Un clandestino (Gv 3,1)


Che cosa penseremmo di un uomo importante che, di fronte a una persona controversa, anziché prendere posizione aperta, cerchi di incontrarla di nascosto? Forse che è ambiguo, o un opportunista, o come minimo un pavido.

Il terzo capitolo del Vangelo di Giovanni ci presenta un personaggio del genere: Nicodemo, un fariseo influente, membro del sinedrio. Egli cerca Gesù di notte per confrontarsi con lui, dialogando e interrogandolo. Gesù, pur non mostrandosi per nulla intimidito, non sembra nemmeno trattarlo con durezza, anzi lo definisce «maestro d’Israele» (v. 10), sia pure mentre lo rimprovera perché non capisce quello che gli sta dicendo.

Peraltro, Nicodemo, riapparirà un poco più avanti nel Vangelo, mentre invita i capi dei sacerdoti e dei farisei a procedere con rispetto nei confronti di Gesù (Gv 7,50-53, e di nuovo si beccherà, questa volta dai suoi pari, dell’ignorante). Infine, Giovanni ne parlerà ancora nel capitolo 19 mentre si prende cura del corpo di Gesù e della sua sepoltura, quando, cioè, è ormai chiaro che Nicodemo non può aspettarsi nessun vantaggio dal prendere posizione in favore del Nazareno.

Insomma, Nicodemo è un personaggio rilevante, influente, che non diventa in modo chiaro un discepolo, ma che, con senso critico e autonomia, si sforza di capire Gesù e viene da lui apprezzato e rispettato. Un personaggio peculiare, soprattutto in un Vangelo che tende a dividere tutti coloro che ruotano intorno a Gesù in amici o nemici. E quindi un personaggio da ascoltare con maggiore attenzione.

Da dove parte la vita? (Gv 3,2-8)

Nel nostro percorso attraverso il Vangelo secondo Giovanni ci imbattiamo nel primo dei dialoghi di Gesù, che ci sembrano spesso strani perché, da una parte sembrano volerci dare l’impressione di essere autentiche trascrizioni di quanto è stato detto, dall’altra sono condotti in modo innaturale, con argomentazioni che ritornano sempre sugli stessi temi ma non sono ben coordinate. I dialoghi di Gesù proposti da Giovanni costringono i lettori a non perdere un solo particolare, per cercare di seguire il discorso. È probabile, infatti, che l’evangelista voglia in questo modo attrarre la nostra totale attenzione. Eppure, alla fine, restiamo con l’amaro in bocca, come se non fossimo riusciti a capire abbastanza. È il modo di procedere di Giovanni, che a sua volta significa e indica qualcosa.

Se non capiamo immediatamente i dialoghi, non è perché siamo diventati improvvisamente stupidi, ma perché ci troviamo davanti a una sfida seria. Affrontiamola con rispetto, sapendo che forse non riusciremo ad afferrare tutto, ma anche consapevoli che molto potremo gustare.

Nel testo in questione Nicodemo inizia ammettendo che Gesù è un maestro che conosce Dio (Gv 3,2). Non è poco, anche se pare solo un primo approccio, per introdursi. La risposta di Gesù, però, sembra supporre una domanda che non abbiamo letto: «Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (v. 3). Il «regno di Dio» è il mondo come l’ha sognato Dio, che procede secondo i suoi piani. È l’obiettivo della vita di un credente, vedere finalmente il mondo immaginato da Dio, confidando che sia anche il mondo migliore in cui un essere umano possa vivere. Gesù afferma che per vederlo bisogna «rinascere».

Il verbo greco, in realtà, può significare sia «nascere di nuovo» che «nascere dall’alto», e le traduzioni a nostra disposizione ci restituiscono entrambi i significati, ovviamente alcune il primo e altre il secondo, dal momento che in italiano non abbiamo una parola con questo doppio significato.

L’evangelista, però, chiaramente vuole che entrambi i significati ci restino nella mente. Si nasce «di nuovo», perché si tratta di ricominciare a capire, a costruirsi un modello mentale, a scoprire il mondo come funziona. È la «nuova nascita» di chi si converte (Mc 1,15; Gv 12,40), di chi «stravolge» il proprio modo di pensare. Noi abbiamo già delle idee su Dio, pensiamo di sapere già chi è: Gesù ci chiede di mettere le nostre certezze in discussione, di provare a capire di nuovo. Questo perché forse il Padre è molto diverso da ciò che ci aspettiamo. Nello stesso tempo, «rinascere» è un seme che parla già di risurrezione, di un ritornare alla vita, anzi, a una vita nuova.

E allora qualcosa iniziamo a capire, perché così dicendo Gesù ci fa intuire che la vita promessa non giungerà sfuggendo alla morte, evitandola (come potevamo spontaneamente ma ingenuamente pensare), bensì attraversandola, andando oltre, in una condizione di vita nuova, dove la morte non ci minaccia più. Anche il «regno di Dio», allora e chiaramente, non sarà uno stato come gli altri, un regno politico instaurato nella storia e in qualche regione, ma potrà essere ricevuto come dono pieno solo oltre questa vita.

Questi chiarimenti, in effetti, si connettono bene con il nascere «dall’alto»: se dobbiamo cambiare il nostro modo di pensare su Dio, non può che essere Lui a mostrarcelo, a farcelo capire. E il dono di una vita «nuova», se ricevuto dopo la morte, non può che essere «dall’alto», da Dio, giacché nessun essere umano, mai, ha potuto ridarsi la vita dopo essere morto.

Lo Spirito

Nicodemo mostra di non aver capito l’affermazione di Gesù, e gli chiede come sia possibile ritornare, da vecchi, nel grembo della madre (Gv 3,4).

Gesù, nella risposta, sembra iniziare a spiegarsi di nuovo e meglio, ma in realtà sposta il discorso a un livello superiore. Come dicevamo, è il modo di procedere tipico di Giovanni: egli conduce il lettore a seguirlo in un ragionamento «a spirale» che ritorna sui temi già affrontati ma a un livello di profondità maggiore.

In questo modo, tra l’altro, il Vangelo di Giovanni trasmette anche l’idea che non potremo mai raggiungere una conoscenza teorica precisa di Gesù e di Dio, non perché siano incomprensibili, ma perché sono vivi. Come accade con tutti i viventi, benché riusciamo a intuire anche molto della loro interiorità, sappiamo che non sono un teorema matematico completamente sviscerabile. La conoscenza di Dio è un percorso esistenziale che mantiene sempre una quota di mistero e di sorpresa.

È comunque chiaro che Gesù introduce nel discorso lo Spirito: «Se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5).

Su che cosa c’entri l’acqua, si discute da duemila anni e forse non si smetterà mai, non perché non ci sia un’idea di come spiegarlo, ma perché di idee ce ne sono troppe, e forse ognuna dice qualcosa di giusto: può darsi che Gesù, citando l’acqua, parli dei riti di purificazione che anche l’ebraismo conosceva (e che quindi rimandi a un aspetto liturgico, ecclesiale o pubblico), o del battesimo (ma se così fosse, davvero Nicodemo non poteva capirci niente), oppure del Battista di cui Gesù aveva ripreso il gesto, o forse di altro ancora.

Più chiara, di certo, ci risulta l’analogia con il vento, che non vediamo e non sappiamo da dove venga, ma che pure percepiamo, sapendo che può causare conseguenze anche grandi. Quasi Gesù dicesse che è vero che non riusciamo razionalmente a spiegare del tutto l’opera dello Spirito e la sua presenza, eppure la cogliamo al lavoro, nei suoi effetti, che sono autentici e reali.

Anzi, a voler essere ancora più precisi, si dice che a non essere prevedibile, eppure è reale, è «chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8), come se entrasse in una comunione tanto stretta con Dio da comportarsi come Lui.

Il volto inafferrabile

Possiamo riprendere meglio che cosa già Gesù ci ha svelato sul Padre. Il «re» di quel «regno di Dio» di cui abbiamo parlato ci chiede di rinunciare alle immagini che di lui abbiamo già. Si tratta di rinascere, di ricominciare a imparare e a farci stupire dalla vita che ci ritroviamo e ritroveremo come dono. È quell’«alto» da cui rinascere, che ci invita alla sorpresa, alla vita piena e nuova, a ciò che intuiamo ma non riusciamo a prevedere o spiegare.

Perché chi è mosso dallo Spirito non è del tutto spiegabile, anche se i frutti della sua azione si colgono (Gv 3,8). E quello Spirito è inviato dal Padre di Gesù. Non si può pretendere di ingabbiare il Padre in definizioni rigide, ferme, inflessibili. Queste ultime, forse, ci renderebbe più sereni, perché ci darebbero l’impressione di poterlo tenere sotto controllo, di avere a che fare con qualcosa di prevedibile, ma sarebbe un’impressione falsa. Il Padre è vivo e ci chiede di scoprirlo come un vivente, pronto a sorprenderci.

Questo significa che per noi ci potrebbero essere in serbo anche sorprese brutte?

Amante della vita (Gv 3,16-21)

Di fronte a questa possibilità, l’evangelista si affretta a chiarire il principio di fondo dell’agire divino, in qualche modo certificato da un esempio che è ben più di un esempio.

Il principio è che il Padre non vuole condannare il mondo, ma salvarlo (v. 17), e questo viene dimostrato dall’offerta stessa del Figlio (v. 16), che il Padre ha consegnato agli uomini semplicemente per amore. L’amore di una persona può arrivare al punto che essa offra se stessa per qualcuno che ama (Gv 15,13), o addirittura per un uomo giusto (come dice Paolo in Rm 5,7: «Forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona»), ma quell’abisso tremendo di sacrificare chi si ama («Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, e offrilo in olocausto» Gen 22,2), esperienza che Abramo stava per vivere finché Dio non lo ha fermato, lo compie lui stesso. Come il padrone della vigna che, di fronte ai vignaioli ribelli, decide, illogicamente, di mandare il proprio figlio (Mc 12,6), così il Padre dona al mondo il suo Figlio unigenito, che mostra, con la sua vita e il suo sacrificio, fino a che punto Dio sia disposto ad arrivare per seguire il suo desiderio di vivere la comunione e l’amore con gli esseri umani.

Ecco perché chi non crede in lui viene condannato o, per dire meglio, si condanna da sé (Gv 3,18), come chi, di fronte alla luce che gli viene donata, decide di rifiutarla, di chiudersi al buio, per vivere nelle tenebre (v. 19: pare quasi che Gesù prenda bonariamente in giro Nicodemo, che di notte è andato a raggiungerlo).

Il Padre è imprevedibile e sorprendente, misterioso e stupefacente, ma tutto ciò che opera e inventa va nella stessa direzione, quella di tutelare la vita umana, di renderla più autentica e preziosa, migliore e difesa. È una tutela della vita non imposta a tutti i costi, ma sempre donata nel totale rispetto della libertà umana, che nella propria autonomia potrà rifiutare quell’amore, non accoglierlo, costringendosi nelle tenebre della morte.

Perché il Padre di Gesù, come un vero e autentico innamorato, è disposto a tutto per venire incontro agli esseri umani, tranne violare la loro libertà. È un Dio che cerca persone adulte che scelgano liberamente di amare e lasciarsi amare, non schiavi costretti a servire o addirittura a farsi servire.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 04 – continua)

Jesus Mafa




Privato non è bello


Beni comuni persi dalla comunità a favore dei singoli. Questo sono le privatizzazioni. Anche l’antica Roma distingueva tra ambito «pubblico» e ambito «privato», ma quest’ultimo prese il sopravvento quando, nel Settecento, gli inglesi permisero ai grandi proprietari di recintare le terre collettive.

Capita a molti politici di condannare certe scelte, quando sono all’opposizione, e di perseguirle, quando sono al governo. Uno degli ultimi casi riguarda la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, nel 2018, scriveva sui social: «Poste [italiane] è un gioiello che deve rimanere in mano pubblica». Passata dall’opposizione al governo, in un’intervista televisiva rilasciata nel gennaio 2024 la stessa Meloni cambiava opinione prevedendo la possibilità di procedere a privatizzazioni comprendenti anche Poste italiane. Scelta puntualmente ufficializzata il 26 gennaio 2024 dal Consiglio dei ministri.

«Privatus» versus «publicus»

Da qualche decennio le privatizzazioni sono diventate pratica corrente di tutti i governi, sia quelli di destra che di sinistra, forse perché i margini di differenza fra le due sponde ideologiche si stanno restringendo sempre di più. Nel contempo, però, va precisato che, dietro questa parola, si racchiudono vari concetti, assai diversi fra loro per meccanismi e portata politica.

Da un punto di vista etimologico, privatizzare deriva da privatus, parola che, nell’antica società romana, indicava la condizione dei singoli individui in contrapposizione allo Stato definito publicus. Ma è bene ricordare che, dalla stessa radice, proviene anche il verbo «privare» che significa togliere, sottrarre. E si scopre che, presso gli antichi, il soggetto di riferimento era lo Stato che considerava la «roba» dei singoli come qualcosa che era stato sottratto alla sua potestà.

Una concezione che ritroviamo ancora oggi nel verbo privatizzare che si riferisce ai beni comuni persi dalla comunità a favore di singoli. Un fenomeno che ebbe un grande impulso nell’Inghilterra del Seicento e del Settecento quando il Parlamento autorizzò i grandi proprietari terrieri a recintare le terre che, fino ad allora, avevano lo status di proprietà collettiva (enclosures acts). Un processo tutt’altro che terminato considerato che la collettività continua a essere depredata delle sue proprietà e delle sue attività in nome delle motivazioni più varie.

Lo Stato e le crisi

Per una comprensione più articolata dei processi di privatizzazione è bene tenere a mente che, nel corso del tempo, l’idea di Stato ha avuto profonde modificazioni, con cambiamenti anche nella tipologia dei beni posseduti e delle attività svolte. Per quanto riguarda le proprietà, una categoria di beni tradizionalmente posseduti dagli Stati sono sempre stati quelli naturali: mari, fiumi, laghi, coste. Però, con l’avanzare del modello capitalista, lo Stato si è ritrovato anche proprietario di attività industriali, non per scelta ma come rimedio ai processi di autodistruzione che spontaneamente il capitalismo tende a mettere in atto. Emblematica la grande crisi che investì il mondo industrializzato nel 1929 o quella del 2008 che coinvolse l’intera finanza internazionale. Benché molto diverse fra loro, entrambe hanno avuto in comune il crollo di valori finanziari che mettevano fortemente a rischio il sistema bancario, nei confronti del quale i governi si sono sempre sentiti in dovere di intervenire in caso di cattiva parata. Nel 1929 la crisi riguardò il valore dei titoli azionari, ossia dei titoli attestanti la proprietà delle aziende. Titoli che le banche possedevano a piene mani. Il problema è che, se i titoli crollano, anche le banche vacillano perché risultano impoverite e, nella paura di non poter riprendere ciò che hanno depositato, molti risparmiatori corrono in banca per riprendersi i propri soldi. Ma così facendo trasformano il rischio in realtà perché nessuna banca è in grado di restituire in poco tempo tutti i soldi ricevuti in deposito.

Per il capitalismo il sistema bancario rappresenta la spina dorsale e nessun governo può permettersi di assistere inerme al suo naufragio. Perciò, dopo la crisi del 1929, molti governi si organizzarono per salvare le proprie banche. Ciascuno con il proprio programma. Il governo di Mussolini optò per due strategie: nazionalizzare le banche più traballanti e acquistare i titoli deteriorati posseduti da tutte le altre. A questo scopo, nel 1933 venne creato l’Istituto di ricostruzione industriale (Iri) e lo Stato italiano si trovò maggiore azionista, se non azionista unico, di decine di complessi industriali attivi nei settori chiave del paese: armame-

nti, telecomunicazioni, siderurgia, meccanica. Nelle intenzioni, l’Iri doveva essere liquidato di lì a poco, ma sopravvisse e nel dopoguerra procedette a ulteriori salvataggi divenendo il maggiore gruppo italiano che comprendeva aziende chimiche e meccaniche, siderurgiche e alimentari.

Privato versus pubblico. Foto Wesley Tingey-Unsplash.

Il vento ideologico cambia

Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, in tutta Europa dominava un pensiero politico favorevole all’intervento dello Stato in economia. Non a caso in quel periodo, in Italia nacque l’Eni, di totale proprietà pubblica, per l’estrazione di gas e petrolio, mentre l’intero comparto dell’energia elettrica venne portato sotto controllo pubblico tramite l’Enel. Ma, a partire dagli anni Ottanta, il vento ideologico cambiò e anche in Italia ci furono pressioni per spogliare lo Stato delle sue attività produttive. L’annuncio al mondo della finanza venne dato in circostanze carbonare, niente po’ po’ di meno che a bordo di un panfilo di sua Maestà la Regina d’Inghilterra. Era il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, quando nel porto di Civitavecchia attraccò lo yacht Britannia per fare salire a bordo vari dirigenti dello Stato italiano, fra cui Mario Draghi, direttore generale della Banca d’Italia. A bordo erano già presenti rappresentanti della finanza londinese pronti ad accogliere la delegazione italiana. Questa, durante una gita che aveva come meta l’isola del Giglio, avrebbe dovuto relazionare sulle prospettive di privatizzazione in Italia. L’evento venne confermato da Mario Draghi nel corso di un’audizione alla Commissione bilancio nel marzo 1993, ma venne descritto come un banale convegno.

Meno imprese pubbliche

Le prime privatizzazioni avvennero nel 1993 e riguardarono alcune imprese alimentari che videro Nestlé come principale acquirente. Più avanti fu la volta dell’attività telefonica, petrolifera, elettrica, automobilistica. Talvolta attraverso la cessione di tutte le quote, come è avvenuto nel caso di Cirio (Iri), talvolta attraverso la cessione di quote parziali come nel caso di Eni, Enel, Poste e varie altre.

L’ultimo rapporto Istat certifica che, nel 2020, le società a partecipazione pubblica sono 7.969, precisando che alcune ricadono in questa categoria perché possedute in tutto o in parte da ministeri, mentre altre vi ricadono perché partecipate da enti locali, o dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), una banca particolare controllata dal ministero dell’Economia. Considerato che, in Italia, le imprese sono 1,6 milioni, le società a partecipazione pubblica rappresentano solo lo 0,5% del totale. Con la prospettiva che continuino a calare, dal momento che, dal 2012 al 2020, hanno registrato una flessione del 25%.

Fino a ora abbiamo valutato le privatizzazioni usando come criterio quello della proprietà. Ma il concetto di privatizzazione ha significati più ampi e comprende anche le finalità dell’impresa. Prendiamo, ad esempio, Ferrovie dello Stato. Da un punto di vista della proprietà è una società pubblica perché posseduta interamente dal ministero dell’Economia. Ma, da un punto di vista delle finalità, è come una qualsiasi società privata perché il suo fine non è il servizio pubblico, ma il profitto. Quando si ha come obiettivo il servizio pubblico si accetta di avere anche dei bilanci in perdita, magari perché ciò serve a mantenere bassi i prezzi dei biglietti o perché serve a tenere aperte anche delle tratte poco frequentate. Se si ha per obiettivo il profitto, si fanno scelte che privilegiano i più facoltosi rinforzando il raccordo ad alta velocità di città importanti, mentre si mantengono in cattivo stato le tratte locali frequentate dai pendolari. Una politica che, purtroppo, non si riscontra solo nell’ambito dei trasporti, ma anche di servizi ancora più essenziali come l’acqua.

Il caso dell’acqua

Prima del 1990 gli acquedotti erano gestiti da aziende municipalizzate, strutture autonome da un punto di vista tecnico operativo, ma un tutt’uno con i Comuni da un punto di vista economico e politico. L’azienda municipalizzata faceva pagare un prezzo per i servizi che forniva, ma l’ammontare era deciso dal consiglio comunale in base a criteri sociali. E se l’incasso non bastava per fare fronte a tutte le spese o agli investimenti da effettuare, provvedeva il Comune  con integrazioni di altra natura. Semplicemente perché l’acqua non era considerata una merce, ma un diritto da tutelare. Nel 1990 questa impostazione cominciò a essere smantellata tramite norme che spostavano la gestione dalle aziende municipalizzate ad aziende pubbliche. Da un punto di vista linguistico la differenza è impercet-

tibile, ma da un punto di vista giuridico la differenza è abissale.

L’azienda pubblica, pur essendo di proprietà del Comune, diventa un corpo a sé stante, una sorta di figlio adulto che deve arrangiarsi da solo. D’ora in avanti non può più ricorrere a mamma Comune: deve coprire tutte le spese da sola con i proventi delle sue vendite. I prezzi li decide lei stessa non più secondo criteri di equità sociale, ma secondo logiche di contabilità di bilancio. Per di più è una Spa, una Società per azioni. Per legge il suo compito è garantire profitti agli azionisti. Un cambiamento totale di prospettiva: la municipalizzata guardava alla gente, la Spa guarda agli azionisti. Potremmo dire «all’azionista» visto che il capitale è del Comune. Ma la Spa ha la caratteristica che le quote si possono vendere, e altri soci possono aggiungersi.

Le leggi che seguirono aprirono l’ingresso ai privati e le multinazionali dell’acqua calarono come cavallette per entrare nelle società pubbliche costituite per gestire gli acquedotti. Tanto per citare i casi più clamorosi, Suez è penetrata in Acea, azienda del Comune di Roma, controllando un pacchetto azionario che oggi è al 23%. Veolia, invece, è stata a lungo in Acqualatina, azienda dei comuni della provincia di Latina, con una quota del 49%, ceduta a Italgas nel luglio 2023. Ma, ad argini rotti, è successo di tutto: la compagine degli azionisti delle società pubbliche si è allargata a banche e affaristi, alcune aziende pubbliche si sono fuse fra loro, altre si sono compenetrate in un groviglio che non permette di capire chi possiede e chi è posseduta. Alcune sono addirittura finite in borsa com’è il caso della romana Acea, dell’emiliana Hera, della lombarda A2A. Acea la ritroviamo addirittura in Honduras a gestire l’acquedotto di San Pedro Sula, come se fosse una multinazionale qualsiasi.

Prima gli azionisti

La motivazione addotta per vendere le società pubbliche ai privati, è stata la necessità di fare soldi per pagare il debito pubblico. I fatti hanno dimostrato che si è trattato di un’operazione inutile perché ha procurato solo gocce rispetto a un oceano. La motivazione addotta per chiudere le municipalizzate e fare gestire i servizi pubblici a società per azioni aperte ai privati è stata l’efficienza. Ma i fatti dimostrano che a guadagnarci sono stati gli azionisti, non i cittadini.

La verità è che i processi di privatizzazione sono figli di un progetto ideologico teso ad affermare la supremazia del mercato sulla logica dei beni comuni e sui diritti dei cittadini. Un processo fortemente promosso dall’Unione europea che ha posto il mercato e la concorrenza a fondamento del proprio ordinamento. Tant’è che condiziona ogni sua concessione all’attuazione di riforme tese a consolidare il processo di mercantilizzazione dell’economia e della società. Lo stesso Pnrr è stato un’occasione utilizzata in questa direzione. Prima o poi i cittadini europei si accorgeranno dell’inganno e pretenderanno un’altra Europa.

Francesco Gesualdi

Privato versus pubblico. Foto Call-me-Fred_Unsplash.




Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com




Africa. Fame di energia


Anche in Africa la corsa alle energie rinnovabili è aperta. Il continente è il maggiore produttore al mondo di minerali necessari alla transizione verde. Solitamente sfruttati da altri. Intanto anche il nucleare si sta facendo strada. Il caso Rwanda.

Negli ultimi anni, molti Paesi africani – come diversi altri nel mondo – hanno iniziato a investire in una diversificazione delle proprie fonti energetiche, guardando sempre di più all’introduzione delle rinnovabili. Una decisione derivante, da un lato, dalla necessità di garantire una fornitura sicura e capillare di energia elettrica a cittadini e imprese e, dall’altro, dall’esigenza sempre più pressante di sviluppare politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico.

A caccia di elettricità

In Africa subsahariana, la domanda di elettricità è in crescita, ma, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (organizzazione intergovernativa che coordina le politiche energetiche dei Paesi membri), circa 600 milioni di persone e 10 milioni di piccole imprese ancora non vi hanno accesso. La necessità di soddisfare questa richiesta sta quindi imponendo agli Stati del continente di ripensare il proprio mix energetico, introducendo nuove fonti. Per la generazione di elettricità, infatti, molti Paesi dipendono ancora da petrolio e gas naturale, i quali, oltre a inquinare, hanno spesso elevati costi di importazione per chi non li produce.

Nel mentre – di fronte all’accelerare del cambiamento climatico e alla crescente consapevolezza dell’irreversibilità dei suoi effetti -, crescono anche le pressioni occidentali sui Paesi del Sud globale affinché adottino politiche di adattamento e contrasto al cambiamento climatico. Nei fatti, questo vuol dire che regioni come l’Africa – l’area che in tutto il mondo emette la minore quantità di gas serra e che però, con Asia meridionale e America Latina, subisce la maggioranza degli effetti del cambiamento climatico – devono sviluppare e realizzare piani di transizione ecologica.

Al di là delle difficoltà economiche che molti Stati del continente affrontano per ottenere i fondi necessari a sviluppare queste politiche o per ripagare i tassi di interesse – spesso elevati – posti sui prestiti di Paesi occidentali e organizzazioni internazionali, lo sviluppo delle energie rinnovabili sta diventando un punto imprescindibile delle agende politiche di molti governi africani.

Nuclear power station, Koeberg, Western Cape, South Africa. (Photo by DR NEIL OVERY/SCIENCE PHOTO LIBR / NOY / Science Photo Library via AFP)

Ricchezza fatale

Poche aree del mondo si collocano al centro della transizione ecologica mondiale come l’Africa. Da un lato, il continente è ricco di risorse minerarie essenziali per la produzione di dispositivi come pannelli solari, auto elettriche e computer, tanto da essere al centro di una corsa all’accaparramento da parte di multinazionali e Stati stranieri, interessati a sfruttare il più possibile i suoi giacimenti (vedi box).

Dall’altro, l’Africa ha un potenziale di generazione di energie rinnovabili enorme. Ad esempio, il deserto del Sahara è l’area del mondo che riceve la maggiore quantità di sole in un giorno. I numerosi fiumi che attraversano tutto il continente permettono la produzione di energia idroelettrica, mentre nella zona della Rift Valley (Africa orientale) il calore del sottosuolo è utilizzabile per l’enegia geotermica.

Tuttavia, lo sfruttamento di queste fonti energetiche ha una doppia faccia. In Paesi dove la rete elettrica non è capillare e le aree rurali sono spesso tagliate fuori dalla fornitura nazionale, la possibilità di installare piccole unità di generazione elettrica (soprattutto pannelli solari, ma anche piccole centrali idroelettriche e pale eoliche) renderebbe intere comunità autonome. Dall’altro lato, però, i costi da sostenere sono consistenti e spesso improponibili per gli abitanti delle aree rurali. Inoltre, sovente l’installazione di questi impianti priva le popolazioni di aree di coltivazione o pascolo. Essi quindi dipendono da sussidi statali, investimenti e progetti stranieri per l’installazione e la messa in funzione delle infrastrutture necessarie per sfruttare il potenziale energetico del territorio circostante.

Attrazione nucleare

Tra tutte le fonti di energia, ce n’è una sempre più apprezzata in Africa, benché non sia tra quelle universalmente considerate come rinnovabili: il nucleare. La costruzione di centrali, anche solo in numero limitato, offrirebbe infatti la possibilità di produrre un’elevata quantità di energia, indipendentemente da stagione, momento della giornata e condizioni meteorologiche, a differenza di altre fonti rinnovabili. In più, secondo i governi di molti Paesi, nel lungo periodo, il nucleare garantirebbe una maggiore quantità di elettricità a costi minori rispetto alle fonti attualmente utilizzate e senza produrre emissioni di anidride carbonica. Inserito nel mix energetico, a fianco delle fonti rinnovabili, il nucleare permetterebbe quindi agli Stati africani di accelerare nella transizione ecologica, garantire elettricità a un maggior numero di abitanti del continente, supportare la crescita industriale e creare nuove opportunità lavorative.

Attualmente, tre Paesi – Namibia, Sudafrica e Niger – estraggono uranio in quantità tali da soddisfare il 18% della produzione mondiale. Ma giacimenti significativi – in alcuni casi già parzialmente sfruttati, in molti altri non ancora – si trovano anche in altri Stati come Botswana, Malawi, Mauritania, Tanzania e Zambia. Tanto che diversi Paesi hanno iniziato a muoversi concretamente per avviare la costruzione di siti nucleari. Ben presto, quindi, la centrale sudafricana di Koeberg – dotata di due reattori da duemila megawatt ciascuno – potrebbe non essere più l’unica nel continente.

Quarantacinque Paesi africani stanno cooperando con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organizzazione per lo sviluppo del nucleare con finalità civili che definisce i perimetri operativi e infrastrutturali affinché i programmi siano sicuri, protetti e sostenibili. L’obiettivo è accertarsi che la costruzione e attivazione delle centrali permetta di affrontare le priorità energetiche, sociali ed economiche degli Stati interessati, oltre a verificare il rispetto delle misure di sicurezza necessarie.

Più avanti è invece l’Egitto che a el-Dabaa ha già iniziato la costruzione del suo primo impianto. Composta da quattro reattori da 1.200 megawatt ognuno, la centrale è frutto della cooperazione de Il Cairo con Rosatom, azienda statale russa per lo sviluppo dell’energia atomica.

Infatti, diversi attori stranieri – sia Stati che imprese – stanno contribuendo a rendere sempre più attraente lo sviluppo del nucleare in Africa. Paesi come la Cina, ma ancor di più la Russia, sono protagonisti della corsa al nucleare nel continente.

Isolata a livello internazionale, Mosca mira a rafforzare i propri legami con diversi alleati – tra cui i Paesi africani -, e il nucleare è uno dei suoi tanti strumenti di cooperazione. Rosatom offre infatti contratti all-in-one (letteralmente, «tutto in uno») particolarmente apprezzati: l’azienda si occupa di tutte le fasi del progetto, dalla costruzione dell’impianto alla formazione dei lavoratori locali, dalla fornitura di uranio alla gestione delle scorie.

Gente in fuga in Congo Rd dopo scontri con l’M23 (legato al Rwanda) nella zona di Masisi, Nord Kivu. (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

Il caso Rwanda

Uno dei Paesi africani che più sta investendo in energie rinnovabili è il Rwanda. Con l’obiettivo di raggiungere il 100% dell’elettrificazione nazionale nei prossimi anni, il Governo sta puntando sempre di più sullo sviluppo della rete elettrica, di sistemi autonomi di accesso all’elettricità per le comunità rurali e di fonti energetiche alternative a petrolio e gas.

Secondo il ministero rwandese dell’Infrastruttura, già nel 2018, il 53% dell’elettricità nel Paese proveniva da fonti rinnovabili, una cifra che tre anni dopo era cresciuta al 62%.

Nel 2022, metà della produzione energetica nazionale era soddisfatta dalla generazione idroelettrica, grazie a 37 centrali connesse alla rete statale e ad altri undici piccoli impianti che garantivano elettricità alle comunità rurali non toccate dalla fornitura nazionale. Tra queste comunità, diffusi sono i pannelli fotovoltaici, utilizzati soprattutto per sostenere l’irrigazione e l’illuminazione nei contesti agricoli. Mentre ancora poco sfruttato è il potenziale geotermico che in prospettiva potrà esserlo, dato che il Paese si colloca nella Rift Valley.

Interessi nucleari

E poi ci sono gli investimenti nel nucleare. Secondo quanto dichiarato da Fidel Ndahayo al momento della sua nomina a presidente del Consiglio rwandese dell’energia atomica, l’introduzione di questa tecnologia – applicabile in numerosi ambiti come medicina, industria e agricoltura – è un tassello fondamentale «per raggiungere la totale elettrificazione del territorio nazionale, soddisfare la domanda di energia dei cittadini, stimolare la crescita del settore industriale e sviluppare un’economia resiliente al cambiamento climatico».

Finanziamenti russi – arrivati grazie a un accordo di cooperazione tra Kigali e Mosca firmato nel 2018 e approfondito negli anni successivi – stanno supportando la costruzione e messa in funzione di un Centro per la scienza e la tecnologia nucleare, finalizzato allo studio e allo sviluppo del nucleare nel Paese.

Inoltre, un’intesa da 75 milioni di dollari siglata a settembre 2023 con Dual fluid energy, azienda canado-tedesca del settore, è finalizzata a sviluppare e testare in Rwanda un reattore dotato di una tecnologia innovativa, ritenuta più efficiente e sicura di quella tradizionale e in grado di produrre una quantità minore di scorie.

Nel quadro di quest’ultimo accordo, Kigali ha accettato di fornire sito e infrastrutture dove realizzare la sperimentazione, mentre Dual fluid energy si è assunta la responsabilità dell’implementazione tecnica del progetto e della formazione degli scienziati locali.

Il governo rwandese non nasconde la propria ambizione di diventare, nei prossimi anni, un punto di riferimento per lo sviluppo del nucleare in Africa. Invece di limitarsi a siglare accordi per la costruzione di centrali per la produzione di elettricità, la sua strategia mira alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni innovative per il futuro. Se la sperimentazione di Dual fluid energy, infatti, dovesse concludersi con esito positivo (ci si aspetta che il reattore sia operativo nel 2026, mentre i test dovrebbero terminare nel 2028), oltre ad aggiungere questa tecnologia al mix energetico già esistente, il Rwanda si porrebbe come riferimento per la produzione e la diffusione dei nuovi reattori in Africa centrale, ma anche nell’intero continente.

Investimenti e rischi

Investire nel nucleare però non è esente da rischi, a maggior ragione in Paesi con un contesto sociale, economico e di sicurezza fragile. Diversi sono gli interrogativi, a partire dai costi elevati e dai tempi lunghi per la costruzione degli impianti, fino ad arrivare alla garanzia di sicurezza delle centrali e del territorio circostante.

La sola costruzione di un reattore da mille megawatt richiede generalmente cinque miliardi di dollari statunitensi e dieci anni, dal momento dell’approvazione del progetto a quello di inizio della generazione elettrica. Uno sforzo economico e di tempo non da poco che la maggior parte dei Paesi del continente non è in grado di sostenere autonomamente. Dunque, la necessità di prestiti o finanziamenti – spesso erogati con elevati tassi di interesse da altri Stati o organizzazioni internazionali – crea una dipendenza nei confronti dell’entità finanziatrice che si può protrarre per diversi anni.

A ciò si affiancano i timori sulla sicurezza degli impianti e del territorio circostante. Se, nel primo caso, l’auspicio è che vengano seguite le direttive dell’Aiea; nel secondo, la preoccupazione è maggiore. Molti Paesi, che stanno investendo nel
nucleare, o sono interessati a farlo, sono caratterizzati da una situazione sociale, politica e militare altamente instabile a causa della presenza di movimenti armati e tensioni sociopolitiche. Un’escalation di scontri nelle vicinanze di una centrale nucleare avrebbe effetti – potenzialmente – devastanti.

Senza dimenticare il rischio posto da eventi meteorologici estremi o disastri ambientali, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico. Se poi l’evento destabilizzante dovesse verificarsi in un Paese ad alta densità abitativa – come, ad esempio, il Rwanda, dove per ogni chilometro quadrato vivono 547 persone -, le ripercussioni rischierebero di essere drammatiche.

È per questo che diversi studiosi si chiedono se effettivamente il nucleare – tra tutte le fonti energetiche – sia la soluzione per l’energia africana. La risposta che finora si sono dati non è così certa. Ma i Paesi africani sembrano pensarla diversamente: per loro il nucleare è il futuro del continente.

Aurora Guainazzi

Impianto fotovoltaico da 50 Megawatt in Mauritania (Photo by MED LEMINE RAJEL / AFP)


Siglato un accordo Ue-Rwanda sui metalli strategici

Così si finanziano le guerre

Il 19 febbraio, l’Unione europea (Ue) e il Rwanda hanno siglato un accordo di cooperazione incentrato sui minerali essenziali per la produzione di molti dei dispositivi al centro della transizione ecologica. L’obiettivo dell’intesa è «rafforzare il ruolo del Rwanda nella promozione dello sviluppo durevole e delle catene di valore resilienti in Africa». Ovvero, si prevedono investimenti europei (realizzati nell’ambito del Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti in settori critici) per lo sviluppo del settore minerario rwandese, con particolare attenzione a risorse come tantalio, stagno, tungsteno, oro, niobio, litio e terre rare. Nei fatti, l’obiettivo ultimo dell’Ue è garantirsi un approvvigionamento sicuro e durevole di minerali sempre più importanti per il futuro della transizione ecologica.

Ma buona parte delle risorse minerarie esportate dal Rwanda, in realtà, non è estratta nel Paese (i cui giacimenti sono limitati e poco sfruttati). Piuttosto, proviene dalle province orientali della Repubblica democratica del Congo (Rdc), dove la diffusa conflittualità e l’incapacità del governo centrale di essere presente efficacemente su tutto il territorio facilitano il contrabbando di minerali nei Paesi vicini, tra cui, il Rwanda. Flussi commerciali illegali che sono stati denunciati in rapporti delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Global witness (un ente che analizza il legame tra conflitti e risorse). Proprio una recente indagine di Global witness ha evidenziato come, negli ultimi anni, solo il 10% dei minerali esportati dal Rwanda fosse stato realmente estratto nel suo territorio, mentre il restante provenisse dalla Rdc.

Non a caso, la reazione del governo congolese all’accordo è stata particolarmente dura. Kinshasa ha criticato l’Ue e denunciato che il Rwanda «non ha nel suo sottosuolo nemmeno un grammo di questi minerali». Invece, si appropria di quelli congolesi, grazie al contrabbando dei movimenti armati attivi nell’Est della Rdc e al saccheggio dei militari rwandesi presenti illegalmente nelle province orientali a supporto del Movimento del 23 marzo (M23). A inasprire ulteriormente la reazione di Kinshasa è stata anche la consapevolezza che l’accordo del 19 febbraio non è l’unica forma di collaborazione esistente tra Rwanda e Ue. Kigali è infatti un importante alleato politico, ma soprattutto militare dell’Occidente, tanto che Stati Uniti e Ue addestrano e riforniscono il suo esercito.

A questo proposito, un comunicato del Mouvement citoyen lutte pour le changement (Lucha), organizzazione della società civile congolese, denuncia che «i soldati rwandesi che l’Ue sta addestrando e finanziando probabilmente saranno mandati nella Rdc […] e che gli accordi minerari che l’Ue sta firmando saranno utilizzati per riciclare le risorse minerarie congolesi saccheggiate dall’esercito rwandese nella Rdc».

Una volta giunti a conoscenza dell’accordo, gli abitanti di Kinshasa hanno protestato di fronte alle ambasciate occidentali. Mentre a Goma, capitale del Nord Kivu, la notizia ha rinfocolato il persistente sentimento di malcontento nei confronti dell’Occidente (e dei caschi blu delle Nazioni Unite): molti abitanti sono scesi in strada, manifestando e bruciando le bandiere dei Paesi occidentali (in particolare di Francia e Stati Uniti) e del Rwanda.

A.G.

 




Indonesia, La metamorfosi del generale


La consultazione del 14 febbraio scorso si è conclusa con la netta vittoria del candidato del presidente uscente. L’anomalia apparente è che non fa parte del suo partito. Nella realtà hanno prevalso giochi e alleanze ben consolidate.

Quartier generale delle forze armate indonesiane a Giacarta, 28 febbraio. Il presidente Joko Widodo mette entrambe le mani sulle spalle di Prabowo Subianto (presidente in pectore), gli dice qualcosa e gli conferisce il grado di generale a quattro stelle onorario, il più alto possibile per l’esercito dell’Indonesia. «Questa onorificenza è una forma di apprezzamento – dice Widodo, prima di attaccare i baveri con quattro stelle d’oro sul blazer di Prabowo -, ribadisce la sua devozione al popolo e al Paese. Vorrei congratularmi con il generale». Da qualche giorno è arrivato un messaggio di congratulazioni della Casa bianca per le elezioni del 14 febbraio: il presidente Joe Biden, fervente organizzatore di summit per la democrazia, si dice «ansioso» di collaborare con la nuova leadership e «rafforzare la cooperazione con un partner strategico».

È il 28 febbraio. Eppure, fino a qualche anno fa una scena del genere sarebbe sembrata possibile solo in una sorta di universo parallelo. Già, perché nel 1998 Prabowo era stato costretto a lasciare l’esercito e a venire congedato con disonore per le molteplici accuse di violazioni dei diritti umani a suo carico che sarebbero state perpetrate quando era tenente generale e comandante delle Kopassus, le forze speciali dell’esercito. La tortura di ventidue attivisti, rapimenti e sparizioni, la repressione delle proteste degli oppositori del dittatore Suharto, le violenze contro i movimenti autonomisti di Papua e Timor Est. Un curriculum non proprio scintillante per Prabowo, che di Suharto era peraltro l’ex genero, e che gli era costato la proibizione di recarsi negli Stati Uniti. Il divieto è durato fino al 2020, quando la misura è stata revocata per consentire a Prabowo, in qualità di ministro della Difesa indonesiano, di andarci.

«Dare a Subianto un titolo onorifico a quattro stelle, con i suoi precedenti militari e le accuse di coinvolgimento in casi di violazione dei diritti umani, metterà in imbarazzo l’onore e la dignità delle forze armate indonesiane», ha dichiarato ad Ap (Associated press) Gufron Mabruri, direttore esecutivo dell’organizzazione non governativa Imparsial.

President Joko Widodo (C) walks with Defence Minister Prabowo Subianto (L) and Military Chief General Agus Subianto (R) […] (Photo by BAY ISMOYO / AFP)

Da nemici ad amici

La scena del 28 è oggi nell’ordine delle cose. Prabowo, infatti, due settimane prima, ha stravinto le elezioni presidenziali indonesiane. Non c’è stato nemmeno bisogno del secondo turno come prevedevano quasi tutti gli analisti: l’ex generale ha ottenuto quasi il 60% già al primo turno, superando nettamente il 50,1% necessario per evitare il ballottaggio contro il secondo classificato.

Non si è trattato di un exploit improvviso, ma di un successo costruito con pazienza e in modo meticoloso, giunto peraltro tramite il sostegno di quello che fino a un certo punto era stato il suo acerrimo rivale: Widodo (famigliarmente chiamato Jokowi). Sì, proprio colui che appunta la quarta stella sul petto di Prabowo.

È cambiato davvero tutto dal 2014, l’anno in cui Widodo aveva sconfitto per la prima volta Prabowo alle presidenziali. L’ex generale, ai tempi, si presentava spesso ai comizi in sella a un cavallo, pronunciando discorsi infuocati contro l’avversario paventando politiche protezioni- stiche e suscitando parecchi timori per i suoi stretti legami con le forze islamiste radicali. Un aspetto, questo, non trascurabile nel Paese con la popolazione musulmana più vasta del mondo.

Nel 2019, al secondo tentativo di raggiungere la presidenza, Prabowo aveva nominato l’ex leader dell’ala giovanile del gruppo islamista Muhammadiyah, Dahnil Simanjuntak, come suo portavoce personale.

In entrambe le tornate elettorali, Prabowo aveva rifiutato di ammettere la sconfitta. Nel 2019 aveva accusato Widodo di brogli elettorali, scatenando una delle peggiori ondate di violenza politica degli ultimi decenni in Indonesia. Centinaia di persone erano rimaste ferite durante gli scontri tra i sostenitori di Prabowo e la polizia dopo l’annuncio dei risultati del voto. E almeno sei sono state uccise.

L’Indonesia era sembrata sulla soglia di una guerra intestina. Poi, all’improvviso, era cambiato tutto. Dopo una serie ravvicinata di incontri tra i due, dagli insulti si era passati ai selfie. Dalle accuse di brogli si era passati alla nomina di Prabowo nella squadra di governo di Widodo, come ministro della Difesa. Era parsa una mossa utile a «neutralizzare» politicamente l’ex generale.

Alleanze interne

Il capitale politico di Widodo e la futura eleggibilità del suo partito dipendevano anche dalla sua capacità di mantenere un’alleanza con la società civile islamica, si pensava allora. E aveva bisogno del sostegno di gruppi come Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah per governare efficacemente. Insomma, la mossa di Jokowi era stata letta come la risposta alla necessità di dare stabilità al suo secondo mandato. Senza contare che era già emerso lo storico progetto di spostare la capitale da Giacarta a Nusantara (vedi box), nel Kalimantan orientale, sull’isola del Borneo. E Prabowo è una sorta di «zar» di quella zona, dove la sua famiglia possiede vasti terreni per circa 220mila ettari e detiene un’importante capitale politico.

La decisione di Widodo di tenersi vicino Prabowo si sarebbe, invece, rivelata essere più profonda. In vista delle elezioni di febbraio, infatti, il presidente uscente (ancora molto popolare nell’opinione pubblica indonesiana) ha deciso di appoggiare proprio il suo ex rivale e invece del candidato del suo Partito democratico indonesiano di lotta. Widodo ha mollato senza tanti complimenti Ganjar Pranowo, ex governatore di Giava centrale e suo teorico erede designato, lasciandolo completamente spiazzato visto che questi aveva costruito la sua immagine e la sua campagna come l’unico in grado di dare continuità alle politiche del compagno di partito. È arrivato persino terzo, dietro il candidato indipendente Anies Baswedan, ex governatore di Giacarta. Anche lui, in realtà, sperava di ricevere l’appoggio di Widodo, di cui aveva scritto per anni i discorsi prima di venire nominato ministro dell’Istruzione.

E invece Jokowi ha scelto proprio Prabowo. E non si è limitato a dargli un appoggio indiretto, ma ha addirittura piazzato il proprio figlio, Gibran Rakabuming Raka, nel ruolo di numero due del suo ex rivale e dunque eventuale futuro vicepresidente. Mossa, quest’ultima, controversa visto che Gibran ha solo 36 anni e la legge indonesiana indica nei 40 anni l’età minima per candidarsi a presidenza o vicepresidenza. Un ostacolo serenamente superato grazie a una sentenza della Corte costituzionale, che ha rimosso il vincolo di età per chi avesse vinto in precedenza un’elezione locale. E Gibran è sindaco della città di Surakarta. Il sospetto, di una sentenza ad personam è acuito da un particolare non trascurabile: a capo della Corte costituzionale di Giacarta c’è nientemeno che il marito della sorella di Widodo.

Gente al voto a Demak, Central Java, 24/02/2024. (Photo by Akrom HAZAMI / AFP)

L’immagine e i social

Tra gli elettori indonesiani, c’è anche chi è rimasto scandalizzato della netta vittoria di Prabowo. Tanto che sono state organizzate diverse proteste, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali, nelle quali centinaia di persone hanno chiesto l’impeachment di Widodo per «interferenze» nel processo elettorale. Eppure, nelle urne non tutti hanno considerato il poco invidiabile passato di Prabowo, forse anche grazie al fatto che questi ha ripulito la sua immagine con una semplice quanto astuta strategia sui social media. A livello ufficiale non ha più utilizzato i toni incendiari del passato, soprattutto sui social più seguiti dai giovani. Instagram e TikTok sono stati invasi dai video di Prabowo in versione affabulatore e con un’immagine da zio o nonno simpatico e un po’ imbranato, ma bonario e ovviamente dotato di tanta saggezza. Balletti improbabili, sorrisi e foto ricordo, aneddoti personali e il gatto Bobby hanno reso simpatica una figura di cui in tanti non ricordano, o nemmeno conoscono, gli scheletri nell’armadio.

D’altronde, la maggioranza degli elettori ha meno di 40 anni. Molti di loro non hanno ricordi nitidi della dittatura di Suharto o delle forze speciali di Prabowo, così come del suo esilio in Giordania.

Si tratta di una dinamica che inizia a essere una tendenza anche in Asia dove spesso dominano le dinastie politiche familiari. E non solo nella Corea del Nord dei Kim. Basti pensare alla Cambogia di Hun Sen (cfr MC luglio 2022), il leader eterno appena tornato presidente del Senato dopo aver lasciato il ruolo di premier al figlio Hun Manet. La strategia «prabowiana» sui social è stata un ingrediente anche del successo di Ferdinand Marcos Junior, figlio del dittatore filippino, alle elezioni presidenziali del 2022 (cfr MC agosto 2022). E anche in India il primo ministro Narendra Modi sta conducendo una campagna elettorale dove la priorità sul fronte comunicativo è data a canali come Instagram rispetto alle tradizionali interviste.

Discorsi moderati

Sul fronte più istituzionale, Prabowo ha assunto (quantomeno ufficialmente) una linea moderata con parole ben più calibrate rispetto al passato. Ha soprattutto promesso di portare avanti le politiche di Widodo sul fronte economico, lasciando aperte le porte agli investimenti esteri. Si tratta di un tema su cui c’è molta attenzione da parte delle grandi potenze, interessate a rafforzare la loro presenza in un mercato dinamico ed emergente come l’Indonesia, peraltro Paese ricco di risorse minerarie fondamentali per lo sviluppo di settori strategici sul fronte tecnologico. Su tutte, il nichel, un minerale fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici.

Nel 2014, le esportazioni di nichel ammontavano a un miliardo di dollari, oggi la cifra è arrivata a 30 miliardi. E gli investimenti esteri nel settore estrattivo sono altrettanto esplosi, raggiungendo i 16 miliardi nel 2022, in gran parte provenienti da aziende cinesi.

Politica estera

Gli Stati Uniti stanno provando a recuperare il terreno perduto. Lo scorso novembre Biden ha ricevuto Widodo alla Casa Bianca, cercando di raggiungere un accordo sull’estrazione congiunta delle terre rare. A separare Washington e Giacarta ci sono però visioni diverse sulla crisi in corso in Medio Oriente: il governo indonesiano, infatti, è molto critico con Israele, con cui peraltro non ha mai avviato relazioni diplomatiche ufficiali.

L’Indonesia ha tradizionalmente una politica estera non allineata e particolarmente cauta. Con Prabowo potrebbe però assumere un timbro più deciso, viste le posizioni su temi internazionali da lui espresse in passato, spesso molto lontane da quelle occidentali. Basti pensare alla proposta, avanzata a giugno 2023, di una pace alla coreana per la guerra in Ucraina: congelamento dei confini sulla situazione attuale e referendum nei territori occupati dai russi per far scegliere alla popolazione da che parte stare. Idea respinta con sdegno da Kiev, Bruxelles e Washington.

Eppure, quando il prossimo 20 ottobre Prabowo inizierà il suo incarico presidenziale, gli Stati Uniti, e non solo, dovranno costruire con lui un rapporto solido. Sulle relazioni con la Cina potrebbero parzialmente interferire le dispute sul mar Cinese meridionale, su cui Prabowo potrebbe assumere una linea meno conciliante di quella di Widodo. A Pechino si ricordano ancora il ruolo dell’ex generale nelle purghe anticomuniste di Suharto. Ma gli scheletri di Prabowo sembrano ormai destinati a restare ben sigillati nel suo armadio.

Lorenzo Lamperti

Human rights activist Maria Catarina Sumarsih, […] (Photo by Afriadi Hikmal / NurPhoto / NurPhoto via AFP)


La valenza politica ed economica di Nusantara

In Borneo la nuova capitale

In lingua giavanese significa «arcipelago». Si trova nella remota regione orientale del Kalimantan sull’isola del Borneo. Per costruirla si prevede una spesa di circa 32 miliardi di dollari, ma anche un aumento del disboscamento di una delle foreste pluviali più antiche del mondo. È questo l’identikit di Nusantara, destinata a diventare la nuova capitale dell’Indonesia. Per completarla ci vorrà ancora diverso tempo, forse fino al 2045. Ma l’inaugurazione è prevista già per il prossimo 17 agosto, in occasione del 79simo anniversario dell’indipendenza del Paese dai Paesi Bassi. In prima fila ci sarà il presidente uscente Joko Widodo, che proprio in Nusantara identifica la sua eredità politica.

Il progetto è partito nel 2019, all’alba del secondo mandato di Widodo, quando è emersa la necessità di decongestionare Giacarta. L’attuale capitale soffre di inquinamento e traffico, e, secondo diversi studi, si sta persino parzialmente inabissando. Non a caso le alluvioni sono diventate sempre più frequenti. Il Borneo invece è meno esposto a disastri naturali e si trova geograficamente al centro del Paese. I lavori sono ufficialmente partiti nel 2022, rallentati all’inizio dalla pandemia da Covid-19, oggi proseguono in una sorta di corsa contro il tempo per consentire a Widodo di partecipare all’inaugurazione prima di lasciare la presidenza a Prabowo Subianto. Sul posto sono impiegati circa centomila operai, in un’area grande quattro volte quella di Giacarta.

Lo spostamento della capitale ha una valenza fortemente politica ed economica. L’obiettivo è infatti anche quello di favorire lo sviluppo di una regione rimasta meno popolata, diversificando la crescita interna e riducendo la centralizzazione che ha contraddistinto il modello di sviluppo indonesiano.

L’apertura di Nusantara significa anche lanciare una nuova rete di infrastrutture ed edifici pubblici, con la speranza di attrarre una pioggia di investimenti esteri. In realtà, su questo fronte i risultati sono stati meno brillanti del previsto.

Il colosso giapponese SoftBank ha ritirato la sua partecipazione a causa di preoccupazioni sulla sostenibilità economica del progetto e delle 300 aziende globali, citate dal governo come interessate, molte non hanno ancora firmato alcun accordo. Restano diversi dubbi anche sul fronte ambientale, dato il possibile contraccolpo sulla ricca biodiversità dell’area. C’è poi chi teme che Nusantara possa tramutarsi in una sorta di «cattedrale nel deserto», quasi un corpo estraneo rispetto al resto del Paese. Il tempo lo dirà. Ma intanto Widodo ha fretta per lasciare il suo marchio e tagliare il nastro.

L.L.

Moschea di Ambon (di Claudia Caramanti)

Le religioni in Indonesia

Il più grande paese musulmano

L’Indonesia è il più grande Paese musulmano al mondo per numero di credenti. I fedeli sono peraltro in costante crescita, visto che dal 2011 al 2022 sono passati da 202,9 milioni a 277,3. Si tratta dell’87,2% della popolazione totale. La quasi totalità dei musulmani indonesiani, pressoché il 99%, è sunnita. L’islam indonesiano è caratterizzato da una forte influenza della cultura locale, tanto da venire chiamato islam Nusantara. Nel giugno 2015, Joko Widodo ha espresso apertamente il suo sostegno a questa forma che molti giudicano più moderata di islam e secondo il presidente uscente «compatibile coi valori culturali indonesiani».

Ma nel Paese sono presenti anche altre religioni. Il 9,9% della popolazione è cristiano, con il 7% protestante e 2,9% cattolico. C’è poi un 1,7% di indù e uno 0,7% di buddhisti. Si stima che circa 20 milioni di persone, soprattutto a Giava, Kalimantan (Borneo) e Papua, pratichino vari sistemi di credenze tradizionali, spesso indicati collettivamente come aliran kepercayaan.

La Costituzione afferma che la nazione indonesiana «è basata sulla fede in un unico Dio supremo», ma garantisce a tutte le persone il diritto di praticare il culto secondo la propria religione e il proprio credo. Il decreto presidenziale del 1965 sulla prevenzione della blasfemia e dell’abuso delle religioni proibisce le «interpretazioni devianti» degli insegnamenti religiosi e qualsiasi organizzazione blasfema. Non mancano però i casi controversi. La provincia di Aceh prevede la sharia (legge islamica, ndr) applicata dai tribunali islamici, fino dal 2001, con la promulgazione della legge sull’autonomia speciale. Queste leggi, in alcuni casi, prevedono fino a 100 frustate come punizione. Negli ultimi anni alcuni gruppi islamisti, anche radicali, hanno guadagnato spazio nel dibattito politico e pubblico, tanto da essere corteggiati dal presidente eletto Prabowo Subianto.

L.L.




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Racconto delle nozze di Cana

Carissimo padre Gigi, direttore di MC,
ho terminato ora la lettura/meditazione del commento al brano evangelico del «racconto delle nozze di Cana» meravigliosamente spiegato dal sacerdote biblista Paolo Farinella, che voi con grande lungimiranza avete pubblicato sulla rivista Missioni Consolata in 38 puntate dal febbraio 2009 al febbraio 2013. Una lettura impegnativa, ma molto interessate e coinvolgente.

La meticolosa indagine mi ha «costretto» a calarmi nell’analisi fin nel profondo, sviscerando tutte le sfaccettature mai nemmeno ipotizzate e intuite, a scoprire i significati più nascosti e reconditi di un racconto di «soli» undici versetti. Una passeggiata che da tempo volevo intraprendere, ma avrei voluto effettuare solo dopo aver raccolto e messo assieme tutte le puntate pubblicate così d’avere un testo uniforme e scorrevole senza interruzioni lunghe un mese che avrebbero potuto fiaccare sia la mia memoria che la mia costanza. Grazie alla tua grande disponibilità ad aiutarmi a raccogliere e comporre tutto questo materiale, ho avuto la spinta necessaria per continuare in questo tuo grande lavoro e così ho potuto immergermi, naturalmente un po’ al giorno, nella lettura delle stupende pagine che don Farinella ci aveva gentilmente concesso.

Un grazie a Missioni Consolata per questo grande regalo e a te che essendo il direttore ne hai reso possibile la realizzazione. Il Vangelo raccontato da Giovanni rimane per noi, poveri tapini, un cibo difficile da digerire se non a piccoli bocconi, magari premasticati, come in natura fanno le madri per nutrire i propri piccoli ancora implumi e inconsciamente incapaci di cibarsi. L’importante in tutto questo è trovare la persona giusta che ti serva un piatto con il cibo sminuzzato, digeribile e allettante per te. Impresa non facile, ma in questo caso, e per me, di sicuro riuscita. Grazie ancora e speriamo di poter presto intraprendere un’altra «avventura» alla scoperta di un libro, il Vangelo e la Bibbia in generale, spesso letto e interpretato «alla nostra maniera» in modo superficiale e tradizionale senza riuscire a coglierne il profondo significato e il singolare messaggio nascosto ai più.

Giacomo Fanetti, 27/02/2024

Grazie a te per lo stimolo e l’aiuto che mi hai dato nel raccogliere tutte le 38 puntate di quel lungo cammino. Ora il testo è disponibile per tutti sul nostro sito in pdf, ben 240 pagine da leggere online o scaricare sul proprio computer. Voglio anche ringraziare di cuore don Paolo Farinella che ha dato il suo consenso all’operazione. Una fruttuosa lettura a tutti.

Un milione di firme per fermare la violenza alle frontiere dell’Europa

Stop border violence: entro il 10 luglio occorre raggiungere un milione di firme dai cittadini di almeno sette paesi dell’unione per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione per un trattamento più giusto e umano dei migranti e rifugiati sia in Europa che alle sue frontiere. Questo è il senso di una proposta lanciata dal basso.

«L’Unione europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», così il preambolo della Carta dei diritti fondamentali.

L’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) denominata «Art. 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere d’Europa», prende il via dall’assunto enunciato nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che nessuna persona «può essere sottoposta a tortura, né a trattamenti disumani e degradanti», quotidianamente violato lungo le frontiere di tutto il continente e non solo.

L’obiettivo della campagna Stop border violence, che ha avuto inizio lo scorso 10 luglio e si concluderà allo scadere dell’anno il 10 luglio 2024, è quello di arrivare a un milione di firme per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione che preveda misure concrete per contrastare e prevenire violenze e torture contro migranti e rifugiati in Europa e alle frontiere.

Per raggiungere l’obiettivo è però indispensabile che ci sia non solo un milione di firme, ma che questo milione sia l’espressione della volontà dei cittadini di almeno sette paesi europei differenti. Un obiettivo non facile per una campagna che non ha finanziamenti, né una organizzazione di riferimento, essendo portata avanti da attivisti che da tutta Italia e da alcuni paesi Ue, si sono messi in rete coordinandosi spontaneamente. L’iniziativa rischia di non arrivare alla meta se le realtà della società civile e religiosa, del grande associazionismo, dei sindacati, della politica e della stampa, non ne supporteranno attivamente la diffusione e la promozione.

Cosa si chiede in particolare al Parlamento europeo?

La tutela delle persone igranti o richiedenti asilo:

  • all’ingresso dello spazio comune europeo attraverso la regolamentazione dell’attività di controllo delle frontiere con la previsione di sanzioni specifiche per i paesi che violino apertamente il divieto dell’uso della violenza;
  • all’interno di paesi terzi, fuori dalla Ue, nell’ambito di operazioni volte alla cosiddetta «esternalizzazione delle frontiere» europee, attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i paesi membri che concludano accordi che non prevedano il controllo del rispetto dell’articolo 4;
  • nella definizione degli standard di accoglienza all’interno dello spazio dei paesi europei per tutto il periodo di permanenza sul territorio attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i Paesi che si rendano protagonisti con i propri organismi e/o le proprie forze dell’ordine di violazioni dei diritti delle persone migranti o richiedenti asilo.

Durante i prossimi mesi, a poca distanza dalla chiusura della campagna, in tutta Italia saranno allestiti banchetti per la raccolta delle firme in numerose città ed organizzati eventi e dibattiti.

È importante la partecipazione quanto più ampia possibile di tutti i cittadini e le cittadine che credono nella possibilità di un cambiamento attraverso il loro attivo coinvolgimento divenendo protagonisti di un processo di pace tanto necessario e invocato ma che può concretizzarsi solo a partire dal riconoscimento pieno dei diritti di tutti, piuttosto che dei privilegi di pochi.

L’interesse incontrato fino a ora ci conferma che il momento sia maturo per utilizzare questo strumento democratico.

di Anna Bellamacina, 14/03/2024 su Citta Nuova

Questa rivista fa sua la campagna in coerenza con il mondo missionario di cui è portavoce, un mondo che è a diretto contatto con le sofferenze di chi è vittima di guerre, ingiustizie, dittature, sopraffazioni, invasioni di terre, disastri climatici e scontri tribali (spesso alimentati ad arte per permettere lo sfruttamento incontrollato di risorse minerarie o energetiche).

Link diretto per firmare: https://eci.ec.europa.eu/032/public/#/screen/home
Per adesione e informazioni: stopborderviolence@gmail.com


Il Papa a Verona

La giornata di sabato 18 maggio sarà una grande festa della Chiesa di Verona nella vigilia di Pentecoste e un incontro tra papa Francesco e la città scaligera sul tema «Giustizia e pace si baceranno».

Il programma

Come anticipato, la giornata inizierà con la festa in piazza san Zeno, rivolta a bambini e ragazzi fino alla terza media, alle scuole e all’associazionismo dei ragazzi: sarà anche il momento dell’accoglienza di papa Francesco. In particolare, per i ragazzi di terza media questo incontro sarà l’inizio della «Festa del passaggio» che durerà tutto il giorno.

Il secondo appuntamento per il Pontefice sarà all’interno della basilica di san Zeno con un momento di dialogo e preghiera, nei pressi delle spoglie del patrono, riservato a preti, diaconi, consacrati e consacrate.

Di lì è poi previsto il trasferiento in Arena per partecipare ad una parte dell’evento «Arena di pace 2024» che si svolgerà nell’anfiteatro cittadino dalle 9 alle 13.

Successivamente, il Pontefice si sposterà alla casa circondariale di Montorio, per l’incontro con i detenuti, la polizia penitenziaria, i familiari, la cappellania, i volontari e tutti coloro che compongono questo mondo in cui, come ha sottolineato il vescovo Domenico, «sembra che regni il silenzio», mentre in realtà spesso salgono grida, speranze e lacrime, rispetto alle quali la società tace e si dimostra indifferente.

Culmine della giornata sarà la messa di Pentecoste allo Stadio Bentegodi che papa Francesco presiederà alle 16; sarà anticipata dalla festa dei giovani con musica, riflessioni, testimonianze, a partire dalle 14.

Ufficio stampa diocesi
 di Verona, 04/02/2024

Sessantesimo di sacerdozio

Padre Giovanni Marconcini celebra il 60° di messa a Milano, casa IMC

Mi presento. Mi chiamo John (Giovanni) e da 65 anni sono missionario della Consolata. L’avventura missionaria che il Signore ha scelto per me è stata molto variopinta. Dopo tre anni in un seminario minore a Bevera di Castello Brianza (Lc) come vicerettore, ho cominciato a viaggiare per il mondo: cinque anni come animatore missionario in Andalusia (Spagna); tredici anni in Kenya, prima in una missione con una superficie di 850 km2 a Siakago (Embu), poi come professore e formatore in un nostro seminario a Langata (Nairobi); sette anni a Pittsburgh negli Stati Uniti e due a Toronto in Canada, come animatore missionario; undici anni a Roma, prima in aiuto alla direzione generale e poi in un ambiente accademico, e dieci anni, ancora a Roma, come padre spirituale in una residenza di sacerdoti provenienti da oltre sessanta paesi per ottenere i gradi accademici di licenza e dottorato in diverse discipline nelle università romane. Alla bella età di 80 anni, sono approdato a Milano, in un centro dei Missionari della Consolata, nel territorio parrocchiale di San Benedetto (in aprile è tornato a vivere a Bevera, dove ha cominciato il suo servizio, ndr).

Il 21 dicembre scorso ho celebrato 60 anni di sacerdozio. La sensazione che il tempo sia volato è normale. Affiora però nel cuore un vivo ringraziamento e un proposito di usare bene il tempo che ancora mi sarà dato. Certamente il ringraziamento va al Signore, che mi è stato vicino in tutti questi anni, ma non posso non riconoscere la sua premurosa presenza in tutti coloro che hanno condiviso il mio cammino e mi hanno sostenuto, confortato, incoraggiato con la loro amicizia sincera. […]

I miei spostamenti non sono stati sempre facili. Alcune volte ho fatto ciò che i miei superiori volevano – sapevo che in loro lo voleva anche il Signore – in maniera pulita, cioè accettando subito di buon grado. Altre volte invece con qualche resistenza […]. Così anch’io ho finito sempre di fare ciò che mi è stato chiesto.

Tante sono state le «idee forza» che mi hanno guidato in questi 60 anni di servizio missionario, ma ne scelgo solo due, quelle, forse, che sono state più incisive e direi anche più efficaci. […]

La prima idea forza è stata il «momento presente»: come tutti i santi hanno insegnato con convinzione, il passato è nella misericordia di Dio, il futuro è nella sua provvidenza. Solo il presente mi è dato per viverlo con impegno. Il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, lo riassumeva nel «hic et nunc» e nel «nunc coepi» (qui e ora e ora ricomincio). L’attimo presente mi ha salvato tantissime volte dal sostare nella delusione di un fallimento, dal cadere nell’ansia per ciò che sarebbe accaduto, dal prendere decisioni avventate e rimanere nella calma, da reazioni esagerate in momenti di tensione, nel vivere con solennità ogni parte della mia giornata, senza dare importanza più a una che all’altra. Tutto è importante, se volontà di Dio: la preghiera, prendere cibo, la passeggiata, un incarico anche di poco conto a servizio degli altri.

La seconda idea forza è stata considerare il mio sacerdozio non uno stato di privilegio o un tantino superiore ad altri, ma un servizio. Mi ha fatto tanto bene un articolo di don Tonino Bello, intitolato «Stola e grembiule» (che invito tutti a leggere), in cui egli dice tra l’altro che Gesù, nella messa solenne celebrata nel Giovedì Santo, non indossò né casule né stole, ma si cinse ai fianchi un panno rozzo, con un gesto squisitamente sacerdotale.  Ho visto sempre il mio Sacerdozio come «ministeriale», come lo è effettivamente, in confronto a quello «regale», ricevuto da tutti i cristiani nel giorno del loro battesimo. Quante volte ho ripetuto a me stesso e poi agli altri: «Con voi sono cristiano, per voi sono sacerdote», (riferendomi a ciò che dice ancora Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo»), per partecipare a incontri di preghiera, per esempio, senza la pretesa di prendere la parola o avvicinare anche chi ha altre convinzioni religiose, senza la smania di convincere nessuno.

Che brutto, fino a sentirmi addolorato, al tempo del mio servizio come padre spirituale, sentire da sacerdoti una espressione come questa: «Siamo sacerdoti, dovremmo essere trattati meglio», quando c’era qualche disservizio involontario. Allora prendevo la prima occasione per ricordare loro che tutti gli studi che avevano fatto per diventare sacerdoti erano per prendere il diploma in «schiavitù», cioè per essere completamene al servizio della gente a loro affidata. Cercare di usare il mio sacerdozio come scusa per ottenere qualcosa mi è parso sempre sbagliato.

Vi chiedo una preghiera.

padre John Marconcini, Imc
Milano, 16/01/2024

 




Giustizia e pace si baceranno


Si vis pacem, para bellum! (se vuoi la pace, prepara la guerra).
L’antico adagio, a guardare alle decine di conflitti ad alta o bassa intensità che si combattono nei diversi continenti, sembra tornato di moda. Una guerra non solo di scontri armati ma che paventa una rapida distruzione del pianeta e di quanto lo abita, se dovesse verificarsi lo scenario di un conflitto nucleare, minacciato da chi di pace non intende sentir parlare.

In risposta a questa tentazione, esattamente dieci anni dopo l’ultima imponente manifestazione pubblica per la pace svoltasi nell’aprile 2014 nell’Arena di Verona, torna lo stesso appuntamento, rinnovato, sia per i temi trattati che per le modalità di attuazione, che vede coinvolti a livello nazionale e sovranazionale dozzine di entità ecclesiali e laiche, gruppi ecumenici e interreligiosi, movimenti popolari e organizzazioni non governative, rappresentanti sindacali e società civile.

L’intento è di richiamare con forza il nostro governo a rispettare e applicare l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un auspicio e un progetto tuttora disattesi, visto il coinvolgimento diretto o indiretto dell’Italia nelle situazioni di conflitto cui assistiamo nel mondo.

Arena 2024, come le precedenti, nasce dal mondo missionario, ecclesiale e laico, che contrappone la logica della pace a quella della guerra, al fine di spingere le istituzioni politiche a dare una risposta concreta, unitaria e ispirata ai principi di giustizia e di pace, per evitare di cadere nel baratro di un conflitto globale.

Giustizia e pace si baceranno! Queste parole di Isaia – poste a titolo dell’assemblea popolare in Arena – raccolgono l’aspirazione di milioni di persone che sognano un mondo in cui finalmente siano le vie del dialogo, dell’accoglienza reciproca e della pace alla base della convivenza planetaria. A testimoni di pace di oggi dai vari continenti, si unirà la memoria dei grandi profeti, laici o religiosi, da proporre e far conoscere ai giovani: Romano Guardini, Aldo Capitini, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Davide Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Arturo Paoli e tanti altri protagonisti delle Arene precedenti.

L’impegno per la giustizia e la pace non intende limitarsi all’incontro in Arena del 17-18 maggio; vuole essere invece l’avvio di un processo di costruzione della pace che prosegua dopo l’evento, scuota la coscienza di tutti e coinvolga l’intera società, non solo gli strati più attivi, nella promozione della pace.

È questo il sogno di chi per lunghi mesi ha organizzato l’evento e dei suoi maggiori protagonisti: papa Francesco, che sarà presente e ribadirà il suo chiaro dissenso a guerra e violenza; il vescovo di Verona, monsignor Domenico Pompili, che da mesi anima la preparazione di Arena 2024; l’amministrazione comunale di Verona che in tanti modi ha facilitato e accompagnato l’organizzazione della manifestazione e i componenti dei cinque tavoli di lavoro che per mesi hanno discusso su cinque temi critici: pace e disarmo; ecologia integrale e stili di vita; migrazioni; lavoro; democrazia e diritti.

Parafrasando papa Francesco, Arena 2024 mira «a creare seminatori di cambiamento, promotori di un vero processo virtuoso di cultura della pace; compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza».

In questo rinnovato impegno che parte dall’appuntamento di Verona le riviste missionarie della Fesmi continueranno a esserci con il loro compito: raccontare i tanti cantieri dove questa strada della pace è un’alternativa concreta che prova ogni giorno a costruire un’umanità nuova. Insieme e adesso.

Fesmi
(Federazione stampa missionaria italiana)


Ecco alcuni link alle altre testate Fermi.

 




Russia. Kirill non prega per Navalny


Dmitry Safronov è un prete della Chiesa ortodossa russa. Padre Safronov ha pregato più volte sulla tomba di Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin, morto (probabilmente assassinato) lo scorso 16 febbraio nella colonia penale artica in cui era stato rinchiuso. Il 26 marzo il sacerdote ha celebrato anche un servizio funebre in onore del defunto. La diocesi di Mosca non ha però gradito il comportamento di padre Safronov e lo ha, pertanto, punito con la sospensione dalle funzioni clericali e tre anni di penitenza.

Da tempo, e ancora di più dal febbraio 2022, data dell’aggressione della Russia all’Ucraina, la posizione della Chiesa ortodossa russa – dal 2009 guidata dal patriarca Kirill – è stata di totale allineamento con la politica di Putin, presidente di nome, ma dittatore di fatto. Ultimamente, essa è stata ribadita nero su bianco nel documento conclusivo («Presente e futuro del mondo russo») del XXV Consiglio mondiale del popolo russo (World russian people’s council), organizzazione presieduta dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Il primo punto del documento datato 27 marzo è dedicato proprio alla cosiddetta «Operazione militare speciale» in Ucraina e non lascia spazio a dubbi. «L’Operazione militare speciale – vi si legge – è una nuova fase della lotta di liberazione nazionale del popolo russo contro il regime criminale di Kiev e l’intero Occidente che lo sostiene, condotta nelle terre della Rus’ Sud occidentale dal 2014. Durante l’Operazione militare speciale, il popolo russo con le armi in mano difende la propria vita, libertà, statualità, identità civile, religiosa, nazionale e culturale, nonché il diritto di vivere sulla propria terra entro i confini dello Stato russo unito. Da un punto di vista spirituale e morale, l’operazione militare speciale è una guerra santa (“suyashennaya voyna”, nella traslitterazione dal russo, ndr)».

Il punto prosegue chiamando la Russia e il suo popolo a proteggersi dall’assalto del globalismo e dalla vittoria dell’Occidente caduto nel satanismo. La guerra santa – si afferma – finirà quando tutto il territorio della moderna Ucraina sarà entrato nella zona di influenza esclusiva della Russia. Il tono rimane identico anche nel resto del documento, vero concentrato di affermazioni ultra conservatrici e ultra nazionaliste, che incolpano l’Occidente di ogni male. Una citazione a mo’ di esempio: «I programmi educativi nazionali […] dovrebbero essere purificati da concetti e atteggiamenti ideologici distruttivi, principalmente occidentali, estranei al popolo russo e distruttivi per la società russa».

A inizio aprile, il Consiglio ecumenico delle Chiese (World Council of Churches), di cui la Chiesa ortodossa russa è parte, ha respinto il documento proprio a causa delle considerazioni sulla presunta «guerra santa». Difficile capire quanto la Chiesa russa sia compatta attorno alla posizione dettata dal patriarca. Quello che è certo è che essa utilizza gli stessi metodi del Cremlino: la repressione di chiunque non sia d’accordo.

Padre Alexey Uminsky, una delle tante vittime del patriarca Kirill. (Foto Meduza)

L’ultima vittima è stata padre Dmitry Safronov. Ma sono decine i sacerdoti ortodossi puniti per aver sfidato la linea della Chiesa sulla guerra. Lo scorso gennaio era stato destituito dal suo ministero sacerdotale padre Alexey Uminsky, mentre un anno prima era toccato a padre Yoann Koval. Kirill è un sodale e un patriarca fedele a Putin ai limiti dell’idolatria: nel febbraio del 2012, non esitò a definire i suoi primi dodici anni al Cremlino come un «miracolo di Dio». Una vicinanza ideologica che non può essere messa in discussione. Chiunque osi farlo è immediatamente invitato – per usare un eufemismo – a fare le valige.

Paolo Moiola