Il carcere uccide

Analisi di un sistema penale che non funziona

Dietro le sbarre (© chinaface)
Italia
Mattia Gisola

Il 2024 potrebbe essere l’anno che segna un nuovo record di suicidi nelle carceri italiane. Aumentano le leggi repressive che portano a reati ma mancano gli spazi e le risorse per percorsi dignitosi. Facciamo un approfondimento delle condizioni della detenzione insieme a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

Matteo, Stefano, Alam, Fabrizio, Andrea, Mohmoud. Questi sono alcuni dei nomi delle dodici persone che si sono tolte la vita nelle carceri italiane nel primo mese di questo 2024. Dodici persone che hanno scelto, se di scelta si può parlare, di stringersi un nodo intorno alla gola piuttosto che affrontare la detenzione.

A febbraio sono stati nove i suicidi, a marzo sette, ad aprile cinque. Una lista di nomi che ogni mese diventa più lunga e straziante. Una lista di nomi che, se trasformata in una fredda serie di numeri, ci mostra una statistica che non accenna a migliorare. Il record, negativo, è stato raggiunto nel 2022, con un totale di 85 suicidi; nel 2023 sono stati 70 e i dati del 2024 sembrano tendere a un nuovo primato, tanto che anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è sentito in dovere di intervenire per chiedere cambiamenti urgenti sul tema.

L’articolo 27 della nostra Costituzione recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Se il sistema che dovrebbe rieducare le persone incarcerate per reintrodurle nella società migliori di prima le porta, invece, a togliersi la vita con questa frequenza, diventa necessario interrogarci su quanto funzioni e rispetti i diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale.

Celle ad Alcatraz, San Francisco, USA. (© Lisa Blue)

La situazione nelle carceri

A portare avanti la discussione su questo tema c’è in prima linea, dalla fine degli anni Ottanta, l’associazione Antigone.

Fin dalla sua nascita, l’associazione si impegna per i diritti e le garanzie nel sistema penale compiendo ricerche, indagini e promuovendo dibattiti. Il 22 aprile è uscito il suo nuovo rapporto annuale, intitolato «Nodo alla gola», che per questo 2024 mette a fuoco proprio il tema dei suicidi nelle carceri.

Abbiamo intervistato Patrizio Gonnella, giurista e docente universitario che dal 2005 è anche presidente di Antigone, per provare a comprendere più a fondo i problemi che affliggono il carcere e i suoi abitanti.
Gonnella spiega che, prima di tutto, le condizioni di vita nelle carceri sono fortemente condizionate dal numero di persone detenute. Il giorno del nostro incontro di aprile erano 61mila le persone in carcere, a fronte di una capienza regolamentare di 51mila posti, senza contare ulteriori 3.500 chiusi temporaneamente per diverse ragioni.

«Ciò significa che le persone presenti devono dividersi gli spazi residui che rimangono e questo, come si può immaginare, incide sulla qualità delle condizioni di vita», dice Gonnella, spiegando che gli spazi sono innanzitutto quelli fisici delle celle. Queste sono spesso troppo piccole e inospitali e, in alcuni casi, comprendono, senza separazione, anche i servizi igienici, come hanno potuto constatare gli operatori di Antigone durante le loro visite.

Gonnella aggiunge poi che si parla anche di mancanza di spazi dedicati alle attività scolastiche, educative, di cura e socializzazione. Attività fondamentali per costruire un percorso dignitoso che punti davvero al reinserimento nella società.

Persone fragili

«Questa è una condizione generale che, ovviamente, viene aggravata dalla tipologia delle persone presenti, – continua Gonnella -. Molti di loro oggi presentano condizioni pregresse di vulnerabilità sociale, sanitaria o sociosanitaria, problemi di dipendenze, di doppie diagnosi, sia psichiatrica che tossicologica, stranieri che sono già a loro volta esclusi e che finiscono in carcere completando questo percorso di esclusione».

Aggiunge poi che «soprattutto nelle grandi carceri delle metropoli è possibile osservare una vera e propria reclusione di massa di persone che sono i reietti sociali e quindi l’ultimo gradino nella gerarchia delle classi sociali». Sono persone che spesso non hanno gli strumenti per gestire il forte stress della detenzione e che, se non seguite adeguatamente, vanno ad aggravare la situazione di un ambiente già segnato da alta tensione.

Tutto questo si ripercuote sulla psiche delle persone detenute che si ritrovano catapultate in uno stato di isolamento, abbandonate a loro stesse, con pochissime possibilità di essere seguite in una qualche forma di percorso socializzante ed educativo, e a cui sono spesso limitate fortemente le possibilità di contatti verso l’esterno.
Quando sollecitato su come tutto questo influisca sulla loro salute mentale, Patrizio Gonnella fa notare come nella stessa etimologia della parola «pena» sia intrinseca la componente della sofferenza. Spiega poi come il carcere rappresenti di per sé una condizione di disagio e induca patologie. Inoltre le persone che vi entrano, spesso presentano già da prima stati ansiosi e depressivi. Questi possono innescare episodi di tensione, violenza, autolesionismo, o addirittura portare al suicidio.

Filo spinato ai confini con la Russia (© Evgeny Kuklev)

Isolamento letale

Il suicidio è un gesto che va analizzato caso per caso, ogni episodio ha la sua storia e le sue motivazioni. Quando però i casi sono così numerosi è chiaro che ci sono delle condizioni di sistema che influiscono sul fenomeno. Diventa quindi fondamentale studiare la situazione per poter intervenire in maniera puntuale.

Gonnella elenca alcuni ambiti su cui agire. Spiega come sia necessario «far sì che la prima accoglienza sia una delle fasi nelle quali si investano più energie umane ed economiche. La persona quando entra in carcere deve essere presa in carico, in cura, e non messa nei luoghi peggiori dell’istituto, dove le idee suicidarie possono rafforzarsi». Dalle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere si nota, infatti, come spesso l’atto estremo sia avvenuto nel primo periodo di detenzione.

L’isolamento è sicuramente uno dei fattori centrali nel determinare il deterioramento psicofisico che l’esperienza carceraria induce. «Bisogna aumentare i rapporti con l’esterno – continua Gonnella -, aumentare il numero delle telefonate e la durata delle stesse, aumentare i colloqui e le videochiamate. Bisogna far sentire la persona il meno sola possibile e far sì che ci sia vita all’interno del carcere. Vita significa che girando per le sezioni i detenuti possano sentire di non essere completamente abbandonati, che ci sono opportunità, possibilità di svago, di pensare ad altro e non solo alla propria condizione di recluso. Questo è l’impegno che deve avere l’amministrazione: modernizzare, innovare e umanizzare la pena».

I tassi di recidiva

Non è solo una questione di sacrosanto rispetto della dignità umana dei detenuti. Il sistema penale, infatti, oltre a non garantire un trattamento adeguato alle persone che ha in carico non riesce nemmeno a dare una vera sicurezza al resto della società.

La maggior parte della popolazione detenuta non si trova in carcere per la prima volta, ma per la seconda, terza, quarta o quinta. I tassi di recidiva sono altissimi, secondo alcuni recenti dati diffusi dal Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) circa il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati. Emerge in maniera chiara, quindi, che la funzione rieducativa del carcere richiesta dalla nostra Costituzione non è solo un dovere nei confronti della persona che si è macchiata di un reato, ma anche nei confronti della società che si aspetta di poter reintegrare gli ex detenuti.

I dati ci dimostrano che uno degli strumenti più potenti in questa direzione è il lavoro. Gli ex detenuti reintrodotti nel mondo del lavoro tornano a commettere reati solo nel 2% dei casi (sempre secondo i dati diffusi dal Cnel). A riprova che percorsi virtuosi ed efficaci possono esistere e che il carcere, ricevendo persone spesso ai margini della società, deve lavorare per ridare loro dignità e non per alimentarne l’esclusione.

Il presidente di Antigone sottolinea un’altra criticità: i dati in materia di recidiva sono pochissimi. Non ci sono indagini ufficiali per capire quali tipi di percorsi culturali, scolastici, lavorativi o psicologici, possano impattare su questi numeri. Una buona politica criminale dovrebbe, invece, cercare di capire quali percorsi ed elementi possano influire per potenziare determinate aree di intervento.

Populismo penale

Queste storie tragiche e questi numeri dovrebbero indurre a utilizzare la strada della detenzione esclusivamente come ultima spiaggia, quando proprio non c’è alternativa. C’è però una tendenza della politica a utilizzare il carcere come risposta ai problemi di sicurezza del nostro paese, per rassicurare le persone promettendo la via più rapida e scenica, quella di togliere dalle nostre città le persone che potrebbero procurare qualche tipo di disagio.

Anche Carlo Nordio, attuale ministro della Giustizia, ha spesso criticato questo approccio durante la sua carriera. Pochi minuti dopo il suo giuramento al Quirinale, avvenuto il 22 ottobre 2022, aveva affermato alla stampa: «La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati. Quindi anche eliminando questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali. Questo non è vero».

Il governo di cui fa parte non sembra però seguire la stessa linea. La squadra guidata da Giorgia Meloni ha, in questi mesi, aumentato e introdotto ulteriori reati per rispondere a diversi fenomeni, più o meno gravi.

«È quello che possiamo chiamare populismo penale -, spiega Gonnella – una tendenza a rassicurare l’opinione pubblica attraverso l’opzione carceraria. È una rassicurazione simbolica, perché in realtà non c’è un legame tra aumento delle pene e aumento della sicurezza collettiva. È una risposta rassicurante che viene data prescindendo dai dati statistici e di realtà e che parla alla pancia delle persone».

Alternative

Discutendo con il nostro interlocutore, infine, su come bisognerebbe agire emerge la necessità di intervenire su due assi: ridurre il numero di reati punibili con il carcere e il numero dei detenuti, e migliorare le condizioni della detenzione.

Patrizio Gonnella sostiene che andrebbero fortemente limitate le fattispecie dei reati che portano alla carcerazione, escludendo da questo ragionamento il crimine organizzato, i delitti contro la persona e alcuni contro il patrimonio. Per tutto il resto invece bisognerebbe sanzionare in modo diverso e più efficace, ad esempio con attività a favore della collettività, sempre con l’attenzione a non limitare le attività lavorative e di istruzione. Il presidente di Antigone afferma con decisione la necessità di «sganciare dal penale tutto ciò che ha a che fare con il disagio, perché il disagio va affrontato con le politiche di welfare». Bisogna infatti evitare di costruire una spirale che escluda sempre di più gli emarginati e favorire azioni che aiutino le persone a superare le difficoltà che le spingono nella criminalità.

L’altro versante è quello del carcere, ambiente che andrebbe fortemente modernizzato e umanizzato. Stare in carcere non deve significare stare in cella, ma piuttosto, ricorda ancora Gonnella, «trascorrere le ore notturne in cella e le ore diurne in attività che possono essere di scuola, lavoro, sport, cultura, intrattenimento e così via. In modo tale che si possano avere a disposizione quelle opportunità che nella vita non si sono ancora avute o che non si sono volute prendere».

Mattia Gisola

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