Migranti in subappalto


L’Unione europea intensifica le collaborazioni con paesi terzi per la gestione dei flussi migratori. Sono accordi costosi nei quali il rispetto dei diritti umani non è un requisito. Ne parliamo con il direttore dell’ufficio per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

I flussi migratori e la loro gestione sono uno dei temi più dibattuti in Europa. Per far fronte alla questione sono stati stipulati, negli anni, diversi patti tra l’Unione europea o i suoi membri e paesi terzi, soprattutto del Nord Africa e dell’Europa orientale. Questi paesi ricevono ingenti somme di denaro in cambio di un più o meno esplicito impegno nel fermare i movimenti di migranti.

Si parla di processi di esternalizzazione delle frontiere, cioè politiche volte a spostare i confini dell’Ue in paesi terzi ai quali viene subappaltato il controllo dei flussi di persone dirette in Europa. Il tutto nonostante si sappia che in questi paesi non ci sono gli stessi standard di tutela dei diritti umani.

I «patti» dell’Ue

Il «Patto su migrazione e asilo» approvato ad aprile dall’Unione europea va in questa direzione: la compartecipazione a cui i paesi Ue sono chiamati nella gestione dei flussi può essere risolta infatti con il versamento di un contributo monetario in un fondo comune che potrà essere utilizzato per finanziare progetti e patti bilaterali con paesi terzi coinvolti nei flussi. Analizzando i diversi accordi già in opera, emergono diversi dubbi sul rispetto dei diritti umani.

Tra gli accordi di più lunga data ci sono quelli con la Turchia e la Libia. L’Italia porta avanti dal 2017 un memorandum d’intesa con la Libia, Paese altamente instabile, dominato da istituzioni fantoccio e governi locali autoproclamati in un territorio disseminato di campi di prigionia, nuovi lager dove le vite dei disperati sono la base di un mercato di schiavismo e ricatti economici. Nonostante la situazione nota del Paese, l’Italia ha finanziato, formato ed equipaggiato la guardia costiera libica, ignorando gli avvertimenti degli organismi internazionali che da anni denunciano le violazioni dei diritti umani di cui questa si rende partecipe.

Su questa linea, uno degli ultimi passi fatti è rappresentato dalla firma del memorandum tra l’Unione europea e la Tunisia. Si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci, di cui due subito disponibili. Esse prevedono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del Paese e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori. Fondi destinati al governo di Kaïs Saïed, ritenuto sempre più autoritario, anche per aver accentrato negli ultimi anni i poteri su di sé indebolendo parlamento e magistratura. Le migrazioni sono proprio uno dei cavalli di battaglia del presidente che da tempo porta avanti discorsi di odio nei confronti dei migranti subsahariani. Parole spesso tradotte in repressioni violente.

La Tunisia è uno dei paesi al centro di una grossa inchiesta giornalistica internazionale, intitolata «Desert dumps», che mostra come i paesi nordafricani utilizzino i finanziamenti europei per compiere azioni violente nei confronti dei migranti subsahariani. Come la pratica di intercettarli sulle imbarcazioni e portarli in zone remote del deserto abbandonandoli in condizioni terribili.

Panoramic view at the city bussiness district of Kigali, Rwanda, 2016

Il punto di vista dell’Oim

Per indagare a fondo questi temi abbiamo intervistato Laurence Hart, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite.

L’Oim è nata nel 1951, dal 2016 fa parte delle Nazioni Unite e si occupa di assistere i migranti e i suoi 175 paesi membri nella gestione organizzata dei flussi migratori.

L’ufficio di coordinamento del Mediterraneo copre diplomaticamente Italia, Malta e Santa sede e ha il ruolo di supportare un approccio coerente e costruttivo alle migrazioni su entrambe le coste del Mediterraneo, quindi collaborando anche con i paesi del Nord Africa. Cerca di supportare i processi di cooperazione tra stati e lo sviluppo delle loro politiche migratorie, interviene nelle situazioni di emergenza, e offre un grosso supporto alle autorità italiane nei processi di accoglienza, ad esempio con oltre 180 mediatori culturali che affiancano la guardia costiera e gli uffici immigrazione nella valutazione delle domande di asilo.

Il nuovo «Patto su migrazione e asilo» dell’Unione europea vuole coordinare gli sforzi dei vari paesi nella gestione dei flussi migratori. Sono però emerse molte critiche su come questo possa impattare sulla vita dei migranti. Riguardo a questo, l’Oim come si pone?

«Cercare di riassumere in un documento unico quelle che possono essere le risposte al fenomeno migratorio – non lo chiamo mai problema, diventa un problema se non gestito – è sicuramente uno sforzo lodevole. Bisogna capire quanto queste dichiarazioni poi si tradurranno in azioni concrete ed efficaci.

Certamente un punto abbastanza complesso e critico è la tendenza crescente all’esternalizzazione delle frontiere nella gestione migratoria. La cooperazione deve essere inquadrata in una partnership più globale che includa, ad esempio, la migrazione regolare e il rafforzamento delle capacità istituzionali. Non ci si può limitare al pagamento di una somma in cambio del controllo delle frontiere. È già stato dimostrato in passato che queste sono politiche di respiro corto. Spesso poi ci sono cambi politici nei paesi terzi che possono portare a qualche forma di ricatto con lo scopo di alzare la posta aumentando le richieste finanziarie per sostenere la gestione migratoria. Si rischia inoltre di creare nuovi appetiti in paesi che possono, sulla base dei precedenti, sentirsi legittimati a richiedere un aiuto economico».

Mark Rutte, Ursula von der Leyen, Ka•s Sa•ed, and Giorgia Meloni, from left to right

Sono stati da poco fatti nuovi accordi con la Tunisia. Accordi di questo tipo sono accusati di finanziare gravi violazioni dei diritti umani, come recenti inchieste sembrano dimostrare. State studiando questo fenomeno?

«Non ne sono testimone diretto ma non mi sorprenderebbe che queste cose succedano, purtroppo. Il rischio è scaricare il peso della gestione del fenomeno migratorio su un paese di transito che non ha le possibilità di assorbirlo. Penso ai paesi nordafricani che sono territori di transito, di origine, ma anche di destinazione. C’è necessità di moltissima manodopera anche in questi Stati i quali vanno quindi accompagnati anche su altre misure, come quelle di inclusione e di collocamento all’interno del tessuto sociale.

Abbiamo situazioni anche molto diverse, per esempio quella della Guardia costiera libica che è un soggetto molto delicato. Esiste sì una struttura ma esistono anche tante infiltrazioni di interessi diversi, soprattutto economici e finanziari, che purtroppo vanno a sfruttare ulteriormente i migranti che vengono riportati in Libia: in questo senso si può considerare un paese “non sicuro”.  Noi lo diciamo da tempo ormai.

Quello che fanno i libici è un lavoro difficile, nel pieno di una crisi che dura ormai da parecchi anni. La Libia è un Paese che richiede la costruzione di infrastrutture, piuttosto che di altri servizi per cui le competenze non esistono necessariamente tra i lavoratori libici. La consapevolezza che la manodopera e le competenze straniere sono uno strumento per lo sviluppo del Paese deve ancora radicarsi. Accompagnare i libici in questo lavoro è estremamente importante.

Trovare le soluzioni che possano venire incontro alle esigenze di tutti è la sfida che oggi ci si ritrova ad affrontare. Purtroppo, documenti come il Patto europeo rischiano di essere ripiegati solo sulle preoccupazioni interne dei paesi dell’Unione, e di dimenticare che il fenomeno è complesso e richiede anche soluzioni che non sono quelle canoniche».

Regno Unito e Italia stanno sviluppando nuovi centri per migranti rispettivamente in Rwanda e in Albania, e molti paesi europei vorrebbero emularli. Spostare questi processi in altri paesi quali risvolti può avere?

«Innanzitutto, Albania e Rwanda sono due casi assolutamente diversi, proprio da un punto di vista legale. Uno è un paese che è di futuro accesso all’Unione europea e l’altro invece è un paese che non ha degli standard internazionali riconosciuti o che comunque molti paesi mettono in questione.

Ci sono ancora da capire una serie di elementi nel contesto dell’accordo Italia-Albania: qual è la giurisdizione che sarà applicata? Nella misura in cui la legislazione è italiana, quindi garantista, e viene applicata su tutto il processo, non abbiamo, noi dell’Oim, grandi obiezioni da fare. Sappiamo che esisteranno tutta una serie di tutele.

Diverso è il caso del Rwanda, dove invece si applica una legislazione che non è parte del sistema europeo. Da quel punto di vista ci preoccupa l’esternalizzazione nella misura in cui l’allocazione di queste procedure ad altri paesi può violare i diritti fondamentali delle persone.

Esistono poi altre considerazioni che secondo me sono importanti da fare riguardo il rapporto costi benefici di queste operazioni. Bisogna chiedersi se, visti i numeri, è opportuno investire ingenti somme di denaro per la costruzione di strutture dedicate, e per finanziare un meccanismo che richiederà una serie di viaggi e di enti preposti. Se non sia più efficiente investire nelle strutture già esistenti sul territorio.

Sono domande aperte. Penso che le considerazioni debbano essere fatte tenendo conto della globalità degli elementi. Sicuramente chi porta avanti queste azioni vede la questione più come una specie di deterrenza, con l’obiettivo di creare una serie di ostacoli per far ridurre l’appetito di una migrazione clandestina».

Sid, Serbia – October 17, 2015: Refugees waiting to cross the Serbo-Croatian border between the cities of Sid (Serbia) and Bapska (Croatia).

In questi ultimi anni avete notato dei cambiamenti nelle rotte migratorie e nelle motivazioni che spingono a intraprendere questi viaggi?

«La fotografia è quella di un mondo che si ritrova di fronte a una crescente instabilità la quale va affrontata con soluzioni molto specifiche. Il numero dei conflitti è aumentato negli ultimi anni, basti pensare al Sudan, per esempio, che è uno degli ultimi esplosi in maniera importante e che ha generato non solo sfollamento interno, ma anche – ovviamente – un movimento di richiedenti asilo verso l’Europa e l’Italia. Ci sono molti altri conflitti aperti in corso, come in Etiopia, Sud Sudan, Yemen, Myanmar e Afghanistan.

Esistono anche situazioni di conflitti a bassa intensità: pensiamo ai paesi del Sahel che oggi si ritrovano di fronte a conflitti interni che generano spostamenti di popolazioni.

Ci sono anche interessi internazionali: si stanno svolgendo elezioni in molti paesi, e la narrativa migratoria viene usata come arma di paura e minaccia nei confronti della popolazione. Quindi l’instabilità è sicuramente uno degli elementi che ci porterà ad avere un aumento del movimento di migranti che hanno necessità di protezione. E fornire la necessaria protezione è prima di tutto un dovere per tutti i paesi che sono firmatari di convenzioni internazionali.

Un altro elemento è il cambiamento climatico. Ad oggi non ci è dato sapere con esattezza quante persone emigrano perché la loro attività è vittima di una situazione climatica estrema o avversa. Bisogna indagare quanto il fenomeno del cambiamento climatico incide sulla decisione delle persone di spostarsi, perché è quello che permette poi di capire quali possono essere le risposte a monte per poter mitigare questa situazione e accompagnare le persone che sono in loco, quelle che si muovono e poi quelle nei paesi di destinazione».

Nel prossimo periodo, secondo lei, quali saranno le situazioni più importanti su cui intervenire per una gestione migliore dei flussi migratori?

«Le sfide sono tante e richiedono delle soluzioni che non siano solamente quelle di frenare la migrazione. Si parla molto spesso di sviluppo dei paesi di origine, per esempio il piano Mattei è un’iniziativa che l’Italia ha messo in piedi con questo proposito.

Però dobbiamo anche interrogarci sul concetto stesso di sviluppo. Certamente piccole progettualità possono alleviare sofferenze e difficoltà nei paesi di origine, ma non risolvono la problematica fondamentale: quella di far fiorire l’imprenditoria dei giovani africani nel loro contesto.

Ho letto un articolo che parlava di come le linee aeree low cost in Europa abbiano favorito la creazione e lo sviluppo dell’industria turistica di accoglienza, permettendo un maggior movimento di persone e favorendo la nascita di iniziative e di business tra paesi.

Oggi per fare lo stesso viaggio in aereo in un contesto africano si spende il triplo, questo significa che la classe media africana non ha le risorse per poter viaggiare in forma ricreativa.

Il che non permette la costruzione di un’industria dell’accoglienza e ostacola la circolazione di idee e capitali tra paesi africani.

Gli ostacoli burocratici e di integrazione nel sistema africano sono tra gli elementi su cui gli economisti dovrebbero interrogarsi perché l’aiuto esterno è importante, ma è fondamentale eliminare le barriere strutturali interne ai paesi. Il rischio altrimenti è quello di mettere dei soldi senza avere però anche dei risultati a lungo termine».

Mattia Gisola

EU Flag and fence with barbed Wire concept Picture

 




Cosa non si vede in Oppenheimer


Nel film di Christopher Nolan colpisce tutto quello che non viene rappresentato: ad esempio, le conseguenze delle bombe sul Giappone, le alternative alla guerra, l’opposizione della scienza al potere militare.

A cosa serve recensire un film uscito quasi un anno fa? Serve a riflettere sui temi che propone, analizzando il film alla giusta distanza emotiva.

Il tempo, le riflessioni altrui, le cose che accadono, possono cambiare molto la prospettiva.

«Oppenheimer» è un film magniloquente. Maestoso, sì, ma non vuol dire che mi sia piaciuto.

È una biografia divisa arbitrariamente in tre fasi. E dura tre ore.

La prima ora è dedicata a spiegarci che Julius Robert Oppenheimer era un genio (nel famoso libro di Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, sarebbe identificata come la «certificazione dell’eroe»). La seconda parte è dedicata alla costruzione e all’impiego della bomba atomica. La terza è centrata sul processo subito da Oppenheimer per essersi rifiutato di proseguire gli studi sulle armi nucleari.

Morti invisibili e guerra ineluttabile

Quello che colpisce di più di questo film è quello che non si vede.

Certo, il fisico nucleare non è mai stato a Hiroshima. Ma nel film non c’è una sola inquadratura dedicata all’utilizzo finale del lavoro fatto da lui e dal suo imponente seguito di scienziati.

Questa è forse la critica più netta, che viene, tra l’altro, proprio dai sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki: perché nel film non viene mostrata neanche un’immagine dell’inferno scatenato sulle due città giapponesi? E non si dice mai, aggiungo io, che il vero obiettivo era quello di compiere un’azione dimostrativa nei confronti dell’Unione Sovietica, il nemico numero uno degli Usa nei quarant’anni successivi.

Inoltre, non viene mai messa in dubbio la necessità della guerra come soluzione dei conflitti, neanche con un’espressione dubitativa sul volto di qualche comparsa. La guerra c’è, e basta.

Una prospettiva insostenibile, tanto più oggi, quando i governanti del mondo parlano di nuovo di ineluttabilità della guerra: allora, almeno in un film, un accenno alle vie alternative, alla diplomazia, alla nonviolenza, si sarebbe potuto inserire.

Di fronte al rischio per la stessa sopravvivenza della comunità umana, è oggi di vitale importanza aprire a visioni diverse.

Scienza sottomessa

Il secondo elemento riguarda il rapporto tra gli scienziati e l’apparato industriale militare.

Quegli anni furono il punto di svolta per l’Occidente: la scienza si sottomise all’esercito, e da allora divenne la sua ancella. Questo è accennato nel film, ma non è approfondito, mentre invece è uno dei cardini su cui si basa l’intera storia del Novecento.

E poi la pellicola di Christopher Nolan si sarebbe potuta soffermare sulla grande tensione che ci fu dopo il 1933 tra gli scienziati di tutto il mondo: essi si trovarono divisi, per la prima volta, da valutazioni politiche.

Gli anni 30 segnarono, infatti, il primo momento in cui la comunità scientifica internazionale smise di essere coesa, di scambiarsi informazioni, di condividere esperienze, e cominciò a guardarsi con sospetto.

Il ciclo del nucleare

Terzo elemento, quello più nascosto: nel film mancano totalmente i riferimenti al ciclo del reperimento e dell’arricchimento del materiale radioattivo necessario per la costruzione della bomba atomica. Manca quindi una visione sistemica di tutto il ciclo del nucleare: da dove viene l’uranio? Quali conseguenze hanno gli esperimenti sulle persone? Cosa è successo alle popolazioni attorno al sito della prima detonazione nel deserto del New Mexico il 16 luglio 1945? Bisogna sapere, bisognava dirlo, che i primi a subire gli effetti prodotti dalle bombe atomiche non furono i giapponesi, ma molti degli abitanti dell’area di Alamogordo, Usa.

Movimenti contro l’atomica

La terza parte del film si concentra sul processo maccartista a Oppenheimer, che si era rifiutato di proseguire con le ricerche sulla bomba all’idrogeno, avendo, presumibilmente, considerato già abbastanza devastante quella convenzionale (a fissione di plutonio). Di tutto quel periodo storico, successivo alle esplosioni in Giappone, però, non si citano mai le grandi organizzazioni e i movimenti nati contro l’atomica negli anni 50.

Si pensi al Bulletin of the atomic scientists fondato proprio da Oppenheimer già nel Dicembre 1945. Si pensi alle Pugwash conferences on science and world affairs fondate da Joseph Rotblat e Bertrand Russell, nate nel 1957 e che hanno ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1995.

Associazioni e movimenti che si sono battuti per sessant’anni, fino ad arrivare al fondamentale risultato di tutte queste lotte: il Trattato delle Nazioni Unite per la proibizione delle armi nucleari, entrato in vigore nel gennaio 2021, preceduto dal Premio Nobel per la pace del 2017 conferito alla Campagna internazionale contro le armi nucleari (Ican).

Neanche nei titoli di coda si riconosce l’importanza di queste associazioni.

Film militarista?

Dunque? Oppenheimer è un film che si concentra sulla vicenda di un uomo e dell’apparato gigantesco che ha diretto, ma non sottolinea quanto in essa si sia sviluppato l’evento che più di ogni altro ha contribuito ad avvicinare l’umanità alla propria fine.

C’è una scena che mi ha fatto pensare: quando il protagonista vede il lampo accecante della bomba che scoppia, nel silenzio che ne segue, mormora: «Ora sono divenuto morte». Ma le immagini dicono tutt’altro: la nuvola dell’esplosione è fiammeggiante, imponente, devastante e… affascinante. Come l’eruzione di un vulcano.

Questa scena mi ha ricordato quella di Salvate il soldato Ryan alla fine della lunga rappresentazione dello sbarco in Normandia: guardando la spiaggia, le decine di navi e di mezzi, la distesa di morti, il protagonista dice, «però, che spettacolo».

Sottolineare l’aspetto epico di un evento, non significa forse legittimarlo? Oppenheimer, in definitiva, credo sia un film militarista.

Un’ultima cosa: che relazione c’è tra questo film e il documentario uscito in contemporanea: Nuclear now, di Oliver Stone?

Forse è solo una coincidenza che Christopher Nolan e Oliver Stone si siano occupati di nucleare. Forse. Oppure bisogna rendersi conto che c’è un tentativo di rilanciare la «normalità», la «necessità» dell’energia atomica.

Dario Cambiano




Allamano. Il dono della vocazione


Nel suo messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per le Vocazioni, celebrata nella IV domenica di Pasqua, papa Francesco invitava a «considerare il dono prezioso della chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi, suo popolo fedele in cammino, perché possiamo prendere parte al suo progetto d’amore e incarnare la bellezza del Vangelo nei diversi stati di vita».

Il beato Allamano considerava la vocazione missionaria come un dono straordinario di Dio al punto di ritenere «fortunati» quei giovani che avevano sentito il suo invito a seguirlo sulla via della missione. «Egli – diceva il fondatore dei missionari della Consolata ai suoi – vi ha chiamati all’apostolato per sola sua bontà. L’ha fatta a voi questa grazia, a preferenza di tanti altri che ne erano più degni e che vi avrebbero forse corrisposto meglio. E perché proprio a voi? Perché vi ha amati di un amore particolare. Ha fatto con voi ciò che fece con quel giovane del Vangelo: “E Gesù fissatolo, lo amò e gli disse: vieni e seguimi” (Mc 10,21). Ecco che cosa è la vocazione! È questo sguardo di predilezione di Gesù».

La risposta alla vocazione spinge tante persone a consacrarsi e a offrire la propria esistenza al Signore nel silenzio della preghiera come nell’azione apostolica, talvolta in luoghi di frontiera e senza risparmiare energie, portando avanti con creatività il loro carisma e mettendolo a disposizione di coloro che incontrano.

Annunciare il Vangelo a quanti non lo conoscono, spezzare la propria vita, insieme al pane eucaristico, per i fratelli, seminando speranza e mostrando a tutti la bellezza del Regno di Dio: è questo il Dna della vocazione missionaria seminato nel cuore di tanti giovani dal beato Allamano.

La crisi di vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa nel mondo occidentale a cui assistiamo oggi, tra le altre cause, è certamente determinata dalla crisi di identità di cui soffre l’uomo moderno che porta a cercare la propria realizzazione in surrogati che alla lunga si rivelano incapaci di soddisfare il desiderio di felicità che abita il cuore delle persone.

«Ascoltare la chiamata divina – scrive ancora papa Francesco – lungi dall’essere un dovere imposto dall’esterno, magari in nome di un’ideale religioso, è invece il modo più sicuro che abbiamo di alimentare il desiderio di felicità che ci portiamo dentro. La nostra vita si realizza e si compie quando scopriamo chi siamo, quali sono le nostre qualità, in quale campo possiamo metterle a frutto, quale strada possiamo percorrere per diventare segno e strumento di amore, di accoglienza, di bellezza e di pace, nei contesti in cui viviamo».

Sergio Frassetto

Seminatori di consolazione

Contemplando l’icona della Consolata, come faceva l’Allamano dal coretto del Santuario, suor Maria Luisa Casiraghi evidenzia le caratteristiche, i valori e i sentimenti che noi missionari siamo chiamati a incarnare per essere presenza di consolazione nel mondo.

Dal «coretto» il fondatore la contemplava

Noi missionari e le missionarie ci possiamo definire: «Seminatori e seminatrici di consolazione attraverso vie e modi che lo Spirito e le contingenze della vita ci fanno intravedere». Per fare questo cammino bisogna affidarci alla Consolata, dialogare con lei, accogliere le intuizioni dello Spirito.

Ma come? Quando desideriamo conoscere qualcuno cerchiamo di incontrarlo, parlargli, stare il più possibile in sua compagnia per carpire i suoi segreti, arricchirci della sua esperienza, accogliere i suoi consigli.

Il fondatore in questo ci è modello. Sappiamo infatti quanto tempo lui trascorreva in preghiera nel coretto del santuario della Consolata contemplando l’icona a lui e a noi tanto cara per comprendere meglio la volontà di Dio, il cammino da intraprendere e per avere il coraggio e la forza di realizzare ciò che Dio voleva da lui.

Penso che nel coretto del Santuario della Consolata, mentre contemplava il volto di Maria, il fondatore vedesse tratteggiati gli atteggiamenti e i lineamenti che noi missionarie e missionari avremmo dovuto incarnare per portare la consolazione alle persone nei luoghi e nelle situazioni che avremmo incontrato nel nostro cammino. Contemplando l’icona di Maria il fondatore focalizzava le sue virtù e meditava come noi, suoi figli e figlie, che avremmo portato nel mondo il suo nome, dovevamo viverle.

Come davanti a uno specchio

Mi sono posta più volte davanti all’icona della Consolata come davanti a uno specchio per cogliere qualche particolare che mi suggerisse i passi ancora da fare, i cammini da iniziare, gli atteggiamenti da vivere per divenire sempre di più una presenza di consolazione. E, contemplando questa icona, sono stata colpita da vari particolari, soprattutto dalle mani del bambino Gesù: una mano tiene stretto il pollice della Madre che così s’intreccia con la sua e l’altra indica a noi Maria. In questo intreccio di mani scorgo ciò che il fondatore spesso sottolineava quando ci incoraggiava a rivolgersi e a pregare la Consolata. Egli diceva: «È importante avere fiducia nella Consolata: senza di lei possiamo fare poco o nulla, con lei tutto. Fìdati della Madonna, è tua madre! Voglile bene! Senza di lei non si può volare e camminare nella santità. La nostra ala in più è lei, la madre di Gesù, la Consolata».

Essere «conche» per essere «canali»

Un secondo messaggio che ho visto scaturire contemplando Maria lo collego a un’altra espressione del Fondatore in cui affermava: «A riguardo del prossimo dobbiamo essere conche, non solo canali. Ma riguardo ai beni materiali dobbiamo essere solamente canali e non conche». La prima attitudine di Maria che emerge dai Vangeli è quella dell’accoglienza che fa posto allo Spirito, che si svuota per lasciarsi guidare da lui sulle strade di Dio.

Questo è l’atteggiamento che il fondatore voleva che noi coltivassimo per diventare conche e fonti vive. Essere conche ripiene di Spirito aiuta a comprendere l’importanza poi di divenire canali in cui scorrono generosamente i beni che vogliamo condividere con il nostro prossimo.

C’è bisogno di genuinità, di schiettezza, di verità per vivere la missione in modo autentico ed efficace.

I beni materiali vanno condivisi, lasciati andare nella corrente, nel canale che scorre e non trattiene, ma irriga e feconda il campo di tutti nella logica del «gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date». Solo così la missione diventa annuncio della consolazione, del dono che Dio fa al mondo: il suo unico figlio, tanto amato, offerto per la salvezza di tutti, un figlio che Maria ha rivestito della sua natura umana.

Seminare la buona notizia

Ancora: Maria, in questa icona non tiene il bambino stretto a sé, ma lo offre all’umanità. Il suo atteggiamento è rivolto anche a noi: non tenere stretta la buona notizia della salvezza, ma seminarla nelle pieghe del quotidiano per trasformare l’ordinario in straordinario. L’annuncio non nasce da noi, ci viene donato affinché lo condividiamo con parole, gesti, silenzi… come Maria ha fatto nella sua vita: poche parole, molti gesti per aprire cammini e orizzonti nuovi e tanti silenzi, non sterili, ma che hanno generato vita.

E termino con l’augurio fatto parecchi anni fa ai missionari e alle missionarie dall’allora arcivescovo di Torino, il cardinale Anastasio Ballestrero. Diceva: «Quando si è portatori di un annuncio di consolazione non si può esserlo autenticamente senza un entusiasmo che brucia dentro, senza un fervore totale che investe la vita e senza un ardore che non conosce stanchezza. Il popolo di Dio e tutti i popoli hanno bisogno di vedere che i missionari e le missionarie sono così: creature incandescenti che dovunque arrivano accendono il desiderio di Dio e dovunque passano lasciano un segno profetico profondo, efficace e fecondo». E, a questo segno, noi missionari e missionarie della Consolata diamo il nome di «consolazione».

Suor Maria Luisa Casiraghi

Ho speso tutto

Quando nel 1880 l’Allamano assunse la direzione del Santuario della Consolata, questo si presentava brutto e decadente, così, nel 1883 diede inizio a lavori di restauro esterno dell’edificio, su disegno dell’ingegnere Giovanni Battista Ferrante, che riportò il complesso alle linee originarie dell’architetto Filippo Juvarra. I lavori furono ultimati nel 1885. A convincere l’Allamano della necessità di intervenire nuovamente con lavori più radicali sull’edificio fu la prospettiva delle grandiose feste che si sarebbero dovute celebrare nel 1904, in occasione dell’ottavo centenario del ritrovamento dell’immagine della Consolata da parte del cieco di Briançon, avvenuto il 20 giugno 1104, secondo un’antica tradizione. Il progetto dei restauri fu affidato all’architetto Carlo Ceppi e i lavori di trasformazione furono compiuti tra il 1899 e il 1904. Attraverso l’inserimento di quattro cappelle ovoidali, sistemate attorno all’esagono guariniano, e la realizzazione di altri interventi architettonici e decorativi, la chiesa assunse una forma maestosa che dall’esterno si arricchiva di cupolini e volute, a coronamento delle nuove cappelle, mentre all’interno risplendeva di marmi e stucchi dorati così come la conosciamo oggi.

Per preparare il progetto dei restauri fu scelto il principe degli architetti torinesi, il conte Carlo Ceppi. «Ma, mio caro canonico, – fu il preambolo dell’architetto al Camisassa – che cosa possiamo fare qui? Siamo strangolati in tutti i modi». «Signor conte – replicò il Camisassa -,  il Juvarra sfondò le pareti e creò quel magistrale ampliamento dove fece sorgere l’altare della Vittoria. Come ha fatto lui perché non possiamo fare anche noi altrettanto ai fianchi?». «La cosa è fattibile, e la faremo», concluse l’architetto, e si mise all’opera.

All’architetto che gli faceva presente che non sarebbe bastato un milione, l’Allamano rispose: «Ne metteremo due, tre, purché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona».

«Quando io facevo restaurare il santuario – confidò l’Allamano – (ebbene, c’è andato un bel milione, sapete) qualcuno diceva: “Uh, che spreco! Perché adoperare del marmo così prezioso? Marmo d’Egitto? Si potrebbe mettere marmo finto come in quell’altra chiesa!…”. Ed io dicevo: “Per il Signore, per la Madonna non è mai troppo, non si spreca mai”. Alcuni mi dicevano: “Perché cambiare il pavimento? Mettere marmo di prima classe? […]. Quando si tratta della Madonna non bisogna aver paura anche di fare dei debiti, di fare delle imprudenze, e poi con la Consolata non si fanno delle imprudenze. Io per la Consolata ho speso tutto».

La riflessione conclusiva dell’Allamano svelò da dove egli prendeva l’ispirazione e il coraggio: «I lavori, con visibile protezione di Maria, furono deliberati proprio il 10 dicembre 1898, festa della S. Casa di Loreto, quasi per farci notare che “Lei stessa si è edificata la casa”. […]. Questa non è opera nostra, ma è proprio opera della Madonna».

Giuseppe Allamano, per le feste centenarie della Consolata, oltre ai lavori di restauro del tempio, volle regalare alla Vergine due preziose corone di brillanti che furono apposte al quadro. Le celebrazioni centenarie iniziarono l’11 giugno 1904 per terminare il 20, festa della Consolata. Il giorno 19 si svolse la processione per le vie della città, con la partecipazione di sei cardinali, 23 vescovi e 104 parroci, oltre alle congregazioni religiose e ai fedeli in numero incalcolabile. Il giornale «La Stampa» fece questo commento: «Certo è riuscita una manifestazione religiosa imponente che non ha precedenti nella memoria dei torinesi».


POSTULATORE > P. GIACOMO MAZZOTTI

Chi ricevesse una grazia per intercessione del beato Giuseppe Allamano è pregato di notificarlo ai seguenti indirizzi:
POSTULAZIONE MISSIONI CONSOLATA
• Viale Mura Aurelie, 11-13 – 00165 Roma
• Corso Ferrucci, 14 – 10138 Torino
E-mail: postulazione@consolata.org
https://giuseppeallamano.consolata.org

 




Sudafrica, trent’anni dopo Mandela


Nel 1994 Nelson Mandela diventava il primo presidente del Sudafrica libero e democratico, cioè post-apartheid, generando grandi speranze e aspettative. Oggi il Paese, tornato alle urne a fine maggio, si trova a tracciare un difficile bilancio di questo trentennio.

«Abbiamo trionfato nello sforzo di infondere la speranza nel petto di milioni di persone del nostro popolo. Abbiamo stretto un patto: costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, sia bianchi che neri, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana, una nazione arcobaleno in pace con se stessa e con il mondo». Così si rivolgeva al popolo sudafricano Nelson Mandela, leader del partito African national congress (Anc), nel discorso di insediamento come presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994@.

Fra il 27 e il 29 aprile1994 si erano svolte le prime elezioni libere dopo la fine dell’apartheid, termine che indica sia la politica di rigida segregazione razziale e discriminazione economica che separava i bianchi dai non bianchi in Sudafrica, sia il sistema istituzionale e giuridico che ha messo in pratica questa politica dagli anni Trenta ai Novanta.

«La vittoria dell’Anc è scontata», prevedeva su MC poco prima del voto padre Benedetto Bellesi, missionario che in Sudafrica aveva lavorato dal 1974 al 1986, ma «Mandela non si fa illusioni. Dovrà riportare l’ordine nel paese: dal giorno della sua liberazione la violenza ha fatto oltre 13mila morti» (MC 4/1994).

Mandela aveva trascorso 27 anni in carcere per il suo impegno nella lotta all’apartheid ed era stato liberato nel febbraio del 1990: alla sua scarcerazione avevano contribuito il combinarsi di pressioni sia interne che internazionali, manifeste queste ultime anche nell’assegnazione, dieci anni prima, del premio Nobel per la pace al noto e pugnace arcivescovo anglicano sudafricano, Desmond Tutu, «per il suo ruolo di leader unificante nella campagna non violenta per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica»@. Nel 1993, erano stati proprio Nelson Mandela e Frederik Willem De Klerk, allora presidente in carica in Sudafrica e leader del National party, a ricevere il Nobel per la pace: anche se questa non era ancora realizzata, scriveva sempre Bellesi, «si vuole premiarli per aver creduto al dialogo e incoraggiarli a continuare sulla stessa strada, disseminata ancora di tante incognite e ostacoli».

L’ultimo miglio della long road to freedom

Ostacoli come, appunto, la violenza: quella, scoppiata all’indomani della scarcerazione di Mandela e che aveva come protagonisti gli estremisti bianchi che non si rassegnavano alla fine dell’apartheid. Altri ostacoli come il rigetto, da parte del Congresso panafricanista di Azania, dell’ipotesi di convivenza multirazziale sostenuta dall’Anc; la volontà dell’Inkatha, il partito guidato da Mangosuthu Buthelezi, di costituire un regno zulu autonomo guidato dal suo re all’interno di un Sudafrica federale, cosa che lo portò allo scontro con l’Anc, provocando migliaia di vittime.

Ma c’era anche una violenza più antica e radicata, che innervava la società sudafricana. Ancora Bellesi: «L’apartheid è scomparsa, ma le sue disuguaglianze e ingiustizie sociali ci sono ancora tutte. Con un’economia tanto disastrata, non basterà un colpo di spugna a cancellarle, anche se la propaganda elettorale dell’Anc promette casa, scuola lavoro».

Il Sudafrica del 1994 era un Paese dove erano appena state abolite leggi come il Natives land act, la legge del 1913 che assegnava alla minoranza bianca prima il 93% e poi l’87% del territorio, e il Group areas act, del 1950, che Mandela, nel suo libro Long walk to freedom, definiva come il «fondamento dell’apartheid residenziale», per cui «ogni gruppo razziale poteva possedere terre, occupare locali e commerciare solo nella propria area separata». Da questo impianto giuridico, imposto da cinque milioni di sudafricani bianchi a 23 milioni di sudafricani neri, 3,4 milioni di meticci e un milione di asiatici, erano sorti i cosiddetti Bantustan@, territori designati dal governo bianco come «patrie» nazionali per i neri, e le township o location, nomi che indicavano spazi urbani nei quali i sudafricani bianchi costringevano i non bianchi. La disoccupazione era al 20,1% e le persone che abitavano in baracche in aree senza alcun servizio erano circa sette milioni. Durante il dibattito elettorale del 14 aprile 1994@, Mandela accusò De Klerk di aver speso per l’istruzione di un bambino bianco tre volte tanto di quanto aveva speso per un bambino nero.

Aiuto ai migranti in Eswatini durante il Covid. (AfMC)

Dopo Mandela

La presidenza di Mandela, durata fino al giugno del 1999, avviò il difficile lavoro di riconciliazione, consolidamento della pace e transizione democratica.

Ottantunenne alla scadenza del suo primo mandato, non si candidò per ottenere il secondo. Gli succedette il suo vicepresidente Thabo Mbeki – figlio di quel Govan Mbeki incarcerato con Mandela per il suo ruolo di leader di Umkhonto we Sizwe (tradotto come Lancia della nazione), l’ala armata dell’Anc – e poi altri tre presidenti, tutti dell’Anc: Kgalema Motlanthe, Jacob Zuma, fino a Cyril Ramaphosa, presidente dal febbraio 2018.

L’attuale non rosea situazione del Sudafrica, scriveva lo scorso anno Roger Southall, dell’Università di Witwaterstand, sul giornale online The Conversation@, ha spinto diversi sudafricani a tentare di far ricadere sulle scelte di Mandela le responsabilità per i fallimenti successivi.

Secondo una parte dell’Anc, l’accordo raggiunto da Mandela sarebbe quindi stato una resa al «capitale monopolistico bianco», mentre la ministra del turismo Lindiwe Sisulu, figlia di un’altra figura chiave nella lotta all’apartheid, Walter Sisulu, critica la costituzione – frutto anche questa delle negoziazioni condotte da Mandela fra il 1990 e il 1994 – e i magistrati che la applicano e difendono. Questi sarebbero, a suo dire, «africani mentalmente colonizzati» alleati con le élite contro il popolo@.

Vi sono poi le frustrazioni dei neolaureati e della massa di disoccupati neri, le centinaia di migliaia di persone che non hanno un alloggio adeguato e gli oltre due milioni di famiglie sudafricane, cioè più di una su dieci, che le statistiche del governo del 2021 indicavano come sofferenti la fame. I sudafricani, scriveva ancora Southall, vogliono qualcuno da incolpare.

Lavoro minorile nelle miniere di Blaauw Bosh Kloof nell’Eastern Cape del Sudafrica (AfMC)

La xenofobia degli ex oppressi

In questa ricerca di colpevoli, i migranti sono un bersaglio ideale. Secondo il censimento più recente (2022)@, i migranti presenti in Sudafrica sono 2,4 milioni, di cui un milione dallo Zimbabwe, 416mila dal Mozambico, 227mila dal Lesotho, 198mila dal Malawi, 61mila dal Regno Unito e 8mila dall’Etiopia, per limitarsi alle prime cinque nazionalità. I rifugiati e i richiedenti asilo, riportava invece il «Rapporto sulla migrazione» pubblicato dal dipartimento di statistica lo scorso marzo, sono circa 170mila@, principalmente da Etiopia e Repubblica democratica del Congo, ma anche da Bangladesh, Repubblica del Congo, Burundi, Zimbabwe, Pakistan, Somalia e Uganda.

Rispetto al totale della popolazione sudafricana, che nel 2022 è arrivata a 62 milioni, i migranti quindi sono quattro ogni cento persone. Eppure, un sondaggio del 2021, riportato da Bbc lo scorso settembre@, mostrava che metà degli intervistati era convinta che i migranti presenti nel Paese fossero fra i 17 e i 40 milioni.

Queste percezioni si combinano con un tasso di disoccupazione oltre il 30%, il più alto al mondo, che aumenta al 60% fra i giovani sotto i 25 anni. «Una sensazione diffusa nella popolazione locale», scrive padre Samuel Gitonga, missionario della Consolata che lavora a Kwaggafontein, a circa cento chilometri da Pretoria, «è che gli stranieri stiano togliendo lavoro ai locali e stiano approfittando di risorse e servizi che spetterebbero ai sudafricani», mentre nei fatti ne sono spesso esclusi. Ai migranti viene attribuito l’aumento degli episodi di criminalità. Si diffondono dicerie, come nel caso di alcuni messaggi girati sui social, per avvertire «i sudafricani di stare attenti agli stranieri che avvelenano i bambini con i prodotti dei loro negozi di dolciumi», cioè nei cosiddetti tuck shops che sono spesso gestiti da immigrati.

Nel settembre dell’anno scorso, spiega padre Samuel, a Dennilton, uno dei villaggi seguiti dai missionari, gli abitanti hanno cacciato diversi stranieri accusandoli di stregoneria@.

Questo contesto crea i presupposti per le aggressioni contro i migranti e per l’emergere di gruppi come Operation Dudula, un gruppo xenofobo poi diventato partito politico. Operation Dudula sperava di riuscire ad approfittare dell’eventuale calo nei consensi dell’Anc che prima delle elezioni risultava, per la prima volta in 30 anni, essere sul filo della maggioranza dei voti (mentre scriviamo, le elezioni devono ancora avvenire).

Al di là della propaganda delle formazioni xenofobe, continua padre Samuel, gli esempi di discriminazioni nei confronti dei migranti non sono difficili da trovare: «Durante il lockdown per il Covid, il governo ha distribuito pacchi alimentari alle persone che ne avevano bisogno, escludendo però i migranti. Inoltre, ci sono segnalazioni secondo cui alcuni operatori sanitari negli ospedali pubblici negano i servizi agli stranieri». E ancora: il Sudafrica dispone di un fondo per gli incidenti stradali che copre le spese mediche e il risarcimento delle perdite subite da chi è vittima di un incidente stradale e ci sono stati tentativi di interpretare la legge in modo da non coprire chi non è sudafricano.

Periferia della città di Merrivale (AfMC)

Migranti per strada

«Le persone con cui lavoriamo si erano accampate in strada fuori dagli uffici delle Nazioni Unite a Pretoria, sperando di attirare l’attenzione e di vedere soddisfatti i propri bisogni più elementari». A parlare è padre Daniel Kivuw’a, missionario della Consolata che lavora nella capitale amministrativa del Sudafrica, collaborando con l’arcidiocesi e con la Caritas. «Un’ordinanza del tribunale ha stabilito che queste persone dovevano spostarsi in un insediamento informale e, una volta trasferite, avrebbero ottenuto assistenza. Ma, di fatto, appena si sono stabilite nell’area assegnata, sono state abbandonate: per questo la chiesa locale si è attivata in modo da fornire almeno cibo e materiale per l’igiene personale a settanta famiglie». È padre Daniel che gestisce il progetto insieme al comitato della Caritas della parrocchia Christ the king di Queenswood.

Il lavoro dei missionari della Consolata in Sudafrica oggi, spiega il superiore della Delegazione, padre Nathaniel Mwangi, si svolge in sei comunità nelle diocesi di Pretoria, Johannesburg e Durban e riguarda soprattutto le attività pastorali e quelle legate a emergenze, come nel caso dei migranti o, durante la pandemia, l’assistenza a persone indigenti che a causa delle restrizioni avevano difficoltà a procurarsi il cibo.

«Per i progetti in settori come l’istruzione, la sanità, l’accesso all’acqua, la sanificazione», spiega padre Fredrick Agalo, che in Sudafrica ha lavorato dal 2015 al 2019, «la domanda che le autorità locali fanno è: “Può farlo il governo?”. Se la risposta è sì, allora è escluso che enti non sudafricani, come una Ong o un Istituto missionario, ottengano il permesso di realizzare iniziative di sviluppo».

Chiara Giovetti

Danza tradizionale degli Zulu (AfMC)

 




Trattori selvaggi


Quella che oggi prevale è l’agricoltura industriale: a monte le multinazionali dei fertilizzanti, a valle quelle commerciali. Con una dinamica dei prezzi che premia quelle stesse aziende mentre penalizza produttori e consumatori finali. Dopo le proteste e i successivi compromessi al ribasso, a perdere sono l’ambiente e i cittadini.

I trattori che, fra gennaio e febbraio 2024, si sono visti sfilare per le vie di varie città europee, non erano macchine vecchie e di piccola taglia, ma imponenti e di alto valore economico. Segno che, a scendere in piazza, non erano tanto i piccoli coltivatori, magari dediti all’agricoltura biologica, ma i produttori di medie e grandi dimensioni pienamente inseriti nella filiera agricola industriale. Quei produttori, cioè, che si pongono l’obiettivo di ottenere rese quanto più alte possibili tramite l’impiego di macchinari sofisticati e l’uso indiscriminato di ogni tipo di sostanza chimica. Rappresentanti di un’agricoltura che, oltre ad avere pessime ricadute sull’ambiente, è anche estremamente rischiosa per i produttori stessi, perché impone l’esborso di grandi quantità di denaro senza nessuna certezza rispetto ai ricavi. I raccolti, infatti, sono sempre un grande punto interrogativo, specie di questi tempi: con il sopraggiungere dei cambiamenti climatici, di raccolti che vanno male ce ne sono sempre di più. Ma il clima che cambia è solo una delle minacce che condizionano i ricavi degli operatori del settore. L’agricoltura industriale è dominata da pochi sciacalli posizionati sia a monte che a valle della filiera. A monte ci sono le multinazionali dei fertilizzanti, dei pesticidi e dei carburanti, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopolio per imporre prezzi di vendita più alti possibili sui propri prodotti. A valle ci sono le multinazionali commerciali, pochi soggetti che usano la loro posizione di monopsonio, ossia di acquirente unico, per imporre prezzi di acquisto più bassi possibili. Così i produttori dell’agricoltura industriale lamentano di sentirsi in una morsa che li impoverisce sempre di più.

Costi, ricavi, prezzi finali

Negli ultimi anni vari elementi hanno influito negativamente sia sul fronte dei costi che dei ricavi, mettendo in difficoltà i produttori dell’agricoltura industriale che hanno cercato di rimediare producendo ancora di più, ossia costringendo la terra a dare rese sempre più alte. Sul piano dei costi, sappiamo tutti che, nel corso del 2022, la guerra fra Russia e Ucraina ha fatto impennare i prezzi del gas e più in generale dei carburanti. Una crescita che, se per le famiglie si è tradotta principalmente in aumento delle bollette elettriche e del gas, per i produttori agricoli ha significato aumento oltre che dei carburanti anche dei fertilizzanti azotati considerato che la materia prima da cui si ottengono questi ultimi è il metano. L’Istat certifica che nel corso del 2022, in Italia, i prezzi dei beni e servizi utilizzati in agricoltura sono cresciuti del 25,3 per cento con rincari guidati soprattutto dai prodotti energetici (+49,7%) e fertilizzanti (+63,4%). Gli aumenti hanno investito tutti i settori, seppur con diversa intensità, a seconda della combinazione dei fattori produttivi. I più colpiti sono stati i produttori di semi oleosi e cereali senza risparmiare la zootecnia. Gli esborsi degli allevatori sono aumentati di media del 16,6% e più precisamente del 9,8% per l’acquisto degli animali da allevamento, del 25% per i mangimi, del 61,5% per i prodotti energetici. Incrementi di costo che non sono stati compensati da uguali aumenti di prezzo alla vendita. L’Istat informa che, sempre nel 2022, in Italia il prezzo dei beni agricoli è aumentato mediamente del 17,7% con una differenza negativa, rispetto ai costi, di circa il 7%.

Coldiretti, la principale associazione degli agricoltori italiani, è più pessimista. Basandosi sui dati Fao a livello globale, forniti nel gennaio 2024, l’associazione sostiene che a volare sono stati i prezzi del cibo al consumatore finale, mentre ai contadini i prodotti agricoli sono stati pagati il 10,4% in meno rispetto all’anno precedente. Più precisamente meno 18% per il latte alla stalla e meno 19% per i cereali nei campi. E pensare che, nel 2022, tutto il mondo era in apprensione per l’aumento del prezzo internazionale dei cereali cresciuto di oltre il 20% come conseguenza della mancata commercializzazione di quelli provenienti dall’Ucraina. Ma i guadagni sono stati intascati tutti dalle grandi multinazionali commerciali. In particolare, Archer Daniels, Bunge, Cargills, in sigla Abc, che dominano il mercato internazionale delle derrate agricole.

Il prezzo dei cereali e quello del pane. Foto Mp1746-Pixabay.

Pane e finocchi

Del resto, che esista un’ampia sfasatura fra prezzi pagati al produttore e quelli pagati al consumo finale, è cosa risaputa. Coldiretti cita il caso della filiera del pane, facendo notare che in Italia il prezzo finale di questo prodotto cresce anche di venti volte rispetto al grano. Un chilo di grano che viene pagato oggi agli agricoltori attorno a 24 centesimi di euro serve per fare un chilo di pane che viene venduto ai consumatori a prezzi che variano dai 3 ai 5 euro a seconda delle città.

Le anomalie – continua la Coldiretti – sono evidenti anche nei prodotti freschi come gli ortofrutticoli che dai campi agli scaffali dei supermercati vedono salire i prezzi di tre-cinque volte. Il tutto benché non debbano subire trasformazioni. Come esempio vengono citati i finocchi.

Secondo i calcoli di Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) del gennaio 2024, per produrre un chilo di finocchi il contadino deve spendere 18 centesimi di euro, ma riesce a venderli a 12 centesimi, mentre al supermercato sono venduti ai consumatori finali a 1,69 euro, il 1.308% in più. E pensare che i finocchi non necessitano neanche di imballaggio: sono venduti sfusi. Ulteriore conferma di come la filiera agricola sia dominata da posizioni di abuso al cui apice si trovano i signori della grande distribuzione che contribuiscono a ridurre i guadagni degli agricoltori. Signori evidentemente considerati troppo forti per essere presi di petto dalle istituzioni, per cui vengono lasciati in pace. E, infatti, è successo che gli agricoltori hanno diretto la propria protesta verso il soggetto pubblico ritenuto più malleabile. Con richieste sia nei confronti dei rispettivi governi che dell’Unione europea. Ai primi per ottenere abbattimenti fiscali e contributi ai carburanti; alla seconda per ottenere modifiche a certe sue scelte riguardanti sia il commercio internazionale che le condizioni imposte per avere accesso ai suoi contributi.

Il prezzo dei finocchi è basso per i produttori, alto per i consumatoeri finali. Foto Ylanite-Pixabay.

Accordi e concorrenza

Un fenomeno fortemente sostenuto dall’Unione europea (Ue), che alcuni agricoltori del continente considerano lesivo dei loro interessi, è rappresentato dagli accordi di libero scambio. Questi consistono in contratti fra due paesi per facilitare i reciproci scambi commerciali. Di norma le facilitazioni consistono nell’abbattimento reciproco delle barriere doganali e nell’accettare le caratteristiche produttive dei prodotti importati anche se non in linea con la legislazione del paese importatore.

Parlando di prodotti alimentari, un’eccezione ammessa di frequente dalla Ue è quella di importare prodotti ottenuti con metodiche proibite nell’Unione europea: ad esempio con l’impiego di particolari farmaci o sostanze chimiche. Pratica contestatissima dai nostri produttori che si sentono penalizzati rispetto a quelli esteri.

A gennaio 2024 l’Unione europea risultava avere ben dodici accordi di libero scambio in ambito agricolo. E non tanto con paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quanto con paesi dell’Estremo Oriente e d’oltre oceano, come Canada, Messico, Cile, Giappone, Vietnam, addirittura la Nuova Zelanda. L’Unione europea sostiene di averli stipulati perché procurano un vantaggio ai consumatori europei e agli stessi agricoltori. Ai consumatori perché possono garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, magari a prezzi più bassi di quelli interni; agli agricoltori perché ampliano i loro sbocchi di mercato con le esportazioni.

E può darsi anche che sia così. Ma solo per i grandi produttori che possono permetterselo, metre quelli piccoli, più orientati al mercato interno, si lamentano perché subiscono la concorrenza sleale di prodotti provenienti dai paesi agevolati dagli accordi di libero scambio. Un esempio è rappresentato dall’accordo recentemente stipulato con la Nuova Zelanda: gli allevatori europei dediti al latte e agli ovini temono di essere danneggiati dai prodotti lattieri e animali provenienti da questo paese che, in virtù degli abbattimenti tariffari, potrebbero entrare a prezzi più bassi di quelli esistenti internamente. Lo stesso vale per alcuni prodotti provenienti dall’Ucraina. In particolare, gli agricoltori di Polonia e Francia, grandi produttori di cereali, hanno chiesto che venisse rivisto l’accordo di libero scambio stipulato con l’Ucraina già nel 2016, perché la guerra ha alterato tutti i flussi commerciali creando una situazione di concorrenza sleale in seno all’Unione europea. Richiesta accolta dalla Commissione europea che, nel marzo 2024, ha introdotto restrizioni alle importazioni agricole provenienti da questo paese.

Le regole della Ue

I produttori si lamentano anche delle regole ambientali imposte dall’Unione europea per poter godere dei contributi agricoli. Il sistema di sostegno all’agricoltura oggi previsto in ambito europeo prevede sia forme di agevolazione finanziaria per specifici investimenti, sia contributi a fondo perduto in rapporto alla quantità di terra posseduta.

In ogni caso i meccanismi di godibilità sono tutti organizzati affinché i beneficiari principali siano le grandi aziende. Ciò nonostante, sono soprattutto i piccoli produttori a lamentarsi delle condizioni da rispettate per potere accedere ai contributi e alle agevolazioni. In particolare, sono messe sotto accusa alcune regole che l’Unione europea ha imposto a tutela della biodiversità e della salvaguardia dei suoli.

Le più odiate sono quelle che limitano l’uso di pesticidi e che prevedono l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei propri terreni.

I piccoli produttori sostengono che si tratta di condizioni capestro che riducono la loro capacità produttiva e quindi i loro già magri guadagni. Richieste di nuovo accolte dalla Commissione europea che, nel febbraio 2024, ha reso più blanda la regola di messa a riposo delle terre e ha ritirato la proposta di regolamento tesa a ridurre del 50% l’uso di pesticidi entro il 2030.

Nelle campagne i braccianti agricoli sono spesso sottopagati. Foto Tim Mossholder-Unsplash.

Ambiente e cittadini

Gli agricoltori industriali tireranno un respiro di sollievo: nell’immediato i loro guadagni sono salvaguardati. Ma per la collettività nel suo insieme si tratta di una disfatta perché continuerà ad aggravarsi il degrado ambientale di cui l’agricoltura industriale è una forte responsabile.

Quello che servirebbe è una profonda revisione del modello economico che seguiamo, un radicale ripensamento del modo di produrre e consumare per fare finalmente pace con la natura. Non per amore disinteressato verso il pianeta, ma per amore di noi stessi, per garantirci un futuro meno problematico.

La grande sfida è avviare questo processo di cambiamento senza lasciare indietro nessuno. Ma, per riuscirci, bisogna cominciare a prendere consapevolezza che cambiare è necessario e che occorre farlo con spirito di solidarietà. Ossia sapendo soccorrere coloro che maggiormente sono investiti dai mutamenti, ma al tempo stesso sono troppo deboli per affrontarli da soli.

Fra essi ci sono sicuramente anche gli agricoltori, specie quelli di piccola taglia, che vanno aiutati a passare a pratiche di tipo biologico senza subire contraccolpi eccessivi.

Francesco Gesualdi




Terre rare. Corsa globale


Sulla Terra si moltiplicano le «zone di sacrificio» dove, in nome di un supposto bene comune (tecnologico), si calpestano persone e ambiente. Le terre rare, minerali cruciali per ogni prodotto, dagli smartphone ai missili, sono contese dai grandi del mondo.

Forse state leggendo questo articolo nella versione cartacea della rivista, oppure dallo smartphone, o da un computer. In ambedue i casi, lo leggete grazie alle tecnologie che fanno funzionare i nostri apparecchi elettronici e le loro batterie, oltre ai sistemi di stoccaggio di dati e ai vari cloud. Queste tecnologie utilizzano una grande varietà di materiali. Tra essi, fondamentali sono le cosiddette terre rare. Non le vediamo a occhio nudo, ma sono cruciali. Impiegate nelle auto elettriche, in apparecchi medici di precisione, laser, schermi, lampadine led. Persino nella raffinazione del petrolio.

La tecnologia fa passi da gigante, e ne abbiamo bisogno. Tuttavia, alcune domande dovremmo porcele. Soprattutto alla luce dei cambiamenti tecnologici promossi, ad esempio, dall’Unione europea. E, di questi tempi, anche alla luce degli enormi investimenti in armamenti e tecnologie nucleari.

Da dove provengono le terre rare? Quanto rare sono? Come si ottengono e come si processano? Chi lo fa, e dove?

Per provare a rispondere a queste domande, il gruppo di ricerca dell’EJAtlas (l’Atlante della giustizia ambientale), insieme alla catalana Observatori del deute en la globalització (Odg), allo statunitense Institute for policy studies e al Craad-oi del Madagascar, membri del Global rare earths element network, hanno condotto una ricerca e documentato i conflitti socio ambientali in relazione alla filiera delle terre rare. Dalla ricerca sono nati un rapporto e una mappa che documentano più di venticinque casi in Cina, Cile, Brasile, Finlandia, Groenlandia, India, Kenya, Madagascar, Malaysia, Malawi, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Svezia.

Ma cerchiamo di rispondere alle domande passo a passo.

Terre rare ovunque

Oggi, quasi tutta la tecnologia utilizza le terre rare. La loro pervasività è esemplificata dall’automobile, uno dei prodotti che ne consumano maggiori quantità. La sua parte elettronica, per esempio, così come gli altoparlanti del sistema audio che utilizzano magneti permanenti al neodimio-ferro-boro. I sensori elettronici che utilizzano zirconio stabilizzato con ittrio per misurare e controllare il contenuto di ossigeno nel carburante. I fosfori dei display ottici che contengono ossidi di ittrio, europio e terbio. Il parabrezza e gli specchietti sono lucidati con ossidi di cerio. Anche i carburanti sono raffinati utilizzando lantanio, cerio o ossidi misti di terre rare. Le automobili ibride sono alimentate da una batteria ricaricabile all’idruro metallico di nichel-lantanio e da un motore di trazione elettrico, con magneti permanenti.

Anche dispositivi come telefoni, televisori e computer impiegano terre rare per i magneti degli altoparlanti, i dischi rigidi, i display. Le quantità di terre rare utilizzate, pur ridotte (tra lo 0,1 e il 5 per cento del peso), sono essenziali per farli funzionare.

Cosa sono e dove si trovano?

Le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici. Il loro nome è piuttosto fuorviante perché non si tratta di «terre» e non sono neppure così rare.

I Ree – Rare earth elements – sono lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio, ittrio e scandio.

Siamo a conoscenza della loro esistenza dal 1787, quando il tenente dell’esercito svedese Carl Axel Arrhenius scoprì un minerale nero in una piccola cava di Ytterby (vicino a Stoccolma). Il minerale era una miscela di terre rare dalla quale il primo elemento isolato fu il cerio nel 1803. Allora sembravano degli ossidi rari. Da qui il loro nome. In seguito, invece, sono stati trovati in molti paesi.

Secondo l’Us geological survey (Usgs), nel 2022 la Cina ha fornito il 70% della produzione globale di Ree (210mila tonnellate metriche), seguita da Stati Uniti (14,3%), Australia (6%), Myanmar (4%), Thailandia (2,4%), Vietnam (1,4%), India (0,96%), Russia (0,86%), Madagascar (0,32%) e Brasile.

Le riserve sono invece documentate in oltre trentaquattro Paesi. Dopo la Cina (44 milioni di tonnellate), c’è il Vietnam (22 milioni), seguito da Russia e Brasile (21 milioni ciascuno).

La loro lavorazione avviene per l’87% in Cina, il 12% in Malaysia (dall’australiana Lynas rare earths) e l’1% in Estonia (dati della Agenzia internazionale dell’energia, Aie, del 2022).

Come abbiamo visto, le terre rare hanno proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche che le rendono cruciali per molti usi civili, tuttavia, esse sono strategiche anche per l’industria della difesa e aerospaziale: per produrre aerei, missili, satelliti e sistemi di comunicazione.

Infatti, la proposta della Commissione europea per la legge sulle materie prime critiche dell’Ue, pubblicata nella primavera del 2023, menziona la necessità strategica di questi minerali per la transizione verde e digitale, nonché per la difesa e l’industria aerospaziale.

L’Aie suggerisce che, per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, l’estrazione di terre rare dovrebbe aumentare di dieci volte entro il 2030. In realtà, è già cresciuta di oltre l’85% tra il 2017 e il 2020, soprattutto per la domanda di magneti permanenti per la tecnologia eolica e i veicoli elettrici.

Tuttavia, serve sottolineare l’assurdità della speranza di arrivare a zero emissioni. Infatti, anche se le emissioni per combustione di gas o petrolio non avverranno nelle centrali elettriche o nei motori delle auto, ci saranno nelle miniere e nelle fabbriche di lavorazione di pannelli fotovoltaici o di turbine eoliche.

Se non in Europa o altri paesi opulenti, le emissioni avverranno laddove le imprese delocalizzano e producono con minori costi e controlli.

Come si estraggono?

Come già detto, le terre rare sono abbondanti. La loro disponibilità, però, è limitata, soprattutto perché i livelli di concentrazione sono bassi (meno del 5% in media).

Una fonte, per essere economicamente redditizia, dovrebbe contenere più del 5% di terre rare, a meno che non siano estratte assieme ad altri metalli, ad esempio zirconio, uranio o ferro. In questo caso avviene il recupero economico anche di corpi minerari con concentrazioni addirittura dello 0,5%.

La concentrazione bassa e spesso combinata rende l’estrazione delle terre rare molto costosa. Richiede grandi quantità di energia e acqua, e anche la generazione di molti rifiuti.

Inoltre, le terre rare sono spesso mescolate con diversi elementi pericolosi, come uranio, torio, arsenico e altri metalli pesanti che comportano elevati rischi per la salute e l’ambiente.

L’estrazione avviene a cielo aperto o in miniere sotterranee, tramite un processo chimico e fisico spesso attuato in situ.

Le terre rare non si possono riciclare da prodotti vecchi. Nonostante le grandi aspettative sul riciclo, esso rimane una fonte marginale (meno dell’1%): la difficoltà di separare i singoli elementi gli uni dagli altri è elevata. Inoltre, quella del riciclo è ben lontana dall’essere un’industria pulita, poiché richiede grandi quantità di energia e genera rifiuti pericolosi.

Le miniere di terre rare

I casi di conflitti socio ambientali per l’estrazione, lavorazione e riciclaggio delle terre rare documentati nel report citato, indicano tendenze preoccupanti per quanto riguarda gli impatti ambientali, sociali e sui diritti umani. Le preoccupazioni denunciate dalle comunità locali prossime a questi stabilimenti riguardano l’inquinamento dell’acqua, del suolo, dell’aria e il suo impatto sulla salute.

Le proteste sono generate anche dalla mancanza di trasparenza e di partecipazione alle procedure decisionali e ai controlli, compreso il mancato rispetto dei diritti delle popolazioni indigene.

Molti dei casi documentati dal report riguardano abusi dei diritti umani tramite diverse forme di violenza (repressione, persecuzione legale, criminalizzazione, violenza fisica) esercitate contro le comunità locali, i difensori dell’ambiente e dei diritti umani e le organizzazioni della società civile.

Cina, Usa e Malaysia

Il più grande sito di estrazione e lavorazione al mondo si trova in Cina, a Bayan Obo, nella provincia della Mongolia interna.

Decenni di attività hanno prodotto un massiccio inquinamento di terreni e acque con metalli pesanti, fluoro e arsenico che hanno avvelenato gli abitanti e gli ecosistemi locali.

L’inquinamento si è poi diffuso lungo il bacino idrografico del Fiume Giallo, da cui dipendono quasi 200 milioni di persone per l’acqua potabile, l’irrigazione, la pesca e l’industria.

In Cina sono anche attivi centri di riciclaggio dei rifiuti elettronici, come quello di Guiyu (Guangdong), nel cui territorio si sono registrati livelli preoccupanti d’inquinamento da metalli pesanti nel suolo, nell’acqua e persino nel sangue umano.

Negli Stati Uniti, la miniera Mountain Pass, chiusa negli anni 2000 per l’inquinamento (e per la concorrenza cinese), è stata recentemente riattivata per l’approvvigionamento di terre rare negli Stati Uniti.

In Malaysia, dal 2011, le comunità del distretto di Kuantan combattono contro lo stabilimento di Lynas Rare Earths Ltd e l’inquinamento associato, nonché i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Myanmar e Madagascar

In Myanmar, principale esportatore verso la Cina, la miniera è controllata dal regime militare che ne beneficia. Le violazioni dei diritti umani, i danni agli ecosistemi locali e alle condizioni di vita degli abitanti della regione sono grandi. Precedentemente rinomata per le sue foreste incontaminate, la ricca biodiversità e i corsi d’acqua puliti, la regione di Kachin si sta ora trasformando in un paesaggio segnato dalla deforestazione e dalla presenza di pozze turchesi tossiche. Le attività estrattive stanno contaminando i corsi d’acqua, causando la fuga degli animali selvatici, incidendo sui mezzi di sussistenza delle comunità locali e causando molteplici problemi di salute.

Quando i leader dei villaggi hanno cercato di denunciare l’impatto dell’estrazione di terre rare sulla loro terra e sui loro mezzi di sostentamento, hanno ricevuto minacce e intimidazioni da parte delle milizie, o hanno subito arresti e omicidi.

In Madagascar, dal 2016, le comunità locali si oppongono al progetto minerario Tantalus rare earths malagasy in quanto violerebbe molti dei loro diritti, compresi quello alla terra e ai mezzi di sostentamento, dato che la maggior parte di loro vive di pesca e agricoltura. Fin dall’inizio del progetto, acquisito da Reenova e poi da Harena resources Pty Ltd nel 2023, le comunità locali hanno denunciato la natura irregolare dei permessi di estrazione, la trascuratezza dei lavori di riabilitazione dei pozzi, la mancanza di partecipazione dei locali e del loro consenso libero, preventivo e informato, nonché la mancata considerazione degli impatti sociali, sui diritti umani e sull’ambiente.

Il caso Lynas in Malaysia

In Australia occidentale, Lynas Rare Earths Ltd estrae minerali di terre rare dalla miniera semiarida di Mt Weld e li trasporta per processarli nello stato di Pahang in Malaysia. Qui, dal 2011, le comunità di Kuatan hanno lottato contro l’inquinamento e i metodi di gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi della multinazionale. Le loro azioni hanno ottenuto il riconoscimento e il sostegno di alcune organizzazioni internazionali.

La Lynas ha promesso di rimuovere i rifiuti per ottenere la licenza dal governo, ma ha poi rinnegato l’impegno legale.

Mentre in Australia occidentale lo stesso tipo di rifiuti deve essere smaltito sottoterra, isolato dalla biosfera per mille anni, in Malaysia questo materiale radioattivo (ad oggi 1,5 milioni di tonnellate) è stato ammassato in una discarica priva di misure di sicurezza, vicino a complessi residenziali e località costiere.

La campagna «Stop Lynas», promossa dalla comunità, denuncia il green washing dell’azienda e la mancanza di applicazione della legge da parte dei governi, i rischi delle scorie radioattive, la riduzione di disponibilità di acqua e dei mezzi di sussistenza, e il rischio di cancro.

Svezia e India

Il continente europeo non è esente da simili preoccupazioni. È il caso di Norra Kärr, in Svezia. Nel progetto minerario vicino al lago Vättern, l’acido solforico viene utilizzato per separare le terre rare dagli altri minerali. I materiali di scarto vengono poi stoccati in bacini di decantazione. I gruppi ambientalisti temono che gli acidi e i minerali (tra cui uranio e torio) possano contaminare l’ambiente e in particolare il lago Vättern, inquinando l’acqua potabile di centinaia di migliaia di persone.

L’estrazione di terre rare è anche legata alla distruzione delle aree costiere e degli ecosistemi, ad esempio in India, dovuta all’estrazione intensiva di sabbia da cui vengono poi separate le terre rare, e ai potenziali impatti sugli oceani. In Nuova Zelanda e in Norvegia esistono progetti di estrazione in acque profonde, attualmente sospesi a causa degli incerti e gravi rischi ambientali e biologici che questa nuova frontiera mineraria comporta.

Le maggiori aziende

Le imprese estrattive hanno sede principalmente in Cina, Stati Uniti, Canada e Australia. La mega azienda China rare earths group controlla il 70% della produzione del Paese. Le altre principali società che estraggono terre rare a livello globale sono: Lynas Rare Earths Ltd (coinvolta nel più grande impianto di lavorazione delle terre rare al di fuori della Cina, in Malaysia e presto anche nel nuovo grosso impianto statunitense del Texas, con incarico diretto dal dipartimento di Difesa degli Stati Uniti), Iluka, Alkane resources (le tre con sede in Australia), Shenghe resources (con sede in Cina) e Molycorp (Stati Uniti).

Una corsa globale

Il dominio cinese del mercato suscita timori negli Stati Uniti e nell’Unione europea. Nel contesto delle crescenti tensioni tra Cina e Occidente, la guerra fredda dei minerali trasforma la geopolitica delle terre rare.

Negli ultimi anni, ad esempio, gli Stati Uniti hanno cercato di mettere in sicurezza le catene di approvvigionamento diversificando le proprie fonti. Ciò ha comportato un aumento dell’attività estrattiva nazionale – il rilancio del sito di Mountain Pass in California e la lavorazione del minerale in loco anziché in Cina – nonché l’esplorazione di nuovi giacimenti in luoghi come Bear Lodge nel Wyoming.

Anche l’Unione europea sta promuovendo lo sviluppo di progetti di estrazione in Svezia, Finlandia, Spagna e in Serbia.

Tra le altre politiche, l’Us inflation reduction act richiede che i produttori di auto elettriche si riforniscano dagli Stati Uniti o da paesi alleati (leggi: non dalla Cina) di almeno il 40% del contenuto minerale delle batterie. Questa percentuale dovrà salire all’80% entro il 2027.

Washington non sta solo cercando di assicurarsi i propri minerali critici, ma sta anche costringendo gli alleati a ridurre gli scambi con Pechino.

Allo stesso modo, la Commissione europea ha presentato la legge sulle materie prime critiche nel 2023. Essa ha obiettivi ambiziosi per il 2030: raggiungere il 10% dell’estrazione di minerali critici, il 40% della lavorazione in Paesi europei, un’importazione diversificata che preveda un tetto massimo di minerali provenienti da un unico Paese pari al 65%.

La Cina, nel frattempo si sta assicurando la fornitura tramite progetti di estrazione in Asia, Africa e America Latina e nell’estate del 2023 ha imposto controlli sulle esportazioni di gallio e germanio, componenti fondamentali delle celle solari, delle fibre ottiche e dei microchip utilizzati nei veicoli elettrici, nell’informatica quantistica e nelle telecomunicazioni.

Le esportazioni della Cina di questi minerali sono scese da quasi nove tonnellate metriche a zero. Questo sforzo per «garantire le catene di approvvigionamento» viene presentato ai Paesi del Sud globale come un’opportunità per loro di aumentare il proprio reddito e persino ottenere vantaggi nello sviluppo di ulteriori processi di lavorazione e produzione, cosa che permetterebbe loro di richiedere maggiori diritti di proprietà intellettuale nei futuri accordi. Tuttavia, gli impatti e i conflitti evidenziano un modello industriale basato su vecchie e nuove «zone di sacrificio», dove le comunità e gli ecosistemi sono distrutti per un supposto bene comune superiore.

Pensiamoci quando ci confortiamo con soluzioni, come la transizione energetica, basate su fonti che non mettono in discussione il livello di consumo e le priorità produttive.

Daniela Del Bene

 


Il rapporto e la mappa da cui sono ricavati i dati riportati in questo articolo sono disponibili al sito:
https://ejatlas.org/featured/rees-impacts-conflicts-map

 




Haiti. Lo Stato «bandito»


Dall’assassinio del presidente Jovenel Moise la crisi «multidimensionale» non ha fatto che aggravarsi. Oggi il Paese è in mano alle bande armate. La comunità internazionale cerca soluzioni improbabili, senza interpellare i diretti interessati. Come sempre.

«La situazione è molto complicata e ancora più preoccupante. Ci sono i banditi un po’ ovunque, e sparano. In effetti è come una situazione di guerra». Chi parla è Nicolas Pierre Louis, leader contadino dell’organizzazione Tèt kole ti paysan (Tktp) che abbiamo raggiunto telefonicamente. Si trova nella cittadina Pétite Rivière dell’Artibonite, importante snodo nella valle omonima, la più grande area pianeggiante di Haiti, nota per la produzione di riso, alimento base della popolazione.

«È una situazione catastrofica – prosegue -. I contadini della valle non sono più in grado di produrre, perché i banditi hanno occupato le loro terre, inoltre hanno rubato loro gli animali (vacche, capre, maiali che le famiglie usano come salvadanaio, da vendere in caso di bisogno, ndr). E se avevano un mulino, sovente è stato smontato e rubato. I contadini delle montagne hanno difficoltà simili e di approvvigionamento di qualsiasi cosa». Ma rilancia: «La popolazione rurale c’è, resiste, ma la situazione è estremamente critica».

Nicolas ci conferma che in alcuni importanti comuni della valle, come Pétite Rivière, L’Estère, Liancourt, le gang controllano il 100% del territorio.

«Se si ha del prodotto da vendere, è molto difficile raggiungere i mercati o le città, perché tutte le strade sono controllate dai banditi che, come minimo, chiedono un pedaggio. Sovente si utilizzano le moto per arrivare a destinazione attraverso strade secondarie. Ma è più complicato».

In senso inverso, le merci di ogni tipo che arrivavano dalla capitale Port-au-Prince, prima fra tutte la benzina, incontrano la stessa difficoltà per giungere nelle città di provincia, «così si è creata una iperinflazione, ovvero un forte aumento dei prezzi di tutti i beni per il consumatore finale».

Trenta mesi disastrosi

Negli ultimi trenta mesi il paese dei Caraibi ha visto la situazione sociopolitica ed economica degradarsi progressivamente.

Il 7 luglio 2021 il presidente Jovenel Moise è stato assassinato nel suo letto da un commando di mercenari, molti dei quali ex militari colombiani. I paesi «amici» (il virgolettato è d’obbligo), ovvero Usa e Canada, hanno subito appoggiato la presa di potere da parte di Ariel Henry, primo ministro designato da Moise pochi giorni prima dell’assassinio, ma mai investito, il quale ha costituito il suo governo «de facto». Henry è dello stesso partito di Moise, Partito haitiano tèt kale (Phtk), e ha scartato l’opzione di una coalizione proposta da altri partiti e organizzazioni sociali (nota come il Consenso di Montana, dal nome dell’hotel dove è stato firmato), che chiedeva una transizione consensuale tra tutte le parti in causa (partiti politici, organizzazioni sociali, ecc.).

Occorre ricordare che Moise aveva accuratamente evitato ogni tipo di elezione (le ultime nel novembre 2016 lo avevano portato alla presidenza), da quelle amministrative locali a quelle parlamentari, portando a scadenza ogni carica elettiva e concentrando su di sé gran parte del potere. Stava pure tentando di modificare la Costituzione.

Dopo la sua morte, le gang, gruppi di banditi organizzati e ben armati, hanno preso il sopravvento su un Governo debole e inconcludente.

Rapimenti, assassinii e violenze di ogni genere contro la popolazione sono aumentati in modo vertiginoso (secondo l’Onu nel 2023 ci sono stati 5mila omicidi, 2.490 rapimenti, centinaia di feriti). Le gang, forti di armamenti moderni e continui rifornimenti di munizioni, sono cresciute fino a controllare gran parte della capitale (compreso il centro e i quartieri popolari) e le principali vie di accesso ad essa.

La polizia nazionale (Pnh) non riusciva a contrastarli, così nell’ottobre del 2022 il premier Henry ha chiesto in aiuto una forza internazionale.

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 2 ottobre 2023, tramite una risoluzione, ha dato il via libera alla creazione di una Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas). Stati Uniti e Canada non volevano però invischiarsi nell’operazione, visto il contesto mondiale complesso e le elezioni Usa in avvicinamento, oltre a un passato di esperienze fallimentari. Per questo motivo hanno fatto pressioni sul Kenya affinché guidasse tale missione, che sarà finanziata dagli Usa con oltre 120 milioni di dollari. Altri paesi, come il Benin e alcuni Stati caraibici sarebbero disponibili, per un totale di circa 4mila effettivi.

Accelerazione

Nel costante deterioramento della situazione della sicurezza, a inizio 2024 il Governo non aveva fatto alcun progresso, e Ariel Henry, il cui mandato avrebbe dovuto scadere il 7 febbraio (secondo un accordo tra alcuni attori politici e sociali, il Consenso nazionale di transizione, raggiunto il 21 dicembre 2022) non voleva affatto dimettersi.

La popolazione, allora, è scesa in piazza nel mese di gennaio per chiedere le sue dimissioni bloccando le attività del Paese fino a inizio febbraio.

Intanto le gang – una costellazione di gruppi, ognuno con il suo capo carismatico, un territorio di riferimento e spesso in lotta tra loro – sono riuscite a creare una grossa federazione, intorno a un portavoce, l’ex poliziotto Jimmy Cherizier, detto Barbecue.

Questo è stato un passaggio fondamentale, perché la coalizione delle gang, chiamata Viv ansamm (vivere insieme, in creolo), il 29 febbraio ha lanciato un attacco senza precedenti ai palazzi delle istituzioni pubbliche e alle infrastrutture strategiche (porti, aeroporti, posti di polizia e due carceri, facendo fuggire migliaia di detenuti), ma anche a strutture della Chiesa e della sanità.

In quel momento il premier Henry era in Kenya per firmare un accordo quadro che avrebbe consentito al Paese africano di guidare la Mmas.

Ma sono proprio i poliziotti stranieri che le gang non vogliono, e Barbecue in un’uscita di grande impatto mediatico, durante un’intervista, ha minacciato: «Se Henry non si dimetterà e se la comunità internazionale continuerà a sostenerlo, andremo dritti verso una guerra civile e un genocidio». Affermazione che segna un cambio di livello: le gang da esecutori, si traformano in attore politico attivo. Gli Stati Uniti, infatti, voltano le spalle al «loro» premier e il 5 marzo gli chiedono di dimettersi. Henry, trattenuto a Porto Rico (protettorato Usa), infine accetta e fa un passo indietro l’11 marzo.

Intanto c’è una riunione d’urgenza del Caricom (Organizzazione dei paesi dei Caraibi) su Haiti, in Giamaica, a cui partecipano anche Usa (con Antony Blinken), Canada, Francia e Unione europea. Ma senza la presenza di Henry (trattenuto a Porto Rico) né di una delegazione haitiana. Il gruppo decide che il Paese sarà guidato da un Consiglio presidenziale di transizione (Cpt), composto da sette membri e due osservatori, e dovrà essere espressione dei diversi settori politici e sociali del paese. Il Cpt, dopo lunghe trattative tra settori haitiani, si insedia il 25 aprile, con gli ambiziosi obiettivi di riportare la sicurezza e organizzare le elezioni. Il suo mandato non può andare oltre il 7 febbraio 2026.

Chi tira le fila

Allo stato attuale delle cose, chi ha il controllo reale del Paese, sono le gang grazie alle armi. In un quadro nel quale le istituzioni sono assenti e quelle provvisorie sono deboli e non legittimate.

Le gang sono presenti ad Haiti da fine anni Ottanta, ma – come detto – sono oggi diventate un attore imprescindibile nel quadro haitiano.

Abbiamo chiesto il parere a un militante sindacale, che ci ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza: «Sono le grandi famiglie dell’oligarchia haitiana che hanno armato le gang e le riforniscono di munizioni. Ma anche i politici che chiamiamo granmanje (corrotti), i grandi senatori, deputati, sindaci. Hanno creato le gang per difendersi e difendere le proprietà dell’oligarchia (qui si intendono poche grandi famiglie haitiane, ndr) e dei grandi latifondisti. Si noti, infatti, che questi non vengono mai attaccati. Le gang, di fatto, combattono contro la popolazione, sono presenti per impedire la mobilitazione popolare contro il Governo».

I banditi controllano i quartieri popolari impedendo che la gente vada a manifestare. Negli ultimi mesi sono oltre 340mila gli haitiani sfollati a causa delle violenze e degli scontri tra bande criminali, mentre sono cresciuti gli omicidi, i rapimenti e gli stupri. Le sparatorie nei quartieri sono quotidiane.

«Ci sono deviazioni e contraddizioni interne – continua -. Ad esempio, alcune fazioni delle classi dominanti foraggiano le gang, mentre il Cpt (espressione sempre delle classi ricche, ndr) si oppone alle stesse gang, perché deve riportare la sicurezza. Ma è la popolazione che deve lottare contro questi banditi, in modo organizzato».

Quando gli chiediamo se si potrebbe negoziare con i supposti leader, è chiaro: «No, occorre combatterli e deve essere il popolo a farlo».

L’ultima speranza

Abbiamo fatto la stessa domanda a padre William Smarth che raggiungiamo telefonicamente a Port-au-Prince. Sacerdote haitiano diocesano, associato con i padri dello Spirito Santo (Spiritani), è stato molto attivo nel movimento della società civile che portò Jean-Bertrand Aristide a vincere le elezioni del dicembre 1990, le prime democratiche dopo la cacciata di Jean-Claude Duvalier il 7 febbraio 1986.

«Non ci sono negoziazioni possibili con questi banditi. Se interviene una forza seria (si riferisce a una forza internazionale di polizia, ndr), la gente stessa aiuterà, perché la popolazione ha bisogno di liberarsi: è quella che subisce di più, anche se ci sono delle zone nelle quali i banditi distribuiscono del cibo».

Padre William si sfoga: «Non va per niente bene ad Haiti. I banditi imperversano. Il Cpt funzionerà? Speriamo di sì, se i partiti politici lo faranno funzionare, e se darà vita a un Governo di transizione. A livello della sicurezza la polizia da sola non può affrontare i banditi. Ma se ci fosse una forza multinazionale la potrebbe aiutare. Che non sia però una forza di occupazione, come quella Usa del 1915». E prosegue: «I banditi si sono sviluppati ulteriormente e continuano a ricevere munizioni dall’estero in grandi quantità. Io credo che negli Usa molti pensano che il Governo sarebbe capace di controllare questo commercio di armi verso Haiti. Ma è un grosso giro di soldi. E anche di droga (vedi box). La crisi profonda è anche economica. Mentre le scuole sono chiuse da settimane a Port-au-Prince».

L’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha) ha dichiarato che 5,5 milioni di haitiani (su 11,7) sono in emergenza umanitaria e ha chiesto una raccolta di 674 milioni di dollari per intervenire. Ma questi basterebbero solo per 3,6 milioni di persone. Massima urgenza, quindi, per la sicurezza alimentare di due milioni di persone a rischio fame.

Marco Bello


Per aggiornamenti si segua MCnotizie sul sito della rivista.


Persone e famiglie in fuga dalla trovano rifugio nel cortile della scuola dei Vincenziani a violenza  Port-au-Prince, Haiti, 30 agosto 2023. (Photo by Richard PIERRIN / AFP)

Un rapporto Onu spiega come si alimenta la crisi haitiana

Il «pane» della guerra

Un interessante rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite su droghe e crimine (Unodc), «Haiti’s criminal markets: mapping trends in firearms and drug trafficking», uscito nel 2023 aiuta a decifrare alcune cause della crisi haitiana.

Attualmente nel Paese ci sarebbero tra le 150 e le 200 gang, bande criminali, profondamente legate alle élite politiche ed economiche. Da fine anni Ottanta Haiti è un punto di snodo fondamentale del traffico di droga dai paesi produttori (Colombia per la cocaina e Giamaica per la cannabis) ai mercati di Usa e Canada, ma anche Europa. Negli ultimi anni si è intensificato il commercio illegale di armi da fuoco e munizioni, prevalentemente dagli Stati Uniti verso Haiti.

I due traffici incrociati spiegano lo sviluppo di uno «Stato criminale» ad Haiti.

I fattori ambientali

Secondo il rapporto Unodc, alcuni fattori hanno favorito i due traffici.

Una frontiera vasta e poco controllata: 1.771 km di coste e 392 km di frontiera terrestre con la Repubblica Dominicana. Un grande numero di porti e moli privati, strade e piste di atterraggio clandestine rendono il paese estremamente accessibile al contrabbando di ogni genere di merce.

La dipendenza del Paese dall’import implica un grande flusso di merci in arrivo. Per fare un esempio, nel campo alimentare Haiti potrebbe produrre tutto il riso necessario, ma a causa di politiche economiche e doganali che hanno sfavorito i produttori haitiani, oggi circa l’80% del riso è importato. Merci (legali) che sono prima smistate in altri porti nelle vicinanze (Bahamas, Giamaica, Panama) e poi sono portate ad Haiti su battelli più piccoli.

In aggiunta l’elevato grado di corruzione, a tutti i livelli, fa di Haiti uno dei paesi più corrotti al mondo.

Inoltre, le principali strade del Paese, da Nord a Sud, dalla Repubblica dominicana verso Port-au-Prince, sono oggi controllate dalle gang, che hanno in mano tutti i punti di accesso alla capitale.

Secondo il rapporto Unodc, a causa della scarsità dei controlli e la frammentazione, è facile inserire grossi volumi di droga e di armi e munizioni nel normale flusso di merci.

Armi e munizioni

Una stima del 2020 della Commissione nazionale per il disarmo, smobilitazione e reintegrazione parlava di 500mila armi leggere presenti nel Paese, di cui solo una piccola parte sarebbe detenuta legalmente (10-15%).

La maggioranza di queste armi sono importate illegalmente, tramite reti della diaspora haitiana e intermediari, in container che giungono via mare, via aerea o via terra, nascoste in camion e auto individuali attraverso la frontiera terrestre. Sono spesso mischiate a cibo, come fagioli, farina o riso. Le armi partono dalla Florida, passano da altri porti caraibici come Kingston (Giamaica) e ovviamente dalla Repubblica dominicana. Altre sono le armi e munizioni importate legalmente (come quelle fornite da Usa e Canada a supporto della polizia haitiana) ma poi deviate e immesse in circolazione sul mercato clandestino, grazie alla mancanza di controllo e alla corruzione.

Clamoroso è l’aumento del prezzo di un’arma che raggiunge il suolo haitiano: una pistola da 500 dollari può essere rivenduta ad Haiti a 10mila (venti volte il costo negli Usa). Fucili mitragliatori da guerra, molto richiesti dalle gang, raggiungono prezzi maggiori.

Questo ci fa capire quanto sia redditizio il traffico di armi e munizioni verso Haiti, e immaginare la vastità della rete di intermediari che può alimentare. Secondo il rapporto Unodc, in Florida esistono veri punti di concentrazione di armi recuperate sul territorio statunitense, che poi sono nascoste tra altra mercanzia e dirette verso Haiti.

Le autorità della Florida hanno osservato un incremento dal 2021 al 2022 del numero di armi che transitano illegalmente per raggiungere Haiti ma anche un aumento del loro livello di sofisticazione.

Un altro aspetto fondamentale è quello delle munizioni, che garantiscono l’utilizzo delle armi, dalle pistole ai fucili d’assalto, e quindi alimento al potere alla gang. Il rapporto Unodc cita alcuni sequestri: nel luglio del 2022, di 120mila cartuccere in un caso singolo e di 25mila caricatori in un altro.

Droga

Mentre per le armi e munizioni Haiti è un paese di destinazione, per la droga, in particolare cocaina e cannabis, si tratto di un paese di transito. In alcuni casi la droga diventa merce di scambio tra gruppi criminali e per acquistare armi.

La storia di Haiti è stata influenzata da questo traffico fino dalla cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, e l’avvento di governi militari. Da allora influenti politici e uomini d’affari, membri delle oligarchie haitiane, sono stati coinvolti nel traffico.

La cocaina prodotta in Colombia, arriva direttamente o attraverso altri paesi, come il Venezuela. Viene mischiata ad altre merci nei container o lanciata in mare nei pressi della costa in pacchi localizzabili con Gps, che sono poi raccolti da piccole imbarcazioni e portate a riva. Da qui passano via terra in Repubblica dominicana, oppure su altri mezzi per la Florida, le Bahamas o verso altre isole come Turks and Caicos.

L’assenza di un effettivo controllo delle coste (il corpo di guardacoste ha un solo battello funzionante, così anche il gruppo haitiano antidroga) e la mancanza di equipaggiamento tecnico, come gli scanner, da parte degli uffici della dogana, favoriscono il traffico. L’aumento di produzione di cocaina in Colombia e il maggiore controllo del territorio da parte delle gang sono altri fattori che hanno incrementato il transito attraverso Haiti.

L’anello debole

La Polizia nazionale haitiana (Pnh) è il punto debole della catena, nonostante abbia beneficiato di programmi di rinforzo da almeno tre decenni. Una valutazione della Binuh (Ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti), ha recensito 13mila effettivi, di cui circa 9mila in servizio (fine 2022). Da confrontare con il personale delle compagnie di sicurezza private (circa un centinaio), stimato tra le 75 e le 90mila unità.

È dunque chiaro che occorre rinforzare l’apparato della polizia haitiana, il controllo delle frontiere, il personale di guardacoste e della dogana, oltre che fornire loro mezzi adeguati e moderni per lavorare.

Un intervento necessario per riportare sicurezza e stabilità ad Haiti, continua il rapporto Unodc, è il controllo del traffico di armi e di quello della droga. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oltre ad avere espresso preoccupazione per questi aspetti, ha evidenziato l’importanza di smantellare i collegamenti tra gli attori politici ed economici del Paese e le gang. Per questo motivo ha emanato alcune sanzioni a individui (noti uomini politici e membri dell’oligarchia haitiana), come il congelamento dei beni e il divieto di viaggio (risoluzione 2653/2022), e una risoluzione di embrago su armi e munizioni (2645/2022). Ma non sembrano avere dato frutti.

Ma.Bel.

(Photo by Clarens SIFFROY / AFP)

 




Colombia. Al cuore dei poveri


In America Latina dal 1971, padre Ezio Roattino ha speso la sua vita tra i poveri e gli indigeni. In particolare in Colombia ha vissuto a fianco del popolo Nasa, imparandone la lingua, la cultura e la storia, inculturando il Vangelo.

Padre Ezio Roattino era un uomo di parte: le sue scelte, che viveva con perseveranza e responsabilità, gli hanno procurato non pochi conflitti che cercava sempre di risolvere appellandosi alla carità e alla misericordia, ma senza mai fare un passo indietro.

Alcuni indigeni che non sapevano pronunciare bene il suo nome a causa della zeta, invece di Ezio, dicevano «ecio», o direttamente «necio», che significa, fra le altre cose, testardo.

Forse, proprio per la chiarezza e consistenza delle sue convinzioni, un po’ necio in effetti lo era, ma sempre «ad maiorem Dei gloriam», come avrebbe detto Giuseppe Allamano – il fondatore della famiglia missionaria alla quale lui apparteneva -, o per il «servizio del Regno», che è lo stesso in termini più evangelici e un po’ più latinoamericani.

Perché di una cosa possiamo essere certi, l’America Latina e, in particolare, quella indigena, si era impossessata di lui, che l’ha amata fino all’ultimo dei suoi giorni, il 4 aprile 2024, quando aveva 87 anni e viveva in Italia da due anni, dove era dovuto tornare per accompagnare l’ultimo viaggio di sua sorella.

In una Chiesa missionaria

Clebrazione del “funerale” di padre Antonio Bonanomi a Toribio

Quando aveva già superato i trent’anni e cominciava a essere forse un po’ stagionato per le piazze rivoluzionarie del ’68 – era prete da quattro anni ai tempi del maggio francese -, padre Ezio ha vissuto in prima persona proprio a Roma le novità e le speranze dei primi anni subito dopo il Concilio Vaticano II, e anche l’impegno che i Missionari della Consolata hanno profuso nel capitolo straordinario del 1969 per «aggiornare» l’istituto secondo i criteri del Concilio e del suo documento Ad Gentes che metteva in prima linea lo sforzo missionario della Chiesa.

Poveri e indigeni, primo e unico amore

In America latina, dove è arrivato per la prima volta nel 1971, all’età di 35 anni, Ezio ha imparato a vivere la sua «opción por los pobres» (opzione per i poveri) e l’ha fatto in un luogo particolarmente iconico in questo senso, la favela «Morro dos telegrafos» (familiarmente «Telegrafo») a Rio de Janeiro, a pochi passi dal grande stadio del Maracaná, in un contesto di povertà, violenza e ingiustizia. Lì è andato ad abitare, soffrendo non poche penalità, ricorda il suo confratello padre Claudio Fattor, ma fedele alle sue scelte di vita.

Da allora, quello che è stato il suo primo e forse unico amore, l’America povera e, un po’ più tardi, anche quella indigena, non l’ha abbandonato mai, nonostante lui, obbedendo agli ordini dei superiori, qualche volta abbia dovuto allontanarsi da essa per brevi periodi.

Guadalupe di secondo nome

Perché padre Ezio aveva come secondo nome Guadalupe? Nel suo certificato di battesimo c’era scritto Maria, solo che Maria, in America Latina, soprattutto per il mondo indigeno, si dice Guadalupe, in riferimento alla Vergine del famoso santuario di Città del Messico.

Lui ai piedi della guadalupana ha pregato e ci è stato in diverse occasioni. La prodigiosa immagine, secondo la tradizione, si era impressa nel 1531 sulla «tilma», il mantello, di Juan Diego Cuauhtlatoatzin, indigeno convertito al cattolicesimo, mentre stava sul Monte Tepeyac. Padre Ezio l’aveva studiata nei dettagli: le fattezze indie della Madonna, il suo vestito da nobildonna, la sua gravidanza intrisa di Vangelo, l’insuperabile saggio di inculturazione del Nican Mopohua, la narrazione degli eventi del Tepeyac in lingua náhuatl, facevano parte della sua quotidianità.

Dal Brasile alla Colombia

La povertà e le sfide sociali del Telegrafo per padre Ezio non sono state altro che il punto di partenza di un viaggio che, in diversi modi, l’ha portato lontano.

Forse ci sarebbero state buone ragioni per spendere la sua vita per la gente di quella favela di Rio de Janeiro: ancora oggi, infatti, essa continua a essere una zona franca, dominata dal narcotraffico e dalla piccola criminalità, dove la polizia entra solo se in forze e bene armata.

Eppure, padre Ezio ha ripreso il suo cammino missionario ed è sbarcato nella Colombia di fine anni Settanta, di nuovo in mezzo ai poveri, ma questa volta in una zona rurale, non più in una grande città come era Rio, prima fra i campesinos, i contadini, e poi fra gli indigeni.

La sua storia, il suo impegno, forse alcune circostanze un po’ misteriose o perfino provvidenziali, gli hanno aperto gli occhi sugli ultimi degli ultimi, i più poveri di tutti: i popoli autoctoni, quelli che, in cinque secoli, hanno pagato uno dei prezzi più alti della colonizzazione europea che ha fatto pochi ricchi e tante vittime.

Da padroni del continente, i popoli nativi delle Americhe in poche generazioni sono diventati gli ultimi, e ancora oggi stanno al margine della vita, della cultura e della storia dei loro paesi. Proprio loro che sono portatori di una vita, una cultura e una storia millenaria, la più antica del «continente nuovo».

Padre Alvaro Ulcué Chocué e la causa degli indigeni

Padre Ezio si è buttato a capofitto in questa sfida così squisitamente missionaria, e nel suo nome da allora è apparsa la parola «pal» che, nella lingua nasa yuwe, quella parlata dagli indigeni presso i quali sarebbe andato, significa «padre».

L’ha presa in prestito dal padre Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote indigeno colombiano che si firmava «Nasa pal», «padre Nasa», il nome della sua etnia nella lingua della comunità nella quale era nato, alla quale apparteneva e per la quale si era fatto ordinare sacerdote.

Padre Álvaro era originario del Nord del Cauca, la regione con la popolazione indigena più grande del Paese. Qui, per la prima volta in America Latina, gli indigeni avevano cominciato a organizzarsi politicamente, anche grazie al lavoro dello stesso padre Álvaro che aveva fondato, assieme alle suore di madre Laura, il «progetto Nasa».

Padre Álvaro ha finito per pagare con la vita il suo impegno: è stato assassinato il 10 novembre 1984. Padre Ezio Roattino era stato uno degli ultimi che lo avevano visto vivo.

Nei primi giorni di novembre lo aveva accompagnato nelle due parrocchie di Toribío e Tacueyó, dove padre Álvaro era parroco, per aiutarlo nelle celebrazioni dei defunti, importanti per la cultura indigena. Poi, la sera prima dell’omicidio, Álvaro aveva accompagnato padre Ezio in macchina fino al bus che l’avrebbe riportato a Bogotá. Quando Ezio è arrivato nella capitale, la notizia della morte dell’amico l’aveva preceduto: era stato freddato al mattino da vari colpi di pistola sulla porta di un convento di suore che lui era solito frequentare, sulla via panamericana che da Santander del Quilichao va verso Popayán.

Tomba di p Alvaro Ulcue.

Padre Ezio, quasi senza dire parola, ha ripreso il bus, ha fatto a ritroso le quasi dieci ore di viaggio ed è tornato nel Cauca.

Da quel momento la sua vita e, in parte, anche quella dei Missionari della Consolata in Colombia, hanno preso una piega nuova.

Padre Rinaldo Cogliati, allora al seminario teologico di Bogotá, ricorda quell’episodio in questi termini: «Padre Ezio aveva finito il suo mandato come superiore regionale un paio di mesi prima e, saputo dell’assassinio del padre Álvaro, aveva telefonato al seminario teologico e ci aveva chiesto di essere noi coloro che raccoglievano la sua bandiera. Fu così che aprimmo immediatamente a Toribío, anche se poi la parte burocratica ci ha visto presenti ufficialmente solo a partire dal 2 febbraio 1985, poco meno di tre mesi dopo la morte di padre Álvaro».

Imparando la lingua nasa

Appena ha potuto, anche padre Ezio si è aggiunto al progetto di evangelizzazione che aveva al centro l’annuncio della Buona notizia del Vangelo alle comunità autoctone che di notizie buone avevano drammaticamente bisogno dopo secoli di abbandono e schiavitù.

Padre Rinaldo ricorda questo periodo, che probabilmente è stato la tappa più fruttuosa e prolungata dell’impegno missionario di padre Ezio: «Io ho vissuto in missione con l’équipe nella zona di Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono con padre Ezio dall’anno 1989 fino al 2007. Sono stati anni di molto dialogo, di tante difficoltà e anche di frequenti “liti” liturgiche. Uno dei nostri temi fondamentali era l’inculturazione del Vangelo, e siccome padre Ezio si era impegnato a studiare la lingua nasa, che alla fine aveva imparato benissimo, era lui che si era preso la briga di sedersi con pazienza assieme agli anziani, i veri capi spirituali degli indigeni, per capire il loro modo di vedere, e trovare insieme vie che fossero comprensibili e trasparenti per dire e annunciare in quel mondo indigeno che ci aveva accolti con tanta simpatia e generosità».

Anch’io, che a Toribío ho trascorso qualche anno, ricordo con simpatia, ad esempio, la seduta di mezz’ora con il più indigeno dei nostri catechisti, di nome Serafín, per stabilire come si dovesse tradurre in nasa yuwe il titolo del manuale dei catechisti che era «Camminiamo assieme». Mezz’ora per tradurre due parole.

Con il senno di poi, oggi so che non si trattava di due semplici parole, ma di una immersione profonda nel significato di «cammino» e di «assieme» che nella cosmovisione comunitaria degli indigeni avevano una valenza tutta particolare.

Poi c’è stato anche spazio per un «cafesito» («caffettino») e un «pancito» («panino»): i segni della giusta accoglienza nella casa dell’équipe che era e voleva essere anche la casa degli indigeni, come lo era dai tempi di padre Álvaro. Gli ultimi anni a Toribío, padre Ezio li ha dedicati alla traduzione del Vangelo nella lingua nasa yuwe, benché credo non sia andato molto più in là di quello di Marco.

La sua è stata, quindi, una vita dedicata a costruire spazi, pensiero, progetti, sogni, attività nelle quali la comunità Nasa si sentisse a casa e parte degna di quella comunità ancora più grande che chiamiamo Chiesa.

Asse delle ruote di un pullmino caduto sulal missione dopo l’attentato alla caserma delle polizia di Toribio. Ora è diventato un “monumento” contro la violenza nel cortile della missione

La violenza della guerra

Mentre padre Ezio, i missionari, i catechisti, le autorità indigene costruivano, e lo facevano con pazienza e amore, tutt’attorno c’era chi distruggeva. Il Nord del Cauca era, e in parte continua a essere, uno degli spazi più significativi di frizione e scontro fra Stato e ribelli nell’interminabile guerra civile colombiana farcita di narcotraffico. E anche con i violenti e con la guerra padre Ezio ha avuto molto a che fare.

Padre Rinaldo lo ricorda in questo modo: «Nel 2005, una mattina siamo in chiesa con gli animatori delle comunità, e comincia una sparatoria. Noi, pensando che sia una delle solite scaramucce armate, continuiamo la nostra preghiera. Alla fine entra un guerrigliero in chiesa, armato fino ai denti, e dice che abbiamo cinque minuti per scappare. Noi corriamo subito via e, appena usciti, un ordigno rudimentale cade nei pressi della casa parrocchiale e frantuma tutti i vetri. Il padre Ezio sale in macchina e comincia a evacuare le persone. Fuori dal finestrino la stola bianca indica il fine umanitario di tutto quell’andirivieni».

Oggi il cortile della casa parrocchiale è un museo, in buona parte voluto dal padre Ezio, che racconta e ricorda i fatti violenti che si sono scatenati attorno a esso. Nel corridoio laterale si trova l’asse di un pulmino carico di esplosivo che la guerriglia aveva scaraventato contro la caserma della polizia. L’esplosione era stata così violenta che il veicolo si era disintegrato facendo volare in aria quel notevole pezzo di metallo che era arrivato fino al cortile della parrocchia distruggendo una blocco di bagni. Per fortuna, in quel momento, non c’era nessuno. Attorno a questo «monumento» ci sono, scritti su sassi, i nomi di coloro che hanno perso la vita in quell’attacco.

Verso la «Tierra sin males»

La memoria per padre Ezio era importante. Non che lui avesse particolari doti artistiche, ma nella chiesa di Toribío si conserva una cappella laterale – che, in modo giocoso, noi avevamo chiamato «Roattina», per l’assonanza con la cappella Sistina – nella quale è dipinta la storia del popolo Nasa, con i personaggi centrali della sua emancipazione, padre Álvaro fra di loro. Egli mostra la mano, che è la prima rappresentazione del progetto Nasa, con le cinque dita a indicare i cinque progetti originali. Il primo è l’evangelizzazione indicata dal pollice, poi l’educazione, la salute, la famiglia/casa e lo sviluppo con progetti produttivi. Le altre immagini rappresentano la conquista, i grandi vescovi difensori degli indios, e la violenza che continua fino a oggi. Al centro, con il tabernacolo, «La tierra sin males», la terra senza mali.

Non l’ha dipinta padre Ezio, ma lui l’ha ideata, l’ha progettata fin nei minimi dettagli, poi si è procurato un giovane particolarmente dotato, e questi ha realizzato l’opera.

Un bellissimo murale sopravvissuto a più di un bombardamento.

Potremmo forse dire che è l’immagine plastica, la sintesi del sogno cristiano e umano di padre Ezio, anche lui oggi nella «tierra sin males», uno specchio del suo amore e della sua attenzione alla storia e alle storie di queste comunità etniche, ai loro «primi testamenti», come amava dire. Anche in questi Dio si è manifestato come aveva fatto nel primo testamento della storia del popolo ebraico.

Dall’alto di questa terra fiorita, lussureggiante e bella, «sin males» appunto, ancora oggi lui ci benedice e ci invita a camminare.

Gianantonio Sozzi

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”

Dipinto nella cappella del Santissimo della chiesa di Toribio, detta familiarmente “la Roattina”


Gli indigeni nasa: «Ti ricorderemo sempre»

San Lorenzo de Caldono, 4 aprile 2024

Clebrazione del “funerale” di padre Antonio Bonanomi a Toribio

La comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab, si rammarica profondamente per la scomparsa del nostro fratello e missionario Ezio Guadalupe Roattino, che ha prestato servizio nella parrocchia di San Lorenzo de Caldono e ha lasciato in noi un segno indimenticabile.

È stato un sacerdote integerrimo che ha dimostrato il suo amore incondizionato per i più umili, difensore dei diritti delle persone più bisognose.

Durante la sua permanenza come missionario nel comune di Caldono Cauca, ha viaggiato in ogni angolo dei territori indigeni, ha imparato a parlare la lingua nasa yuwe e ha celebrato cerimonie religiose in lingua nasa. Si è sempre contraddistinto per la sua umiltà e il suo servizio agli altri.

Ora si è riunito al fratello Álvaro Ulcué Chocué Nasa Pal, con il quale aveva una bella amicizia e con il quale ha condiviso la vita sacerdotale nelle parrocchie del Cauca.

Dalla Riserva indigena di San Lorenzo de Caldono, Dipartimento di Cauca, Colombia, inviamo le nostre condoglianze alla sua famiglia in Italia e a tutta la comunità dei Missionari della Consolata.

Che possa tornare nel seno della Madre Terra. Invochiamo pace sulla sua tomba.
Ti ricorderemo sempre, Pal Ezio Guadalupe Roattino.

Comunità Nasa del territorio UsWal Nasa Cxhab
Territorio ancestrale del popolo Nasa «sa’tama kiwe» resguardo indigeno San Lorenzo de Caldono


Toribío, Cauca, 5 aprile 2024

Cari familiari e amici di padre Ezio Roattino.
È con grande dolore e profonda commozione che vi scriviamo per condividere i nostri sentimenti per la morte di padre Ezio, pilastro fondamentale della nostra comunità toribiana e fonte d’ispirazione per tutti noi.

Padre Ezio era un esempio vivente di amore, compassione e dedizione alla nostra comunità.

La sua instancabile dedizione al servizio degli altri e il suo profondo impegno nei confronti dei principi della nostra fede hanno lasciato un segno indelebile nei nostri cuori e nelle nostre vite.

In questo momento di dolore e tristezza, ci riuniamo come comunità per sostenerci reciprocamente. Ricordiamo con affetto i momenti condivisi con padre Ezio e celebriamo la sua vita esemplare, la sua saggezza e il suo amore infinito per tutti noi, la famiglia che lo ha accolto tre decenni fa e, come disse padre Ezio: «Questo anello sulla mia mano sinistra dimostra che mi sono sposato. Mi sono sposato con una causa e quella causa sono gli indigeni colombiani».

Toribío sarà sempre un popolo grato per la benedizione di avere avuto un fratello maggiore missionario indigeno.

Grato perché padre Ezio ha accompagnato padre Álvaro Ulcué Chocué – fino a quel 10 novembre 1984 in cui lo salutò – nei territori più colpiti dal conflitto nel nostro dipartimento, percorrendoli insieme, a piedi e con la torcia in mano.

Grato perché padre Ezio ha imparato e padroneggiato la nostra lingua, il nasa yuwe, perché ha legato con i nostri anziani, in questa terra che, pur non avendolo visto nascere, lo ha adottato come se fosse stato un figlio del suo grembo.

Grato perché padre Ezio ha innalzato le vostre preghiere nella nostra lingua madre.

Inviamo le nostre più sentite condoglianze alla famiglia e ai cari di padre Ezio, e offriamo le nostre preghiere e i nostri pensieri in questo momento difficile: possiate trovare conforto nei ricordi condivisi e nell’eredità duratura di padre Ezio.

Che Dio e gli spiriti di madre natura ci concedano forza e pace in questo periodo di lutto, e che lo spirito di padre Ezio continui a ispirarci e a guidarci nel nostro cammino spirituale e nella tregua della guerra.

Con profondo amore, gratitudine e solidarietà.

Associazione dei consigli indigeni di Toribío, Tacueyó e San Francisco.

 

La cappella del Santissimo nella chiesa di Toribio

 


Archivio MC




I Contadini di Dio


Giovani mennoniti si riposano dopo una mattinata trascorsa a ripulire un campo dagli arbusti (colonia San Miguel Gruenwald, Conception). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Lontani dalle tentazioni del mondo

Vita quotidiana dei Mennoniti boliviani


Occupano le pianure della Bolivia orientale. Chiusi nelle loro comunità, vivono di agricoltura. Parlano il plautdietsch, una sorta di dialetto tedesco. Sono i mennoniti, una popolazione anabattista che, per obbligo religioso, vive isolata dal resto del mondo. Un nostro collaboratore e un fotografo hanno visitato alcuni villaggi mennoniti e conversato con gli abitanti. Questo è il loro reportage.

San Miguel Gruenwald (Conceptión). Il maestro legge ad alta voce e i bambini – biondi, tutti vestiti uguali, camicia e salopette – ripetono in coro. Le bambine – bionde, tutte vestite uguali, foulard in testa – trascrivono le frasi di un libro. Nella scuola, tra i banchi di legno, la luce del mattino quasi non arriva. Fuori, il sole illumina i campi di mais, i grilli cantano, un calesse trasporta taniche di latte.

San Miguel – 23 famiglie di agricoltori e allevatori, senza acqua corrente né elettricità – è una colonia mennonita nella pianura di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia orientale. È qui che, nel 1954, arrivarono una decina di mennoniti, decisi a mantenere unita la comunità e sfuggire alle tentazioni del mondo. Oggi ce ne sono centomila.

Nella scuola di San Miguel è il momento della pausa. Per prendere il sole sul prato, bambini da una parte, bambine dall’altra. Nella sala in penombra, il maestro mi mostra il libro di testo: una bibbia in caratteri gotici, tradotta in plautdietsch, un tedesco antico con influenze olandesi. La lingua di Menno Simons, anabattista e capostipite mennonita. «La sofferenza è la consolazione del fedele», scriveva nel 1539.

Il maestro è un uomo sui 30 anni dal volto caprino. «E qui disegnano i bambini?», chiedo.

Il maestro rimane muto. «Disegnare, arte, pittura», insisto. Provo a spiegarmi, mi metto a gesticolare. E penso che non avevo mai dovuto cercare le parole per definire «disegnare».

Alla fine, risponde in uno spagnolo singhiozzante con i verbi all’infinito: «No, questo no. Qui solo leggere, scrivere e contare».

Abram e l’Apocalisse

Sono arrivato a San Miguel Gruenwald con Fabiomassimo Antenozio, fotografo che dal 2020 porta avanti un progetto sui mennoniti della provincia di Santa Cruz. La colonia è nata tredici anni fa, quando alcune famiglie mennonite abbandonarono altre colonie.

«Dove stavamo prima, i giovani avevano molte tentazioni, la sera si riunivano per bere, andavano con le donnacce», ci dice Enrique Lowen.

È alto, un po’ ingobbito, magro, radi capelli bianchi gli arrivano alle tempie, lunga barba bianca incolta. Nato in Messico, è arrivato in Bolivia quando aveva 11 anni, oggi ne ha 62 ma ne dimostra dieci in più.

Le case di San Miguel sono tutte simili: un pianterreno con muri di mattoni, tetto di zinco, ampio giardino. Attorno ad alcune si trovano cavalli, galline, alberi da frutto, macchine da lavoro. Le porte non hanno serrature, i cani non hanno collari, il terreno non è recintato.

Abram, il gemello di Enrique, è uno dei due capi della comunità, il più anziano. I due fratelli sono identici anche nell’abbigliamento: salopette, camicia logora e cappello da cowboy.

Ci accoglie nel patio di casa, sistema in cerchio alcune sedie di plastica. Il dialogo è un po’ lento, è difficile trasformarlo in un’intervista, bisogna superare lo scoglio dello spagnolo elementare che parlano i mennoniti e trovare temi comuni.

Abram spiega che nella colonia non hanno il telefono, non gli interessa averlo. Nemmeno per le emergenze.

«Non usiamo la tecnologia».

«Anche il pozzo da cui attingete l’acqua è tecnologia», dico, calandomi nel ruolo dell’inquisitore.

«Ho paura di ciò che non si vede. Il telefono non si vede come funziona, il pozzo sì. Abbiamo le carte d’identità scadute, quelle nuove hanno il chip, non vogliamo usarle. Quando arriverà la bestia, nel giorno dell’Apocalisse, noi saremo indipendenti dalla tecnologia, tu no».

Mi parla con pazienza, senza animosità, come se spiegasse ovvietà a uno un po’ lento di comprensione. Poi apre una Bibbia in spagnolo e indica con il dito una pagina: «La conoscenza è il male. Guarda la prima lettera ai Corinzi 1:18-19: “Distruggerò la sapienza dei saggi e distruggerò l’intelligenza degli intelligenti”».

Ritorna il silenzio.

Mennoniti, tutti vestiti con la salopette, in attesa del pagamento della vendita di un toro (colonia Riva Palacios). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Le donne dei mennoniti

A due case di distanza vivono Abram Klasen, il fabbro, e sua moglie Margaret Enss, che ha lavorato per due anni come assistente in un ospedale di Santa Cruz. Così è diventata farmacista e ostetrica della colonia.

Nel suo studio, una stanza accanto alla casa, c’è un armadio in legno pieno di farmaci: olio di merluzzo, complesso B, paracetamolo, integratori di ferro. Margaret parla a malapena lo spagnolo, capisce un po’ le nostre domande e risponde con poche parole. Prescrive medicine a una donna con il suo bambino in braccio.

Qui le donne non vedono un medico durante la gravidanza. Nessuna fa un’ecografia.

La cena a casa di Enrique viene servita subito dopo il tramonto. Fuori il buio è quasi totale, c’è solo la luce della luna, delle stelle e delle lucciole. A casa, la famiglia si riunisce attorno al tavolo. Nella stanza illuminata dalla lampada a olio si mangiano fagioli, mais, pane integrale, formaggio e maionese del supermercato. Una preghiera silenziosa anticipa il pasto. Dopo cena, le donne puliscono silenziosamente la tavola. Poi tutta la famiglia si riunisce per leggere e chiacchierare. Una delle figlie di Enrique è sordomuta, legge lettere in plautdietsch sul giornale della comunità.

A scuola non si insegna lo spagnolo. Gli uomini lo imparano parlando con i boliviani, serve loro per commerciare. Le donne non hanno quasi contatti al di fuori della colonia. Ma, secondo Enrique, la lingua dovrebbero impararla: «Perché mia moglie non diventi gelosa quando parlo con una donna boliviana».

Bisogna rimanere umili

Affonda nella sedia in legno, sembra avere un peso che lo opprime: «Il mondo è pieno di male, di tentazioni della carne. Un peccato è il desiderio di fare altre cose, di lasciare la colonia. Perché dopo un po’ la Bibbia diventa ripetitiva, le passeggiate per la colonia monotone. Voi avete la televisione e il cellulare, non vi annoiate. Ma non potete vivere senza tecnologia. Qui a volte mi annoio. Questo perché la mia fede è fragile, vorrei che fosse più solida».

Dopo colazione, con una bevanda d’orzo in polvere Nestlé, gli uomini di casa di Enrique legano tre cavalli attorno a una ruota. Il movimento circolare degli animali aziona un meccanismo la cui energia alimenta la lavatrice e il mulino per cereali, ai quali lavorano le donne. San Miguel è una delle colonie più conservatrici, rifiuta non solo la tecnologia, ma anche il diesel, i conti bancari, i prestiti con interesse.

«So che pensate che tutto questo sia una follia, ma noi vogliamo rimanere umili. Dio avrà misericordia degli umili», ci dice Enrique, mentre il figlio scaccia i pappagalli verdi che mangiano il mais, spaventandoli con la fionda, «slang» in plautdietsch.

Nella scuola di San Miguel

Al mattino, torniamo nella chiesa che funge anche da scuola. Biondi, magri e silenziosi, sedici bambini e tredici bambine svolgono i loro compiti. Per rispondere alle domande del maestro, aprono il palmo della mano e lo alzano discretamente. Maria, la figlia appena nata dei due maestri (ma la donna rimarrà in silenzio per tutta la durata della nostra visita), dorme in una culla accanto alla lavagna. Il maestro dal volto caprino chiede al mio collega di smettere di scattare foto.

«Disturba i bambini. Mi fa schifo che tu abbia scattato delle foto», dice amareggiato, nel suo spagnolo stentato.

Ci scusiamo. Risponde scusandosi a sua volta.

Gli edifici di San Miguel – case, chiesa, segheria, officine, caseificio, latrine – si ergono su entrambi i lati di una strada sterrata che percorriamo con la nostra jeep. Di tanto in tanto, dobbiamo accostarla per far passare i carri trainati dai cavalli. Quello condotto da un anziano si accosta al finestrino della jeep. L’uomo ha un dolore al ginocchio, dovrebbe operarsi.

«Non lo farò, devo resistere ancora un po’, sono vecchio. E come va la guerra? Il tuo paese è con la Russia o l’Ucraina?».

Abram Klasen nella sala d’aspetto della moglie Margarita Enns che aiuta le donne mennonite a partorire (colonia San Miguel Gruenwald, Conception). Foto Fabiomassimo Antenozio.

A cena da Cornelius

Cornelius Remar ha ventinove anni, cinque figli e quattordici ettari di terreno. Capelli rossastri, barba rada dello stesso colore, pelle bianca madreperla. È uno dei due capi della colonia San Miguel, il più giovane.

«Ti piace essere il capo?», gli chiedo.

Alza le spalle: «Che ci posso fare? Devo rispettare l’obbligo, la decisione della comunità».

Ci invita a sederci nel patio di casa sua, ci mostra il libro con cui ha imparato lo spagnolo.

«È stato difficile, ma lo parlo. Ai miei figli, di tanto in tanto, dico qualche parola in spagnolo. Lo impareranno quando saranno più grandi.

Noi vendiamo tori vivi ai macelli di Santa Cruz, un animale si vende tra i 1.000 e i 1.500 dollari. Una mucca da carne si vende a circa 500. Ho mucche bianche, mi piace il colore».

Ceniamo con la famiglia di Cornelius, attorno ad un tavolo di legno. I bambini non mangiano con noi e ci guardano incuriositi. Ci sono ciotole di mais, spaghetti integrali, insalata di cetrioli, una bevanda dolce alla frutta e un barattolo di maionese fatta in casa.

«Mio suocero fa la maionese, a casa ha un frullatore», racconta Cornelius con una punta di entusiasmo. È preoccupato perché ha sentito che i «paisanos collas» (indigeni boliviani degli altipiani) stanno occupando la terra dei mennoniti.

«Non possiamo fare niente, ce ne andiamo. Siamo preoccupati per questo e per la Mas (dice “la” Mas riferendosi al Movimento verso il socialismo, partito che domina la politica boliviana dal 2006, ndr). Se entra il comunismo abbiamo paura di perdere i nostri privilegi».

Cornelius è nato in Argentina, i suoi genitori in Messico, i suoi nonni in Canada e i suoi figli in Bolivia. I mennoniti sono sempre stati in movimento. L’idea della persecuzione ce l’hanno piantata nell’inconscio.

In un capanno di fianco a casa, Cornelius aziona la ruota trainata da cavalli per macinare chicchi di mais, sorgo, crusca e soia per nutrire i maiali. Il rumore del mulino sovrasta le voci, bisogna gridare per farsi sentire. Uno dei cavalli ha una ferita in bocca che si allarga con il movimento della briglia e dalla quale esce del pus. Cornelius ha provato a pulirla, hanno chiesto a un veterinario, ma non sono riusciti a curarla.

«Cosa ti piacerebbe per il futuro?».

«Non voglio che progrediamo nella tecnologia ma nello sviluppo spirituale», dice mettendosi la mano destra sul cuore.

Ragazzi mennoniti osservano gli adulti mentre vaccinano alcuni giovani bovini (colonia Riva Palacios). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Martin, salopette e barba da profeta

Martin Brun ci accoglie nel suo giardino, ci sediamo sotto gli alberi da frutto, ci offre acqua e chirimoya (annona). Ha 62 anni, una lunga barba da profeta, il naso aquilino, l’immancabile salopette, il cappello e uno sguardo curioso.

«Ti piacerebbe viaggiare?», chiedo. In verità, più che chiedere cerco una via d’uscita dal ruolo dell’inquisitore. Si sente il canto delle cicale.

Martin guarda gli alberi del giardino.

«Per viaggiare è necessario avere soldi. Viaggio solo se ho qualcosa da fare. Quanti ettari hai nel tuo paese? Il tuo lavoro è scrivere per il giornale? Non capisco come si possa guadagnarsi da vivere solo con il giornalismo». Le notizie volano, penso tra me e me.

Accanto alla casa, il giovane Abram, 17 anni, il figlio più giovane di Martin, ha trasformato un capannone in un magazzino dove vende strumenti da lavoro, collane, grattugie, giochi per bambini, tutto confezionato in buste di plastica con etichette made in China. La produzione cinese ha raggiunto anche la comunità più conservatrice dei mennoniti boliviani.

Il giovane Abram ha un innato senso degli affari e mi convince a comprare un cappello a falde larghe e un barattolo di miele.

Insieme a suo fratello ci chiede di poter usare il nostro telefono per chiamare il loro fratello maggiore, trasferitosi in America Centrale, in Belize. Sognano di poter andare a trovarlo.

«Lì usano le lampade elettriche, uccidono i maiali con la pistola, non usano coltelli».

I due fratelli ci portano su un carro con le ruote di ferro trainato da due cavalli. Con il mio telefono registro un video, gli mostro la macchina fotografica. Con gli adulti non abbiamo usato i nostri dispositivi tecnologici, con i due ragazzi mi sento come se stessi facendo loro assaggiare un frutto proibito.

Con l’aiuto dei cavalli e di un ingegnoso macchinario rudimentale, i figli di Iacob Fresen costruiscono un pozzo (colonia San Miguel Gruenwald, Conception). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Disboscatori implacabili

Raggiungiamo una collina di pietra bianca, ricoperta di alberi e cactus.

«La c’era la tana del leone». Indicano una grotta nella roccia. In realtà, qui non ci sono leoni. Si riferiscono ai giaguari, endemici nel bosque seco chiquitano. I giaguari stanno scomparendo man mano che la foresta si restringe: tra il 1986 e il 2019 è diminuita del 16%, circa 5 milioni di ettari; gli incendi del 2019 hanno distrutto due milioni di ettari. La Bolivia è il terzo paese con il più alto tasso di deforestazione al mondo. Essa si concentra a Santa Cruz, dove la frontiera agricola si espande per sostenere la produzione di soia. Furono proprio i mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana. Oggi ne producono circa il 16% disboscando fino al 90% delle loro aree: è il tasso di deforestazione più alto di qualsiasi altro tipo di produttore nazionale. Ed espandono le loro terre di circa 80mila ettari all’anno. Se la tendenza fosse confermata, potrebbero occupare un terzo della superficie coltivata della provincia di Santa Cruz, come ci ha spiegato Gonzalo Colque, ricercatore della Fundación tierra.

Il sole è brutale, c’è silenzio sulla collina di pietra bianca, tutt’intorno si vede il tetto del Bosque chiquitano. Il giovane Abram si arrampica agilmente su un albero e fa piroette tra i rami.

Abram, 17 anni, che sogna di viaggiare, che sa come vendere agli sconosciuti, che si esercita come un ginnasta professionista, ha il germe della curiosità nel sangue. E ha già capito che c’è un mondo fuori da questo XVI secolo in cui ci siamo incontrati.

Dopo la cena a casa di Martin andiamo a dormire in una costruzione accanto alla casa. Di notte, nel silenzio della campagna, si leva il canto delle tre figlie di Martin, un canto religioso. Fino a quel momento non avevamo sentito le loro voci.

Il giorno dopo Martin ci accompagna nel quartiere vicino, San Cristóbal. Va a trovare un altro figlio, approfitta del passaggio in jeep e ci indica la strada. In mezzo al bosco si apre una radura.

«Qui c’erano le piste d’atterraggio degli aerei del traffico di droga».

Durante il viaggio accidentato in fuoristrada, la conversazione finalmente scorre.

«Deve essere interessante viaggiare per conoscere. I nostri antenati venivano dall’Europa, non credo di poter andare a vederla, l’Europa».

«Festeggiate il Natale, i compleanni, i matrimoni?».

«Non celebriamo la nascita di Cristo ma la sua sofferenza. Figurati se festeggio il mio compleanno».

Cornelio Remar bagna gli ingranaggi della ruota per attivare il suo rudimentale defogliatore per separare il mais (colonia mennonita San Miguel Gruenwald, Conception). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Storia delle donne di Manitoba

Ci spostiamo a Manitoba. Questa colonia mennonita è stata fondata nel 1993, oggi ci vivono 1.794 persone: 340 famiglie divise in quindici campi distribuiti su 22mila ettari. In ogni campo una chiesa e una scuola.

I carri hanno ruote in gomma, per l’elettricità vengono utilizzati generatori diesel. Le strade diritte e non asfaltate, le case spaziose con cancelli di legno, tetti di lamiera, i pascoli curati, i silos dipinti di fresco, ci dicono che ci troviamo in una colonia ricca. I recinti ai giardini e i lucchetti alle porte dicono invece che siamo arrivati nella prima fase del capitalismo, quella che ha bisogno di delimitare perché si possa dire «questo è mio».

Qui, tra il 2005 e il 2009, centocinquanta donne e ragazze denunciarono di essere state vittime di stupro. In un primo momento, la comunità spiegò alle autorità di polizia che che si trattava di «selvaggia fantasia femminile» o, più probabilmente, della punizione del diavolo per alcuni dei loro peccati. Le donne non si arresero e riuscirono a dimostrare la verità: erano state drogate con anestetici per cavalli prima di essere violentate da un gruppo di mennoniti della colonia, parenti delle vittime, zii, fratelli o vicini di casa. Le donne dovettero affrontare uomini violenti, una morale che le costringeva al silenzio, e lo Stato boliviano che non si era mai occupato di far rispettare le leggi all’interno delle colonie. Otto mennoniti di Manitoba sono stati giudicati colpevoli con condanne tra i 12 ei 25 anni di carcere.

Allontanare i «brutti pensieri»

La casa di Don Juan si trova accanto alla sua officina metallurgica, dove vengono prodotti macchinari agricoli, trattori e aratri. Sono pezzi unici realizzati a partire dai suoi disegni. Gli ordini superano la produzione e si deve sempre aspettare un po’ per la consegna.

«Ma bisogna migliorare e lavorare, altrimenti i giovani si perdono in brutti pensieri», racconta Don Juan.

L’uomo ha circa 60 anni e vive con la moglie, le figlie e i nipoti. Le donne di casa indossano abiti a due o tre colori, con sobri decori floreali, non si depilano le gambe e hanno i fianchi larghi.

Quando Fabiomassimo mostra loro le foto che gli aveva scattato nel 2020, la barriera della diffidenza crolla e tutti accorrono in fretta a guardare le stampe. Nella casa ci sono due frigoriferi giganti, nella sala da pranzo tre statue kitsch in ceramica dai colori pastello: un pappagallo, un cane, un’aquila. Da un sacchetto pieno di oggetti sbuca anche un grattaschiena in plastica color salmone.

Un genero di Don Juan gioca con un bambino e il suo trattore in miniatura. A cena la sala si illumina con lanterne elettriche, si mangiano hamburger con salse, zuppa di pasta e gelatina per dessert.

Rispetto a San Miguel, nella colonia di Manitoba aumenta la tecnologia, la ricchezza e le recinzioni che la proteggono. E anche la varietà della cucina, dell’abbigliamento e dei sorrisi tra genitori e figli sono maggiori.

Pesticidi e tumori

Anita, sei anni, siede sulle ginocchia del nonno, Don Juan. «Anita lava la tina» (la vasca, in spagnolo) scrive il nonno e la invita a leggerlo al contrario. Anita vive con i nonni perché i suoi genitori sono all’ospedale oncologico di Santa Cruz per assistere sua sorella Eva, malata di leucemia.

Tra i mennoniti si registra un aumento dei tumori, in particolare dei tumori alla pelle e alle vie respiratorie, che sembra legato all’uso di prodotti agrochimici, anche se non esistono ancora prove scientifiche che lo dimostrino, chiarisce Gonzalo Colque, il ricercatore della Fundación Tierra.

Ciò che sembra certo è che i mennoniti non hanno chiari i rischi associati all’uso di prodotti agrochimici, che di solito applicano senza utilizzare protezioni.

«Portatemi al negozio di veleni», ci chiede Don Juan, indicando la nostra jeep. Il magazzino è un grande edificio recintato, con muri di mattoni rossi. Ci sono tonnellate di prodotti chimici per l’agricoltura, sementi geneticamente modificate, macchinari agricoli. Tutto importato. Sul muro di mattoni, un gancio per cavallo.

A Manitoba la modernità dell’agroexport di Santa Cruz convive con il desiderio dei mennoniti di vivere isolati dal mondo.

Juan Von e Jacob disboscano un terreno per ricavare travetti da alberi ciquitani (colonia mennonita Taibò, Santa Rosa, Chiquitania); il tasso di deforestazione provocato dai mennoniti è molto alto, arrivando a disboscare fino al 90% delle aree di insediamento. Foto Fabiomassimo Antenozio.

Jacob, la fede senza rinunce e tristezza

Se la colonia San Miguel rappresenta il tentativo radicale di replicare lo stile di vita di Menno Simons del XVI secolo, la colonia Nuevo Horizonte, dove arriviamo, è l’estremo opposto: 4.400 ettari, 60 famiglie, 300 persone, le strade sterrate hanno le rotonde, i cartelli indicano viale Menno e via Lutero, ci sono cartelli stradali e una pubblicità della Coca-Cola. I mennoniti vestono con jeans e camicia, nessuno indossa cappello di paglia o salopette e si spostano in automobile. Se non ce lo avessero detto, ci sarebbe sembrato di arrivare in una colonia agricola di europei biondi. Nell’emporio della colonia una telecamera punta verso la porta principale e un cartello avverte «Non masticare coca», la foglia della pianta che molti boliviani lasciano macerare in bocca. Jacob Peter, 37 anni, ci accoglie nel suo ufficio al primo piano del magazzino, seduto dietro un computer.

«La Bibbia ci insegna che abbiamo la libertà in Gesù Cristo, non ci dice come dobbiamo essere. Questa colonia è nata con l’idea di fare qualcosa di diverso. Viviamo una vita centrata sulla fede, non sulla rinuncia. Rispetto agli altri mennoniti, abbiamo anche un modo diverso di lavorare, abbiamo fondato un’associazione dotata di personalità giuridica. Guardiamo al futuro, vogliamo che i nostri figli studino per progredire. Vogliamo essere un esempio per gli altri mennoniti, per mostrare loro che è possibile vivere una vita non così sacrificata, che la tecnologia facilita il lavoro, che non è obbligatorio essere tristi. Ho tre figli, le famiglie qui da noi hanno meno figli che nelle colonie tradizionali, dove ce ne sono anche quindici per famiglia».

Jacob ha vissuto fino all’età di 27 anni nella colonia Las Brechas. A 14 anni aveva cominciato a bere, lo faceva di nascosto e aveva continuato fino a diventare alcolizzato. Poi era andato in un centro di riabilitazione.

«È lì ho che incontrato davvero Gesù e la mia vita è cambiata. Quando sono tornato nella colonia Las Brechas ho cercato di spiegare al pastore cosa mi era successo ma non riusciva a capire. Una domenica sono stato espulso dalla chiesa e il lunedì successivo nessun paziente si è presentato nel mio studio di dentista. Mi hanno isolato. Ecco perché sono venuto qui».

Ci porta a fare un giro per Nuevo Horizonte con la sua 4×4. «Qui la terra costa 1.600 dollari per ettaro. Nella zona urbana della colonia, non viene coltivata la soia né è consentito l’allevamento del bestiame».

Nell’abitato spiccano la scuola chiesa, alcune case e qualche silos, ma se non fosse per l’indicazione di Jacob, la differenza con il resto della colonia non si noterebbe. L’auto rallenta a un incrocio: «Ci sono già stati due incidenti stradali qui». Tra me e me penso: chissà come sarebbe una rissa stradale tra mennoniti.

Bambini e bambine tra i banchi di legno della scuola di San Miguel; attraverso la Bibbia imparano a leggere e a scrivere in plautdietsch e a fare qualche operazione matematica basilare; durante l’intervallo, prendono il solo sull’erba, i maschi da una parte e le femmine dall’altra. Foto Fabiomassimo Antenozio.

Una scuola diversa

Superiamo incolumi l’incrocio e parcheggiamo davanti ad un edificio moderno con il tetto di lamiera. «Questa è la scuola. Abbiamo insegnanti di spagnolo, tra i docenti ci sono sei mennoniti e un tedesco. Le lezioni sono in spagnolo e tedesco, non in plauditesch. Si insegnano matematica, scienze naturali e musica, si studia dai cinque ai 18 anni. I miei figli devono avere la possibilità di studiare, di essere architetti, ingegneri o medici, qualunque cosa vogliano. Immaginiamo che debbano studiare all’università a Santa Cruz, vivendo in una casa con altri mennoniti, per proteggersi dai pericoli del mondo».

Ci mostra il libro di scienze naturali Las meravillas del mundo sostenido por Dios (Le meraviglie del mondo sostenuto da Dio) di Vara y Cayado, una casa editrice religiosa con sede negli Stati Uniti che distribuisce «testi scolastici con un approccio cristocentrico». Nel corridoio c’è una mappa della Bolivia: è la prima che vediamo nelle colonie che abbiamo visitato.

Accanto alla scuola chiesa ci sono un campo da calcio e due da pallavolo. «La domenica ci incontriamo qui dopo la messa, le donne cucinano, facciamo sport e musica. Qui c’è un matrimonio misto, un mennonita con una donna boliviana, hanno già dei figli. Non vedo i matrimoni misti come una cosa negativa, ma penso che la vita di una coppia con culture così lontane sia difficile», dice Jacob.

Se i figli di Jacob diventeranno medici e andranno a lavorare in città, se la comunità si aprirà al matrimonio misto, cosa accadrà ai mennoniti di Santa Cruz tra tre generazioni? «Solo l’isolamento garantisce di mantenere intatta l’identità, come sanno i pastori che vietano l’insegnamento dello spagnolo e autorizzano solo la lettura della Bibbia».

Pedro, il farmacista

Las Brechas costituiscono un gruppo di colonie nate alla fine degli anni Sessanta fondate da mennoniti provenienti dal Messico. Usano generatori diesel, ma non usano pneumatici.

Quando vai a Las Brechas ti chiedono: che numero? Andiamo a Las Brechas 8 per incontrare Pedro Peter, un uomo sulla settantina, padre di Jacob di Nuevo Horizonte.

Pedro è il farmacista (ma anche dentista) della colonia. Ci riceve nel suo studio, al quale si accede attraverso la sala di un emporio che vende tele monocrome, attrezzi agricoli e saponi. Al centro del suo ufficio si trovano una sedia con poggiatesta che usa per le visite e due scrivanie. Negli armadietti c’è una confezione di Viagra, integratori alimentari, un ossimetro, un cubo di Rubik. «Lo risolvo in meno di tre minuti», dice con un sorriso soddisfatto.

Ci sono pile di libri, riviste, giornali ingialliti. Ci mostra alcuni titoli: «Perché gli uomini hanno i capezzoli?», «Il diritto alla sessualità maschile» (sottotitolo: «Cosa fare quando senti di perdere la capacità sessuale?»); «Abbi cura di te. I risultati sorprendenti della nutrizione orto molecolare».

Su una lavagna, una frase in tedesco: «Una vita senza amore è una tavola apparecchiata con i piatti vuoti».

«Ho imparato lo spagnolo da solo quando avevo 12 anni. Leggevo i fumetti di Condorito, mio padre aveva dei libri a casa e da bambino leggevo come un matto, mi isolavo per leggere. A volte leggo romanzi, ma soprattutto libri di medicina. Leggo in tedesco, spagnolo, un po’ di portoghese e libri di medicina in inglese. Sono sempre tentato nel comprare libri. Quando ne vedo uno sul pensiero positivo non posso resistere. Ho due enciclopedie che utilizzo per parole che non conosco.

I mennoniti non sono interessati alla lettura. Non sono incoraggiati a scuola. Insegnano loro solo a lavorare e a pregare». Lo dice come se parlasse di una comunità alla quale non appartiene.

«I pastori decidono cosa viene insegnato a scuola. E gli insegnanti insegnano ciò che hanno imparato, nel modo in cui è stato loro insegnato. Non sanno nient’altro.

Dovrebbero insegnare lo spagnolo a scuola, anche alle donne. Nel mio studio, alle donne che vengono in gravidanza, dico “andate dal ginecologo, fatevi controllare”. Mi piace il modello della colonia di mio figlio, Nuevo Horizonte. Ma qui a Las Brechas non posso dirlo. Guarda, questo è il mio diario. Scrivo gli avvenimenti principali di ogni giornata. Guarda qui – dice Pedro rivolgendosi a Fabiomassimo -, ho scritto che sei già venuto a trovarmi nel 2020».

«Ti senti più boliviano o più mennonita?», chiedo.

«Mi sento boliviano e mennonita, entrambe le cose. Prima ci riconosciamo come mennoniti e solo successivamente come mennoniti del Paraguay o del Messico».

«Che posto nel mondo ti piacerebbe visitare?».

Silenzio. È un silenzio fruttuoso, Pedro chiude le labbra per pensare alla risposta.

«Le cascate! Vorrei andare a Iguazú. Ma non ho tempo, ho molti pazienti qui. E devo prendermi cura di mia moglie che è malata».

Donne nella sala d’aspetto di una clinica mennonita (colonia Riva Palacios); le donne mennonite partoriscono in media tra i 7 e i 12 figli senza effettuare controlli ed ecografie. Foto Fabiomassimo Antenozio.

Juan: «Il mondo è pericoloso»

A Las Brechas ci hanno detto che vive un mennonita che ha lavorato per un decennio come guida, accompagnando altri mennoniti in un viaggio di duemila chilometri fino a un ospedale oncologico a San Paolo, in Brasile, che offriva cure a un prezzo inferiore rispetto alla Bolivia. Juan Hildebrand ci accoglie nel patio di casa sua, affacciato su un giardino con carrubi e galline che razzolano tranquillamente.

«Non era un buon lavoro. Troppo tempo lontano dalla famiglia. Non ho insegnato il portoghese ai miei figli, non voglio che facciano il mio stesso mestiere».

Juan però guadagnava abbastanza per non coltivare la terra. Lavorava molto, accompagnava tante persone in Brasile, faceva fino a sei viaggi in un anno.

«Il mondo è pericoloso – ci spiega -. Se la colonia cambia, noi ce ne andiamo. Stiamo già vedendo diversi segnali di cambiamento, cose che non mi piacciono. Mio figlio è uno degli otto leader che si riuniscono nel consiglio dei capi delle colonie a Santa Cruz, è il rappresentante di Las Brechas. Qui non insegniamo lo spagnolo per non avere troppi contatti con il mondo, la lingua è la porta perché le cose cambino. E non voglio che cambino. I mennoniti di San Miguel sono radicali, ma li rispetto. Loro li riconosci dalla barba».

Con la mano fa un gesto per indicare le barbe lunghe e incolte che abbiamo visto a San Miguel.

«Quegli altri, quelli di Nuevo Horizonte, si riconoscono dai loro vestiti, non usano la salopette. Ma sono di un’altra religione. Jacob, il figlio del farmacista Pedro Peter, ha abbandonato la nostra religione. Non posso dire che pecchino, ma secondo me non andranno in paradiso. La Bibbia è la verità. Io ci credo».

Juan Hildebrand ha adottato una ragazza orfana:

«Il loro padre era un alcolizzato, è stato assassinato dalle prostitute, la comunità si è presa cura dei suoi figli. I bambini li devi punire, per evitare le tentazioni», dice chiarendo la sua idea di educazione paterna.

La piccola Sara rientra a casa dopo aver portato un po’ d’acqua al padre che sta lavorando nella sua officina (colonia mennonita Riva Palacios). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Storia dei fratelli Jacob, artigiani

Parcheggiamo la jeep nel giardino della casa del pastore in Las Brechas 9. Lui non si fa vedere, manda i suoi figli a dirci che è occupato, non vuole riceverci nemmeno più tardi. È così che guida la comunità, rifiutandosi di vedere il mondo.

«Allora, adesso andiamo a visitare i fratelli anarchici della colonia – suggerisce Fabiomassimo. Hanno dei pannelli solari nascosti sul tetto, per non essere scoperti e costretti a rimuoverli». Devia la macchina e si dirige verso una grande casa.

Pedro Jacob, il fratello maggiore, ha un magazzino dove lavora marmo e granito. Produce piani di lavoro per cucine e bagni, e tavoli. Ha 29 anni, occhi azzurri, mani grandi, è bassino con spalle larghe, capelli neri ricoperti di polvere. Non indossa la salopette, ma pantaloni neri, una camicia bianca con strisce azzurre e bretelle bianche e rosse.

«Ho imparato questo mestiere da solo, prima lavoravo la terra, da quattro anni mi dedico a questo».

Ci mostra le sue macchine da lavoro: una per tagliare il marmo in linea retta, l’altra serve per eseguire tagli concavi. Le ha inventate e costruite lui stesso, «perché in Bolivia non si trova nulla».

Per realizzare i tagli concavi utilizza una macchina sulla quale ha installato dei tubetti di plastica che schizzano acqua, per abbassare la temperatura e controllare il turbinio della polvere.

«In Europa rideranno di questa macchina», dice con un po’ di vergogna.

Pedro Jacob ha più richieste di quante ne possa soddisfare. Non vuole assumere più persone ma vorrebbe aumentare il parco macchine. Gli serve un tetto più grande e una gru, ma ha bisogno di soldi che non ha.

«Le banche mi offrono credito, ma io non voglio rischiare», ci dice mentre continua a lavorare.

Il figlio di sette anni gli porge una chiave inglese senza che il padre debba chiedergliela.

Juan Jacob, il fratello minore, vive nel terreno adiacente. Ha 26 anni e tra pochi mesi diventerà padre. Nel suo laboratorio costruisce mobili: acquista compensato e tavole di legno. Ha una macchina italiana che taglia le assi, l’ha adattata alle sue esigenze. Un’altra mette una patina di vernice bianca sui mobili. Il fratello maggiore gli fa notare un’imperfezione sull’anta di un armadio.

Lui ci mostra il suo allevamento di polli. Seimila volatili, divisi in due gabbie tra maschi e femmine. Mangiano un composto che li fa ingrassare velocemente, più ne mangiano, più hanno fame. Sono le sei e mezza, ora del tramonto. Juan accende dei neon bianchi per illuminare le gabbie. «Così non distinguono il giorno dalla notte e continuano a mangiare».

Ha acquistato pulcini da 40 grammi e dopo sette settimane con questo regime arrivano a pesare 2,5 chili e sono pronti per il macello.

«Ma noi non li mangiamo, sono solo per la vendita», chiarisce.

Mostro ai due fratelli il video che ho registrato a casa di Cornelius nella colonia San Miguel, con i cavalli che si muovono in tondo per azionare la ruota che macina il grano.

«Poveri animali. E che spreco di tempo!».

Ridono i due fratelli.

Federico Nastasi


Abram Redekop mostra una bibbia proveniente dalla Germania, scritta in plautdietsch (basso tedesco) (colonia mennonita Riva Palacios). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Una storia svizzera e olandese

Dai protestanti agli anabattisti

L’ epoca della riforma protestante (1517) è segnata da conflitti politici, sociali e religiosi. In questo contesto, gli «anabattisti» (da anabattismo, «immergere di nuovo», «ribattezzare») emersero come una corrente radicale che rifiutava i compromessi fatti dai leader riformatori, come Lutero, con la Chiesa tradizionale e i governanti. Questo gruppo riteneva che il battesimo amministrato ai bambini fosse invalido e, pertanto, lo prevedeva soltanto per adulti capaici di libero arbitrio e moralmente retti. Questa scelta li portò a essere perseguitati e chiamati dispregiativamente «anabattisti» dalle autorità ecclesiastiche e statali. La persecuzione degli anabattisti fu particolarmente brutale in Svizzera, dove molti leader furono giustiziati o mandati in esilio. Questo portò alla dispersione del movimento, ma rafforzò anche la solidarietà tra i suoi seguaci.

Un’immagine di Menno Simons (1496-1561), ex prete cattolico fondatore della corrente anabattista dei Mennoniti.

Nel 1536, il prete cattolico olandese Menno Simons lasciò la Chiesa e divenne leader delle giovani comunità anabattiste ribelli del Nord. Personaggio carismatico e predicatore rispettato, nel 1539 pubblicò il suo «Libro dei fondamenti» che divenne – insieme ai «Sette articoli di Schleitheim» – una sistematizzazione dottrinale della nuova Chiesa. Sulla base della diffusione dei «Fondamenti», nonché del vasto lavoro del predicatore Menno, il movimento ricevette il nome di mennoniti.

A causa delle persecuzioni, fin dall’inizio della loro storia, i mennoniti furono costretti a fuggire. La maggior parte cercò rifugio in territori con governanti tolleranti all’interno dell’Impero germanico. Tuttavia, a partire dal XVI secolo, le migrazioni iniziarono in tre direzioni principali: verso il Nord America, verso l’Europa orientale (Prussia, Polonia e Russia) e dall’Europa orientale verso il Nord, il Centro e il Sud America. Queste migrazioni, inizialmente spontanee, divennero imprese collettive più organizzate a partire dal XVIII secolo. Sorsero le prime colonie mennonite, unità socio-religiose contadine.

Secondo i dati della Conferenza mondiale mennonita, nel 2022, esistevano 109 chiese nazionali e un’associazione internazionale mennonita. Della popolazione totale registrata, il 56% è originario dell’Africa e dell’Asia. Il secondo posto è occupato da Stati Uniti e Canada, con il 30%, divisi più o meno equamente tra mennoniti «moderni» integrati nella società e agricoltori tradizionali. I paesi d’origine, Svizzera, Olanda e Germania, ospitano meno del 3% della popolazione mennonita totale. La popolazione dei coloni in America Latina rappresenta poco meno del 10% del totale.

Fe.N.


Juan Enns passeggia all’interno di uno dei suoi campi di soia, uno dei prodotti di punta degli agricoltori mennoniti (colonia Manitoba). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Anno 1527, le sette regole e il sermone

Essere anabattisti

Sono sette le regole fondamentali degli anabattisti e sono note come «articoli di Schleitheim» dal nome della località svizzera (Canton Sciaffusa) dove il 24 febbraio del 1527 vennero sottoscritti. Essi rappresentano il primo credo del movimento mennonita che, pur evolvendosi nel tempo, trova in essi la propria Magna carta. In sintesi, essi trattano di:

  1. Battesimo – Solo per gli adulti coscienti. Nessun battesimo per i bambini perché non hanno ancora coscienza del bene e del male e quindi del peccato. Per questo non trarrebbero alcun vantaggio dal battesimo.
  2. Scomunica – La disciplina interna delle comunità mennonite prevede l’espulsione in caso di reiterata e accertata violazione delle norme (errori o peccati) da parte di un membro.
  3. Cena del Signore – Solo ai credenti battezzati è permesso di partecipare alla Santa Cena del Signore.
  4. Separazione dal mondo – Dio ci esorta a uscire da Babilonia e dall’Egitto. Pertanto, è richiesta una vita separata dal mondo rifuggendo la partecipazione a qualsiasi tipo di istituzioni politiche, sociali e religiose.
  5. Pastori – Ogni comunità elegge un proprio pastore, che legge le Scritture, insegna, ammonisce, spezza il pane.
  6. Non resistenza – La spada è bandita. È respinto ogni tipo di violenza perché «non bisogna resistere al male». È escluso, di conseguenza, ogni servizio militare.
  7. Giuramento – Cristo vieta qualsiasi giuramento ai suoi discepoli. Cristo è semplice: sì o no. Tutti quelli che lo cercano con semplicità, intenderanno la sua parola. Non è, pertanto, consentito alcun giuramento verso qualsiasi autorità civile o religiosa.

Gli articoli esprimono quanto il movimento si fondi non solo sulle sacre scritture in generale, ma in particolare sul «Sermone della Montagna» del Vangelo di San Matteo letto come un’esortazione alla buona condotta quotidiana: ricerca della giustizia, purezza di cuore, amore verso i nemici e, soprattutto, predisposizione alla sofferenza.

Fe.N.

Iacob Klassen e la moglie Agata Enns cullano la loro primogenita sotto il portico di casa illuminando la notte con torce a led (colonia mennonita Manitoba). Foto Fabiomassimo Antenozio.

Pacifismo radicale e fuga dal mondo

La scelta mennonita

Fin dalla loro nascita, in Europa occidentale, intorno al 1525 come corrente radicale nel mondo protestante, gli anabattisti sono stati perseguitati dalle chiese ufficiali e dai decreti governativi. Alla violenza, rispondono con la fuga. Pacifisti radicali, non usano violenza nemmeno per difendersi. Fuggono alla ricerca di posti più tranquilli.

Credono nel battesimo degli adulti e nell’isolamento dal mondo, dove il peccato si nasconde sotto ogni pietra. Non partecipano alla vita politica né hanno una gerarchia ecclesiastica: i pastori sono eletti dalla comunità. Ma la reputazione di agricoltori disciplinati e versatili interessa i governi che vogliono colonizzare terre vergini. Così è successo in Polonia nel XVIII secolo, quando il re li invitò a stabilirsi nelle paludi del fiume Vistola. Oggi qualcosa di simile accade in alcune zone della foresta amazzonica peruviana. In cambio, i mennoniti chiedono di poter vivere secondo i loro principi e firmano accordi con gli Stati ospitanti per garantire quelli che chiamano privilegi: non votare, non pagare le tasse, libertà di insegnamento ed esenzione dal servizio militare.

Oggi la corrente anabattista dei mennoniti conta circa 1,5 milioni di fedeli presenti in 80 paesi. Le migrazioni l’hanno portata dalla Svizzera, dall’Alsazia e dal Sud Ovest della Germania, a passare, con il tempo, attraverso l’Olanda, per stabilirsi in Russia su invito della zarina Caterina II, attraversare la Cina, coltivare le terre del Canada e del Messico dopo la rivoluzione del 1920, sostenere la colonizzazione del Chaco in Paraguay e, infine, raggiungere anche le pianure della provincia di Santa Cruz in Bolivia negli anni Cinquanta. I mennoniti boliviani discendono dagli «Altkolonier», la corrente più conservatrice nata in Russia alla fine del XVIII secolo, che rifiutano l’uso della luce elettrica, degli pneumatici e dell’istruzione pubblica. Gli Altkolonier si sono sparsi nel mondo secondo una dinamica tipica dell’espansione mennonita: quando le controversie dentro la comunità diventano irrisolvibili, la comunità si divide. L’altro motore dell’espansione è garantire la terra ai tanti figli che le famiglie mennonite mettono al mondo.

Fe.N.


Mappa della Bolivia; nella parte orientale (Nación Camba) è attivo un movimento autonomista.

A Santa Cruz, conservatori e autonomisti

Bolivia, «Collas» contro «Cambas»

Il latte, i raccolti, gli animali di San Miguel e delle altre decine di colonie vengono venduti al mercato agrario di Santa Cruz. Tutti contribuiscono al settore agricolo della provincia orientale della Bolivia. La produzione di Santa Cruz rappresenta la metà della produzione agricola nazionale. Il modello, implementato dai governi neoliberisti del XX secolo e sostenuto dal capitale straniero e dalla Banca mondiale, è concepito per l’esportazione. Un prodotto più di ogni altro rappresenta il modello di agroexport: la soia. Nella provincia ci sono un milione e quattrocentomila ettari coltivati a soia, dieci volte la superficie di Città del Messico. Il 99% della soia boliviana viene prodotta a Santa Cruz. Questo legume e i suoi derivati rappresentano l’11% delle esportazioni totali del Paese. E furono i Mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana, oggi ne producono circa il 16%. Il resto è prodotto da imprenditori brasiliani e nazionali.

Nei duemila ettari dell’azienda «La Morita» ci sono campi di soia, ordinati, identici tra loro, e qualche mucca da carne. Il proprietario, Esteban, 33 anni, arriva con un aereo privato e subito sottolinea la sua appartenenza: «Qui siamo discendenti degli europei».

È di origine italiana e sua madre aveva sangue camba, gli indigeni delle pianure boliviane. È alto, capelli neri con i primi fili bianchi, camicia di marca, jeans e scarponcini da trekking, robusto, spalle larghe, sicuro di sé. Ha studiato all’estero, ci tiene a farlo sapere, usa parole in inglese e portoghese. «Perfetto!», dice con entusiasmo prima di rispondere a ogni mia domanda, usa modi amichevoli per dimostrare la sua autorità. Ci porta a fare un giro tra i campi, ci fermiamo davanti a un campo di soia.

«Ruotiamo le colture, facciamo tre raccolti all’anno. Nelle pause mettiamo il bestiame, per smuovere la terra. Non facciamo monocolture e lasciamo il 40% della superficie boschiva, ci protegge naturalmente dal vento, dal gelo e da alcuni insetti, lo facciamo perché è conveniente. E ovviamente – lo dice per ultimo e suona come qualcosa da non dimenticare – per difendere l’ambiente. Io sono la quinta generazione di agricoltori in Bolivia. Voglio che mia figlia, che ora ha tre anni, possa lavorare questa terra.

Non tutti sono come noi. Gli estrattivisti puntano alle produzioni a breve termine. Se ci sono aree abbandonate, vengono utilizzate solo per assegnarle a persone legate a un partito politico. Vedi quella terra laggiù? Il governo l’ha affidato a una comunità indigena dei Collas, lasciano la terra improduttiva. Guarda quella cisterna, deve avergliela data una Ong, non c’è nemmeno un pozzo».

Si riferisce, senza citarlo, al progetto del governo Mas per favorire la migrazione dei contadini colla, popolazione indigena delle montagne, verso la provincia orientale.

Il giudizio sul governo del Mas, il risentimento del proprietario terriero di quinta generazione, fanno parte delle fratture Est Ovest, pianura montagna, e dell’antagonismo tra gli indigeni dell’altopiano, i Collas, con gli abitanti della Bolivia orientale, i Cambas.

Santa Cruz è il bastione conservatore della Bolivia. Con i governi Mas, le spinte autonomiste sono aumentate. Nel dicembre 2022 è stato incarcerato il governatore del dipartimento, Luis Fernando Camacho, leader religioso e di destra, che è diventato l’antitesi del Mas e di Evo Morales e ha infiammato le manifestazioni di piazza del 2019, alimentandole con promesse di autonomia dal potere centrale di La Paz, la capitale costruita a 3.600 metri sulle Ande, la più alta del mondo.

Camacho è stato accusato di aver pianificato il colpo di stato che ha deposto il governo di Evo Morales. La popolazione di Santa Cruz è scesa in piazza, ha bloccato l’aeroporto e ha bruciato edifici pubblici per chiedere la liberazione del leader cruceño da quello che considerano un sequestro. Nel mercato cittadino, un diavolo dipinto su un muro dice «Arce, ti cerco, assassino», in riferimento all’attuale presidente della Bolivia ed esponente del Mas, Luis Arce.

Fe.N.


Frame dal film dedicato alla storia delle violenze sulle donne mennonite di Manitoba.

Donne che parlano

Un libro, un film

La brutta storia delle donne mennonite di Manitoba è stata raccontata nel libro «They speak» (Donne che parlano, nella traduzione italiana del 2018) di Miriam Toews e nell’omonimo film («Women talking») del 2022, con due nomination agli Oscar.


Hanno firmato il dossier:

Federico Nastasi
Ricercatore e giornalista indipendente. Collabora con El Pais, l’Espresso e il Manifesto. Attraverso periodi trascorsi sul campo, ha raccontato i principali avvenimenti politici latinoamericani recenti (in Uruguay, Cile, Ecuador e Brasile). È con MC da marzo 2021.

Fabiomassimo Antenozio
Fotografo romano con la passione per il reportage. Nel 2013 e 2014 i primi viaggi in Bolivia, in particolare nelle regioni dello Yungas, Potosì e La Paz. Il suo progetto fotografico «Verde mennonita» è arrivato secondo a Portfolio Italia 2023 Fiaf, inserito nel festival ReWriters, e ha ricevuto la menzione d’onore al Prague Photo 2023. Inoltre, è stato pubblicato su El Pais Semanal e online su Travel Globe e Berlino Magazine.

A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, MC maggio 1999).

Fonti principali
Adalberto J. Kopp, Las colonias menonitas en Bolivia: antecedentes, asentamientos y propuestas para un diálogo, La Paz, Fundación Tierra, 2015; Mennonite world conference: mwc-cmm.org; Fundación Tierra: www.ftierra.org.

 




Al pozzo di Giacobbe (Gv 4)


Ci sono pagine evangeliche che conosciamo bene. È un vantaggio, perché diventa più semplice riprenderle per andare in profondità. Una di queste è l’incontro di Gesù con la donna samaritana, episodio giustamente famoso e noto. Vi troviamo infatti un racconto abbastanza comprensibile nelle sue dinamiche, interessante e profondo nei contenuti e pieno di quell’ironia che Giovanni utilizza spesso, per indicare che Gesù e i suoi interlocutori intendono, con le medesime parole, idee diverse.

Lo sfondo (Gv 4,1-6)

Può valere la pena situare questo incontro sullo sfondo di tutto il Vangelo di Giovanni. I primi versetti, infatti, ci spiegano che cosa ci facciano Gesù e discepoli in Samaria: stanno scappando dal Giordano, dove i farisei hanno cominciato a puntare Gesù che aveva iniziato a fare più discepoli e a battezzare più di Giovanni Battista (4,1.3).

L’evangelista, a dire il vero, sente il bisogno di precisare che «non era Gesù stesso che battezzava, ma i suoi discepoli» (Gv 4,2), quasi per scusare Gesù, facendo cadere la reponsabilità sui discepoli i quali avevano ripreso il gesto «inventato» dal Battista.

Viene da sospettare che Gesù tema di aver fatto troppo notizia, attirando dei rischi su di sé. Qualche maligno potrebbe accusarlo di avere paura, di volersi nascondere, anche perché dal Giordano alla Galilea, dove Giovanni dice che è diretto, certamente la via più corta non passa dalla Samaria.

In ogni caso questo trasferimento sembra un fallimento, o almeno un ripensamento profondo della missione di Gesù che, secondo Giovanni, è iniziata al Giordano.

Lungo la strada, la comitiva si ferma in un villaggio, Sicar, di cui non sappiamo niente di più di ciò che ci racconta il Vangelo. E ciò che ci dice rimanda alla vita dei patriarchi, ai rapporti tra Giuseppe e suo padre Giacobbe, che secondo la tradizione aveva scavato quel pozzo (cfr. Gen 33,18-19 e Gs 24,32).

La storia di Giacobbe e Giuseppe è zeppa di ingiustizie, violenze, ambiguità: Giacobbe inizia il suo percorso di vita ottenendo tutto con la violenza o con l’inganno, Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli di cui poi si prenderà gioco quando diventerà viceré dell’Egitto. Allo stesso tempo, però, è una storia che ci parla di rapporti personali che, al di là dello sfruttamento, parlano di «gratuità». Giuseppe, infatti, è il figlio preferito dal padre nonostante sia l’undicesimo (quindi non il primogenito, ma neanche l’ultimo), ed è preferito perché figlio di Rachele, la moglie più amata tra le due che aveva, benché la meno «utile» per via della sua prolungata sterilità.

Il rimando ai patriarchi, insomma, sembra richiamare a una realtà umana ambigua ma anche capace di andare al cuore delle relazioni. E ciò che viene narrato accade quando Gesù potrebbe sentirsi almeno in parte sconfitto e, sicuramente, affaticato e assetato (Gv 4,6).

Creazione di Marco Francescato

Un dialogo inatteso (Gv 4,7-15)

I Vangeli ci chiariscono spesso quanto complicati fossero i rapporti tra samaritani ed ebrei. E sappiamo anche quanto fosse sconveniente che un uomo parlasse da solo con una donna. Aggiungiamo a questi elementi che era del tutto improbabile che qualcuno andasse ad attingere acqua al pozzo a mezzogiorno. Di solito ci si andava al mattino, perché l’acqua serviva già all’inizio della giornata per i lavori domestici, e perché si approfittava delle ore più fresche anche per incontrarsi con le altre donne. Insomma, di questa donna non  sappiamo niente, ma – a vederla recarsi al pozzo a metà giornata – viene da pensare che abbia anche qualcosa da nascondere e che non abbia tanta voglia di incontrare altre persone.

Eppure Gesù le parla. Sembra completamente fuori di sé, forse per la sete e la stanchezza, dimentico delle convenzioni sociali, che invece la donna conosce bene, perché di certo le aveva subite: «Come mai tu, uomo giudeo, chiedi da bere a me, donna samaritana?» (v. 9).

Il dialogo che segue, come tutti quelli di Giovanni, sembra andare avanti a salti, come se i due non si capissero fino in fondo. Un dato emerge in modo chiaro: Gesù chiede di essere dissetato e, allo stesso tempo, sostiene di avere un’acqua che potrebbe dissetare sempre. Si capisce l’interesse della donna (per non andare al pozzo, per non fare quella fatica ma anche evitare di vedere gente). Ma è chiarissimo, almeno a noi lettori, che Gesù sta parlando di altro.

Di che cosa abbiamo sete? Di acqua, quando siamo disidratati. Ma, certo, lo sappiamo che dovremo bere ancora. E poi? Abbiamo sete anche di qualche cosa d’altro? Che cosa desideriamo nel profondo, come quando siamo assetati? Di avere un senso, di essere amati, di essere in pace con noi stessi?

È di qualcosa del genere che sta parlando Gesù, e subito, immediatamente, presenta quell’acqua come qualcosa in grado di dissetare non solo chi beve, ma anche chi è intorno (v. 14), «per la vita eterna». Ecco un altro modo di indicare la nostra sete: la vita che viviamo è promettente, bella, attraente, ma ci delude anche con i suoi fallimenti, dolori, affanni, malattie. E poi finisce. E non mantiene quello che promette. Invece una vita che non finisce, una vita piena, è una promessa che non può non toccarci. Come se quell’acqua raccogliesse in sé tutto quello di cui sentiamo di aver sete. Non è difficile capire l’entusiasmo, quasi l’ansia della donna, che chiede di poter avere di quell’acqua (v. 15).

Cambiamo discorso?  (Gv 4,16-26)

Invece di rispondere alla richiesta della donna, Gesù sembra cambiare discorso, chiedendole di andare a chiamare il marito. Perché lo fa? Solo per mostrarsi ancora più capace di guardare in profondità nella vita della samaritana?

Anche chi passa con facilità da un partner all’altro, anche chi ha diverse separazioni e divorzi alle spalle o ha smesso di credere all’amore, sa comunque con certezza che nella relazione di coppia non si gioca una parte secondaria della vita umana. Posso trasferirmi, cambiare mestiere, ma certi legami personali sono più profondi, dicono troppo di me, mi smuovono nell’intimo. Fanno parte di quella sete di vita piena che posso anche soffocare, fingendo di star bene, ma che è la mia dimensione umana più autentica.

Alla domanda di Gesù, la donna, pur essendosi sposata più volte, dice di non avere marito. E Gesù, riconoscendole di aver risposto bene, ammette che la samaritana si è messa in gioco davvero, ha accettato di non rifugiarsi dietro alle certezze di ruolo o sociali (una donna non sposata, in quella società, era più esposta a ingiustizie e violenze). Ha accettato la sfida di un confronto senza filtri, senza reticenze, senza ruoli dovuti. E Gesù lo vede, se ne accorge, glielo indica: «Hai detto bene».

È a questo punto che si arriva a parlare di Dio. È la donna a spostare il discorso lì. E lo affronta dal punto di vista della legittimità rituale: il tempio giusto nel quale adorare Dio è quello di Gerusalemme o del Garizim?

La risposta di Gesù è stravolgente, perché da una parte suggerisce che non tutto è uguale, che c’è un centro più affidabile e corretto, ed è quello di Gerusalemme, ma dall’altra afferma che il vero luogo di adorazione non è in Giudea, né in Samaria, in quanto Dio non cerca zelanti esecutori di riti, ma adoratori «in Spirito e verità» (v. 23).

Che cosa intende dire Gesù? Oltre all’ascolto attento delle parole utilizzate, è utile che ci sintonizziamo con lo scorrere del discorso. Progressivamente ma anche velocemente i due interlocutori sono arrivati a cogliere che la sete più profonda dell’essere umano è intima. E Gesù ci svela che il Padre a questa sete è attento e le risponde.

Un Padre che, Gesù ce lo mostra, si accorge di chi ha davanti, non lo valuta in base a criteri formali, esteriori di integrità o ortodossia: esattamente come nella storia di Giacobbe e Giuseppe, anche nel caso di questa donna dai troppi mariti e dalla coscienza sporca, il Padre di Gesù guarda oltre, guarda all’interiorità, vede la domanda vera di vita che lei, come ogni altro essere umano, porta in sé, e a questa intende dare risposta. Non perché lei abbia il diritto di bere, non perché sia «a posto», ma perché ha sete.

Ci viene svelato un Padre insofferente per le etichette, le categorie, i diritti acquisiti, la correttezza formale, che poi in fondo sono ancora un modo per nascondersi dietro a una corazza, senza ammettere la propria debolezza, la propria imperfezione, la propria sete.

A chi è assetato, e lo ammette, il Padre è pronto a dare la sua acqua viva, tanto abbondante che disseterà anche chi è lì intorno.

La missione (Gv 4,27-42)

Il pozzo di Giacobbe come è oggi nella chiesa greco-ortodossa della città di Samaria. (Benedetto Bellesi)

Senza che Giovanni ce lo dica, l’acqua viva del Padre è già stata versata da Gesù nel cuore della donna, e ha iniziato a diffondersi.

Lei, infatti, proprio mentre arrivano i discepoli (stupiti, ma incapaci, per rispetto, di chiedere quei chiarimenti che invece la samaritana aveva chiesto, mettendosi in gioco), abbandona lì la sua brocca, e corre in paese. La donna che si nascondeva, che andava al pozzo a mezzogiorno, forse per non sentire le dicerie sul suo conto («cinque mariti!»), lascia il motivo che l’aveva portata lì, dimentica un oggetto che non era di poco valore e utilità, e va a raccontare ciò che le è accaduto.

Tra l’altro, lo fa con una grazia ed eleganza insospettata in lei. Non dà infatti per scontato quello che, lo intuiamo, deve essere stata la sua conclusione, ma la affida ai suoi ascoltatori come semplice possibilità: «Che sia lui il Cristo?» (v. 29). E infatti, alla fine del racconto, i samaritani stessi ammetteranno di credere per ciò che avranno visto, non semplicemente per la parola della donna (v. 42). Una parola però alla quale, evidentemente, avevano prestato fede, nonostante la reputazione di chi l’aveva pronunciata.

Poteva sembrare la destinataria meno probabile dell’acqua viva portata da Gesù, ma si è dimostrata una discepola pronta a mettersi in gioco, a rischiare, a uscire dalla propria area di comodità.

Quella stessa acqua, scopriamo, ha dissetato anche Gesù. Infatti, egli, che poco prima affaticato e assetato, ora non vuole più bere né mangiare, perché è stato nutrito dal vedere l’amore del Padre diffondersi per suo tramite (vv. 32-37).

Questa «sazietà» di Gesù possiamo capirla bene tutti: quando sperimentiamo che il nostro impegno porta frutti, quando ci accorgiamo che le persone amate traggono del bene dai nostri suggerimenti, quando vediamo camminare sulle loro gambe le persone che abbiamo aiutato, proviamo una gioia interiore difficile da spiegare in termini economici (di dare e avere).

Una delle tante scoperte di questo episodio evangelico è che sia Gesù che il Padre vedono questa profondità di relazione che sta proprio al cuore del loro pensiero. Una relazione con il Padre vissuta «in Spirito e verità», nella quale il Padre è fonte di vita che dona acqua viva.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 05 – continua)