Al pozzo di Giacobbe (Gv 4)

Dai dipinti della serie Jesus Mafa.
Palestina, Vangelo
Angelo Fracchia

Ci sono pagine evangeliche che conosciamo bene. È un vantaggio, perché diventa più semplice riprenderle per andare in profondità. Una di queste è l’incontro di Gesù con la donna samaritana, episodio giustamente famoso e noto. Vi troviamo infatti un racconto abbastanza comprensibile nelle sue dinamiche, interessante e profondo nei contenuti e pieno di quell’ironia che Giovanni utilizza spesso, per indicare che Gesù e i suoi interlocutori intendono, con le medesime parole, idee diverse.

Lo sfondo (Gv 4,1-6)

Può valere la pena situare questo incontro sullo sfondo di tutto il Vangelo di Giovanni. I primi versetti, infatti, ci spiegano che cosa ci facciano Gesù e discepoli in Samaria: stanno scappando dal Giordano, dove i farisei hanno cominciato a puntare Gesù che aveva iniziato a fare più discepoli e a battezzare più di Giovanni Battista (4,1.3).

L’evangelista, a dire il vero, sente il bisogno di precisare che «non era Gesù stesso che battezzava, ma i suoi discepoli» (Gv 4,2), quasi per scusare Gesù, facendo cadere la reponsabilità sui discepoli i quali avevano ripreso il gesto «inventato» dal Battista.

Viene da sospettare che Gesù tema di aver fatto troppo notizia, attirando dei rischi su di sé. Qualche maligno potrebbe accusarlo di avere paura, di volersi nascondere, anche perché dal Giordano alla Galilea, dove Giovanni dice che è diretto, certamente la via più corta non passa dalla Samaria.

In ogni caso questo trasferimento sembra un fallimento, o almeno un ripensamento profondo della missione di Gesù che, secondo Giovanni, è iniziata al Giordano.

Lungo la strada, la comitiva si ferma in un villaggio, Sicar, di cui non sappiamo niente di più di ciò che ci racconta il Vangelo. E ciò che ci dice rimanda alla vita dei patriarchi, ai rapporti tra Giuseppe e suo padre Giacobbe, che secondo la tradizione aveva scavato quel pozzo (cfr. Gen 33,18-19 e Gs 24,32).

La storia di Giacobbe e Giuseppe è zeppa di ingiustizie, violenze, ambiguità: Giacobbe inizia il suo percorso di vita ottenendo tutto con la violenza o con l’inganno, Giuseppe viene venduto dai suoi fratelli di cui poi si prenderà gioco quando diventerà viceré dell’Egitto. Allo stesso tempo, però, è una storia che ci parla di rapporti personali che, al di là dello sfruttamento, parlano di «gratuità». Giuseppe, infatti, è il figlio preferito dal padre nonostante sia l’undicesimo (quindi non il primogenito, ma neanche l’ultimo), ed è preferito perché figlio di Rachele, la moglie più amata tra le due che aveva, benché la meno «utile» per via della sua prolungata sterilità.

Il rimando ai patriarchi, insomma, sembra richiamare a una realtà umana ambigua ma anche capace di andare al cuore delle relazioni. E ciò che viene narrato accade quando Gesù potrebbe sentirsi almeno in parte sconfitto e, sicuramente, affaticato e assetato (Gv 4,6).

Creazione di Marco Francescato

Un dialogo inatteso (Gv 4,7-15)

I Vangeli ci chiariscono spesso quanto complicati fossero i rapporti tra samaritani ed ebrei. E sappiamo anche quanto fosse sconveniente che un uomo parlasse da solo con una donna. Aggiungiamo a questi elementi che era del tutto improbabile che qualcuno andasse ad attingere acqua al pozzo a mezzogiorno. Di solito ci si andava al mattino, perché l’acqua serviva già all’inizio della giornata per i lavori domestici, e perché si approfittava delle ore più fresche anche per incontrarsi con le altre donne. Insomma, di questa donna non  sappiamo niente, ma – a vederla recarsi al pozzo a metà giornata – viene da pensare che abbia anche qualcosa da nascondere e che non abbia tanta voglia di incontrare altre persone.

Eppure Gesù le parla. Sembra completamente fuori di sé, forse per la sete e la stanchezza, dimentico delle convenzioni sociali, che invece la donna conosce bene, perché di certo le aveva subite: «Come mai tu, uomo giudeo, chiedi da bere a me, donna samaritana?» (v. 9).

Il dialogo che segue, come tutti quelli di Giovanni, sembra andare avanti a salti, come se i due non si capissero fino in fondo. Un dato emerge in modo chiaro: Gesù chiede di essere dissetato e, allo stesso tempo, sostiene di avere un’acqua che potrebbe dissetare sempre. Si capisce l’interesse della donna (per non andare al pozzo, per non fare quella fatica ma anche evitare di vedere gente). Ma è chiarissimo, almeno a noi lettori, che Gesù sta parlando di altro.

Di che cosa abbiamo sete? Di acqua, quando siamo disidratati. Ma, certo, lo sappiamo che dovremo bere ancora. E poi? Abbiamo sete anche di qualche cosa d’altro? Che cosa desideriamo nel profondo, come quando siamo assetati? Di avere un senso, di essere amati, di essere in pace con noi stessi?

È di qualcosa del genere che sta parlando Gesù, e subito, immediatamente, presenta quell’acqua come qualcosa in grado di dissetare non solo chi beve, ma anche chi è intorno (v. 14), «per la vita eterna». Ecco un altro modo di indicare la nostra sete: la vita che viviamo è promettente, bella, attraente, ma ci delude anche con i suoi fallimenti, dolori, affanni, malattie. E poi finisce. E non mantiene quello che promette. Invece una vita che non finisce, una vita piena, è una promessa che non può non toccarci. Come se quell’acqua raccogliesse in sé tutto quello di cui sentiamo di aver sete. Non è difficile capire l’entusiasmo, quasi l’ansia della donna, che chiede di poter avere di quell’acqua (v. 15).

Cambiamo discorso?  (Gv 4,16-26)

Invece di rispondere alla richiesta della donna, Gesù sembra cambiare discorso, chiedendole di andare a chiamare il marito. Perché lo fa? Solo per mostrarsi ancora più capace di guardare in profondità nella vita della samaritana?

Anche chi passa con facilità da un partner all’altro, anche chi ha diverse separazioni e divorzi alle spalle o ha smesso di credere all’amore, sa comunque con certezza che nella relazione di coppia non si gioca una parte secondaria della vita umana. Posso trasferirmi, cambiare mestiere, ma certi legami personali sono più profondi, dicono troppo di me, mi smuovono nell’intimo. Fanno parte di quella sete di vita piena che posso anche soffocare, fingendo di star bene, ma che è la mia dimensione umana più autentica.

Alla domanda di Gesù, la donna, pur essendosi sposata più volte, dice di non avere marito. E Gesù, riconoscendole di aver risposto bene, ammette che la samaritana si è messa in gioco davvero, ha accettato di non rifugiarsi dietro alle certezze di ruolo o sociali (una donna non sposata, in quella società, era più esposta a ingiustizie e violenze). Ha accettato la sfida di un confronto senza filtri, senza reticenze, senza ruoli dovuti. E Gesù lo vede, se ne accorge, glielo indica: «Hai detto bene».

È a questo punto che si arriva a parlare di Dio. È la donna a spostare il discorso lì. E lo affronta dal punto di vista della legittimità rituale: il tempio giusto nel quale adorare Dio è quello di Gerusalemme o del Garizim?

La risposta di Gesù è stravolgente, perché da una parte suggerisce che non tutto è uguale, che c’è un centro più affidabile e corretto, ed è quello di Gerusalemme, ma dall’altra afferma che il vero luogo di adorazione non è in Giudea, né in Samaria, in quanto Dio non cerca zelanti esecutori di riti, ma adoratori «in Spirito e verità» (v. 23).

Che cosa intende dire Gesù? Oltre all’ascolto attento delle parole utilizzate, è utile che ci sintonizziamo con lo scorrere del discorso. Progressivamente ma anche velocemente i due interlocutori sono arrivati a cogliere che la sete più profonda dell’essere umano è intima. E Gesù ci svela che il Padre a questa sete è attento e le risponde.

Un Padre che, Gesù ce lo mostra, si accorge di chi ha davanti, non lo valuta in base a criteri formali, esteriori di integrità o ortodossia: esattamente come nella storia di Giacobbe e Giuseppe, anche nel caso di questa donna dai troppi mariti e dalla coscienza sporca, il Padre di Gesù guarda oltre, guarda all’interiorità, vede la domanda vera di vita che lei, come ogni altro essere umano, porta in sé, e a questa intende dare risposta. Non perché lei abbia il diritto di bere, non perché sia «a posto», ma perché ha sete.

Ci viene svelato un Padre insofferente per le etichette, le categorie, i diritti acquisiti, la correttezza formale, che poi in fondo sono ancora un modo per nascondersi dietro a una corazza, senza ammettere la propria debolezza, la propria imperfezione, la propria sete.

A chi è assetato, e lo ammette, il Padre è pronto a dare la sua acqua viva, tanto abbondante che disseterà anche chi è lì intorno.

La missione (Gv 4,27-42)

Il pozzo di Giacobbe come è oggi nella chiesa greco-ortodossa della città di Samaria. (Benedetto Bellesi)

Senza che Giovanni ce lo dica, l’acqua viva del Padre è già stata versata da Gesù nel cuore della donna, e ha iniziato a diffondersi.

Lei, infatti, proprio mentre arrivano i discepoli (stupiti, ma incapaci, per rispetto, di chiedere quei chiarimenti che invece la samaritana aveva chiesto, mettendosi in gioco), abbandona lì la sua brocca, e corre in paese. La donna che si nascondeva, che andava al pozzo a mezzogiorno, forse per non sentire le dicerie sul suo conto («cinque mariti!»), lascia il motivo che l’aveva portata lì, dimentica un oggetto che non era di poco valore e utilità, e va a raccontare ciò che le è accaduto.

Tra l’altro, lo fa con una grazia ed eleganza insospettata in lei. Non dà infatti per scontato quello che, lo intuiamo, deve essere stata la sua conclusione, ma la affida ai suoi ascoltatori come semplice possibilità: «Che sia lui il Cristo?» (v. 29). E infatti, alla fine del racconto, i samaritani stessi ammetteranno di credere per ciò che avranno visto, non semplicemente per la parola della donna (v. 42). Una parola però alla quale, evidentemente, avevano prestato fede, nonostante la reputazione di chi l’aveva pronunciata.

Poteva sembrare la destinataria meno probabile dell’acqua viva portata da Gesù, ma si è dimostrata una discepola pronta a mettersi in gioco, a rischiare, a uscire dalla propria area di comodità.

Quella stessa acqua, scopriamo, ha dissetato anche Gesù. Infatti, egli, che poco prima affaticato e assetato, ora non vuole più bere né mangiare, perché è stato nutrito dal vedere l’amore del Padre diffondersi per suo tramite (vv. 32-37).

Questa «sazietà» di Gesù possiamo capirla bene tutti: quando sperimentiamo che il nostro impegno porta frutti, quando ci accorgiamo che le persone amate traggono del bene dai nostri suggerimenti, quando vediamo camminare sulle loro gambe le persone che abbiamo aiutato, proviamo una gioia interiore difficile da spiegare in termini economici (di dare e avere).

Una delle tante scoperte di questo episodio evangelico è che sia Gesù che il Padre vedono questa profondità di relazione che sta proprio al cuore del loro pensiero. Una relazione con il Padre vissuta «in Spirito e verità», nella quale il Padre è fonte di vita che dona acqua viva.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 05 – continua)

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