Il 21 maggio è stata pubblicata un’inchiesta giornalistica che porta diverse prove di come i finanziamenti dell’Unione europea ai paesi del Nord Africa siano utilizzati per perpetrare violenze nei confronti dei migranti subsahariani.
Nell’inchiesta sono coinvolte alcune delle più importanti testate internazionali come il The Washington Post, Le Monde, El Pais, Lighthouse Reports e altre che hanno lavorato insieme per un anno per mostrare al mondo intero come i fondi dell’Unione europea e dei suoi paesi membri siano utilizzati nel Nord Africa per portare avanti operazioni violente e aggressive.
Viene raccontata la storia di François, trentottenne camerunense che è stato intercettato, insieme alla moglie e al figlio di 6 anni, su un barcone che stava solcando le acque del mediterraneo. Era la quarta volta che provava a imbarcarsi ma la Guardia costiera tunisina li ha fermati e riportati sulla terra ferma. Sono poi stati caricati su un camion che li ha obbligati a scendere in una zona remota del deserto vicino al confine con l’Algeria.
È proprio questa la pratica che dà il nome all’inchiesta, intitolata «Desert dumps», ossia discariche nel deserto, a indicare il modo in cui spesso vengono trattati i migranti che sono scaricati come rifiuti in mezzo al deserto. L’obiettivo è, nel caso le persone non muoiano, che desistano dal riprovare la traversata.
È la complicità dell’Unione europea il fulcro dell’inchiesta, vengono portate alla luce diverse prove di come in queste operazioni repressive abbiano avuto un ruolo i fondi europei. In teoria ogni finanziamento di Bruxelles dovrebbe essere vincolato al rispetto di certi standard di diritti umani, in pratica i soldi dei cittadini europei sono stati usati per finanziare gli addestramenti del personale di polizia e per fornire mezzi di trasporto, terrestri e marittimi, utilizzati in diverse di queste operazioni violente.
L’inchiesta si concentra su tre paesi: Tunisia, Marocco e Mauritania. Attraverso accurate ricostruzioni con le testimonianze dei protagonisti di queste storie, i video fatti dagli stessi e poi verificati analizzando le tracce Gps degli smartphone sono emerse situazioni preoccupanti. Ad esempio, dai video girati da François in mare, si distingue l’imbarcazione della Garde nationale maritime tunisina che lo ha intercettato, è una motovedetta di un particolare modello che era menzionato espressamente in un accordo stipulato tra Italia e Tunisia.
I video provenienti dal Marocco mostrano invece dei Toyota Land Cruiser, veicoli donati al paese dall’agenzia governativa spagnola FIIAPP che finanzia nel paese un progetto per combattere l’immigrazione irregolare. E veicoli analoghi sono stati identificati in Mauritania.
Sono questi quindi i contesti in cui si inseriscono i diversi accordi che l’Unione europea e i suoi paesi membri continuano a stipulare con i paesi del Nord Africa. Uno degli ultimi è stato fatto proprio con la Tunisia, si tratta di un pacchetto di aiuti diviso in tre voci principali, di cui due rese disponibili da subito, che comprendono 150 milioni di euro a sostegno delle finanze del paese nordafricano e 105 milioni per la gestione dei flussi migratori.
Questi soldi dati, con scarsi controlli su come verranno utilizzati, a un governo sempre più autoritario e che fa del razzismo uno dei suoi cavalli di battaglia, rischiano di diventare l’ennesima violazione dei diritti umani dei migranti portata avanti con la complicità dell’Unione europea.
Mattia Gisola
Sudafrica. Il tramonto dell’Anc?
Oggi in Sudafrica si tengono le elezioni nazionali e provinciali. Oltre a scegliere le autorità locali, i cittadini eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, ai quali spetterà scegliere il futuro presidente.
Il voto è considerato il più importante da quando il Paese è tornato alla democrazia nel 1994 dopo la fine dell’apartheid. Per la prima volta in trent’anni, l’African national congress (Anc), il partito di Nelson Mandela, rischia di perdere la maggioranza in Parlamento e di dover costituire un inedito governo di coalizione.
Gli schieramenti
Il leader dell’Anc e presidente uscente, Cyril Ramaphosa, è ancora il candidato di punta del partito. Se l’Anc dovesse superare il 50% dei consensi, Ramaphosa si confermerà alla guida del Paese anche per i prossimi cinque anni. In caso contrario (secondo i sondaggi l’Anc si fermerà al 40%), il partito di governo dovrà creare una coalizione con almeno un’altra tra le forze che siederanno nel nuovo Parlamento. Una prospettiva complessa, vista la distanza ideologica e politica con molte di esse.
Gli Economic freedom fighters (Eff) di Julius Malema sono un partito di sinistra dal programma radicale, stimato all’11,5%. Nonostante Anc ed Eff si siano già alleati in passato a livello provinciale, la distanza è forte, soprattutto per quanto riguarda le nazionalizzazioni su ampia scala al centro del programma degli Eff.
La Democratic alliance (Da), movimento di centrodestra dato al 22%, è l’attuale principale oppositore dell’Anc a livello nazionale. Il suo leader è John Steenhuisen. Durante la campagna elettorale, il partito ha rilasciato un video dove la bandiera sudafricana bruciava. Descritto come un avvertimento di quanto accadrà nel Paese se l’Anc dovesse creare una coalizione con altri partiti, il filmato mostra le profonde tensioni che attraversano il Sudafrica.
L’ultima forza principale dell’opposizione è l’Inkantha freedom party (Ifp). Il partito conservatore – che dovrebbe fermarsi al 4,5% – è guidato da Velenkosini Hlabisa. Espressione del nazionalismo zulu, l’Ifp ha la propria roccaforte nella regione del KwaZulu-Natal.
L’Mk e Zuma
A queste forze, che costituiscono la fetta maggiore dell’attuale opposizione parlamentare, si aggiunge un nuovo movimento che probabilmente si aggiudicherà una propria quota di seggi: l’uMkhonto we sizwe (Mk), attualmente all’8,5%. Il suo leader è Jacob Zuma, ex presidente dell’Anc e del Sudafrica tra il 2009 e il 2018.
Il ritorno sulla scena di Zuma – figura tanto controversa quanto ancora apprezzata – ha creato scompiglio nel Paese e contribuito a erodere il consenso dell’Anc. Accusato di corruzione, nel 2018 Zuma era stato costretto a dimettersi da capo dello Stato e leader del partito. In entrambi i casi era stato sostituito da Ramaphosa. Condannato a quindici mesi di carcere, ne ha scontati tre prima di essere graziato dal suo successore.
La Costituzione sudafricana impedisce l’elezione di chi ha ricevuto sentenze superiori a dodici mesi. Per questo, il 20 maggio, la Corte costituzionale ha escluso Zuma dalla lista dei candidati dell’Mk. Il volto dell’ex presidente apparirà comunque sulla scheda elettorale in quanto leader del partito, ma non potrà essere eletto.
Trent’anni di speranze disattese
Nell’immaginario comune, le elezioni del 1994, vinte dall’Anc di Mandela, dovevano segnare la nascita di uno Stato dove tutti avrebbero avuto pari dignità e diritti, indipendentemente dal colore della pelle. Trent’anni dopo, molte speranze sono state disattese.
La corruzione dell’élite politica è un fenomeno endemico. Diversi leader dell’Anc – tra cui Zuma e lo stesso Ramaphosa – si sono appropriati di fondi pubblici, impedendo che venissero destinati a servizi, lotta alla povertà e riduzione delle disuguaglianze.
Nel 2022, la Banca mondiale aveva definito il Sudafrica lo Stato con la maggiore disuguaglianza nel mondo. Il 10% più ricco (perlopiù bianco) possedeva l’80% della ricchezza del Paese. Mentre la popolazione nera (l’80%) era ed è ancora oggi in condizione di forte svantaggio economico e sociale.
La disoccupazione, un problema strutturale, a fine 2023 riguardava il 32% dei sudafricani, la metà dei quali giovani. Mentre più del 60% della popolazione viveva al di sotto della soglia nazionale di povertà. Tassi elevati anche a causa della stagnazione economica (dal 2012, la crescita media del Pil è dello 0,8% annuo) e del debito in ascesa (stimato al 74% del Pil a fine 2024).
Elevati livelli di violenza, xenofobia nei confronti dei lavoratori stranieri e costanti blackout della rete elettrica sono altre problematiche del Paese.
Sono queste le reali questioni a cui la classe politica sudafricana dovrebbe porre attenzione.
Aurora Guainazzi
Israele-Palestina, Russia-Ucraina. La giustizia è una chimera
Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi. Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.
Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.
D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.
Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.
Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.
Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.
Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.
Paolo Moiola
Il santo che non faceva rumore
La notizia era nell’aria. C’era chi diceva entro l’anno. Ci si aspettava una conferma per il 20 giugno, la festa della Consolata. E invece, ieri 23 maggio, il Papa ha approvato il miracolo del beato Giuseppe Allamano. È stata una grande gioia, anche se, per molti di noi, il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, santo lo era già da un pezzo.
Adesso c’è l’ufficializzazione e «l’onore delle cronache». Ma Giuseppe Allamano, pur essendo un precursore nella stampa cattolica – aveva fondato «La Consolata» (1899), che ha dato origine alla nostra testata, «Missioni Consolata» -, non amava essere messo in prima pagina.
«Fai bene il bene e senza fare rumore», quindi senza mettersi in evidenza, era infatti il settimo dei suoi dieci «comandamenti». Ma un altro comandamento, il nono, era proprio: «Dai il primo posto alla santità». Realizzato, oggi, più che mai.
La redazione
Riportiamo qui parte dell’articolo di Jaime Patias, direttore del Segretariato generale per la comunicazione, pubblicato integralmente su consolata.org.
Nell’udienza concessa questo giovedì 23 maggio 2024 al cardinale Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, Papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del Decreto che attesta un miracolo attribuito all’intercessione del beato Giuseppe Allamano, Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata.
Il Papa nello stesso tempo ha deciso di convocare un Concistoro, che riguarderà la canonizzazione dell’Allamano, insieme a Marie-Léonie Paradis, Elena Guerra e Carlo Acutis.
La missione, il sogno di Giuseppe Allamano
l miracolo che porterà alla canonizzazione il beato Giuseppe Allamano, è successo in Brasile, nello stato di Roraima, in piena foresta amazzonica, una delle frontiere della missione, dove dal 1948 i missionari e le missionarie della Consolata lavorano con la gente e annunciano il Vangelo, realizzando il sogno dell’Allamano, che dalla Consolata li aveva inviati nel mondo intero.
Nato a Castelnuovo Don Bosco (Torino) il 21 gennaio 1851 l’Allamano muore a Torino il 16 febbraio 1926. Da ragazzino Giuseppe è cresciuto fra i salesiani, a 22 anni è sacerdote coltiva il sogno di partire in missione, ma la salute cagionevole non glielo permette. Alla età di 29 anni lo mandano a dirigere il più grande Santuario mariano di Torino dedicato alla Madonna Consolata che riporta agli splendori di un tempo. Il fuoco per la missione, ancora vivo nel suo cuore, l’Allamano lo trasmette a giovani preti che dovutamente formati alla scuola del loro rettore si preparano a salpare per le terre lontane.
Ai piedi della Consolata, in questo modo, l’Allamano getta le basi per una grande opera, l’Istituto Missioni Consolata (Imc), che fonda nel 1901 e su richiesta di Pio X ne costituisce anche un ramo femminile con le Suore Missionarie della Consolata (Mc) nel 1910.
Il miracolo dell’indigeno Sorino Yanomami
Il miracolo attribuita alla intercessione di Giuseppe Allamano riguarda la guarigione miracolosa dell’indigeno Sorino Yanomami, popolo della foresta amazzonica nello stato di Roraima, Nord del Brasile. Sorino il 7 febbraio 1996 viene aggredito da un giaguaro che gli causa la frattura della scatola cranica. Sorino rimane in questa gravissima condizione per otto ore senza cure adeguate, finché un piccolo aereo bimotore riesce a trasportarlo all’ospedale di Boa Vista, la capitale dello Stato.
La scena per i medici è terrificante, l’indigeno viene operato di urgenza e poi ricoverato in terapia intensiva. Accanto a lui, oltre alla moglie, ci sono sei suore della Consolata, un sacerdote e un fratello missionario sempre della Consolata. Tutti invocano il beato Allamano e mettono una sua reliquia sotto il cuscino del letto di Sorino. Proprio in quel giorno inizia la novena del Beato. Sorino si risveglia dieci giorni dopo l’intervento senza mostrare nessuna conseguenza di carattere neurologico. Il 4 marzo viene trasferito presso una casa di cura e quattro giorni dopo è in grado di rientrare al suo villaggio completamente guarito, riprendendo la sua vita di un abitante della foresta, A tutt’oggi non ci sono conseguenze delle gravi lesioni subite.
Nella missione di Neisu a una trentina di chilometri da Isiro nel Nord Est della Repubblica democratica del Congo, il 18 maggio scorso, si è celebrato il venticinquesimo anniversario della morte di padre Oscar José Goapper Pascual, giovane missionario della Consolata e medico. Un missionario che «ha lasciato il segno».
Padre Oscar era figlio di José Elgasto e di Nelly Terma ed era nato il 25 settembre 1951 a Venado Tuerto, nella provincia di Santa Fé in Argentina.
Dopo le scuole secondarie, Oscar sente la chiamata a essere missionario e domanda di entrare dai missionari della Consolata presenti nella sua città. Viene accolto e inviato in Italia per continuare il cammino formativo. Terminato il cammino di formazione è ordinato sacerdote a Torino il 19 giugno 1976. Viene subito inviato in Argentina per essere animatore missionario e poi anche formatore. Nel 1981 scrive al superiore generale per chiedergli di poter finalmente andare in missione, anche se aggiunge: «Seguire il Signore fedelmente e senza mettere condizioni è vitale per me», manifestando la disponibilità che lo avrà sempre caratterizzato. Pensando che gli sarebbe stato utile in missione aveva seguito il corso per infermieri professionali. Diceva: «Aspetto con impazienza il giorno della partenza, ma sono cosciente che non si può improvvisare la missione».
Il 27 Aprile 1982 arriva finalmente nella missione di Neisu nel Nord Est dello Zaire. Padre Oscar si accorge subito della necessità di avere un luogo adatto per curare tanta gente ammalata. In un primo tempo trova aiuto occasionale da parte del dottor Leta direttore della clinica del Est a Isiro. Con l’accordo dei suoi confratelli, i padri Antonello Rossi e Richard Larose e con l’aiuto di fratel Domenico Bugatti decide di seguire la costruzione di un ospedale, ma ci vorrà un medico che sempre presente. Allora dice al suo superiore: «Se non ci sono dei medici laici che vogliano venire a Neisu, diventerò io stesso medico». Con il permesso del superiore generale si iscrive alla facoltà di medicina dell’Università di Milano. Cominciano lunghi anni e padre Oscar divide il suo tempo, le sue energie e le fatiche tra Europa e Zaire. Finalmente dottore, resta definitivamente a Neisu tra i suoi ammalati.
A quei tempi mi trovavo a Kisangani, piuttosto distante da Neisu ma ho avuto modo di incontrarlo alcune volte in occasione di qualche viaggio a Isiro e ancora meglio quando venne a Kisangani assieme a suor Cristina per partecipare a giornate di formazione per dottori. Come tante persone, anch’io fui colpito dalla sua giovialità, apertura e capacità di instaurare subito bella amicizia.
Si chiama «Sogno georgiano» ed è il principale partito della Georgia, piccolo stato del Caucaso meridionale con una sponda sul Mar Nero. Il nome del partito è sicuramente azzeccato ma, studiando con più attenzione la situazione dell’ex paese dell’Unione Sovietica, si cambia facilmente idea. Sogno georgiano è, infatti, proprietà di Bidzina Ivanishvili, oligarca che ha fatto fortuna in Russia e che la rivista Forbes colloca al posto 644 nella classifica 2024 dei miliardari del mondo.
Nonostante settimane di proteste di piazza, lo scorso 14 maggio il parlamento di Tbilisi ha approvato la legge che, per limitare l’influenza degli «agenti stranieri» sulla società civile georgiana, obbliga qualsiasi organizzazione – in primis, quelle non governative e i media – a registrarsi in un database pubblico e a rendere note le sue fonti di finanziamento. Qualora donazioni e fondi provenienti dall’estero superino il 20% del totale, l’associazione è equiparabile a un agente straniero. Insomma, si spaccia per ricerca della trasparenza una norma che metterà sotto il controllo del potere qualsiasi ente.
La presidente georgiana Salomé Zurabishvili – da sempre contraria alla norma – ha subito posto il veto bloccando la promulgazione della legge. Il partito di governo ha però una maggioranza tale da poter annullare il veto presidenziale. La norma è stata ribattezzata «legge russa» perché formulata sul modello di quella con la quale Mosca ha, di fatto, azzerato il dissenso interno. In generale, lo schema politico pare quello a cui gli osservatori esterni sono ormai abituati: da una parte un paese ex sovietico che vorrebbe avvicinarsi all’Occidente, dall’altra la Russia che si oppone con ogni mezzo.
La Georgia è indipendente dal 1991. Le sue relazioni con il potente vicino sono segnate soprattutto dalla guerra del 2008, quando Mosca decise di aiutare le regioni dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud – dagli anni Novanta in lotta con il governo di Tbilisi – a separarsi dal resto del paese. Quella guerra mostrò alla comunità internazionale l’obiettivo perseguito dal Cremlino: espandere la propria sfera d’influenza a qualsiasi costo. Come, infatti, ha dimostrato la storia successiva: dall’annessione della Crimea (nel 2014) all’aggressione dell’Ucraina (nel 2022).
A dicembre 2023 il Consiglio europeo ha concesso alla Georgia lo status di candidato per entrare nell’Unione europea. Il processo è però molto lungo e tutt’altro che scontato. La Russia, infatti, oltre a mantenere migliaia di soldati nei suoi protettorati dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, pochi mesi fa ha concordato con il presidente de facto dell’Abcasia, Aslan Bzhania, di aprire una base navale nel porto di Ochamchire, sul Mar Nero.
La Chiesa ortodossa georgiana, seguita dalla maggior parte dei cittadini, è considerata un possibile intermediario nella crisi del Paese. Tuttavia, fino a questo momento il suo apporto è stato negativo. Il patriarca Ilia II, eletto nel 1977, ha scelto la stessa strada del patriarca russo Kirill: a fianco del potere.
Paolo Moiola
Ucraina. Faccia a faccia con la guerra
30 aprile-5 maggio. Approfittando delle feste nazionali polacche, con don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la conferenza episcopale polacca, e di Rika Itozawa, ci mettiamo di nuovo in macchina per visitare alcune città al Sud dell’Ucraina e portare aiuti. Il nostro viaggio ci porta da Varsavia a Kiev e poi Odessa, Mikolajow e Cherson, con ritorno a Kiew e quindi a Varsavia. Dopo esserci fermati a Kiev per una sola notte, ci dirigiamo verso Odessa.
Odessa, città storica e strategica
Ritorniamo in questa bella città costruita sul Mar Nero dopo circa un anno per una breve visita. Odessa oltre a essere una città storica e artisticamente ricca, è soprattutto il luogo da cui partono decine di navi che trasportano in tutto il mondo i raccolti di frumento e mais del Paese (foto 1). Per questo motivo strategico è una città presa di mira dall’esercito russo (foto 2). Nelle ultime settimane gli attacchi provenienti dalla vicina Crimea o dalle navi russe sono aumentati.
Ci incontriamo con il cancelliere della diocesi, don Cristoforo. Ci racconta che gli aiuti sono diminuiti del 60% dall’inizio della guerra.
Mentre conversiamo, seduti in un ristorante tartaro accanto alla Cattedrale, le sirene iniziano a suonare. Non c’è alcuna reazione tra i clienti e i passanti. Questo può sorprendere, tuttavia occorre ricordare che da oltre due anni le sirene suonano quotidianamente. Dopo pochi minuti, si spengono.
Vediamo da un punto panoramico la città e il porto con i grandi silos. Ci sono almeno tre grandi navi nelle vicinanze. Ci raccontano che attualmente gli ucraini hanno un corridoio che permette alle imbarcazioni di dirigersi verso Istanbul e da lì proseguire per il canale di Suez.
Andiamo brevemente sulla spiaggia in una zona residenziale, una delle poche accessibili, e vediamo una casa, chiamata il castello di Potter a motivo della sua somiglianza con il castello del famoso film, con il tetto distrutto. Pochi giorni fa un missile dal mare ha colpito l’edificio causando delle vittime (foto 3 e 4).
La chiesa distrutta di Koszeliwka
Prima di sera ci rimettiamo in macchina per dirigerci verso la vicina Mykolaïv dove abita don Alessandro, presso il Santuario di san Giuseppe. Dopo esserci riposati, al mattino visitiamo il villaggio di Koszeliwka, a distanza di circa un anno dall’ultima volta. La chiesa in questo villaggio è stata distrutta e oggi rimangono solo le macerie (foto 5). Da poco don Alessandro ha acquistato due container dal porto di Odessa e li ha posti nei pressi della chiesa distrutta. Un container serve come cappella, l’altro come centro medico.
Il progetto per il futuro è quello di ricostruire la chiesa accanto a quella precedente, lasciando le rovine a ricordo. Anche le case duramente colpite iniziano a essere ricostituite dalle famiglie che lentamente provano a ritornare (Foto 6).
Cherson, sulla linea dei combattimenti
Nel pomeriggio ci viene a prendere, dalla vicina Cherson, don Massimo, il parroco, e ci guida attraverso i posti di blocco dei soldati fino alla sua parrocchia che si trova in prima linea in città.
Le nuove procedure impongono a noi stranieri di firmare una dichiarazione di responsabilità per poter entrare. La parrocchia del Sacro cuore di Gesù è l’unica romano-cattolica della città, e si trova vicina al fiume Dnepr in una zona abbandonata quasi da tutti. Se Cherson contava circa 300mila abitanti prima dell’invasione russa, oggi si stima abbia una popolazione di soli 20mila.
È la terza volta che visitiamo questo luogo e, nonostante il lungo tempo trascorso, non si vedono cambiamenti. Le strade sono deserte e continui colpi, rompono il silenzio che qui avvolge tutto.
Il fiume Dnepr, in questo momento, è la linea di confine tra i due eserciti che occupano le rispettive rive: a Est i russi, a Ovest gli ucraini che si scambiano colpi giorno e notte in tutta la regione (foto 7).
La città è fortemente segnata da questa situazione. Anche la parrocchia, il primo sabato di quaresima, è stata colpita per la seconda volta: quando, nel primo pomeriggio, un razzo è finito ai piedi della statua della Madonna che si trova davanti alla chiesa (foto 8).
Come la prima volta, quando un razzo entrò dal tetto della chiesa, anche questa volta non ci è stata l’esplosione. Le schegge dell’impatto hanno colpito la facciata della chiesa senza ferire nessuno nelle vicinanze.
Dopo qualche settimana, i soldati hanno messo in sicurezza il razzo che usciva dal terreno. Don Massimo vive qui con il vicario don Sergio e un aiutante, anche lui di nome Sergio. Senza nessuna costrizione, hanno scelto di restare per poter essere un segno di speranza non solo per le poche famiglie che qui sono rimaste ma anche per i tanti villaggi della regione che quotidianamente visitano portando aiuti, amministrando il sacramento della confessione e portando la santa comunione.
L’ospedale di Bilozerka
La mattina successiva visitiamo Bilozerka, un villaggio a Sud lungo il fiume. Arriviamo nel piccolo ospedale che serve tutta la zona. Ci dà il benvenuto la giovane dottoressa chirurga Natalia che qui lavora (foto 9). Mentre ci mostra il primo piano di questo semplice edificio, ci racconta che, a motivo delle continue esplosioni, gli ammalati sono stati trasferiti dal primo piano al piano terreno.
Tutte le finestre delle camere che vediamo sono state danneggiate dagli scoppi. L’unica attività rimasta al primo piano è quella della stanza operatoria che visitiamo notando i sacchi di sabbia a protezione dei vetri delle due stanze (foto 10).
La dottoressa Natalia ci racconta che per molti giorni l’ascensore è stata fuori servizio. Così le infermiere dovevano scendere le scale portando il paziente sdraiato sul letto. Oggi per fortuna l’ascensore è tornato in funzione. Raccontiamo che i prossimi giorni riceveremo dei farmaci dall’Italia e stabiliamo con la dottoressa quali sono quelli più necessari da far arrivare.
Nello stesso villaggio incontriamo il signor Władek, 94 anni, di origini polacche. Ci racconta la sua storia e manda anche un video di saluti ai suoi connazionali (foto 11).
Poi don Massimo ci accompagna dalla signora Lena che è paralizzata a letto da ben 29 anni (foto 12). Ci sorprende la sua vitalità e la sua energia. È molto contenta di accoglierci nella sua casa insieme al marito. Ci racconta che i due figli con le loro famiglie sono riusciti a scappare dal villaggio prima che venisse occupato dai soldati russi per alcuni mesi. Oggi ritornano spesso a visitare i genitori, ma le piccole nipoti hanno paura delle esplosioni che qui si sentono di continuo. Per questo le visite sono sempre brevi.
Ci raccontano che il tempo dell’occupazione è stato quello più difficile: i soldati passavo di casa in casa. Sono stati anche qui. C’era sempre paura, soprattutto quando erano visibilmente ubriachi.
Ci colpisce la vitalità del racconto di questa donna, che nonostante viva paralizzata a letto, nel mezzo di una guerra, trasmette la forza di vivere e un coraggio non comune. Spesso sorride e ha un timbro di voce forte e sicuro. Usciamo da questa casa edificati, e ringraziamo il Signore per questi esempi che ci pone di fronte.
Charkiv e le sue ferite
La seconda parte della giornata la trascorriamo ritornando a Charkiv, dove siamo stati diverse volte nei mesi scorsi, per visitare alcuni quartieri della città. Passeggiamo per il parco giochi dei bambini completamente abbandonato. Forte è il profumo delle acacie e dei castagni in fiore che ci abbraccia. Per terra si trovano i resti dei razzi esplosi.
Incontriamo alcune donne che ci invitano a seguirle. Ci mostrano la cantina in cui vivono nei sotterranei del loro palazzo distrutto dopo tre giorni incessanti di bombardamenti.
Ci fanno vedere i loro appartamenti dal cortile: i balconi sono devastati dalle esplosioni; penzolano i serramenti delle porte e delle finestre e i condizionatori appesi ai fili (foto 13-14).
Una improvvisa esplosione non lontana interrompe la nostra visita.
Ci rechiamo per brevemente a Nord della città per vedere i resti del ponte Antonov, uno dei pochi che collegavano le due sponde. Il ponte è stato fatto saltare dai russi durante l’abbandono della città (foto 15).
Don Massimo scrive una lettera di ringraziamento ai benefattori, molti sono tra voi lettori di Missioni Consolata. Con parte delle offerte raccolte abbiamo potuto finanziare il trasporto di aiuti giunti fino a qui (Foto 16).
I due giorni successivi sono impegnati per il ritorno a Varsavia passando da Kiev.
Gli aiuti che diminuiscono sono sempre più necessari. Per questo occorre non stancarsi e continuare a venire di persona per incontrare abitanti di questo Paese, ascoltare le loro storie, condividere del tempo e incoraggiare i confratelli sacerdoti, pregare con loro.
Luca Bovio
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Grazie da Cherson
A nome dei parrocchiani della Parrocchia del Sacratissimo Cuore di Gesù a Cherson, ringrazio i benefattori della Rivista Missioni Consolata per aver finanziato il costo del trasporto di aiuti umanitari.
Grazie al vostro aiuto e stato possibile ricevere materiale per pulizie e di igiene personale distribuito per i più bisognosi della città e dei villaggi.
Grazie per laiuto e la generosità. Un ricordo nella preghiera
In Palestina le morti hanno superato le 35.000, c’è una generazione che non vuole più stare a guardare. Decine di migliaia di studenti in tutto il mondo stanno portando avanti proteste sempre più agguerrite per chiedere un cambio di rotta.
Il movimento globale è partito, nella sua forma più riconoscibile, dagli Stati Uniti dove le proteste stanno avendo modalità e risvolti che a molti ricordano quelle del ‘68 contro la guerra in Vietnam. I cortili dei campus universitari si sono riempiti di tende degli studenti che chiedono a gran voce un cambio di approccio nei confronti della questione palestinese. Si chiede il cessate il fuoco, la fine dei massacri, lo stop alle forniture di armamenti che l’amministrazione Biden continua a minacciare nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu ma senza poi tradurla in realtà.
Ma le richieste riguardano anche, e soprattutto, le stesse università. Disinvestire e fermare le collaborazioni, è questo che viene chiesto. Le amministrazioni degli atenei sono chiamate dagli studenti in protesta a rompere legami, chiudere progetti e fermare finanziamenti che le legano a Israele.
Negli Usa il fenomeno ha già coinvolto oltre 60 università e, secondo il «New York Times», oltre 2.800 studenti sono già stati arrestati dalla polizia che in molti casi ha cercato di reprimere le proteste con maniere definite spesso violente. Il caso più eclatante è avvenuto alla Columbia University di New York, dove i manifestanti avevano occupato uno degli edifici dell’ateneo dichiarando di voler continuare le proteste fino a quando l’amministrazione dell’università non avesse esaudito le loro richieste: interrompere il sostegno a Israele, annullare i provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti e migliorare la trasparenza finanziaria. Nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio la polizia ha sgomberato gli occupanti arrestando oltre 200 studenti.
Ben presto università di tutto il mondo hanno iniziato ad imitare il modello statunitense, le proteste sono arrivate in Europa, Canada, Australia, India, Libano e non solo. In ogni luogo con caratteristiche e risposte diverse, ma sempre chiedendo la stessa cosa: il disinvestimento e l’interruzione delle collaborazioni con Israele.
In Europa la prima contestazione ad attirare attenzione è stata quella alla Sciences Po di Parigi, università che ha formato un gran numero dei leader francesi, dove le proteste sono state stroncate in fretta da un dispiegamento delle forze di polizia definito da molti come esagerato.
Le reazioni istituzionali sono state molto variegate, tra le più dure vi sono state quelle di Amsterdam e Berlino, dove la polizia ha sgomberato con la forza accampamenti e proteste, e i governi hanno avanzato forti critiche ai movimenti pro Palestina. In altri paesi le risposte sono state più positive nei confronti degli studenti, il primo ministro belga De Croo si è detto solidale con gli studenti in rivolta e l’amministrazione del Trinity College di Dublino ha promesso di accogliere le richieste e disinvestire i fondi legati ad aziende nei territori palestinesi occupati.
In Italia le prime tende nelle università sono state piantate a Bologna, per poi diffondersi a Roma e in altre città. Ma i movimenti pro Palestina italiani si sono attivati già da tempo e al centro delle contestazioni c’è il bando di cooperazione scientifica Maeci (ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale) che comprende collaborazioni con lo stato di Israele per lo sviluppo di tecnologie definite dual-use, ossia che possono avere un doppio uso, sia civile ma che militare, rischiando quindi di sostenere la campagna militare israeliana dentro Gaza.
L’università di Torino è stata la prima ad accogliere, già a marzo, la richiesta di sospendere la partecipazione a questo bando, e nelle ultime settimane stanno unendo altri atenei come quello di Pisa e quello di Firenze.
Mattia Gisola
Israele-Palestina. Quando il dolore unisce due padri in lutto
Due padri, uno israeliano e uno palestinese, hanno perso entrambi una figlia nel conflitto. Ora testimoniano che l’unica via è quella dell’amicizia e del dialogo. Lo hanno detto anche in un incontro in Vaticano con Papa Francesco.
C’è un grande dolore a unire un padre israeliano e uno palestinese: la perdita di una figlia nel conflitto. Uno strazio che li ha portati a tramutare l’odio in testimonianza.
Sono Rami Elhanan, israeliano, e Bassam Aramin, palestinese. Li incontriamo in Vaticano dove sono stati ricevuti da Papa Francesco. La giornata è piovosa, cercano riparo sotto lo stesso ombrello, si stringono, come fanno da anni per gridare al mondo che nella loro terra si può vivere insieme.
«Volevamo raccontargli che anche noi possiamo vivere in pace, da fratelli nella stessa terra. È stato un incontro straordinario», dicono parlando del Pontefice.
Gli hanno mostrato le fotografie delle loro amate figlie cadute in questa guerra israelo-palestinese che da decenni sembra non trovare via d’uscita. «Io sono ebreo, lui – dice Rami indicando l’amico Bassam – è musulmano, il Papa è cristiano. Ma in fondo siamo tutti umani e possiamo essere fratelli invece di continuare a ucciderci a vicenda». E questo Bassam e Rami lo mettono in pratica non solo nell’amicizia personale ma anche nel loro impegno in due associazioni che nella dilaniata terra del Medio Oriente perseguono la via del dialogo: Il Parents Circle-Families Forum, l’organizzazione di famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso i propri familiari a causa del conflitto, e i Combatants for Peace. «Combattenti, sì, perché, una volta, io e lui combattevamo su fronti opposti», dice Bassam. Lui nella milizia palestinese, Rami nell’esercito israeliano. Ora «combattono» invece dalla stessa parte.
Dal 7 ottobre dello scorso anno il loro impegno ha assunto un maggiore significato: «Noi conosciamo esattamente il sentimento delle altre famiglie, in Israele e a Gaza. Dobbiamo continuare a parlare, a incontrarci e ad agire insieme per una educazione alla non violenza. Significa fare eco in tutto il mondo e comprendere – dicono i due padri – che con questo spargimento di sangue non si andrà da nessuna parte, che il diritto all’autodifesa non dà il diritto alla vendetta».
La loro storia è stata raccontata in un libro, «Apeirogon», con cui l’autore irlandese Colum McCann ha vinto il Premio Terzani 2022.
Era il 1997 quando Smadar Elhanan, una ragazzina di 14 anni, fu uccisa durante un attacco suicida di Hamas a Gerusalemme. Qualche anno dopo, nel 2005, suo padre, Rami, conobbe Bassam Aramin in una manifestazione organizzata dal movimento Combattenti per la pace.
«Per i palestinesi non è un onore avere un amico israeliano, perché li considerano come occupanti, ma io mi sono subito affezionato a Rami e abbiamo scoperto di avere gli stessi valori, alla fine siamo tutti esseri umani», ribadisce Aramin.
Due anni dopo quel primo incontro, il 16 gennaio 2007, anche Bassam avrebbe scoperto il dolore per la perdita della propria bambina: Abir aveva 10 anni, quando un agente di frontiera israeliano le sparò alla nuca. Rami corse al capezzale della figlia dell’amico e ci restò per i due giorni nei quali lei lottò tra la vita e la morte: «È stato come perdere mia figlia una seconda volta», commenta con gli occhi, ancora oggi, velati dalla commozione. «È stato doloroso – spiega Bassam – vedere il senso di colpa sul viso di Rami perché israeliano».
Da quel giorno, Rami e Bassam raccontano la loro storia e l’hanno voluta far conoscere anche a Papa Francesco. Il motivo? «Lanciare il messaggio che c’è un’altra possibilità, un’altra strada. E che questo conflitto non finirà mai se continuiamo a non parlarci».
Manuela Tulli
Accordo UK-Rwanda: deportare i richiedenti asilo
Dopo mesi di scontri politici, il 22 aprile il Parlamento britannico ha approvato una legge che permette la deportazione in Rwanda dei richiedenti asilo. Il provvedimento riguarda chi è giunto illegalmente nel Regno Unito dopo il primo gennaio 2022 (secondo la Bbc, circa 52mila persone di origine asiatica e africana).
Il primo accordo tra i due Paesi era stato siglato ad aprile 2022, ma nessun volo era mai decollato alla volta di Kigali a causa dei numerosi ricorsi delle organizzazioni per i diritti umani. Nel giugno 2022, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu), garante della Convenzione europea per i diritti umani di cui il Regno Unito è firmatario, era riuscita a bloccare all’ultimo il primo volo in partenza per il Rwanda.
Dopo la giustizia europea, a novembre 2023, anche quella britannica aveva rigettato il provvedimento. Secondo i giudici, lo Stato africano non poteva essere considerato un «Paese terzo sicuro» a causa di autoritarismo, repressione del dissenso e continue violazioni dei diritti umani. Infatti, il testo della sentenza riportava: «Il Rwanda ha fatto grandi progressi sul piano economico e sociale […] ed è un importante partner del Regno Unito. Tuttavia, la situazione del rispetto dei diritti umani nel Paese è molto controversa».
Mandare i richiedenti asilo in Rwanda sarebbe stata una violazione della Cedu perché li avrebbe esposti al rischio di torture e trattamenti disumani.
Nel frattempo, l’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) aveva ricordato di aver documentato maltrattamenti delle autorità rwandesi nei confronti di richiedenti asilo provenienti da Siria, Yemen e Afghanistan. I migranti erano arrivati a Kigali a seguito di un accordo di trasferimento firmato da Rwanda e Israele nel 2018.
Dopo la sentenza della Corte suprema, il governo britannico ha promosso un nuovo provvedimento – quello approvato a fine aprile – che stabilisce che, per il Regno Unito, il Rwanda è un «Paese sicuro».
La legge ha spianato la strada al progetto di deportazione. Giunti a Kigali, i migranti potranno chiedere asilo in Rwanda. Nel caso in cui la richiesta sarà accettata, otterranno lo status di rifugiati e il permesso di restare nel Paese. In caso contrario, potrebbero chiedere di rimanere in territorio rwandese per altri motivi o domandare asilo in un altro «Paese terzo sicuro». In nessun caso potranno tornare nel Regno Unito.
Subito dopo l’approvazione del provvedimento, numerose organizzazioni per i diritti umani (tra cui Amnesty international) e l’Unhcr hanno chiesto a Londra di riconsiderare il piano. Freedom from torture, Amnesty international e Liberty hanno definito la legge una «disgrazia nazionale che minaccia significativamente lo stato di diritto». Inoltre, hanno denunciato che la disposizione viola alcuni diritti fondamentali dei richiedenti asilo contenuti in documenti nazionali e internazionali (come la garanzia di non respingimento assicurata dalla Convenzione di Ginevra).
Nel frattempo, il premier britannico, Rishi Sunak, ha comunicato che i primi voli per Kigali partiranno entro luglio.
Di fronte all’annuncio di ricorsi da parte delle organizzazioni umanitarie alla Corte europea per i diritti dell’uomo, Sunak ha rincarato la dose: «Questa è una svolta destinata a cambiare l’equazione globale dell’immigrazione e nessun tribunale fermerà i trasferimenti». La legge addirittura prevede che il Governo possa ignorare eventuali sentenze della Corte europea.
Nei fatti, il piano è già operativoa. Il governo britannico ha affittato gli aerei charter per deportare le prime 350 persone: uomini di più di 40 anni, entrati illegalmente nel Paese. Molti sono già in detenzione preventiva dal 29 aprile. A Kigali invece è già arrivata la prima tranche di ricompense: 290 milioni di euro. Altri 140 milioni saranno versati una volta che il Rwanda avrà ricevuto i primi 300 richiedenti asilo.
A dispetto di quanto sostiene il Governo britannico, per il quale il piano sarà economicamente vantaggioso per il Regno Unito, l’Institute for public policy research (un ente di ricerca indipendente) ne ha denunciato i costi elevati. Secondo i ricercatori, infatti, potrebbero servire fino a 4,6 miliardi di euro per deportare le sole 20mila persone arrivate illegalmente tra luglio e dicembre 2023. Tra il 2022 e il 2023, invece, il sistema di asilo britannico era costato meno di 4,5 miliardi di euro.
Nelle intenzioni di Londra, la minaccia di deportazione dovrebbe agire da deterrente per scoraggiare futuri arrivi illegali. Per il momento però i flussi non accennano a fermarsi: mentre i parlamentari approvavano la legge, nella Manica annegavano tre uomini, una donna e una bambina.
L’introduzione del piano costituisce senza dubbio un importante tassello per i conservatori inglesi. Con l’avvicinarsi delle elezioni – si voterà entro gennaio 2025 -, Sunak e il suo partito avevano bisogno di un successo da vantare di fronte all’elettorato, tanto più che i sondaggi danno i laburisti in testa. Ora i tory avranno qualcosa su cui puntare. Anche a costo di ignorare i diritti umani.