ogni chilo di carne), sul consumo di terre agricole e sulle foreste eliminate per fare spazio ai pascoli e alla produzione di soia.
Un insieme di problematiche destinate ad aggravarsi considerato che, nel Sud del mondo, c’è una classe media in crescita che pretende di mangiare carne nella stessa quantità del Nord del mondo.
In effetti esistono ancora profonde differenze nel consumo di carne a livello mondiale. L’istituto Our world in data informa che si va da un consumo pro-capite di 136 kg l’anno a Hong Kong, a 3 kg nel Burundi, passando per i 126 degli Usa, i 65 della Cina e i 70 dell’Italia.
In ogni caso, negli ultimi sessant’anni, si è assistito a un aumento considerevole di animali allevati: se nel 1960 si contavano bovini per un miliardo di capi e ovini-caprini per 1,3 miliardi, nel 2020 il numero di bovini è passato a un miliardo e mezzo, mentre quello degli ovini-caprini a due miliardi.
Carne, alimento critico
Che la carne sia ormai diventata un alimento critico è fuori discussione, ma sulla questione di cosa fare per porre rimedio alle sue criticità esistono esistono varie posizioni perché, in economia, più che la razionalità vale l’interesse, per fortuna con qualche eccezione. Fra gli allevatori stessi ci sono dei genuini ambientalisti che propongono di ridurre il numero di capi allevati utilizzando i pascoli come principale fonte di alimentazione. Ma si tratta di una minoranza. La maggior parte degli allevatori vuole andare avanti come sempre, ossia badando solo a costi, ricavi e rese monetarie, tutt’al più facendo qualche ritocco d’immagine piuttosto che di sostanza.
Ad esempio, succede, che la brasiliana Jbs, fra le più grandi multinazionali dedite alla macellazione animale, pur vantandosi di impegnarsi nella sostenibilità ambientale, continua a essere accusata dalle associazioni ambientaliste di acquistare bestiame allevato su tratti deforestati dell’Amazzonia.
Al di là dell’immobilismo contrapposto dagli allevatori più conservatori, tre soluzioni sono oggi sul tavolo: una di tipo esclusivamente tecnologico, una di tipo comportamentale, l’ultima di tipo misto.
Cellule in laboratorio
La soluzione di tipo esclusivamente tecnologico è quella che propone di ottenere bistecche e fettine in laboratorio, tramite un processo che inizia estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi (bovini, maiali, polli) per poi farle moltiplicare in laboratorio attraverso complesse metodiche di nutrimento e di divisione cellulare.
Il paese più avanzato in questo genere di sperimentazione è rappresentato dagli Stati Uniti, dove la produzione è stata ammessa dalla Food & drug administration, l’organo di vigilanza alimentare e farmaceutica.
Una ventina di società, all’apparenza tutte start-up di giovani imprenditori, si sono già lanciate nel settore ottenendo un fatturato, nel 2023, pari a 121 milioni di dollari. Una somma a sei zeri che può fare una certa impressione, ma che rappresenta appena lo 0,11% di quanto è stato ricavato nello stesso anno dalla vendita di carne tradizionale sul mercato statunitense. In effetti la produzione di carne sintetica è ancora un’iniziativa in germe con molti nodi da sciogliere, non ultimo quello dei costi. Per diventare competitiva, la carne sintetica dovrebbe essere venduta sul mercato finale a non più di 10 dollari al chilo; in realtà produrla oggi costa ancora fra i 22 e i 120 dollari al chilo, a seconda del tipo di carne. Ma gli operatori del settore sperano di riuscire a dimezzare i costi per il 2030.
Abitudini alimentari
La carne sintetica piace a vari ambiti della società civile. Piace alle associazioni animaliste perché elimina la sofferenza animale. Piace a certi sanitari perché annulla l’uso di antibiotici oggi abusati nel mondo della zootecnia. Piace a chi si occupa di ambiente perché contribuisce ad abbattere i gas serra e a ridurre il consumo di terre fertili. Ma i risvolti sanitari possono essere molti e solo il tempo potrà dirci se la carne di laboratorio possa nascondere qualche proprietà mal tollerata dal nostro organismo, che oggi ignoriamo. In altre parole, ci vorrebbe maggiore prudenza in nome del principio di precauzione.
Quanto all’aspetto ambientale, una piena valutazione deve anche considerare l’aumento di materiale richiesto dalla costruzione di nuovi impianti industriali e l’incremento di energia elettrica richiesta per farli funzionare. Energia elettrica neutra o a forte impatto ambientale a seconda della fonte primaria utilizzata.
All’opposto della soluzione tecnologica c’è quella di tipo comportamentale secondo la quale il problema non è sostituirsi alla natura, ma inserirsi nel suo corso. In altre parole, ciò che bisogna fare è cambiare le nostre abitudini alimentari. Bisogna avere l’accortezza di cercare le proteine che ci servono in alimenti di tipo vegetale in modo da consumare meno carne e quella poca produrla in maniera sostenibile.
La carne – si sa – è particolarmente utile in età infantile perché contiene tutti gli ingredienti proteici utili alla crescita. Ma i nutrizionisti ci informano che si può ottenere un risultato altrettanto soddisfacente anche da una dieta che combina correttamente legumi e cereali. La classica pasta e fagioli tipica della dieta mediterranea che i medici non mancano mai di raccomandarci. Una dieta buona per la salute umana e per la sostenibilità del pianeta.
Uno studio condotto nel 2017 da Helen Harwatt e pubblicato sulla rivista Climatic Change, ha mostrato, ad esempio, che se tutti gli americani sostituissero la carne bovina con fagioli, ceci e altri legumi, il paese sarebbe vicino a raggiungere gli obiettivi di riduzione di gas serra che Barack Obama aveva indicato per il 2020.
Dieta vegetariana
Fra queste due posizioni si inserisce una terza proposta che offre un cambio alimentare in salsa tecnologica. Che si può riassumere nel tentativo di convertire le masse a una dieta vegetariana tramite un processo di finzione. Il ragionamento dei proponenti è che la gente è troppo attaccata alla carne per abbandonarla, per cui va fatta passare alla dieta vegetariana con l’inganno. Ossia, facendole credere di stare addentando un hamburger mentre mangia un pasticcio di fagiolini, cavoli, piselli, che – per forma, colore e sapore – assomiglia in tutto e per tutto a un hamburger fatto di carne. Un prodotto da non confondersi con il tofu o e il seitan, che benché comunemente definiti anch’essi «carne dei vegetariani», non presentano nessuna similitudine sensoriale con la carne. L’hamburger vegetale, invece, sanguina addirittura come l’hamburger animale. Un risultato ottenuto non per magia, ma grazie alla miscelazione di ingredienti estratti da varie specie vegetali fra cui soia, funghi e frutti tropicali, sottoposti a sofisticate lavorazioni.
Varie imprese hanno subito sentito odore di soldi nella «carne vegetale» e vi si sono buttate a capofitto, compresi miliardari come Bill Gates e colossi della stessa industria della carne, come Cargill e Jbs. Oggi il mercato della carne vegetale a livello mondiale vale 6,1 miliardi di dollari, non molto rispetto alle migliaia di miliardi di dollari che girano attorno alla carne vera e propria, ma pur sempre un ammontare interessante.
Quale strada?
In conclusione, delle tre proposte, quella che personalmente ritengo meno risolutiva è la terza, che anzi mi pare dannosa per la sua connotazione consumistica. Meglio investire in risorse educative per cambiare le abitudini dei consumatori piuttosto che sprecare risorse materiali per manipolare prodotti che la natura rende già pronti all’uso in forma diretta. Anche la prima proposta mi genera scetticismo, quasi spavento, per l’avanzare eccessivo della tecnologia che da serva rischia di trasformarsi in padrona. Per non parlare dei suoi effetti di lungo periodo di cui non sappiamo niente. Alla fine, rimane in piedi solo la seconda proposta, quella della riduzione e della semplicità. La strada che ci rifiutiamo di imboccare, ma l’unica che potrà salvarci.
Francesco Gesualdi