I Contadini di Dio
- Lontani dalle tentazioni del mondo.
- Una storia svizzera e olandese
- Anno 1527, le sette regole e il sermone
- Pacifismo radicale e fuga dal mondo
- A Santa Cruz, conservatori e autonomisti
- Donne che parlano
- Hanno firmato il dossier
Lontani dalle tentazioni del mondo
Vita quotidiana dei Mennoniti boliviani
Occupano le pianure della Bolivia orientale. Chiusi nelle loro comunità, vivono di agricoltura. Parlano il plautdietsch, una sorta di dialetto tedesco. Sono i mennoniti, una popolazione anabattista che, per obbligo religioso, vive isolata dal resto del mondo. Un nostro collaboratore e un fotografo hanno visitato alcuni villaggi mennoniti e conversato con gli abitanti. Questo è il loro reportage.
San Miguel Gruenwald (Conceptión). Il maestro legge ad alta voce e i bambini – biondi, tutti vestiti uguali, camicia e salopette – ripetono in coro. Le bambine – bionde, tutte vestite uguali, foulard in testa – trascrivono le frasi di un libro. Nella scuola, tra i banchi di legno, la luce del mattino quasi non arriva. Fuori, il sole illumina i campi di mais, i grilli cantano, un calesse trasporta taniche di latte.
San Miguel – 23 famiglie di agricoltori e allevatori, senza acqua corrente né elettricità – è una colonia mennonita nella pianura di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia orientale. È qui che, nel 1954, arrivarono una decina di mennoniti, decisi a mantenere unita la comunità e sfuggire alle tentazioni del mondo. Oggi ce ne sono centomila.
Nella scuola di San Miguel è il momento della pausa. Per prendere il sole sul prato, bambini da una parte, bambine dall’altra. Nella sala in penombra, il maestro mi mostra il libro di testo: una bibbia in caratteri gotici, tradotta in plautdietsch, un tedesco antico con influenze olandesi. La lingua di Menno Simons, anabattista e capostipite mennonita. «La sofferenza è la consolazione del fedele», scriveva nel 1539.
Il maestro è un uomo sui 30 anni dal volto caprino. «E qui disegnano i bambini?», chiedo.
Il maestro rimane muto. «Disegnare, arte, pittura», insisto. Provo a spiegarmi, mi metto a gesticolare. E penso che non avevo mai dovuto cercare le parole per definire «disegnare».
Alla fine, risponde in uno spagnolo singhiozzante con i verbi all’infinito: «No, questo no. Qui solo leggere, scrivere e contare».
Abram e l’Apocalisse
Sono arrivato a San Miguel Gruenwald con Fabiomassimo Antenozio, fotografo che dal 2020 porta avanti un progetto sui mennoniti della provincia di Santa Cruz. La colonia è nata tredici anni fa, quando alcune famiglie mennonite abbandonarono altre colonie.
«Dove stavamo prima, i giovani avevano molte tentazioni, la sera si riunivano per bere, andavano con le donnacce», ci dice Enrique Lowen.
È alto, un po’ ingobbito, magro, radi capelli bianchi gli arrivano alle tempie, lunga barba bianca incolta. Nato in Messico, è arrivato in Bolivia quando aveva 11 anni, oggi ne ha 62 ma ne dimostra dieci in più.
Le case di San Miguel sono tutte simili: un pianterreno con muri di mattoni, tetto di zinco, ampio giardino. Attorno ad alcune si trovano cavalli, galline, alberi da frutto, macchine da lavoro. Le porte non hanno serrature, i cani non hanno collari, il terreno non è recintato.
Abram, il gemello di Enrique, è uno dei due capi della comunità, il più anziano. I due fratelli sono identici anche nell’abbigliamento: salopette, camicia logora e cappello da cowboy.
Ci accoglie nel patio di casa, sistema in cerchio alcune sedie di plastica. Il dialogo è un po’ lento, è difficile trasformarlo in un’intervista, bisogna superare lo scoglio dello spagnolo elementare che parlano i mennoniti e trovare temi comuni.
Abram spiega che nella colonia non hanno il telefono, non gli interessa averlo. Nemmeno per le emergenze.
«Non usiamo la tecnologia».
«Anche il pozzo da cui attingete l’acqua è tecnologia», dico, calandomi nel ruolo dell’inquisitore.
«Ho paura di ciò che non si vede. Il telefono non si vede come funziona, il pozzo sì. Abbiamo le carte d’identità scadute, quelle nuove hanno il chip, non vogliamo usarle. Quando arriverà la bestia, nel giorno dell’Apocalisse, noi saremo indipendenti dalla tecnologia, tu no».
Mi parla con pazienza, senza animosità, come se spiegasse ovvietà a uno un po’ lento di comprensione. Poi apre una Bibbia in spagnolo e indica con il dito una pagina: «La conoscenza è il male. Guarda la prima lettera ai Corinzi 1:18-19: “Distruggerò la sapienza dei saggi e distruggerò l’intelligenza degli intelligenti”».
Ritorna il silenzio.
Le donne dei mennoniti
A due case di distanza vivono Abram Klasen, il fabbro, e sua moglie Margaret Enss, che ha lavorato per due anni come assistente in un ospedale di Santa Cruz. Così è diventata farmacista e ostetrica della colonia.
Nel suo studio, una stanza accanto alla casa, c’è un armadio in legno pieno di farmaci: olio di merluzzo, complesso B, paracetamolo, integratori di ferro. Margaret parla a malapena lo spagnolo, capisce un po’ le nostre domande e risponde con poche parole. Prescrive medicine a una donna con il suo bambino in braccio.
Qui le donne non vedono un medico durante la gravidanza. Nessuna fa un’ecografia.
La cena a casa di Enrique viene servita subito dopo il tramonto. Fuori il buio è quasi totale, c’è solo la luce della luna, delle stelle e delle lucciole. A casa, la famiglia si riunisce attorno al tavolo. Nella stanza illuminata dalla lampada a olio si mangiano fagioli, mais, pane integrale, formaggio e maionese del supermercato. Una preghiera silenziosa anticipa il pasto. Dopo cena, le donne puliscono silenziosamente la tavola. Poi tutta la famiglia si riunisce per leggere e chiacchierare. Una delle figlie di Enrique è sordomuta, legge lettere in plautdietsch sul giornale della comunità.
A scuola non si insegna lo spagnolo. Gli uomini lo imparano parlando con i boliviani, serve loro per commerciare. Le donne non hanno quasi contatti al di fuori della colonia. Ma, secondo Enrique, la lingua dovrebbero impararla: «Perché mia moglie non diventi gelosa quando parlo con una donna boliviana».
Bisogna rimanere umili
Affonda nella sedia in legno, sembra avere un peso che lo opprime: «Il mondo è pieno di male, di tentazioni della carne. Un peccato è il desiderio di fare altre cose, di lasciare la colonia. Perché dopo un po’ la Bibbia diventa ripetitiva, le passeggiate per la colonia monotone. Voi avete la televisione e il cellulare, non vi annoiate. Ma non potete vivere senza tecnologia. Qui a volte mi annoio. Questo perché la mia fede è fragile, vorrei che fosse più solida».
Dopo colazione, con una bevanda d’orzo in polvere Nestlé, gli uomini di casa di Enrique legano tre cavalli attorno a una ruota. Il movimento circolare degli animali aziona un meccanismo la cui energia alimenta la lavatrice e il mulino per cereali, ai quali lavorano le donne. San Miguel è una delle colonie più conservatrici, rifiuta non solo la tecnologia, ma anche il diesel, i conti bancari, i prestiti con interesse.
«So che pensate che tutto questo sia una follia, ma noi vogliamo rimanere umili. Dio avrà misericordia degli umili», ci dice Enrique, mentre il figlio scaccia i pappagalli verdi che mangiano il mais, spaventandoli con la fionda, «slang» in plautdietsch.
Nella scuola di San Miguel
Al mattino, torniamo nella chiesa che funge anche da scuola. Biondi, magri e silenziosi, sedici bambini e tredici bambine svolgono i loro compiti. Per rispondere alle domande del maestro, aprono il palmo della mano e lo alzano discretamente. Maria, la figlia appena nata dei due maestri (ma la donna rimarrà in silenzio per tutta la durata della nostra visita), dorme in una culla accanto alla lavagna. Il maestro dal volto caprino chiede al mio collega di smettere di scattare foto.
«Disturba i bambini. Mi fa schifo che tu abbia scattato delle foto», dice amareggiato, nel suo spagnolo stentato.
Ci scusiamo. Risponde scusandosi a sua volta.
Gli edifici di San Miguel – case, chiesa, segheria, officine, caseificio, latrine – si ergono su entrambi i lati di una strada sterrata che percorriamo con la nostra jeep. Di tanto in tanto, dobbiamo accostarla per far passare i carri trainati dai cavalli. Quello condotto da un anziano si accosta al finestrino della jeep. L’uomo ha un dolore al ginocchio, dovrebbe operarsi.
«Non lo farò, devo resistere ancora un po’, sono vecchio. E come va la guerra? Il tuo paese è con la Russia o l’Ucraina?».
A cena da Cornelius
Cornelius Remar ha ventinove anni, cinque figli e quattordici ettari di terreno. Capelli rossastri, barba rada dello stesso colore, pelle bianca madreperla. È uno dei due capi della colonia San Miguel, il più giovane.
«Ti piace essere il capo?», gli chiedo.
Alza le spalle: «Che ci posso fare? Devo rispettare l’obbligo, la decisione della comunità».
Ci invita a sederci nel patio di casa sua, ci mostra il libro con cui ha imparato lo spagnolo.
«È stato difficile, ma lo parlo. Ai miei figli, di tanto in tanto, dico qualche parola in spagnolo. Lo impareranno quando saranno più grandi.
Noi vendiamo tori vivi ai macelli di Santa Cruz, un animale si vende tra i 1.000 e i 1.500 dollari. Una mucca da carne si vende a circa 500. Ho mucche bianche, mi piace il colore».
Ceniamo con la famiglia di Cornelius, attorno ad un tavolo di legno. I bambini non mangiano con noi e ci guardano incuriositi. Ci sono ciotole di mais, spaghetti integrali, insalata di cetrioli, una bevanda dolce alla frutta e un barattolo di maionese fatta in casa.
«Mio suocero fa la maionese, a casa ha un frullatore», racconta Cornelius con una punta di entusiasmo. È preoccupato perché ha sentito che i «paisanos collas» (indigeni boliviani degli altipiani) stanno occupando la terra dei mennoniti.
«Non possiamo fare niente, ce ne andiamo. Siamo preoccupati per questo e per la Mas (dice “la” Mas riferendosi al Movimento verso il socialismo, partito che domina la politica boliviana dal 2006, ndr). Se entra il comunismo abbiamo paura di perdere i nostri privilegi».
Cornelius è nato in Argentina, i suoi genitori in Messico, i suoi nonni in Canada e i suoi figli in Bolivia. I mennoniti sono sempre stati in movimento. L’idea della persecuzione ce l’hanno piantata nell’inconscio.
In un capanno di fianco a casa, Cornelius aziona la ruota trainata da cavalli per macinare chicchi di mais, sorgo, crusca e soia per nutrire i maiali. Il rumore del mulino sovrasta le voci, bisogna gridare per farsi sentire. Uno dei cavalli ha una ferita in bocca che si allarga con il movimento della briglia e dalla quale esce del pus. Cornelius ha provato a pulirla, hanno chiesto a un veterinario, ma non sono riusciti a curarla.
«Cosa ti piacerebbe per il futuro?».
«Non voglio che progrediamo nella tecnologia ma nello sviluppo spirituale», dice mettendosi la mano destra sul cuore.
Martin, salopette e barba da profeta
Martin Brun ci accoglie nel suo giardino, ci sediamo sotto gli alberi da frutto, ci offre acqua e chirimoya (annona). Ha 62 anni, una lunga barba da profeta, il naso aquilino, l’immancabile salopette, il cappello e uno sguardo curioso.
«Ti piacerebbe viaggiare?», chiedo. In verità, più che chiedere cerco una via d’uscita dal ruolo dell’inquisitore. Si sente il canto delle cicale.
Martin guarda gli alberi del giardino.
«Per viaggiare è necessario avere soldi. Viaggio solo se ho qualcosa da fare. Quanti ettari hai nel tuo paese? Il tuo lavoro è scrivere per il giornale? Non capisco come si possa guadagnarsi da vivere solo con il giornalismo». Le notizie volano, penso tra me e me.
Accanto alla casa, il giovane Abram, 17 anni, il figlio più giovane di Martin, ha trasformato un capannone in un magazzino dove vende strumenti da lavoro, collane, grattugie, giochi per bambini, tutto confezionato in buste di plastica con etichette made in China. La produzione cinese ha raggiunto anche la comunità più conservatrice dei mennoniti boliviani.
Il giovane Abram ha un innato senso degli affari e mi convince a comprare un cappello a falde larghe e un barattolo di miele.
Insieme a suo fratello ci chiede di poter usare il nostro telefono per chiamare il loro fratello maggiore, trasferitosi in America Centrale, in Belize. Sognano di poter andare a trovarlo.
«Lì usano le lampade elettriche, uccidono i maiali con la pistola, non usano coltelli».
I due fratelli ci portano su un carro con le ruote di ferro trainato da due cavalli. Con il mio telefono registro un video, gli mostro la macchina fotografica. Con gli adulti non abbiamo usato i nostri dispositivi tecnologici, con i due ragazzi mi sento come se stessi facendo loro assaggiare un frutto proibito.
Disboscatori implacabili
Raggiungiamo una collina di pietra bianca, ricoperta di alberi e cactus.
«La c’era la tana del leone». Indicano una grotta nella roccia. In realtà, qui non ci sono leoni. Si riferiscono ai giaguari, endemici nel bosque seco chiquitano. I giaguari stanno scomparendo man mano che la foresta si restringe: tra il 1986 e il 2019 è diminuita del 16%, circa 5 milioni di ettari; gli incendi del 2019 hanno distrutto due milioni di ettari. La Bolivia è il terzo paese con il più alto tasso di deforestazione al mondo. Essa si concentra a Santa Cruz, dove la frontiera agricola si espande per sostenere la produzione di soia. Furono proprio i mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana. Oggi ne producono circa il 16% disboscando fino al 90% delle loro aree: è il tasso di deforestazione più alto di qualsiasi altro tipo di produttore nazionale. Ed espandono le loro terre di circa 80mila ettari all’anno. Se la tendenza fosse confermata, potrebbero occupare un terzo della superficie coltivata della provincia di Santa Cruz, come ci ha spiegato Gonzalo Colque, ricercatore della Fundación tierra.
Il sole è brutale, c’è silenzio sulla collina di pietra bianca, tutt’intorno si vede il tetto del Bosque chiquitano. Il giovane Abram si arrampica agilmente su un albero e fa piroette tra i rami.
Abram, 17 anni, che sogna di viaggiare, che sa come vendere agli sconosciuti, che si esercita come un ginnasta professionista, ha il germe della curiosità nel sangue. E ha già capito che c’è un mondo fuori da questo XVI secolo in cui ci siamo incontrati.
Dopo la cena a casa di Martin andiamo a dormire in una costruzione accanto alla casa. Di notte, nel silenzio della campagna, si leva il canto delle tre figlie di Martin, un canto religioso. Fino a quel momento non avevamo sentito le loro voci.
Il giorno dopo Martin ci accompagna nel quartiere vicino, San Cristóbal. Va a trovare un altro figlio, approfitta del passaggio in jeep e ci indica la strada. In mezzo al bosco si apre una radura.
«Qui c’erano le piste d’atterraggio degli aerei del traffico di droga».
Durante il viaggio accidentato in fuoristrada, la conversazione finalmente scorre.
«Deve essere interessante viaggiare per conoscere. I nostri antenati venivano dall’Europa, non credo di poter andare a vederla, l’Europa».
«Festeggiate il Natale, i compleanni, i matrimoni?».
«Non celebriamo la nascita di Cristo ma la sua sofferenza. Figurati se festeggio il mio compleanno».
Storia delle donne di Manitoba
Ci spostiamo a Manitoba. Questa colonia mennonita è stata fondata nel 1993, oggi ci vivono 1.794 persone: 340 famiglie divise in quindici campi distribuiti su 22mila ettari. In ogni campo una chiesa e una scuola.
I carri hanno ruote in gomma, per l’elettricità vengono utilizzati generatori diesel. Le strade diritte e non asfaltate, le case spaziose con cancelli di legno, tetti di lamiera, i pascoli curati, i silos dipinti di fresco, ci dicono che ci troviamo in una colonia ricca. I recinti ai giardini e i lucchetti alle porte dicono invece che siamo arrivati nella prima fase del capitalismo, quella che ha bisogno di delimitare perché si possa dire «questo è mio».
Qui, tra il 2005 e il 2009, centocinquanta donne e ragazze denunciarono di essere state vittime di stupro. In un primo momento, la comunità spiegò alle autorità di polizia che che si trattava di «selvaggia fantasia femminile» o, più probabilmente, della punizione del diavolo per alcuni dei loro peccati. Le donne non si arresero e riuscirono a dimostrare la verità: erano state drogate con anestetici per cavalli prima di essere violentate da un gruppo di mennoniti della colonia, parenti delle vittime, zii, fratelli o vicini di casa. Le donne dovettero affrontare uomini violenti, una morale che le costringeva al silenzio, e lo Stato boliviano che non si era mai occupato di far rispettare le leggi all’interno delle colonie. Otto mennoniti di Manitoba sono stati giudicati colpevoli con condanne tra i 12 ei 25 anni di carcere.
Allontanare i «brutti pensieri»
La casa di Don Juan si trova accanto alla sua officina metallurgica, dove vengono prodotti macchinari agricoli, trattori e aratri. Sono pezzi unici realizzati a partire dai suoi disegni. Gli ordini superano la produzione e si deve sempre aspettare un po’ per la consegna.
«Ma bisogna migliorare e lavorare, altrimenti i giovani si perdono in brutti pensieri», racconta Don Juan.
L’uomo ha circa 60 anni e vive con la moglie, le figlie e i nipoti. Le donne di casa indossano abiti a due o tre colori, con sobri decori floreali, non si depilano le gambe e hanno i fianchi larghi.
Quando Fabiomassimo mostra loro le foto che gli aveva scattato nel 2020, la barriera della diffidenza crolla e tutti accorrono in fretta a guardare le stampe. Nella casa ci sono due frigoriferi giganti, nella sala da pranzo tre statue kitsch in ceramica dai colori pastello: un pappagallo, un cane, un’aquila. Da un sacchetto pieno di oggetti sbuca anche un grattaschiena in plastica color salmone.
Un genero di Don Juan gioca con un bambino e il suo trattore in miniatura. A cena la sala si illumina con lanterne elettriche, si mangiano hamburger con salse, zuppa di pasta e gelatina per dessert.
Rispetto a San Miguel, nella colonia di Manitoba aumenta la tecnologia, la ricchezza e le recinzioni che la proteggono. E anche la varietà della cucina, dell’abbigliamento e dei sorrisi tra genitori e figli sono maggiori.
Pesticidi e tumori
Anita, sei anni, siede sulle ginocchia del nonno, Don Juan. «Anita lava la tina» (la vasca, in spagnolo) scrive il nonno e la invita a leggerlo al contrario. Anita vive con i nonni perché i suoi genitori sono all’ospedale oncologico di Santa Cruz per assistere sua sorella Eva, malata di leucemia.
Tra i mennoniti si registra un aumento dei tumori, in particolare dei tumori alla pelle e alle vie respiratorie, che sembra legato all’uso di prodotti agrochimici, anche se non esistono ancora prove scientifiche che lo dimostrino, chiarisce Gonzalo Colque, il ricercatore della Fundación Tierra.
Ciò che sembra certo è che i mennoniti non hanno chiari i rischi associati all’uso di prodotti agrochimici, che di solito applicano senza utilizzare protezioni.
«Portatemi al negozio di veleni», ci chiede Don Juan, indicando la nostra jeep. Il magazzino è un grande edificio recintato, con muri di mattoni rossi. Ci sono tonnellate di prodotti chimici per l’agricoltura, sementi geneticamente modificate, macchinari agricoli. Tutto importato. Sul muro di mattoni, un gancio per cavallo.
A Manitoba la modernità dell’agroexport di Santa Cruz convive con il desiderio dei mennoniti di vivere isolati dal mondo.
Jacob, la fede senza rinunce e tristezza
Se la colonia San Miguel rappresenta il tentativo radicale di replicare lo stile di vita di Menno Simons del XVI secolo, la colonia Nuevo Horizonte, dove arriviamo, è l’estremo opposto: 4.400 ettari, 60 famiglie, 300 persone, le strade sterrate hanno le rotonde, i cartelli indicano viale Menno e via Lutero, ci sono cartelli stradali e una pubblicità della Coca-Cola. I mennoniti vestono con jeans e camicia, nessuno indossa cappello di paglia o salopette e si spostano in automobile. Se non ce lo avessero detto, ci sarebbe sembrato di arrivare in una colonia agricola di europei biondi. Nell’emporio della colonia una telecamera punta verso la porta principale e un cartello avverte «Non masticare coca», la foglia della pianta che molti boliviani lasciano macerare in bocca. Jacob Peter, 37 anni, ci accoglie nel suo ufficio al primo piano del magazzino, seduto dietro un computer.
«La Bibbia ci insegna che abbiamo la libertà in Gesù Cristo, non ci dice come dobbiamo essere. Questa colonia è nata con l’idea di fare qualcosa di diverso. Viviamo una vita centrata sulla fede, non sulla rinuncia. Rispetto agli altri mennoniti, abbiamo anche un modo diverso di lavorare, abbiamo fondato un’associazione dotata di personalità giuridica. Guardiamo al futuro, vogliamo che i nostri figli studino per progredire. Vogliamo essere un esempio per gli altri mennoniti, per mostrare loro che è possibile vivere una vita non così sacrificata, che la tecnologia facilita il lavoro, che non è obbligatorio essere tristi. Ho tre figli, le famiglie qui da noi hanno meno figli che nelle colonie tradizionali, dove ce ne sono anche quindici per famiglia».
Jacob ha vissuto fino all’età di 27 anni nella colonia Las Brechas. A 14 anni aveva cominciato a bere, lo faceva di nascosto e aveva continuato fino a diventare alcolizzato. Poi era andato in un centro di riabilitazione.
«È lì ho che incontrato davvero Gesù e la mia vita è cambiata. Quando sono tornato nella colonia Las Brechas ho cercato di spiegare al pastore cosa mi era successo ma non riusciva a capire. Una domenica sono stato espulso dalla chiesa e il lunedì successivo nessun paziente si è presentato nel mio studio di dentista. Mi hanno isolato. Ecco perché sono venuto qui».
Ci porta a fare un giro per Nuevo Horizonte con la sua 4×4. «Qui la terra costa 1.600 dollari per ettaro. Nella zona urbana della colonia, non viene coltivata la soia né è consentito l’allevamento del bestiame».
Nell’abitato spiccano la scuola chiesa, alcune case e qualche silos, ma se non fosse per l’indicazione di Jacob, la differenza con il resto della colonia non si noterebbe. L’auto rallenta a un incrocio: «Ci sono già stati due incidenti stradali qui». Tra me e me penso: chissà come sarebbe una rissa stradale tra mennoniti.
Una scuola diversa
Superiamo incolumi l’incrocio e parcheggiamo davanti ad un edificio moderno con il tetto di lamiera. «Questa è la scuola. Abbiamo insegnanti di spagnolo, tra i docenti ci sono sei mennoniti e un tedesco. Le lezioni sono in spagnolo e tedesco, non in plauditesch. Si insegnano matematica, scienze naturali e musica, si studia dai cinque ai 18 anni. I miei figli devono avere la possibilità di studiare, di essere architetti, ingegneri o medici, qualunque cosa vogliano. Immaginiamo che debbano studiare all’università a Santa Cruz, vivendo in una casa con altri mennoniti, per proteggersi dai pericoli del mondo».
Ci mostra il libro di scienze naturali Las meravillas del mundo sostenido por Dios (Le meraviglie del mondo sostenuto da Dio) di Vara y Cayado, una casa editrice religiosa con sede negli Stati Uniti che distribuisce «testi scolastici con un approccio cristocentrico». Nel corridoio c’è una mappa della Bolivia: è la prima che vediamo nelle colonie che abbiamo visitato.
Accanto alla scuola chiesa ci sono un campo da calcio e due da pallavolo. «La domenica ci incontriamo qui dopo la messa, le donne cucinano, facciamo sport e musica. Qui c’è un matrimonio misto, un mennonita con una donna boliviana, hanno già dei figli. Non vedo i matrimoni misti come una cosa negativa, ma penso che la vita di una coppia con culture così lontane sia difficile», dice Jacob.
Se i figli di Jacob diventeranno medici e andranno a lavorare in città, se la comunità si aprirà al matrimonio misto, cosa accadrà ai mennoniti di Santa Cruz tra tre generazioni? «Solo l’isolamento garantisce di mantenere intatta l’identità, come sanno i pastori che vietano l’insegnamento dello spagnolo e autorizzano solo la lettura della Bibbia».
Pedro, il farmacista
Las Brechas costituiscono un gruppo di colonie nate alla fine degli anni Sessanta fondate da mennoniti provenienti dal Messico. Usano generatori diesel, ma non usano pneumatici.
Quando vai a Las Brechas ti chiedono: che numero? Andiamo a Las Brechas 8 per incontrare Pedro Peter, un uomo sulla settantina, padre di Jacob di Nuevo Horizonte.
Pedro è il farmacista (ma anche dentista) della colonia. Ci riceve nel suo studio, al quale si accede attraverso la sala di un emporio che vende tele monocrome, attrezzi agricoli e saponi. Al centro del suo ufficio si trovano una sedia con poggiatesta che usa per le visite e due scrivanie. Negli armadietti c’è una confezione di Viagra, integratori alimentari, un ossimetro, un cubo di Rubik. «Lo risolvo in meno di tre minuti», dice con un sorriso soddisfatto.
Ci sono pile di libri, riviste, giornali ingialliti. Ci mostra alcuni titoli: «Perché gli uomini hanno i capezzoli?», «Il diritto alla sessualità maschile» (sottotitolo: «Cosa fare quando senti di perdere la capacità sessuale?»); «Abbi cura di te. I risultati sorprendenti della nutrizione orto molecolare».
Su una lavagna, una frase in tedesco: «Una vita senza amore è una tavola apparecchiata con i piatti vuoti».
«Ho imparato lo spagnolo da solo quando avevo 12 anni. Leggevo i fumetti di Condorito, mio padre aveva dei libri a casa e da bambino leggevo come un matto, mi isolavo per leggere. A volte leggo romanzi, ma soprattutto libri di medicina. Leggo in tedesco, spagnolo, un po’ di portoghese e libri di medicina in inglese. Sono sempre tentato nel comprare libri. Quando ne vedo uno sul pensiero positivo non posso resistere. Ho due enciclopedie che utilizzo per parole che non conosco.
I mennoniti non sono interessati alla lettura. Non sono incoraggiati a scuola. Insegnano loro solo a lavorare e a pregare». Lo dice come se parlasse di una comunità alla quale non appartiene.
«I pastori decidono cosa viene insegnato a scuola. E gli insegnanti insegnano ciò che hanno imparato, nel modo in cui è stato loro insegnato. Non sanno nient’altro.
Dovrebbero insegnare lo spagnolo a scuola, anche alle donne. Nel mio studio, alle donne che vengono in gravidanza, dico “andate dal ginecologo, fatevi controllare”. Mi piace il modello della colonia di mio figlio, Nuevo Horizonte. Ma qui a Las Brechas non posso dirlo. Guarda, questo è il mio diario. Scrivo gli avvenimenti principali di ogni giornata. Guarda qui – dice Pedro rivolgendosi a Fabiomassimo -, ho scritto che sei già venuto a trovarmi nel 2020».
«Ti senti più boliviano o più mennonita?», chiedo.
«Mi sento boliviano e mennonita, entrambe le cose. Prima ci riconosciamo come mennoniti e solo successivamente come mennoniti del Paraguay o del Messico».
«Che posto nel mondo ti piacerebbe visitare?».
Silenzio. È un silenzio fruttuoso, Pedro chiude le labbra per pensare alla risposta.
«Le cascate! Vorrei andare a Iguazú. Ma non ho tempo, ho molti pazienti qui. E devo prendermi cura di mia moglie che è malata».
Juan: «Il mondo è pericoloso»
A Las Brechas ci hanno detto che vive un mennonita che ha lavorato per un decennio come guida, accompagnando altri mennoniti in un viaggio di duemila chilometri fino a un ospedale oncologico a San Paolo, in Brasile, che offriva cure a un prezzo inferiore rispetto alla Bolivia. Juan Hildebrand ci accoglie nel patio di casa sua, affacciato su un giardino con carrubi e galline che razzolano tranquillamente.
«Non era un buon lavoro. Troppo tempo lontano dalla famiglia. Non ho insegnato il portoghese ai miei figli, non voglio che facciano il mio stesso mestiere».
Juan però guadagnava abbastanza per non coltivare la terra. Lavorava molto, accompagnava tante persone in Brasile, faceva fino a sei viaggi in un anno.
«Il mondo è pericoloso – ci spiega -. Se la colonia cambia, noi ce ne andiamo. Stiamo già vedendo diversi segnali di cambiamento, cose che non mi piacciono. Mio figlio è uno degli otto leader che si riuniscono nel consiglio dei capi delle colonie a Santa Cruz, è il rappresentante di Las Brechas. Qui non insegniamo lo spagnolo per non avere troppi contatti con il mondo, la lingua è la porta perché le cose cambino. E non voglio che cambino. I mennoniti di San Miguel sono radicali, ma li rispetto. Loro li riconosci dalla barba».
Con la mano fa un gesto per indicare le barbe lunghe e incolte che abbiamo visto a San Miguel.
«Quegli altri, quelli di Nuevo Horizonte, si riconoscono dai loro vestiti, non usano la salopette. Ma sono di un’altra religione. Jacob, il figlio del farmacista Pedro Peter, ha abbandonato la nostra religione. Non posso dire che pecchino, ma secondo me non andranno in paradiso. La Bibbia è la verità. Io ci credo».
Juan Hildebrand ha adottato una ragazza orfana:
«Il loro padre era un alcolizzato, è stato assassinato dalle prostitute, la comunità si è presa cura dei suoi figli. I bambini li devi punire, per evitare le tentazioni», dice chiarendo la sua idea di educazione paterna.
Storia dei fratelli Jacob, artigiani
Parcheggiamo la jeep nel giardino della casa del pastore in Las Brechas 9. Lui non si fa vedere, manda i suoi figli a dirci che è occupato, non vuole riceverci nemmeno più tardi. È così che guida la comunità, rifiutandosi di vedere il mondo.
«Allora, adesso andiamo a visitare i fratelli anarchici della colonia – suggerisce Fabiomassimo. Hanno dei pannelli solari nascosti sul tetto, per non essere scoperti e costretti a rimuoverli». Devia la macchina e si dirige verso una grande casa.
Pedro Jacob, il fratello maggiore, ha un magazzino dove lavora marmo e granito. Produce piani di lavoro per cucine e bagni, e tavoli. Ha 29 anni, occhi azzurri, mani grandi, è bassino con spalle larghe, capelli neri ricoperti di polvere. Non indossa la salopette, ma pantaloni neri, una camicia bianca con strisce azzurre e bretelle bianche e rosse.
«Ho imparato questo mestiere da solo, prima lavoravo la terra, da quattro anni mi dedico a questo».
Ci mostra le sue macchine da lavoro: una per tagliare il marmo in linea retta, l’altra serve per eseguire tagli concavi. Le ha inventate e costruite lui stesso, «perché in Bolivia non si trova nulla».
Per realizzare i tagli concavi utilizza una macchina sulla quale ha installato dei tubetti di plastica che schizzano acqua, per abbassare la temperatura e controllare il turbinio della polvere.
«In Europa rideranno di questa macchina», dice con un po’ di vergogna.
Pedro Jacob ha più richieste di quante ne possa soddisfare. Non vuole assumere più persone ma vorrebbe aumentare il parco macchine. Gli serve un tetto più grande e una gru, ma ha bisogno di soldi che non ha.
«Le banche mi offrono credito, ma io non voglio rischiare», ci dice mentre continua a lavorare.
Il figlio di sette anni gli porge una chiave inglese senza che il padre debba chiedergliela.
Juan Jacob, il fratello minore, vive nel terreno adiacente. Ha 26 anni e tra pochi mesi diventerà padre. Nel suo laboratorio costruisce mobili: acquista compensato e tavole di legno. Ha una macchina italiana che taglia le assi, l’ha adattata alle sue esigenze. Un’altra mette una patina di vernice bianca sui mobili. Il fratello maggiore gli fa notare un’imperfezione sull’anta di un armadio.
Lui ci mostra il suo allevamento di polli. Seimila volatili, divisi in due gabbie tra maschi e femmine. Mangiano un composto che li fa ingrassare velocemente, più ne mangiano, più hanno fame. Sono le sei e mezza, ora del tramonto. Juan accende dei neon bianchi per illuminare le gabbie. «Così non distinguono il giorno dalla notte e continuano a mangiare».
Ha acquistato pulcini da 40 grammi e dopo sette settimane con questo regime arrivano a pesare 2,5 chili e sono pronti per il macello.
«Ma noi non li mangiamo, sono solo per la vendita», chiarisce.
Mostro ai due fratelli il video che ho registrato a casa di Cornelius nella colonia San Miguel, con i cavalli che si muovono in tondo per azionare la ruota che macina il grano.
«Poveri animali. E che spreco di tempo!».
Ridono i due fratelli.
Federico Nastasi
Una storia svizzera e olandese
Dai protestanti agli anabattisti
L’ epoca della riforma protestante (1517) è segnata da conflitti politici, sociali e religiosi. In questo contesto, gli «anabattisti» (da anabattismo, «immergere di nuovo», «ribattezzare») emersero come una corrente radicale che rifiutava i compromessi fatti dai leader riformatori, come Lutero, con la Chiesa tradizionale e i governanti. Questo gruppo riteneva che il battesimo amministrato ai bambini fosse invalido e, pertanto, lo prevedeva soltanto per adulti capaici di libero arbitrio e moralmente retti. Questa scelta li portò a essere perseguitati e chiamati dispregiativamente «anabattisti» dalle autorità ecclesiastiche e statali. La persecuzione degli anabattisti fu particolarmente brutale in Svizzera, dove molti leader furono giustiziati o mandati in esilio. Questo portò alla dispersione del movimento, ma rafforzò anche la solidarietà tra i suoi seguaci.
Nel 1536, il prete cattolico olandese Menno Simons lasciò la Chiesa e divenne leader delle giovani comunità anabattiste ribelli del Nord. Personaggio carismatico e predicatore rispettato, nel 1539 pubblicò il suo «Libro dei fondamenti» che divenne – insieme ai «Sette articoli di Schleitheim» – una sistematizzazione dottrinale della nuova Chiesa. Sulla base della diffusione dei «Fondamenti», nonché del vasto lavoro del predicatore Menno, il movimento ricevette il nome di mennoniti.
A causa delle persecuzioni, fin dall’inizio della loro storia, i mennoniti furono costretti a fuggire. La maggior parte cercò rifugio in territori con governanti tolleranti all’interno dell’Impero germanico. Tuttavia, a partire dal XVI secolo, le migrazioni iniziarono in tre direzioni principali: verso il Nord America, verso l’Europa orientale (Prussia, Polonia e Russia) e dall’Europa orientale verso il Nord, il Centro e il Sud America. Queste migrazioni, inizialmente spontanee, divennero imprese collettive più organizzate a partire dal XVIII secolo. Sorsero le prime colonie mennonite, unità socio-religiose contadine.
Secondo i dati della Conferenza mondiale mennonita, nel 2022, esistevano 109 chiese nazionali e un’associazione internazionale mennonita. Della popolazione totale registrata, il 56% è originario dell’Africa e dell’Asia. Il secondo posto è occupato da Stati Uniti e Canada, con il 30%, divisi più o meno equamente tra mennoniti «moderni» integrati nella società e agricoltori tradizionali. I paesi d’origine, Svizzera, Olanda e Germania, ospitano meno del 3% della popolazione mennonita totale. La popolazione dei coloni in America Latina rappresenta poco meno del 10% del totale.
Fe.N.
Anno 1527, le sette regole e il sermone
Essere anabattisti
Sono sette le regole fondamentali degli anabattisti e sono note come «articoli di Schleitheim» dal nome della località svizzera (Canton Sciaffusa) dove il 24 febbraio del 1527 vennero sottoscritti. Essi rappresentano il primo credo del movimento mennonita che, pur evolvendosi nel tempo, trova in essi la propria Magna carta. In sintesi, essi trattano di:
- Battesimo – Solo per gli adulti coscienti. Nessun battesimo per i bambini perché non hanno ancora coscienza del bene e del male e quindi del peccato. Per questo non trarrebbero alcun vantaggio dal battesimo.
- Scomunica – La disciplina interna delle comunità mennonite prevede l’espulsione in caso di reiterata e accertata violazione delle norme (errori o peccati) da parte di un membro.
- Cena del Signore – Solo ai credenti battezzati è permesso di partecipare alla Santa Cena del Signore.
- Separazione dal mondo – Dio ci esorta a uscire da Babilonia e dall’Egitto. Pertanto, è richiesta una vita separata dal mondo rifuggendo la partecipazione a qualsiasi tipo di istituzioni politiche, sociali e religiose.
- Pastori – Ogni comunità elegge un proprio pastore, che legge le Scritture, insegna, ammonisce, spezza il pane.
- Non resistenza – La spada è bandita. È respinto ogni tipo di violenza perché «non bisogna resistere al male». È escluso, di conseguenza, ogni servizio militare.
- Giuramento – Cristo vieta qualsiasi giuramento ai suoi discepoli. Cristo è semplice: sì o no. Tutti quelli che lo cercano con semplicità, intenderanno la sua parola. Non è, pertanto, consentito alcun giuramento verso qualsiasi autorità civile o religiosa.
Gli articoli esprimono quanto il movimento si fondi non solo sulle sacre scritture in generale, ma in particolare sul «Sermone della Montagna» del Vangelo di San Matteo letto come un’esortazione alla buona condotta quotidiana: ricerca della giustizia, purezza di cuore, amore verso i nemici e, soprattutto, predisposizione alla sofferenza.
Fe.N.
Pacifismo radicale e fuga dal mondo
La scelta mennonita
Fin dalla loro nascita, in Europa occidentale, intorno al 1525 come corrente radicale nel mondo protestante, gli anabattisti sono stati perseguitati dalle chiese ufficiali e dai decreti governativi. Alla violenza, rispondono con la fuga. Pacifisti radicali, non usano violenza nemmeno per difendersi. Fuggono alla ricerca di posti più tranquilli.
Credono nel battesimo degli adulti e nell’isolamento dal mondo, dove il peccato si nasconde sotto ogni pietra. Non partecipano alla vita politica né hanno una gerarchia ecclesiastica: i pastori sono eletti dalla comunità. Ma la reputazione di agricoltori disciplinati e versatili interessa i governi che vogliono colonizzare terre vergini. Così è successo in Polonia nel XVIII secolo, quando il re li invitò a stabilirsi nelle paludi del fiume Vistola. Oggi qualcosa di simile accade in alcune zone della foresta amazzonica peruviana. In cambio, i mennoniti chiedono di poter vivere secondo i loro principi e firmano accordi con gli Stati ospitanti per garantire quelli che chiamano privilegi: non votare, non pagare le tasse, libertà di insegnamento ed esenzione dal servizio militare.
Oggi la corrente anabattista dei mennoniti conta circa 1,5 milioni di fedeli presenti in 80 paesi. Le migrazioni l’hanno portata dalla Svizzera, dall’Alsazia e dal Sud Ovest della Germania, a passare, con il tempo, attraverso l’Olanda, per stabilirsi in Russia su invito della zarina Caterina II, attraversare la Cina, coltivare le terre del Canada e del Messico dopo la rivoluzione del 1920, sostenere la colonizzazione del Chaco in Paraguay e, infine, raggiungere anche le pianure della provincia di Santa Cruz in Bolivia negli anni Cinquanta. I mennoniti boliviani discendono dagli «Altkolonier», la corrente più conservatrice nata in Russia alla fine del XVIII secolo, che rifiutano l’uso della luce elettrica, degli pneumatici e dell’istruzione pubblica. Gli Altkolonier si sono sparsi nel mondo secondo una dinamica tipica dell’espansione mennonita: quando le controversie dentro la comunità diventano irrisolvibili, la comunità si divide. L’altro motore dell’espansione è garantire la terra ai tanti figli che le famiglie mennonite mettono al mondo.
Fe.N.
A Santa Cruz, conservatori e autonomisti
Bolivia, «Collas» contro «Cambas»
Il latte, i raccolti, gli animali di San Miguel e delle altre decine di colonie vengono venduti al mercato agrario di Santa Cruz. Tutti contribuiscono al settore agricolo della provincia orientale della Bolivia. La produzione di Santa Cruz rappresenta la metà della produzione agricola nazionale. Il modello, implementato dai governi neoliberisti del XX secolo e sostenuto dal capitale straniero e dalla Banca mondiale, è concepito per l’esportazione. Un prodotto più di ogni altro rappresenta il modello di agroexport: la soia. Nella provincia ci sono un milione e quattrocentomila ettari coltivati a soia, dieci volte la superficie di Città del Messico. Il 99% della soia boliviana viene prodotta a Santa Cruz. Questo legume e i suoi derivati rappresentano l’11% delle esportazioni totali del Paese. E furono i Mennoniti, negli anni Novanta, a inaugurare la coltivazione della soia boliviana, oggi ne producono circa il 16%. Il resto è prodotto da imprenditori brasiliani e nazionali.
Nei duemila ettari dell’azienda «La Morita» ci sono campi di soia, ordinati, identici tra loro, e qualche mucca da carne. Il proprietario, Esteban, 33 anni, arriva con un aereo privato e subito sottolinea la sua appartenenza: «Qui siamo discendenti degli europei».
È di origine italiana e sua madre aveva sangue camba, gli indigeni delle pianure boliviane. È alto, capelli neri con i primi fili bianchi, camicia di marca, jeans e scarponcini da trekking, robusto, spalle larghe, sicuro di sé. Ha studiato all’estero, ci tiene a farlo sapere, usa parole in inglese e portoghese. «Perfetto!», dice con entusiasmo prima di rispondere a ogni mia domanda, usa modi amichevoli per dimostrare la sua autorità. Ci porta a fare un giro tra i campi, ci fermiamo davanti a un campo di soia.
«Ruotiamo le colture, facciamo tre raccolti all’anno. Nelle pause mettiamo il bestiame, per smuovere la terra. Non facciamo monocolture e lasciamo il 40% della superficie boschiva, ci protegge naturalmente dal vento, dal gelo e da alcuni insetti, lo facciamo perché è conveniente. E ovviamente – lo dice per ultimo e suona come qualcosa da non dimenticare – per difendere l’ambiente. Io sono la quinta generazione di agricoltori in Bolivia. Voglio che mia figlia, che ora ha tre anni, possa lavorare questa terra.
Non tutti sono come noi. Gli estrattivisti puntano alle produzioni a breve termine. Se ci sono aree abbandonate, vengono utilizzate solo per assegnarle a persone legate a un partito politico. Vedi quella terra laggiù? Il governo l’ha affidato a una comunità indigena dei Collas, lasciano la terra improduttiva. Guarda quella cisterna, deve avergliela data una Ong, non c’è nemmeno un pozzo».
Si riferisce, senza citarlo, al progetto del governo Mas per favorire la migrazione dei contadini colla, popolazione indigena delle montagne, verso la provincia orientale.
Il giudizio sul governo del Mas, il risentimento del proprietario terriero di quinta generazione, fanno parte delle fratture Est Ovest, pianura montagna, e dell’antagonismo tra gli indigeni dell’altopiano, i Collas, con gli abitanti della Bolivia orientale, i Cambas.
Santa Cruz è il bastione conservatore della Bolivia. Con i governi Mas, le spinte autonomiste sono aumentate. Nel dicembre 2022 è stato incarcerato il governatore del dipartimento, Luis Fernando Camacho, leader religioso e di destra, che è diventato l’antitesi del Mas e di Evo Morales e ha infiammato le manifestazioni di piazza del 2019, alimentandole con promesse di autonomia dal potere centrale di La Paz, la capitale costruita a 3.600 metri sulle Ande, la più alta del mondo.
Camacho è stato accusato di aver pianificato il colpo di stato che ha deposto il governo di Evo Morales. La popolazione di Santa Cruz è scesa in piazza, ha bloccato l’aeroporto e ha bruciato edifici pubblici per chiedere la liberazione del leader cruceño da quello che considerano un sequestro. Nel mercato cittadino, un diavolo dipinto su un muro dice «Arce, ti cerco, assassino», in riferimento all’attuale presidente della Bolivia ed esponente del Mas, Luis Arce.
Fe.N.
Donne che parlano
Un libro, un film
La brutta storia delle donne mennonite di Manitoba è stata raccontata nel libro «They speak» (Donne che parlano, nella traduzione italiana del 2018) di Miriam Toews e nell’omonimo film («Women talking») del 2022, con due nomination agli Oscar.
Hanno firmato il dossier:
Federico Nastasi
Ricercatore e giornalista indipendente. Collabora con El Pais, l’Espresso e il Manifesto. Attraverso periodi trascorsi sul campo, ha raccontato i principali avvenimenti politici latinoamericani recenti (in Uruguay, Cile, Ecuador e Brasile). È con MC da marzo 2021.
Fabiomassimo Antenozio
Fotografo romano con la passione per il reportage. Nel 2013 e 2014 i primi viaggi in Bolivia, in particolare nelle regioni dello Yungas, Potosì e La Paz. Il suo progetto fotografico «Verde mennonita» è arrivato secondo a Portfolio Italia 2023 Fiaf, inserito nel festival ReWriters, e ha ricevuto la menzione d’onore al Prague Photo 2023. Inoltre, è stato pubblicato su El Pais Semanal e online su Travel Globe e Berlino Magazine.
A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC (cfr. Lontani dal mondo, Viaggio tra i mennoniti, MC maggio 1999).
Fonti principali
Adalberto J. Kopp, Las colonias menonitas en Bolivia: antecedentes, asentamientos y propuestas para un diálogo, La Paz, Fundación Tierra, 2015; Mennonite world conference: mwc-cmm.org; Fundación Tierra: www.ftierra.org.