Kenya. Il Paese in subbuglio

 

Da dieci giorni, il Kenya è attraversato da incessanti proteste contro l’aumento delle tasse previsto dalla nuova legge finanziaria e, dopo il ritiro del provvedimento, contro il presidente William Ruto. A protestare sono soprattutto i giovani, tra i quali la disoccupazione è estremamente diffusa (67% nella fascia 15-34 anni).

Le proteste
L’intensità delle manifestazioni è cresciuta il 25 giugno. Dopo l’approvazione della legge in Parlamento, i manifestanti hanno forzato il cordone della polizia e attaccato la struttura. Mentre i parlamentari venivano evacuati, un’ala dell’edificio andava in fiamme. Così come sono stati incendiati gli uffici del governatore di Nairobi e la sede del partito di Ruto.

La reazione della polizia – affiancata poi dall’esercito – è stata violenta. Secondo la Kenya national commission on human rights (organizzazione autonoma per il monitoraggio dei diritti umani) almeno 23 persone sono state uccise. Amnensty international invece ha segnalato più di cinquanta arresti e decine di persone «rapite o scomparse per mano di agenti in uniforme e non». Soprattutto giovani attivisti e influencer che sui social media si erano schierati a favore dei manifestanti.

I social – soprattutto X e TikTok – sono stati il principale mezzo di mobilitazione. Tanto che, con l’intensificarsi delle manifestazioni, l’accesso alla rete è diventato sempre più difficile, nonostante pochi giorni prima le autorità avessero detto che non avrebbero limitato la libertà di navigazione sul web in caso di proteste.

Mentre il Paese era sempre più in subbuglio, Ruto ha annunciato l’intenzione di non firmare la legge e rinviarla al Parlamento. «Le persone hanno parlato», ha detto il presidente in conferenza stampa la sera del 26 giugno, dopo ventiquattr’ore di proteste incessanti. Un dietrofront inaspettato, soprattutto dopo che il capo dello Stato aveva definito i manifestanti dei «sovversivi che tentano di minare sicurezza e stabilità del Paese».

Ma a rischio era l’immagine del presidente come leader democratico in Africa orientale e alleato dell’Occidente (soprattutto degli Stati Uniti che recentemente hanno attribuito al Kenya il titolo di “major non-Nato ally”). Oltre al timore di attirare nuovamente l’attenzione internazionale sulle violenze della polizia keniana, proprio mentre i suoi primi contingenti sbarcavano ad Haiti nell’ambito di una missione internazionale per ristabilire l’ordine nel Paese.

Cosa prevedeva la legge
La controversa disposizione prevedeva l’incremento di diverse tasse già esistenti e l’introduzione di nuove. Alcune in particolare – particolarmente gravose – hanno acceso la rabbia della popolazione.
Come quelle sul settore digitale, sempre più cruciale per la vita quotidiana. Il governo infatti aveva previsto una nuova imposta sulla creazione di contenuti digitali monetizzati e aumentato del 5% la tassa sui pagamenti digitali. Soprattutto quest’ultima era stata particolarmente criticata dato che buona parte dell’economia del Paese si basa su trasferimenti digitali di denaro.

Ma ciò che più aveva scatenato il malcontento popolare era stata l’introduzione di tasse sul pane (pari al 16% del suo valore) e sull’olio vegetale da cucina (25%). Entrambe erano poi state eliminate dal testo definitivo della legge, ma ormai le proteste si erano accese, arrivando a chiedere il ritiro totale del provvedimento.

Le voci di dissenso
Nel chiedere il ritiro della legge, i manifestanti hanno denunciato il tentativo del governo di compensare la cancellazione di alcune tasse con l’aumento di altre (come il rialzo del 50% dell’imposta sul carburante). Disposizioni particolarmente gravose in un Paese con un’inflazione annua del 5,1%.

La piazza inoltre ha accusato Ruto di corruzione: a fronte delle crescenti tasse ha denunciato il mancato miglioramento dei servizi pubblici e l’aumento del benessere della cerchia presidenziale. Il presidente ha invece risposto che le imposte erano necessarie per pagare il debito pubblico del Paese (82 miliardi di dollari), dovuto soprattutto alla Cina per la costruzione di diverse infrastrutture (come la linea ferroviaria tra Nairobi e il porto di Mombasa).

A rifiutare la legge è stata anche la coalizione di opposizione One Kenya. Nel ritirare i 13 emendamenti proposti, il suo leader in Parlamento, Opiyo Wandayi, ha detto che «emendare una “cattiva” legge era futile» e ne ha chiesto la cancellazione. Mentre la Conferenza episcopale ha invocato il dialogo e criticato la disposizione in quanto insostenibile per molti cittadini keniani.

In effetti, la legge è tornata in Parlamento. Ma, nel frattempo, le proteste non si sono fermate. Anzi, ora l’obiettivo dei manifestanti sono le dimissioni del presidente. I giovani keniani – che alle scorse elezioni non hanno in buona parte votato – ora sono scesi in strada e sembrano volersi riappropriare del loro Paese. E del loro futuro.

Aurora Guainazzi




Haiti-Kenya. Al via la missione di «salvataggio»

 

Con l’arrivo a Port-au-Prince dei primi 400 poliziotti keniani, lo scorso 25 giugno, è partita ufficialmente la Missione multinazionale di appoggio alla sicurezza (Mmas) per Haiti con lo scopo di aiutare a ristabilire l’ordine.

La Mmas non è una missione delle Nazioni Unite, è stata però autorizzata dal Consiglio di sicurezza con una risoluzione dell’ottobre 2023. (per approfondire leggi qui)

Dopo mesi di negoziazioni, e la firma di un accordo tra Haiti e il Kenya da parte dell’allora primo ministro a interim Ariel Henry lo scorso febbraio, il paese africano ha finalmente preso il comando della missione.

Oltre al Kenya, parteciperanno Benin, Ciad, Bangladesh, Bahamas e Barbados, per un totale di alcune migliaia di poliziotti.

Gli Stati Uniti, storicamente impegnati nel Paese, in questa occasione hanno preferito non intervenire direttamente (a causa della già complicata situazione internazionale e delle prossime elezioni di novembre), ma hanno fatto pressioni sull’alleato africano e finanziato la missione con circa 300 milioni di dollari.

Ad Haiti, dal 12 giugno scorso è insediato il nuovo governo di transizione con il primo ministro Garry Conille. Al posto del presidente della Repubblica c’è un inedito Comitato presidenziale di transizione, composto da sette membri e due osservatori, presieduto da Edgar Leblanc fils.

Ricordiamo che il Paese versa in uno stato di caos, con il controllo di gran parte del territorio da parte di gruppi criminali (le gang), e l’impossibilità da parte delle forze di polizia di garantire la sicurezza e il funzionamento delle istituzioni, ma anche la stessa normalità della vita della popolazione. Attualmente si contano circa 600mila sfollati nella capitale.

La Mmas ha come missione principale quella di appoggiare la polizia nazionale haitiana (Pnh), e in particolare mettere in sicurezza le infrastrutture strategiche (aeroporti, porti, strade principali, palazzi istituzionali, ecc.), attualmente alla mercé delle bande criminali organizzate.

I poliziotti keniani sono scesi dall’aereo della Kenya Airways in tenuta antisommossa, con tanto di giubbotti antiproiettile, casco indossato e mitragliatore imbracciato. Le immagini dell’arrivo hanno fatto il giro del web tra gli haitiani in patria e all’estero.

L’avvio della missione trova il Kenya in un momento particolarmente delicato. Mentre partiva il primo contingente, a Nairobi, la gente manifestava contro la nuova legge finanziaria voluta dal presidente William Ruto per lottare contro la crisi economica. Tale legge impone tasse più elevate anche su beni sensibili come il pane. La popolazione, già stremata dall’aumento dei prezzi ha preso d’assalto il Parlamento, e la polizia ha sparato sulla folla causando almeno tredici morti.

I sentimenti degli haitiani sulla Mmas sono discordanti. Molti ricordano i fallimenti di altre missioni internazionali, in particolare dell’Onu, ma i più sperano comunque che sia d’aiuto per tornare a una vita normale.

Marco Bello




Mondo. Conflitti in aumento

 

Gli studiosi dell’istituto indipendente Peace research institute Oslo (Prio), analizzando i dati pubblicati annualmente dall’Uppsala conflict data program, hanno pubblicato il report Conflict Trends. A Global Overview, 1947-2023 sullo stato dei conflitti nel mondo.

Il 2023 è stato identificato come il terzo anno più violento dalla fine della Guerra fredda, superato solo da 2021 e 2022. Le numerose vittime provocate dai conflitti, negli ultimi tre anni, sono riconducibili soprattutto a tre contesti: la guerra civile nel Tigray in Etiopia, l’invasione russa dell’Ucraina e gli attacchi di Israele contro Gaza.

Conflitti statali
Nel corso del 2023, i ricercatori hanno individuato 59 conflitti statali – scontri dove almeno una parte era governativa – in 34 Paesi del mondo. In un apparente controsenso, lo scorso anno è stato registrato il maggior numero di conflitti dal 1946, ma in un numero minore di Stati. In realtà la spiegazione è semplice: è aumentato il numero di Paesi con due o più conflitti. Nel 2023, dieci Stati ne registravano due, mentre otto, tre o più.

Il già elevato numero di decessi del 2023 (122mila), secondo i ricercatori, aumenterà ulteriormente nel 2024 a causa del conflitto israelo-palestinese (che già lo scorso anno ha provocato 23mila vittime in soli tre mesi) e della prosecuzione della guerra tra Russia e Ucraina (71mila decessi nel 2023). Si aggiungono poi le 5mila morti per la guerra civile sudanese, che ha generato anche una delle peggiori crisi umanitarie mondiali.
I tre conflitti appena citati sono annoverati anche tra le nove guerre in atto nel mondo nel 2023, assieme alle violenze in Burkina Faso, Etiopia, Myanmar, Nigeria, Somalia e Siria. Perché un conflitto sia classificato come guerra è infatti necessario che in un anno causi almeno mille vittime.
Come si può intuire già dall’elenco delle guerre, l’Africa è la regione mondiale con il maggior numero di conflitti statali (28, in aumento rispetto ai 15 di dieci anni fa), seguita da Asia (17) e Medio Oriente (10).

Conflitti non statali
Se negli scontri non sono coinvolti attori governativi, i conflitti sono classificati come non statali. Per la prima volta dal 1946, le Americhe hanno registrato il maggior numero al mondo di questa tipologia di conflitti, scalzando l’Africa dalla testa della classifica.
Un incremento dovuto soprattutto alla crescente violenza tra i cartelli della droga in Messico e Brasile dove si sono verificate 19mila delle 21mila morti registrate in tutto il mondo. Il Messico, in particolare, continua a essere il Paese più violento del globo per questa tipologia di conflitti.

Violenza unilaterale
L’ultima forma di conflitto che i ricercatori hanno analizzato è la violenza unilaterale, cioè atti di violenza realizzati unilateralmente – sia da attori statali che da gruppi formalmente organizzati – nei confronti dei civili.
Nel caso dei governi, è stato individuato un netto declino nei decessi tra il 2021 (5.600) e il 2023 (2mila), dovuto soprattutto alla fine della guerra civile nel Tigray. Al contrario, sono invece aumentate le morti causate da attori armati non statali: 8.200, il picco dal 2015.
Buona parte della violenza unilaterale avviene in Africa subsahariana. In particolare, nell’Est della Repubblica democratica del Congo – dove operano numerosi movimenti armati – e in Africa occidentale – a causa della presenza di diversi movimenti jihadisti.

Conflitti senza fine
La fotografia che emerge è abbastanza drammatica, soprattutto se si volge lo sguardo al futuro. Lo scoppio del conflitto israelo-palestinese infatti rischia di far impennare il numero di morti nel corso del 2024, rendendolo l’anno più violento dalla fine della Guerra fredda. Anche perché la guerra russo-ucraina è ancora ben lontana da una risoluzione, così come le violenze in Sudan.
In un mondo sempre più complesso – dove le potenziali micce di conflitto sono estremamente diffuse – il rischio è che la violenza possa solo aumentare, con un impatto drammatico sui civili.

Aurora Guainazzi




Bolivia. «Noi conosciamo l’Amazzonia. Ascoltateci»

Foresta pluviale e fiumi, ma anche 2,5 milioni di specie animali, 40mila specie floreali, almeno 375 popoli indigeni e 35 milioni di persone che vivono in aree rurali e urbane. Questa è l’Amazzonia che nove paesi del Sud America hanno la fortuna e l’onere di condividere.

Un mondo in pericolo. Anzi, secondo gli scienziati molto vicino a un punto di non ritorno. Per parlare di questo dal di dentro, nel 2001 è stato creato il Foro social panamazonico (Fospa), che dal 12 al 15 giugno si è riunito per l’undicesima volta, quest’anno a Rurrenabaque e San Buenaventura, in Bolivia.

Nei quattro giorni del convegno si sono affrontati i principali problemi che affliggono l’Amazzonia.

Il dettagliato comunicato finale ha un lungo preambolo politico che può essere riassunto in tre imperativi: la lotta per il futuro si fa ora; non ci sono soluzioni se non si consultano i popoli indigeni; nessun governo può rivendicare il diritto di parlare a nome dei popoli. Date queste premesse, il Fospa elenca 46 punti programmatici e rivendicativi per quattro grandi aree tematiche: popoli indigeni e popolazioni amazzoniche, Madre terra, estrattivismo (attività di prelievo di risorse naturali, ndr) e alternative, resistenza delle donne.

Le comunità native (popoli indigeni, ma anche afrodiscendenti e comunità tradizionali dei fiumi), radicate nel territorio, vogliono esercitare l’autonomia secondo le proprie regole e procedure, separandosi dalla tutela statale che ha finora segnato la storia. La ricerca dell’autogoverno e dell’autodeterminazione per intraprendere la strada di uno sviluppo autonomo è, dunque, un obiettivo prioritario.

La deforestazione è una delle piaghe dell’Amazzonia. Foto Alberto César Araújo – Amazonia Real.

L’Amazzonia – viene affermato nel comunicato – ha raggiunto il punto di non ritorno e si trova in emergenza climatica. Il collasso che deriva dalla deforestazione e dall’estrattivismo mette a rischio la sua sopravvivenza, quella delle comunità che lo abitano e la vita dell’intero pianeta. I paesi responsabili del riscaldamento globale dovrebbero assumersi la responsabilità del loro debito ecologico contribuendo alla rigenerazione dell’Amazzonia mentre tutti i paesi panamazzonici dovrebbero adottare il paradigma sociale del «Buen vivir».

Il Fospa elenca poi quelle che, a suo giudizio, sono false soluzioni alla crisi climatica: i crediti di carbonio, i meccanismi di compensazione della biodiversità, i megaprogetti di transizione energetica, la geoingegneria, l’energia nucleare e altre proposte basate sulla logica della compensazione e della mercificazione della natura. Si tratta – viene spiegato – di meccanismi commerciali per le grandi aziende e gli Stati storicamente responsabili della crisi climatica globale.

Il punto 26 è una richiesta tanto fondamentale quanto di difficilissima realizzazione: viene richiesto un accordo internazionale per dichiarare la regione amazzonica zona vietata a tutte le forme di estrattivismo minerario.

Gli ultimi punti del documento sono dedicati alle donne panamazzoniche perché esse sono in prima linea nella lotta e nella difesa della sovranità dei propri corpi, della Madre natura e dei territori. Contro il patriarcato, il colonialismo, il capitalismo e l’estrattivismo.

Gran parte delle prese di posizione del Foro social panamazonico appaiono totalmente giustificate e condivisibili. Occorre capire quanto le sue affermazioni di principio possano tradursi in applicazioni pratiche in una realtà complessa qual è l’Amazzonia. E, soprattutto, in quanto tempo visto che la variabile temporale è determinante.

Paolo Moiola




Dieci anni di Isis/Daesh. Che non è morto

 

Sono passati dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq, attirando l’attenzione di tutto il mondo. Era il 10 giugno del 2014 quando il gruppo terroristico dichiarava l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica nei territori occupati.

I cristiani furono costretti a scegliere: lasciare la città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà.

Qualche giorno dopo le porte delle case dei cristiani vennero segnate con la lettera «n» in arabo, «marchiati» perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Fu la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone dalla Piana di Ninive in direzione del più sicuro Kurdistan, dove si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil.
Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con loro soltanto quanto avevano indosso.

A distanza di dieci anni, solo una minoranza di loro è tornata, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021 (vedi Luca Lorusso, Papa Francesco in Iraq. Sui fiumi di Babilonia, MC aprile 2021).

Sembra un secolo fa. Oggi il mondo è alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico tra Iraq e Siria, continua a esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, troppo spesso lontane dai riflettori, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.

Non solo: il recente attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, costato la vita a oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis.

I jihadisti hanno minacciato anche gli Europei di calcio che si giocano in questi giorni in Germania. Un arresto di un presunto fiancheggiatore dell’Isis è stato eseguito dalla polizia federale tedesca qualche settimana prima dell’inizio del campionato.
Le immagini delle tante stragi che si sono consumate negli anni scorsi anche nelle grandi città europee, potrebbero quindi non essere solo un ricordo del passato.

Cellule dormienti, dunque, ma non troppo. È recente la creazione di un notiziario nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dal Daesh governato dall’intelligenza artificiale. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta», ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group. «Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».

L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il «target» privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che sotto attacco sono state, e sono tuttora, anche le altre minoranze religiose come quella degli yazidi. Nei loro confronti è stato perpetrato un vero e proprio «genocidio», l’ultimo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Quasi tremila donne e ragazze sono state rapite, hanno subito stupri e altre forme di violenza sessuale e molte sono ancora disperse. I ragazzi sono stati separati dalle loro famiglie e reclutati con la forza nell’Isis. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto di Save the children due anni fa.

Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. Ogni volta si è presentato lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.

Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq. Ma è l’Africa la nuova centrale delle cellule terroristiche che, pur portando altri nomi, sono affiliate, o comunque si ispirano, al Daesh. Le sigle sono diverse ma i metodi sono gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate, dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla Papa Francesco.

Manuela Tulli




Mondo. Pena di morte: sempre attuale

 

Sempre più paesi decidono di abolire la pena capitale, ma il numero di esecuzioni nel mondo continua a crescere a causa di pochi governi. Spesso è uno strumento di paura e di controllo, ce lo racconta il rapporto 2023 di Amnesty International.

Il 29 maggio Amnesty International ha condiviso il rapporto sull’uso della pena di morte nel mondo nel 2023. Quello che ne esce è un quadro complesso, di una situazione generale in miglioramento, visto che sempre meno paesi applicano la pena capitale, ma le situazioni di alcuni Stati sono invece molto gravi e in peggioramento. Il risultato è un numero di esecuzioni che non si vedeva da diversi anni.

Il totale calcolato da Amnesty è di 1.153, il più alto dal 2015, quando erano state 1.634. In entrambi i casi il numero è sottostimato, in quanto è spesso difficile, se non impossibile, arrivare a dati attendibili. La Cina è il più grande assente, Amnesty stima infatti abbia portato a termine migliaia di esecuzioni nel 2023.

Il dato positivo che emerge dal report è il numero di Stati che ha eseguito pene di morte ha raggiunto il suo minimo storico: solo 16. Questo dato, incoraggiante sull’orizzonte verso il quale si sta muovendo la comunità internazionale, fa però emergere il lato oscuro della medaglia: in diversi paesi, infatti, la situazione è nettamente peggiorata e le esecuzioni sono aumentate esponenzialmente.

Lo stato protagonista dell’incremento calcolato quest’anno è sicuramente l’Iran le cui autorità stanno usando la pena di morte come arma politica e per mantenersi stretto il potere. Le esecuzioni per reati di droga, ritenute illegali dal diritto internazionale, sono state il 56% del totale e sono quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente. Sono 853 le persone messe a morte in Iran nel corso del 2023.

Dopo Cina e Iran, per numero di esecuzioni, si piazzano l’Arabia Saudita, dove la cifra si attesta a 172 con un leggero calo, la Somalia, dove sono sestuplicate arrivando a 38 e gli Usa dove si è visto un lieve aumento con un totale di 24 esecuzioni. Proprio negli Stati Uniti un piccolo numero di Stati continua a essere molto attaccato a questa pratica e le promesse del presidente Joe Biden di abolirla a livello federale, per ora, non hanno trovato riscontri nella realtà.

Ci sono diversi altri paesi di cui i dati sono tenuti segreti, oltre alla Cina si stima che anche Corea del Nord e Vietnam facciano largo uso della pena capitale pur non avendo nessun numero su cui trarre conclusioni. Restano comunque evidenze di come questi governi utilizzino la pena di morte come minaccia per tenere soggiogate le popolazioni con la paura.

Nonostante alcuni numeri scoraggianti il rapporto di Amnesty mostra che comunque i passi avanti continuano ad esserci, aumentano i paesi abolizionisti della pena di morte, sia quelli che l’hanno abolita nella prassi. E in diversi paesi ne sta venendo ridotto il suo campo di azione o se ne sta discutendo il completo superamento.

Mattia Gisola

 




India. Meno Modi, più laicità

 

Narendra Modi è stato ridimensionato. Il leader induista con ambizioni di autocrate ha vinto ma non stravinto le elezioni indiane. Salito al potere nel 2014, questo sarà il suo terzo mandato come primo ministro, ma il suo partito, il nazionalista Bharatiya janata party (Bjp), ha ottenuto molti meno seggi del previsto: 240 (63 in meno delle precedenti consultazioni), insufficienti per governare il paese in autonomia. Dovrà farlo in accordo con i partiti dell’Alleanza democratica nazionale di cui il Bjp è parte.

In prospettiva, una buona notizia e non la sola. Ce n’è una di carattere generale: il paese asiatico, il più popoloso del mondo (in luogo della vicina Cina), ha retto l’urto di elezioni extra large (lunghe 44 giorni e con la bellezza di 640 milioni di votanti) dimostrando di essere una democrazia, anche se fragile. La seconda buona notizia è internazionale: l’India ha mostrato al Sud globale (di cui è uno dei leader) che la strada corretta non è quella indicata da Mosca e Pechino.

Viste le tante variabili in gioco, è difficile dire con certezza perché Modi abbia perso per strada molti voti e seggi rispetto al 2019. Probabilmente hanno avuto un peso sia la sua deriva confessionale sia i problemi sociali ed economici di una parte della popolazione indiana.

Ayodhya, Uttar Pradesh: inaugurazione del tempio dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo. Il tempio è stato costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da estremisti hindù. (Screenshot)

Per quanto concerne la religione, nei suoi dieci anni di potere Modi ha spinto sempre più per un rafforzamento dell’identità induista (quasi un miliardo di persone) a scapito delle minoranze, in particolare di quella musulmana (200 milioni) e di quella cristiana (30 milioni), spesso fatte oggetto di violenza (con linciaggi e incendi).

Lo scorso gennaio, il primo ministro ha deciso di recarsi a Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, a inaugurare un tempio indù (Ram Mandir, dedicato a Rama, una delle principali divinità dell’induismo) costruito sulle rovine della moschea Babri Masjid, distrutta nel 1992 da fanatici induisti. Inoltre, in una recente intervista televisiva, il leader del Bjp è arrivato ad affermare: «Paramatma (il dio della teologia induista, ndr) mi ha scelto e mi ha mandato per uno scopo». Con ciò cancellando il confine tra stato laico e stato confessionale.

Con riferimento alla condizione socioeconomica degli indiani, i dati sono oggetto di controversia. Secondo i report governativi, la povertà si è infatti ridotta a un modesto 11 per cento con una caduta di ben 18 punti percentuali rispetto al periodo pre Modi (2013-’14). Questo significa che, negli ultimi nove anni, quasi 250 milioni di persone sono usciti dalla povertà (cosiddetta «multidimensionale» perché considera 12 parametri, dal tipo di nutrizione al conto bancario). Per converso, l’India si colloca al 111.esimo posto su un totale di 125 paesi nell’Indice globale della fame (Global hunger index, Ghi) del 2023. Il governo di Nuova Delhi contesta però questa classificazione.

Pur con meno potere, Narendra Modi si appresta a guidare il Paese per altri cinque anni. Di sicuro, l’India rimarrà centrale nel complicato scenario geopolitico del mondo odierno.

Paolo Moiola




Burkina Faso. Il capitano Traoré si rielegge presidente

 

Le «assises nazionali» – incontro di rappresentanti della società burkinabè –, tenute il 25 maggio scorso, hanno approvato il prolungamento di cinque anni della transizione in corso.

La riunione, che era prevista della durata di due giorni, con lo scopo di fare un bilancio del lavoro della giunta militare, ha votato in tutta fretta una nuova «Carta», che mantiene al potere il capitano Ibrahim Traoré, l’uomo forte del momento. Traoré non sarà più il «Presidente di transizione», ma il «Presidente della nazione», che è il nome ufficiale della carica elettiva. Resterà in carica fino al 2029 e potrà candidarsi a future elezioni.

Il capitano ha preso il potere il 30 settembre 2022, deponendo con la forza un altro militare, Paul-Henri Sandaogo Damiba, che aveva sua volta fatto un golpe nel gennaio dello stesso anno ai danni del presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré.

Escluse le voci critiche

Alle assises, che dovrebbero raggruppare le diverse forze della società burkinabè per trovare un consenso durante un periodo crisi, in questo caso non sono stati invitati svariati movimenti della società civile, associazioni, sindacati con voci discordanti da quelle del regime.

Il giornalista Newton Ahmed Barry denuncia ha dichiarato ai microfoni di Radio France intérnationale che l’incontro non era dunque per riflettere, ma per dare ufficialità a un prolungamento della giunta al potere e che il Burkina è gestito da un regime militare, e non è più in una transizione.

In effetti, le voci non allineate con il regime sono messe a tacere. Come nel caso dell’avvocato Guy Hervé Kam, noto esponente del movimento della società civile, arrestato segretamente e tenuto nascosto per quattro mesi. Finalmente lo scorso 30 maggio, i suoi avvocati hanno potuto visitarlo in cella e capire il controverso capo di accusa.

Consenso popolare

Nonostante la deriva autoritaria del regime di Traoré e la stretta sui diritti civili, il presidente gode di una grande popolarità tra la popolazione.

Il pretesto della presa del potere con la forza era stata la situazione di grande insicurezza causata da gruppi jihadisti attivi in gran parte del Paese.

Il regime di Traoré, affiancato da milizie civili chiamate «Volontari della patria», difficilmente controllabili, non ha tuttavia migliorato le cose.

Campione di sfollati

Il Consiglio norvegese dei rifugiati (Nrc) ha pubblicato un rapporto nel quale classifica gli spostamenti di popolazione nel mondo a causa dei conflitti. Il Burkina Faso, nel 2023 per il secondo anno consecutivo, si trova al primo posto, seguito da Camerun, Repubblica democratica del Congo, Mali, Niger, Honduras, Sud Sudan, Centrafrica, Ciad e Sudan.

In Burkina si contano circa due milioni di persone sfollate interne, con oltre 707mila spostamenti solo nel 2023 (un incremento del 61% rispetto al 2022), su una popolazione di circa 23 milioni. I rifugiati burkinabè in altri paesi sono tra il 60 e i 150mila. Gli abitanti in fuga dagli attacchi degli islamisti sono dunque in aumento.

L’Alto rappresentati dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, il 31 maggio scorso, si è detto molto preoccupato sottolineando un incremento del 65% (tra novembre 2023 e aprile 2024) delle uccisioni di civili nel Paese. Vittime causate, oltre che dai gruppi armati jihadisti, anche dalle forze di sicurezza e dai Volontari della patria. Turk chiede un’inchiesta internazionale indipendente sulle violazioni e gli abusi, e che lo Stato assicuri la protezione dei propri cittadini.

Intanto il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergej Lavrov, nella sua tourné africana, è stato il 5 giungo scorso a Ouagadougou dove ha incontrato il presidente Ibrahim Traoré, fresco di conferma fino al 2029. Traoré aveva partecipato al summit Russia-Africa del luglio 2023, dove si era distinto per un discorso zeppo di demagogia. Diversi accordi di tipo militare e tecnico sono, da allora, stati firmati tra i due paesi, compreso l’invio di istruttori russi per l’esercito, arrivati nel novembre scorso. L’ambasciata di Russia a Ouagadougou è stata riaperta nello stesso periodo, a sottolineare relazioni sempre più strette. Tratto questo che il Burkina Faso ha in comune con Mali e Niger, con i quali ha creato, nel settembre dello scorso anno, l’Alleanza degli stati del Sahel.

Marco Bello




Mondo. La geometria variabile dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani risale al 1948. La realtà è però diversa dalla teoria. Oggi più che mai.

«Siete dalla parte giusta della storia», si sono sentiti dire gli universitari americani per la loro difesa della causa palestinese. Parole pronunciate dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della teocrazia iraniana che lo scorso 30 maggio – tramite X – si è rivolto direttamente a loro. Il complimento si è immediatamente trasformato in un palese imbarazzo visto che proveniva da un grande violatore dei diritti umani, leader di un Paese dove non esiste libertà.

Il fatto ha riproposto all’attenzione pubblica internazionale molti interrogativi. Uno di essi può trovare una sintesi nella seguente domanda: al di là delle dichiarazioni teoriche (la principale è quella del 1948), nella realtà esiste una definizione universale dei diritti umani?

In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da divisioni e guerre, la risposta è «no, non esiste». Ogni stato – sia esso una democrazia o una dittatura – è convinto di rispettare i diritti umani, convinzione che spesso assume aspetti grotteschi. Prendiamo, ad esempio, la Cina di Xi.

Il complimento dell’ayatollah Kamenei, guida suprema della teocrazia iraniana, agli studenti statunitensi.

Lo scorso marzo un dipartimento del Comitato centrale del Partito comunista cinese ha organizzato – anche se pare impossibile – il terzo Forum internazionale sulla democrazia, come ha raccontato anche il «China Daily», il principale quotidiano in lingua inglese di Pechino. La democrazia – è stato detto durante il Forum – può assumere forme diverse a causa delle diverse situazioni dei paesi. Per parte sua, la Cina è un campione di democrazia. Infatti, afferma l’articolo, «pratica la “democrazia popolare integrale”, che consiste nel rendere la democrazia presente in tutti gli aspetti» (economia, politica, cultura, società, ecologia).

Difficile capire come la democrazia declinata alla cinese spieghi la mancanza di libertà in Tibet o nello Xinjiang o la repressione in atto a Hong Kong o tutto il potere concentrato nelle mani del Partito comunista e del suo leader Xi Jin Ping. Meglio allora – avrà pensato il presidente cinese – giocare d’attacco. A maggio è, quindi, uscito «The Report on Human Rights Violations in the United States in 2023», un rapporto sulle violazioni dei diritti umani negli Usa stilato dallo State council information office (Scio), l’ufficio informazioni del consiglio di stato cinese.

«La situazione dei diritti umani negli Stati Uniti – si legge nell’incipit – ha continuato a peggiorare nel 2023. Negli Stati Uniti, i diritti umani stanno diventando sempre più polarizzati. Mentre una minoranza al potere detiene il dominio politico, economico e sociale, la maggioranza della gente comune è sempre più emarginata e i suoi diritti e le sue libertà fondamentali vengono ignorati. Uno sconcertante 76% degli americani ritiene che la propria nazione vada nella direzione sbagliata».

John Lee, ex poliziotto, è il «chief executive» che Pechino ha messo alla guida di Hong Kong. (Foto GovHK)

Negli Usa i problemi certamente non mancano, ma che i diritti umani vengano ignorati è pura propaganda di Pechino per distrarre l’opinione pubblica dai problemi cinesi. A fine maggio, a Hong Kong, 14 esponenti del locale movimento per la democrazia sono stati condannati in base alla legge sulla sicurezza nazionale (nota come «Articolo 23 della Legge fondamentale»), imposta da Pechino e firmata lo scorso 23 marzo dal governatore John Lee (un ex poliziotto, vincitore di un’«elezione» in cui era il solo candidato). Probabilmente la triste esperienza di Hong Kong fa sì che anche gli abitanti di Taiwan guardino con terrore a una eventuale riunificazione con la Cina.

A ulteriore riprova della distanza esistente tra la seconda potenza mondiale e il modello democratico, c’è la Conferenza internazionale per la pace in Ucraina, prevista a Bürgenstock (Canton Nidvaldo, Svizzera) per il 15 e 16 giugno. Nonostante sia stata invitata, la Cina non vi parteciperà, prendendo a pretesto l’assenza della Russia ma confermando – una volta di più – di stare dalla parte dell’aggressore e, in generale, dei sistemi anti democratici. Da ultimo, lo scorso 4 giugno è stato il 35.mo anniversario della repressione di piazza Tiananmen (4 giugno 1989), che a Pechino è passato sotto il silenzio più assordante. E chi se ne importa dei diritti umani.

Paolo Moiola




Sudafrica. Sconfitto l’Anc

 

Il 1994 fu un anno storico per il Sudafrica. Con la fine dell’apartheid e l’apertura democratica, l’African national congress (Anc), il vecchio movimento di liberazione nazionale guidato da Nelson Mandela, vinse le elezioni con il 63% dei consensi.

Trent’anni dopo, il partito è sceso per la prima volta al di sotto della maggioranza assoluta. Un declino che era in atto da tempo, quantomeno dalla presidenza Zuma, caratterizzata da continui scandali di corruzione e da una cattiva gestione delle risorse statali.

I risultati
Come previsto dai sondaggi, l’Anc si è fermata al 40%, crollando nettamente rispetto al 57% del 2019. Il colpo si è sentito anche a livello provinciale: il partito ha perso la maggioranza assoluta nel KwaZulu Natal, Gauteng e Northern Cape. L’Anc ha pagato le accuse di corruzione che hanno colpito i suoi membri, la disoccupazione dilagante e la stagnazione economica.
Ma soprattutto ha sofferto l’ascesa di un nuovo movimento politico: l’uMkhonto we Sizwe (Mk), fondato a fine 2023 da Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica (2009-2018). L’Mk ha avuto successo a livello nazionale con il 14,6% dei consensi e ha sfiorato la maggioranza assoluta (45%) nella sua roccaforte, il KwaZulu Natal. L’Mk ha eroso voti all’Anc ma anche agli Economic freedom fighters (Eff), fermatisi al 9,5% (10,8% nel 2019).
La Democratic alliance (Da) si è invece confermata il maggiore partito di opposizione con il 21,8% e si è assicurata per un altro quinquennio il governo della provincia del Western Cape.

Gli scenari futuri
L’assenza della maggioranza assoluta impone all’Anc di creare un governo di coalizione. Un qualcosa di mai visto finora a livello nazionale, ma che localmente si è già verificato più volte. Dalla pubblicazione ufficiale dei risultati (2 giugno), i partiti hanno quattordici giorni per tentare di costituire delle alleanze e individuare il futuro presidente. Il 16 giugno infatti, il nuovo Parlamento si riunirà e il suo primo compito sarà nominare il capo dello Stato.
Un punto sembra fermo: l’Anc – in quanto partito che ha ricevuto la maggioranza dei voti – sarà il leader della nuova coalizione e molto probabilmente esprimerà il futuro presidente. Un governo che non la includa è altamente improbabile, oltre che complesso da costituire.
La questione quindi è con quale o quali partiti l’Anc deciderà di allearsi. Secondo alcuni osservatori, il suo alleato naturale sono gli Eff di Julius Malema, ex leader dell’ala giovanile dell’Anc. Ma i rapporti tra gli esponenti dei due partiti sono tesi e manca un’intesa sulla riforma della terra, questione centrale per gli Eff. La proposta avanzata da Malema in campagna elettorale – alleanza in cambio del ministero delle Finanze – è già stata rifiutata dall’Anc. Inoltre, questa coalizione avrebbe comunque bisogno del supporto di almeno un altro partito per garantirsi la maggioranza.

L’opzione più caldeggiata dai mercati e dal mondo imprenditoriale è un’alleanza tra Anc e Da. La coalizione includerebbe i due maggiori partiti del Paese ed escluderebbe le formazioni più radicali. Anc e Da condividono posizioni conservatrici sull’economia, ma divergono nettamente in politica estera: se l’Anc ha accusato Israele di genocidio dei palestinesi; la Da rigetta le accuse. Tuttavia, il leader della Da, John Steenhuisen, ha annunciato di voler fare tutto il possibile per evitare la “doomsday coalition” (la coalizione della fine del mondo) tra Anc, Mk ed Eff.

Zuma, il reale vincitore
A emergere come reale vincitore delle elezioni è stato Zuma. Il suo Mk ha superato ampiamente le previsioni dei sondaggi, ponendosi come interlocutore significativo per il nuovo governo. Infatti, con l’eccezione di un’alleanza tra Anc e Da, in tutti gli altri casi l’Mk potrebbe portare i voti necessari per arrivare alla maggioranza.
Nonostante abbia denunciato che le elezioni sono state rubate, Zuma ha in effetti aperto a negoziati con l’Anc. Ma ha anche posto una condizione: sostituire l’attuale presidente, Cyril Ramaphosa.

Democrazia che funziona
Il voto ha confermato il funzionamento delle istituzioni democratiche sudafricane: l’Anc ha accettato i risultati annunciati dalla Commissione elettorale e invitato gli altri partiti a collaborare per dare un governo al Paese. Non ha tentato di mantenere il potere, sconfessando o manipolando i risultati, come avviene in altri Stati della regione (ad esempio, Zimbabwe e Mozambico).
Il Sudafrica quindi è il primo Paese dell’Africa australe dove l’erede di un movimento di liberazione nazionale ha accettato la sconfitta elettorale e si è reso disponibile a creare una coalizione. Confermando la forza delle sue istituzioni democratiche.

Aurora Guainazzi