I Copti sono la comunità cristiana più ampia del Medio Oriente. Da sempre si devono difendere dalle persecuzioni. Ultimamente il dialogo ha portato miglioramenti. Le discriminazioni persistono, ma i semi di speranza cominciano a dare i primi frutti.
Sono trascorsi nove anni dal 15 febbraio 2015, giorno in cui fu scritta dall’Isis, il sedicente Stato islamico, una delle sue pagine più crudeli: venti egiziani e un ghanese che lavoravano in Libia furono sgozzati sulla spiaggia di Sirte. Erano cristiani e morirono sussurrando il nome di Gesù. La loro morte ha segnato profondamente la vita della Chiesa copta e non solo.
L’11 maggio del 2023, durante un incontro e un momento di preghiera comune tra papa Francesco e il capo della Chiesa ortodossa copta di Alessandria, Tawadros II, il papa ha annunciato che quei 21 cristiani decapitati sarebbero stati inseriti nel Martirologio romano come segno di comunione spirituale.
Erano cristiani copti, perseguitati e uccisi all’estero, come è accaduto anche a marzo di questo 2024, quando tre monaci egiziani copti ortodossi sono stati accoltellati durante un attacco nel monastero di San Marco apostolo e San Samuele il confessore a Cullinan, città a una cinquantina di chilometri da Pretoria, capitale del Sudafrica.
Una Chiesa bimillenaria
È da sempre su una strada in salita la testimonianza di fede per questa comunità cristiana, la più grande tra quelle antiche del Medio Oriente, con i suoi dieci milioni di fedeli stimati nel Paese (su centoundici milioni di abitanti) e altre centinaia di migliaia all’estero.
L’Egitto è la terra nella quale nacque il monachesimo con Sant’Antonio Abate, a cavallo tra il terzo e il quarto secolo dopo Cristo. La tradizione evangelica di Matteo racconta in queste stesse terre l’unica «uscita» di Gesù dalla Palestina, quando da bambino fu portato da Maria e Giuseppe nella terra del Nilo per sfuggire alla furia di Erode.
Qui, per la precisione ad Alessandria, che è ancora oggi la sede principale della Chiesa copto ortodossa, arrivò anche San Marco, uno dei quattro evangelisti che, con la sua predicazione e il suo martirio diede vita alla comunità.
Nella Chiesa copta, che vuol dire proprio «egiziana», la maggior parte dei fedeli è ortodossa, ma c’è anche una minoranza di cattolici: cristiani che seguono riti e liturgia orientale, ma legati alla Chiesa di Roma. I sacerdoti cattolici copti, come succede in altri casi di cattolici orientali, possono sposarsi. Le liturgie sono in lingua araba, quella parlata dalla popolazione, ma nei monasteri si studia e si coltiva l’antica lingua e cultura copta, che risale ai tempi degli antichi egizi.
Perseguitati fin dalle origini
È una comunità che fin dalle origini ha subito persecuzioni.
Può essere interessante constatare che diverse chiese, come quella dedicata a Maria Vergine, nella vecchia Cairo, o quella dedicata anch’essa alla Madonna lungo la sponda del Nilo nel distretto del Maadi, abbiano da sempre una via d’uscita segreta: un percorso di cunicoli e ponti grazie al quale è possibile fuggire in caso di attacchi, «portando via l’Eucarestia e le reliquie più importanti», come spiegano i leader religiosi locali.
Tuttavia, l’Egitto si pone oggi tra i Paesi dove il dialogo tra i rappresentanti delle diverse religioni sta producendo frutti importanti. Pensiamo, per esempio, alla sintonia tra papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyebb che ha portato a documento sulla Fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi (Emirati arabi uniti) il 4 febbraio del 2019, che tanti semi di speranza sta spargendo nei Paesi vessati, negli anni passati, da persecuzioni e attentati.
Passi da fare
Se fino a qualche anno fa in Egitto si celebravano messe blindate, con esercito e finanche carri armati sulle porte delle chiese per difendere i cristiani dagli attacchi terroristici, oggi la situazione è migliorata, anche se un certo sentimento di discriminazione persiste. Meno morti, dunque, ma resta in alcuni ambienti l’aria di emarginazione (per i cristiani e le altre minoranze religiose) che si respirava negli anni passati.
Nel suo rapporto del 2023 sulla libertà religiosa, la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) spiega: «In effetti, sono stati compiuti passi positivi come l’incoraggiamento ad una maggiore unità nazionale tra musulmani e cristiani, il dialogo interreligioso e la tolleranza, la protezione dei siti appartenenti al patrimonio religioso e la legalizzazione di centinaia di chiese. Tuttavia, l’intolleranza sociale profondamente radicata e la discriminazione istituzionalizzata nei confronti dei non musulmani o di coloro che sono considerati musulmani devianti rimangono un grave problema sociale».
Acs sottolinea ancora che, «discriminati dalla legge e privi degli stessi diritti dei loro concittadini musulmani, i cristiani sono spesso oggetto di aggressioni e crimini. Le vittime riferiscono anche che, nella maggior parte dei casi, le forze di polizia non intervengono negli attacchi ai danni dei copti. Mentre i loro aggressori beneficiano dell’impunità legale, spesso sono i cristiani a essere incarcerati».
Nonostante alcuni miglioramenti, per la fondazione pontificia che si occupa di tutelare e sostenere i cristiani perseguitati nel mondo, «non è ancora dunque garantita la possibilità di godere di più aspetti relativi alla libertà religiosa».
Nella World watch list 2024 di Open doors, che ogni anno stila la classifica dei Paesi dove è più difficile la vita dei cristiani, l’Egitto si colloca al trentottesimo posto. È sceso di tre posizioni rispetto all’anno precedente, confermando dunque un miglioramento della situazione della libertà religiosa. Ma anche oggi «i cristiani affrontano regolarmente discriminazioni a causa della propria fede in Gesù: licenziamenti o mancanza di opportunità professionali per gli uomini, molestie lungo le strade per le donne, bullismo a scuola per i bambini», nota la stessa Ong.
Gli incidenti sono più comuni nella regione dell’Alto Egitto, ovvero al Sud del Paese, a causa della presenza di integralisti islamici, specialmente nelle comunità rurali. «Il presidente Al-Sisi e il suo governo parlano positivamente della comunità cristiana egiziana, la quale, attraverso la Chiesa copta, è presente da lungo tempo. Egli include di proposito, all’interno di un’unica identità egiziana, tanto i musulmani quanto i cristiani. Tale posizione, tuttavia – spiega ancora Open doors -, non sempre viene riconosciuta e condivisa nelle aree al di fuori dei centri urbani principali: le autorità sono note per ignorare o sminuire le preoccupazioni dei cristiani egiziani». Ad esempio, «i cristiani incontrano difficoltà nel ricevere i permessi necessari alla costruzione di nuove chiese».
Donne rapite
Una delle situazioni emergenti in questi ultimi anni è quella delle donne rapite e convertite. Scompaiono nel nulla e poi si scopre, anche dopo anni, che sono state rapite, violentate e costrette a sposarsi e convertirsi all’islam.
È quanto avviene nelle zone rurali, nel Sud del Paese: un fenomeno più volte denunciato da leader e associazioni cristiane ma, di fatto, ignorato dalla comunità internazionale.
Parla di «incubo inimmaginabile» il rapporto Jihad of the womb: trafficking of coptic women & girls in Egypt (La jihad dell’utero: traffico di donne e ragazze copte in Egitto), pubblicato a settembre del 2020 da Coptic solidarity, un’associazione che da oltre due decenni si batte per la tutela e il rispetto della minoranza copta in Egitto.
Il rapporto fu presentato all’ufficio del Relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di religione e di credo e all’Ufficio per la tratta di persone del Dipartimento di stato degli Stati Uniti.
L’incubo è quello di non fare più ritorno a casa perché le donne cristiane vengono date in sposa a fondamentalisti islamici con l’obiettivo di partorire e crescere – questa l’accusa della Ong – bambini musulmani.
Le forze dell’ordine locali, anche in presenza di denunce da parte delle famiglie delle donne, quasi sempre derubricano le sparizioni a «fuga volontaria».
Per Coptic solidarity dal 2000 al 2020 sarebbero state almeno cinquecento le donne cadute in questa forma di tratta.
Uomini discriminati
Secondo Open doors, nella comunità cristiana d’Egitto, le persecuzioni non riguardano solo le donne, che comunque restano la fascia più fragile. «Molti uomini cristiani, in Egitto – si legge in uno dei più recenti rapporti della Ong -, affermano di sentirsi cittadini di seconda classe. La disoccupazione è in generale un grave problema in tutto il Paese, ma in alcune aree viene del tutto negato il lavoro ai giovani cristiani, il che li rende particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Gli uomini possono sperimentare questo tipo di discriminazione lavorativa semplicemente a motivo dei loro nomi, dal momento che da essi è possibile desumere l’appartenenza religiosa». Il nome di battesimo è, infatti, un segno di appartenenza forte per i membri della comunità cristiana, come anche la croce tatuata sul polso che, negli attacchi terroristici degli anni passati, aiutava i fondamentalisti a distinguere tra cristiani e non. I primi venivano trucidati, gli altri erano risparmiati.
Lo statuto personale
Sono oltre dieci anni che si parla in Egitto di una legge sullo statuto personale dei cristiani e delle altre minoranze religiose. La questione è legata soprattutto al diritto matrimoniale e a quello di famiglia. In un Paese a stragrande maggioranza musulmana si attende una regolazione che possa tenere conto anche dei valori cristiani all’interno di una relazione e nella costituzione di un nucleo familiare. Nonostante il confronto in corso e le tante commissioni e riunioni che si sono tenute negli ultimi dieci anni, volute dalla presidenza di Al-Sisi, questa legislazione non è mai arrivata ad approvazione.
Il testo sarebbe pronto ma manca sempre un tassello per quel via libera definitivo atteso dalle minoranze.
Il ruolo dei francescani
Il villaggio di Der Dronka, ventimila anime a una decina di chilometri da Assiut, Alto Egitto, è interamente cristiano, e rischiereb- be di sparire senza gli «abuna», come sono chiamati i padri francescani.
Tutto ruota intorno al piccolo convento di fra Paolo, fra Shenuda e fra Youssef: la scuola, il mulino, il panificio, la falegnameria, finanche la raccolta differenziata dei rifiuti.
Saio e Vangelo, breviario e croce, ma spesso anche scarpe comode al posto dei sandali, per percorrere in lungo e in largo le strade polverose d’Egitto.
I francescani, un centinaio di religiosi distribuiti in una trentina di conventi, sono un pezzo della storia di questo Paese. Sono qui da 800 anni, da quando Francesco d’Assisi nel 1219 prese la nave ad Ancona per sbarcare a Damietta e incontrare il Sultano Melek. Si sa poco di quel faccia a faccia, è noto però che da otto secoli i frati operano in questa terra a maggioranza musulmana, all’insegna del rispetto e del dialogo. E in molti casi offrono alla gente non solo messe e pane, ma anche qualcosa di più, a partire dalle loro venti scuole e dai presidi sanitari distribuiti ovunque.
Al Cairo, il quartier generale dei francescani è la chiesa di San Giuseppe. Un’entrata laterale conduce a un ambulatorio all’avanguardia nel quale si offrono diversi servizi: dalle analisi del sangue alle ecografie, dal dentista al pediatra.
C’è un grande cinema da 350 posti che ospita importanti rassegne. A Gyza, a due passi dalle piramidi, c’è il Centro culturale francescano, dove si studia coptologia, lingua, arte e liturgia dei cristiani.
Ma neanche i frati di san Francesco sono stati risparmiati dalla furia degli islamisti: il 14 agosto del 2013, una data che i cristiani d’Egitto hanno stampata nella memoria, infatti, in un solo giorno furono bruciate contemporaneamente oltre sessanta chiese, e toccò anche ai frati.
A Suez, per esempio, al convento dell’Immacolata concezione.
Lo stesso giorno bruciò una chiesa francescana anche ad Assiut, san Francesco stimmatizzato. Una stanza del convento oggi è dedicata alla memoria di quella giornata, ed espone talari e libri della preghiera con i segni delle bruciature.
Una storia dolorosa che non ha mai scoraggiato i frati. Continuano, infatti, a nascere vocazioni e la loro opera è un punto di riferimento in molti villaggi.
Il caso Zaki
In Italia si è parlato molto del caso di Patrick Zaki, il ricercatore e attivista per i diritti umani egiziano, che si è laureato all’Università di Bologna, incarcerato nel suo Paese per diverso tempo.
Nelle narrazioni che hanno riguardato il caso, molto spesso si è dimenticato che Zaki ha vissuto anni in carcere per avere scritto un articolo in difesa proprio dei cristiani copti.
«Non passa mese senza tragici episodi ai danni dei copti, dai tentativi di espatrio nell’Alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o agli attentati dinamitardi e simili», scrisse Zaki nell’articolo pubblicato sul sito Daraj nel 2019 sulla base del quale Patrick Zaki sarebbe stato rinviato a giudizio.
«Ogni mese si verificano tra gli otto e i dieci dolorosi incidenti a danno dei copti», sosteneva il cristiano Patrick prendendo spunto da «un gigantesco atto terroristico» che costò la vita a quattordici uomini delle forze di sicurezza egiziane: in quell’occasione gli abitanti di una città «protestarono contro la decisione dell’esercito» di intitolare una scuola a una recluta cristiana. «Un razzismo sistematico esercitato dagli abitanti del villaggio che i responsabili non hanno affrontato», cedendo alle pressioni della folla.
Zaki metteva a nudo uno dei problemi nel rapporto tra la maggioranza dei musulmani e le minoranze in Egitto: la debolezza delle autorità locali, soprattutto nelle zone rurali del Paese, di fronte alle pressioni degli islamisti.
Un atteggiamento di debolezza che il presidente Al-Sisi, forse anche per accreditarsi presso la comunità internazionale, ha cercato di smorzare.
La cattedrale della Natività nella nuova capitale amministrativa, la più grande chiesa cristiana del Medio Oriente capace di ospitare ottomila fedeli, inaugurata il 7 gennaio (data del Natale copto) 2019 proprio dal presidente egiziano con il capo della Chiesa copto ortodossa, Papa Tawadros II, ne è in qualche modo la prova.
La fratellanza umana
Un segnale di speranza arriva dai primi frutti concreti che, proprio al Cairo, stanno nascendo con la fondazione per la Fratellanza umana che si ispira all’accordo di Abu Dhabi e alla successiva enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Un lavoro condotto in prima persona da monsignor Gaid Yoannis Lazhi che per anni è stato segretario di Bergoglio e che ora, tornato nel suo Paese natale, è impegnato a tradurre in opere concrete lo spirito di fratellanza, con un’attenzione particolare per le fasce più deboli della società.
Si tratta di strutture caritative rivolte a tutti, senza distinzione di fede. C’è allora il ristorante «Fratello» che offre pasti ai più bisognosi, l’orfanotrofio «Oasi della pietà», ma soprattutto il progetto dell’ospedale Bambino Gesù del Cairo del quale monsignor Gaid è presidente: il sogno è quello di portare le cure di altissimo livello dell’ospedale pediatrico del Papa anche in Egitto. Opere che guardano alle persone, dunque, al di là di ogni appartenenza, e che costruiscono allo stesso tempo ponti, occasioni di dialogo, vie per una convivenza sempre più pacifica e rispettosa delle diverse anime che da sempre abitano nel Paese.
Manuela Tulli