Ambientalisti poco radicati nell’ambiente, governi che fingono di proteggere la natura dei loro paesi per interessi economici. Il tutto a scapito delle culture e della sapienza ancestrale locali. Come si sdoganano pratiche non appropriate per la conservazione degli ecosistemi. In tutto il pianeta.
Come anche le persone più distratte si saranno accorte, a volte le tragedie sono simili a Nord come al Sud del mondo, ma la portata è ben diversa. Ad esempio, in Europa gli incidenti stradali di mezzi pubblici coinvolgono raramente più di poche persone, mentre ad altre latitudini le vittime si contano spesso a decine. Idem per attentati, malattie, infortuni sul lavoro, scontri di piazza e così via. Negli ultimi deccenni si è fatta strada un’altra similitudine: i paradossi del conservazionismo ambientale.
Nel nostro Paese la questione si è resa evidente nel nuovo millennio con il ritorno del lupo che, a partire dai pochi nuclei sopravvissuti sull’Appennino centromeridionale (dove alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto il minimo storico di nemmeno cento unità), in virtù delle misure protezionistiche, si è rapidamente diffuso verso nord e ora conta di oltre 3.300 esemplari in tutta Italia.
Il Piemonte, per la sua conformazione che lo rende un ponte naturale tra aree alpina e appenninica, è la regione montana maggiormente interessata al fenomeno e oggi vi si trova più di metà dei circa mille lupi censiti sulle Alpi italiane. Man mano che il numero di esemplari cresceva, alla soddisfazione degli ecologisti andava affiancandosi la preoccupazione, ben presto trasformatasi in aperta protesta, degli allevatori. Le predazioni sul bestiame allevato sono infatti cresciute di pari passo, e le misure di prevenzione (recinti elettrificati, cani da guardiania e pastori retribuiti) proposte dal programma Life Wolfalps dell’Unione europea, si sono rivelate applicabili ed efficaci solo in alcuni casi.
Nel contempo, la concessione dei pascoli comunali in affitto al migliore offerente, misura decisa in sede comunitaria, ha di fatto favorito le grosse aziende e cooperative, molte delle quali costituite ad hoc per ottenere fondi pubblici.
Alla conseguente moltiplicazione delle frodi ha fatto seguito un inasprimento dei provvedimenti da parte di carabinieri forestali e aziende sanitarie locali, penalizzando ulteriormente le piccole unità produttive che mal si adattano a richieste troppo fiscali (scadenze burocratiche, controllo sull’identificazione degli animali, aggiornamento puntuale dei registri aziendali, ecc.). Va poi tenuto conto che in Italia la maggior parte dei piccoli allevatori ha un’età media relativamente elevata, per cui i fattori citati sopra hanno agito su un tessuto sociale di per sé fragile e poco incline al cambiamento. Di fatto, negli ultimi anni un numero crescente di piccoli allevatori ha chiuso i battenti, con conseguente abbandono di aree montane che prima venivano tenute in ordine da essi a costo zero per la comunità. Il conseguente danno ambientale è enorme, poiché numerosi studi evidenziano senza ombra di dubbio come l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali comporti inevitabilmente una diminuzione della biodiversità e un aumento dei rischi idrogeologici.
Ma non è tutto, bisogna mettere in conto anche il ruolo sociale svolto dal piccolo allevamento, ad esempio nel prevenire l’inattività degli anziani, e trasmettere i saperi alle giovani generazioni per non perdere i patrimoni culturali. Non a caso, in un articolo apparso su MC nel luglio del 2017 veniva segnalato che «la montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti, crolla».
Ambientalismo da città
In Italia l’ambientalismo ha avuto tra i suoi molti esponenti, a partire dagli anni sessanta, uomini politici come Arturo Osio e Fulco Pratesi, che nel 1967 hanno fondato la sezione italiana del World Wildlife Fund (Wwf). Come avvenuto per altri sodalizi di rilevanza nazionale (un esempio tra tutti è il Club alpino italiano), la spinta costitutiva è venuta da ambienti politico culturali del tutto estranei a chi in montagna doveva guadagnarsi da vivere faticando ogni giorno; pertanto, l’attività di tali enti si è sviluppata, nel migliore dei casi, a latere dei contesti sociali rurali, avendo invece come protagonisti alcuni cittadini che consideravano l’ambiente naturale in termini ideali e ricreativi. L’integrazione tra i due mondi è stata minima per cui, quando ci si è trovati di fronte a un punto forte divergente, come la questione del lupo, la contrapposizione è risultata molto dura.
Oggi, a causa dell’eccessiva importanza acquisita dai social network, anche a tale riguardo si sono formati due schieramenti che cercano di screditarsi l’un l’altro invece di dialogare.
Io ho lavorato trent’anni in qualità di veterinario pubblico in Val d’Ossola, incontrando centinaia di piccoli allevatori, e nessuno di loro è favorevole al ritorno del lupo. Vorrà ben dire qualcosa.
Fuori gli indigeni
Ma allarghiamo lo sguardo: secondo i dati di Survival International, al mondo esistono ben 120mila aree protette che coprono il 13% delle terre emerse. Il problema è che diversi milioni di indigeni, che su tale superficie si procuravano il cibo, sono stati sfrattati e si sono trasformati in «rifugiati ambientali». Dal 1872 (anno di fondazione del parco nazionale di Yellowstone, il primo al mondo) a oggi, la decisione di istituire delle misure conservazioniste in determinate aree è stata presa ignorando cultura, interessi e opinioni di chi ci viveva. Si è discusso a più riprese sui benefici per le specie da proteggere, sull’estensione di tali aree, sulle regolamentazioni di utilizzo, sui finanziamenti necessari e via dicendo, ma, anche quando lo si è fatto in buona fede, quasi sempre è stato dal di fuori.
Il grave errore metodologico è stato lo stesso commesso nel caso della cooperazione internazionale, laddove progetti decisi da esperti che vivevano altrove, sono stati calati sulla testa degli abitanti locali ignorandone la competenza elaborata attraverso secoli di vita in quei luoghi. Non a caso, in occasione del quinto congresso dell’Unione internazionale per la conservazione della natura svoltosi a Durban (Sudafrica) nel 2003, una delegazione di popoli indigeni ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che «prima ci hanno sfrattato in nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e ora nel nome della conservazione». Oggi, dopo decenni di «cattedrali nel deserto», la valorizzazione delle esperienze locali si sta facendo strada in vari programmi di cooperazione, seppur a fatica e non certo abbastanza. Nel contempo, studi sempre più precisi riconoscono la validità delle metodiche di gestione tradizionale dell’ambiente. Tra questi, MC dello scorso novembre segnala una ricerca, pubblicata dalla rivista Nature sustainability a inizio 2023, che mette in risalto il ruolo importante delle popolazioni indigene nella conservazione forestale.
Infatti, secondo il rapporto Parks need people, redatto da Survival International nel 2014, la stragrande maggioranza dei luoghi a più alta biodiversità al mondo si trova in aree abitate da popoli tribali, i quali hanno saputo conservarla mirabilmente proprio perché si trattava di una qualità necessaria alla loro sopravvivenza. Ritenere che biologi e operatori turistici sappiano fare meglio, è un esempio di supponente arroganza.
Sviluppo e conservazione
Si commetterebbe però un errore a pensare che il cosiddetto «altrove» nel quale vengono prese decisioni sulla testa della gente abbia sede solo nei Paesi del Nord del mondo. Al contrario, certe politiche sviluppiste e conservazioniste sono oggi portate avanti soprattutto da funzionari dei governi e delle Ong di Paesi africani, asiatici e sudamericani sul territorio dei quali tali politiche vengono applicate. «Più realiste del re», queste figure non esitano a varare misure e progetti che possano inserirsi in programmi di sviluppo e conservazione elaborati dalle grandi agenzie internazionali, così da riceverne i finanziamenti.
Nel periodo coloniale, le risorse dei suoli intertropicali erano destinate ad arricchire le nazioni occupanti. Oggi il meccanismo non è cambiato, ma si è parzialmente rimodulato nello spazio, cosicché nelle capitali di tanti Paesi del Sud del mondo, Africa in primis, si sono sviluppati dei centri direttivi che, in sinergia con i dettami provenienti da governi stranieri e dalle grandi agenzie internazionali, sfornano politiche che scavalcano culture e interessi del mondo rurale in nome di uno sviluppo incentrato su forme e modi importati dall’estero. «Anche noi abbiano diritto ad avere le cose che avete voi», mi sono tante volte sentito dire da persone africane che vivono in città. Peccato che questo «avere» per pochi si traduca in un «togliere» per molti.
In altri termini, di tanti progetti pensati al Nord, ne hanno beneficiato solo un piccolo numero di persone, le quali potevano permettersi di adeguarsi alle nostre idee sviluppiste occidentali. Si è così contribuito a formare dei piccoli nuclei di persone egoiste tanto quanto noi. E le politiche di indebitamento proposte e consentite, sulle quali si sono poi innestati gli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo monetario internazionale per far fronte a tale debito, hanno costituito lo sfondo sul quale tutto ciò si è realizzato.
Il caso Ngorongoro
Un esempio eloquente è quello del famoso cratere di Ngorongoro che, con i suoi 16 km di diametro, è in diretta continuazione con il celebre parco nazionale del Serengeti, in Tanzania. Frequentato dai pastori locali da tempo immemorabile, non ha mai avuto problemi di sovra sfruttamento poiché i suoi pascoli e le sue fonti idriche riuscivano a soddisfare le esigenze di ruminanti domestici e selvatici allo stesso tempo, e poiché la caccia tradizionale avveniva nel rispetto di norme conservazioniste tramandate da una generazione all’altra. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si sono levate alcune voci preoccupate per determinate specie che sarebbero state a rischio, e da quel momento in poi l’accesso per le mandrie locali è stato sempre più ridotto. Nei decenni seguenti, l’apertura a operatori turistici ha fatto aumentare il numero dei visitatori annui fin oltre il mezzo milione. Si è quindi capito che il problema non erano i piccoli allevatori del posto, tanto che nel 2013 il governo tanzaniano ha dovuto riconoscere che «i pastori tradizionali masai sono di fatto degli ottimi conservazionisti» e a considerazioni analoghe sono giunti anche i consulenti della Banca mondiale.
L’esperienza ha infatti mostrato che, allontanando i popoli indigeni dai parchi, non solo si contribuisce allo sviluppo di un tessuto sociale di persone culturalmente sradicate, le quali cadono più facilmente preda di alcolismo e piccola criminalità (se non addirittura, in certi casi, finiscono per diventare manovalanza alle compagini terroristiche), ma si priva il territorio di un efficace controllo, a costo zero, nei confronti del bracconaggio su larga scala, della diffusione di specie invasive che diminuiscono la biodiversità e degli incendi, questi ultimi ben diversi dei tanto discussi interventi tradizionali di diserbo tramite fuoco messi in atto sotto la sorveglianza dei pastori stessi.
Saggezza versus economia
Purtroppo, come spesso accade, la saggezza derivante dall’esperienza viene trascurata dagli interessi economici di parte. Così, si contrabbanda come «ambientalista» la ridicola proposta di continuare a sostenere un’economia basata sullo sfruttamento di risorse energetiche fossili controbilanciandola con l’istituzione di aree protette sul 30% delle terre disponibili, nell’ottica di ciò che vengono definite «soluzioni basate sulla natura» (in inglese Nbs). In questo modo, per non mettere in discussione il diritto a inquinare di popolazioni ricche e nazioni emergenti, si condannano alla scomparsa popoli e culture che su quel 30% di terre hanno sempre vissuto in modo ecologicamente sostenibile e che verranno privati dei basilari mezzi di sostentamento.
Il paradosso è simile a quello che riguarda la produzione di auto elettriche: mentre in molti si rallegrano per il notevole progresso ecologico, in pochi si preoccupano per le terribili condizioni alle quali sono sottoposti i bambini in Repubblica democratica del Congo che vengono sfruttati nelle miniere dei minerali necessari a realizzare le batterie.
Intanto, attorno alla fauna selvatica circolano somme da capogiro, e in Africa subsahariana (dove il numero di persone sottonutrite ha superato i 280 milioni) i cacciatori stranieri pagano fino a 60mila euro per abbattere legalmente un elefante o un leone.
Forse sarebbe il caso di rimettere la persona al centro di ogni ragionamento.
Alberto Zorloni
Somaliland. L’accordo della discordia
Il Paese cerca il riconoscimento internazionale, mentre l’Etiopia cerca il mare. I due annunciano di aver siglato un accordo. Ma la Somalia non ci sta e rivendica la sua sovranità su un territorio autonomo – di fatto – dal 1991. I grandi della terra si schierano per l’integrità territoriale somala, che in realtà non esiste.
Non c’è. Sulle cartine geografiche non si trova. Ufficialmente non ha una capitale, né confini. Non fa parte di grandi organizzazioni internazionali. Non ha rapporti (ufficiali) con altri Paesi. Il Somaliland è una nazione fantasma. Eppure esiste. Ha un presidente, un parlamento e istituzioni democratiche. Ha una posizione strategicamente rilevante all’imbocco del Mar Rosso e una propria economia, anche se molto povera. Da 33 anni chiede un riconoscimento ufficiale ma, finora, nessun Paese al mondo gliel’ha mai accordato. Almeno finora, perché dal primo gennaio il Somaliland è entrato con prepotenza e astuzia nella politica africana e rischia di minare i già fragili equilibri della regione orientale del continente.
Una terra pacifica
Per comprendere meglio la tormentata vicenda del Somaliland bisogna fare un salto indietro nella storia e, in particolare, al 1960, anno che rappresenta una svolta per la Somalia. Un tempo divisa tra la colonia italiana, al Sud, e quella britannica (Somaliland), al Nord, al momento dell’indipendenza si forma un unico Paese, all’insegna di un nazionalismo che vuole superare le divisioni causate dal passato coloniale. La Somalia vive una breve primavera democratica per poi trasformarsi in una dittatura sotto il pugno di ferro del presidente Mohamed Siad Barre, un ex carabiniere, molto vicino ai governi di Roma.
Il suo regime è particolarmente repressivo e dura un ventennio ma, progressivamente, si indebolisce fino a crollare definitivamente nel 1991. Sgretolandosi, lascia un vuoto di potere che viene presto occupato dai signori della guerra e dalle loro milizie. Nelle regioni meridionali, un tempo ex colonia italiana, si scatena un conflitto civile i cui effetti si trascinano fino a oggi. Nel Nord del Paese quella che era l’ex colonia britannica prende le distanze dal Sud e dalle lotte fra le varie cabile (gruppi clanici, ndr).
Nel 1991, di fronte al collasso delle istituzioni di Mogadiscio (la capitale, nel Sud), il Somaliland dichiara la propria indipendenza, elegge Hargeisa come propria capitale e crea nuove istituzioni e un esercito. Per un trentennio rappresenta un modello di stabilità in una regione dominata dai conflitti (pensiamo alla guerra civile nella vicina Somalia, a quella tra Eritrea ed Etiopia, a quella in Tigray). In verità, qualche tensione la vive anche il Somaliland che lotta contro cellule di terrorismo islamista e contro il Puntland, la confinante regione somala, con la quale ha una disputa territoriale. Fondamentalmente, però, rimane un Paese pacifico.
Dal punto di vista economico intrattiene relazioni informali con l’Etiopia e ha stretti rapporti commerciali e industriali con Taiwan, altro Stato paria a livello mondiale. Le grandi organizzazioni internazionali e regionali e i principali attori della politica internazionale continuano a negare ad Hargeisa quel riconoscimento politico che ne sancirebbe l’indipendenza. La comunità internazionale, da sempre, ribadisce la volontà di mantenere l’unità territoriale somala e la stessa Somalia continua a rivendicare la propria sovranità sulla regione settentrionale.
Una nuova intesa
Lo stallo si rompe il primo gennaio 2024. Etiopia e Somaliland annunciano di aver siglato un’intesa che prevede un accesso facilitato della prima al porto di Berbera e la possibilità per le forze armate etiopi di costruire una base navale sul Golfo di Aden. L’accordo è stato cercato con determinazione soprattutto da Addis Abeba. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, l’Etiopia si è trovata senza uno sbocco al mare. I porti di Massaua e di Assab che, fino ad allora, erano serviti per l’export delle merci attraverso il Mar Rosso, passarono sotto la sovranità di Asmara. La successiva guerra combattuta da Eritrea ed Etiopia alla fine degli anni Novanta ha precluso definitivamente le banchine degli scali eritrei alle aziende etiopi. Gli unici sbocchi al mare rimasti per Addis Abeba sono quelli di Port Sudan e di Gibuti che però sono lontani e male collegati, almeno fino a pochi anni fa, quando sono state costruite migliori tratte ferroviarie e stradali.
Per l’Etiopia la ricerca di uno sbocco al mare diventa una priorità assoluta. Il 19 ottobre, il premier Abiy Ahmed dichiara: «Un Paese di 150 milioni di abitanti non può essere tenuto in una prigione geografica. E come non è un tabù discutere del Nilo con Sudan ed Egitto non deve esserlo per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano».
Successivamente, rincara la dose citando un famoso generale, Ras Alula, che nel XIX secolo aveva dichiarato che il Mar Rosso è il confine naturale dell’Etiopia e che Addis Abeba «vuole ottenere un porto con mezzi pacifici. Ma se ciò fallisce, useremo la forza».
L’opposizione internazionale
Da qui le trattative a 360 gradi e la disponibilità del Somaliland a siglare un accordo dietro la velata promessa di riconoscimento politico da parte etiope. L’intesa che ne è scaturita cozza però contro una serie di scogli diplomatici. Stati Uniti, Unione europea, Cina, Unione africana e Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa, ndr) la condannano, fin dal primo momento. Tutti si proclamano a favore dell’integrità della Somalia che, da sempre, rivendica la propria sovranità sulla regione settentrionale.
Molly Phee, sottosegretario di Stato per gli Affari africani degli Stati Uniti, dichiara, secondo quanto riporta il sito Shabelle media, che la violazione della sovranità della Somalia da parte dell’Etiopia potrebbe essere «un ostacolo alla guerra contro al-Shabaab (milizia jihadista legata ad al Qaeda che da anni opera in Somalia, ndr)». E aggiunge: «Siamo preoccupati che l’accordo Somaliland-Etiopia possa ostacolare la nostra lotta comune che, negli ultimi anni, ha visto anche Addis Abeba in prima linea». Il governo Usa inoltre afferma di sostenere i colloqui tra il governo federale di Mogadiscio e quello di Hargeisa sul futuro del Paese all’insegna dell’unità.
Anche la Cina si dice preoccupata per l’intesa. Pechino è interessata alla stabilità della regione orientale dell’Africa (strategica per le rotte commerciali Europa-Asia), ma anche alla situazione interna. Un eventuale riconoscimento del Somaliland rischierebbe di diventare un precedente che Taiwan potrebbe far valere nei confronti della Cina continentale. «La Cina – dichiara Mao Ning, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino – sostiene il governo federale della Somalia nella salvaguardia dell’unità nazionale, della sovranità e dell’integrità territoriale. Ci auguriamo che i Paesi dell’area gestiscano bene il dossier attraverso il dialogo diplomatico e raggiungano uno sviluppo comune attraverso una cooperazione amichevole».
Equilibri regionali a rischio
L’intesa non può non avere ricadute anche sugli assetti regionali. Il primo a schierarsi contro l’accordo è l’Egitto. Il Cairo, insieme a Khartoum (Sudan), ha un annoso contenzioso con Addis Abeba sul dossier della Grande diga del millennio sul Nilo Azzurro, in territorio etiope. I due Paesi a valle temono che questa struttura riduca i flussi di acqua del Nilo mettendo in crisi le rispettive economie. Il Cairo cerca quindi in qualsiasi modo di contenere le manovre di Addis Abeba per poter avere più carte da giocare sul piano negoziale. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si schiera subito a fianco di Mogadiscio e dichiara che l’intesa è «una violazione della sovranità somala». Ancora più duro il ministro degli Affari esteri egiziano, Sameh Shoukry che, in un intervento tenuto alla Lega Araba, definisce l’accordo «un atto di aggressione» e ammonisce Addis Abeba dall’avventurarsi in «politiche unilaterali». Per gli Emirati arabi uniti, l’avventurismo di Abiy è un’opportunità e un rischio: l’Etiopia potrebbe diventare una potenza del Mar Rosso e un alleato degli Emirati, ma nuove tensioni nel Corno potrebbero mettere a repentaglio l’influenza di Abu Dhabi nella regione. L’Arabia Saudita è invece turbata dal modo in cui si sta comportando l’Etiopia. Se Abiy dovesse esagerare, Riad potrebbe superare la sua diffidenza nei confronti dell’Eritrea e sostenerla.
La Somalia, colpita direttamente dall’intesa, ritira il proprio ambasciatore da Addis Abeba. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud dichiara nullo l’accordo tra Etiopia e Somaliland. Il premier Hamza Abdi Barre alza i toni e avverte: «L’Etiopia non può interferire nelle terre somale. Se tentassero un simile intervento, si ritirerebbero portando con sé i loro morti».
Le tensioni toccano, però, lo stesso Somaliland. Il 13 febbraio, le due camere del Parlamento diffondono una nota congiunta nella quale rifiutano l’accordo del governo con l’Etiopia. I membri del parlamento dichiarano «illegale» e «dannoso» l’accordo per l’unità del popolo del Somaliland. «Abbiamo rifiutato l’accordo e la sua attuazione e chiediamo al governo di fermare e ritirare il memorandum d’intesa», si legge nella nota. La firma dell’accordo ha infatti rivitalizzato le tensioni interne, in particolare quelle con l’Awdal, provincia che da tempo lotta per la riunificazione con lo Stato somalo. In allerta anche le milizie claniche nella regione che minacciano una resistenza armata contro il presidente Muse Bihi se il memorandum d’intesa dovesse procedere. E anche lo Stato fantasma potrebbe sprofondare nell’instabilità.
Enrico Casale
Scandalo in spiaggia
In Italia ci sono 8.970 chilometri di coste. Circa un terzo sono balneabili. Di queste la metà sono date in concessione dallo Stato. Sempre ai soliti e a prezzi ridicolmente bassi. Nel frattempo, i cittadini pagano e le poche spiagge libere sono nel degrado.
C’era una volta una lite tra lupi che oscurava un altro tipo di contenzioso: quello tra lupi e agnelli. Così si potrebbe riassumere la vicenda andata in scena negli ultimi anni e che ha come oggetto la gestione delle spiagge italiane.
Le regole europee
Per la prima parte della vicenda, quella riguardante la lite fra lupi, la storia si può fare iniziare nel 2006 allorché l’Unione europea (Ue) varò una direttiva, la numero 123, passata alla storia come direttiva Bolkestein, in onore del Commissario che la elaborò.
Oggetto della direttiva è l’integrazione dei servizi nel mercato comune europeo. Obiettivo facile da enunciare, ma difficile da attuare perché i servizi non si possono separare dalle imprese che li offrono.
Nel caso di auto, biciclette, caciotte e qualsiasi altro tipo di manufatto, il mercato comune si crea permettendo la libera circolazione dei beni senza coinvolgimento delle imprese produttrici. I produttori possono doversi uniformare a regole comuni in materia di igiene, sicurezza, imballaggi, ma niente di più.
Se, invece, parliamo di servizi bancari, di trasporti, di telecomunicazioni, di ristorazione, o addirittura di assistenza sanitaria, istruzione, insomma di tutte quelle attività che procurano un beneficio nel momento stesso in cui sono prodotte, il libero mercato si può creare solo permettendo alle imprese produttrici di muoversi da un Paese all’altro. Se l’impresa francese vuole aprire un ristorante a Roma, deve avere la possibilità di trasferirsi dalla Francia all’Italia, magari con personale francese se lo ritiene utile. Oppure potremmo immaginare un’impresa di facchinaggio polacca che decide di trasferirsi in Spagna, Germania, o qualsiasi altro Paese dell’Unione per gestire l’attività di magazzino di grandi complessi commerciali. Ma con quale personale può farlo: quello locale o quello del Paese di origine? E pagando i dipendenti secondo quali livelli salariali? E con quali regole contributive? Ecco alcuni quesiti che il trasferimento dei servizi apre nell’ambito di una lista ben più lunga che comprende aspetti giuridici, fiscali, sociali, salariali e molto altro. Tematiche a cui la direttiva Bolkestein ha voluto rispondere creando regole comuni valide per tutta l’Unione. Mantenendo sempre come faro il principio della concorrenza, tanto caro all’ordinamento europeo.
Inizialmente si temeva che la Bolkenstein potesse essere il cavallo di Troia per imporre in tutta l’Unione la privatizzazione dei servizi pubblici, ma il punto 8 della premessa chiarisce: «È opportuno che le disposizioni della presente direttiva relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi si applichino soltanto nella misura in cui le attività in questione sono aperte alla concorrenza e non obblighino pertanto gli Stati membri a liberalizzare i servizi d’interesse economico generale, a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione».
Del resto, in altre parti del testo, si precisa che la direttiva non si applica ai servizi di interesse generale menzionando specificamente la sanità e i trasporti.
Per la verità, nel testo non si fa mai espresso riferimento neanche alle spiagge o alle attività balneari, ma esse rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva perché si tratta di attività turistiche svolte su concessione, ossia su autorizzazione delle autorità pubbliche che concedono l’uso di beni appartenenti alla collettività. Nel caso specifico le spiagge.
I beni del demanio statale
In gergo i beni di proprietà pubblica si definiscono demaniali, parola derivante dal latino dominium, «dominio», che il francese antico ha trasformato in demaine, a indicare tutto ciò che è sottomesso all’autorità statale. Un elenco che, per quanto riguarda l’Italia, è racchiuso nell’articolo 822 del Codice civile italiano: «Appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti; i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia; le opere destinate alla difesa nazionale». Ma nel 1942 il Codice della navigazione, articolo 36, stabilì che «L’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo». Un altro provvedimento tornò sul tema nel 1993, stabilendo che le concessioni avevano la durata di quattro anni. Termine esteso a sei anni da una legge del 2001 che però fece anche di più. Da una parte previde la possibilità di rinnovo automatico a ogni scadenza. Dall’altra stabilì che, in caso di nuovi bandi, i soggetti già in possesso di una concessione erano privilegiati rispetto agli altri. Così in Italia si è formata una casta di concessionari balneari talmente blindata da impedire l’ingresso a ogni nuovo aspirante.
Una situazione non condivisa dalle istituzioni europee che a più riprese hanno chiesto allo Stato italiano di uniformarsi al diritto europeo e in particolare alla Bolkestein secondo la quale sia il rilascio di nuove concessioni, sia il rinnovo di quelle in scadenza, debbono seguire procedure pubbliche trasparenti e imparziali tali da consentire a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario.
Nel 2009 ci fu una prima iniziativa della Commissione europea che minacciò l’Italia di una pesante multa se non avesse modificato la normativa. Ma la lobby dei gestori balneari era potente e per vari anni lo Stato italiano si è esibito in un penoso teatrino che ha mandato in scena il varo di nuove leggi che facevano finta di cambiare il quadro normativo mentre tutto rimaneva immutato. In certi casi peggioravano addirittura la situazione, come fece il primo governo Conte che, nel dicembre 2018, estese le concessioni in vigore fino al 2033.
Ue-Stato: la saga infinita
Nel frattempo, anche la Corte di giustizia europea e la magistratura italiana sono state costrette a pronunciarsi sulla questione dando sempre torto all’Italia. Nel 2022 il governo Draghi tentò di mettere la parola fine sulla vicenda varando una legge che faceva scadere tutte le concessioni al dicembre 2023. Ma nel febbraio 2023 la legge nota come «Mille proroghe» ha rinviato la scadenza di un altro anno, al dicembre 2024. Al che la Commissione europea è sbottata e nel novembre 2023 ha mandato al governo italiano una nuova missiva dandogli due mesi di tempo per uniformarsi alla direttiva Bolkestein. Insomma, la saga continua, difficile dire quando andrà in onda la puntata finale.
A gennaio 2024 il governo Meloni non aveva ancora detto come intendeva risolvere la questione. Stretto fra le pressioni dei concessionari italiani e le minacce della Commissione europea, il problema del governo Meloni è capire come uscirne senza scontentare nessuno. Ma in cuor suo sa che la lite fra lupi è ormai stata vinta da quelli europei.
L’unico modo per sparigliare le carte sarebbe quello di abbandonare i lupi e prendere le difese degli agnelli, ossia dei cittadini che chiedono di considerare le spiagge beni comuni non privatizzabili da mettere gratuitamente a disposizione di tutti. Come succede in Spagna dove le spiagge sono tutte libere, con possibilità per i privati di allestire i propri servizi a pagamento solo sui terreni di retrovia.
Canoni ridicoli, evasione, lavoro nero, abusi
In Italia ci sono spiagge in abbondanza. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) certifica che su 8.300 chilometri di coste, 3.270 sono rappresentate da spiagge sabbiose o ghiaiose. Ma la maggior parte di esse sono accessibili solo a pagamento perché sono controllate da un’industria balneare che nessuno sa quantificare con esattezza.
Secondo il sistema delle Camere di commercio, nel 2021 gli stabilimenti balneari in Italia ammontavano a 7.173, ma il dato non torna con i numeri forniti dal Sid, il Sistema informativo del demanio, secondo il quale nello stesso anno le concessioni balneari erano 12.166. Una media di quattro stabilimenti ogni chilometro di spiaggia.
Anche il giro d’affari dell’industria balneare rimane un mistero: le valutazioni cambiano a seconda del tipo di impresa inclusa nel settore.
Le stime, pertanto, oscillano fra i 2 e i 15 miliardi di euro l’anno. È certa, invece, l’esiguità dell’incasso che lo Stato ottiene dalle concessioni. Una media di 95 milioni l’anno, ha calcolato la Corte dei conti. Un ben magro bottino considerati anche gli episodi di illegalità riscontrati nel settore balneare. Il riferimento non è tanto all’evasione fiscale e al lavoro nero, non documentabili, ma alla presenza di tratti di litorale occupati da muri e cancelli nonché edifici costruiti abusivamente, come denuncia anche il Rapporto spiagge di Legambiente del 2022. Una situazione inimmaginabile in Francia dove l’80% della lunghezza e l’80% della superficie della spiaggia deve essere libera da costruzioni per sei mesi l’anno. Non a caso gli stabilimenti vengono montati e smontati a ogni stagione. Inoltre, nel territorio francese, i comuni, che sono gli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni e delle concessioni, sono obbligati a informare la collettività di qualunque progetto e di qualunque nuovo soggetto che intenda gestire le spiagge. Al tempo stesso i cittadini possono effettuare proposte sulla corretta gestione del patrimonio costiero pubblico.
Beni comuni trascurati
L’Italia è fra i paesi europei con le più alte quote di spiagge date in concessione.
Legambiente segnala che la percentuale di costa sabbiosa gestita da stabilimenti privati è mediamente del 43% con regioni che arrivano molto più su. Succede, ad esempio, in Liguria, Emilia Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari.
Nel comune di Gatteo, in provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (Lucca), Camaiore (Lucca), Montignoso (Massa), Laigueglia (Savona) e Diano Marina (Imperia) siamo sopra il 90%.
Alla fine, per la libera balneazione, rimangono solo pochi metri quadrati, spesso nei pressi di aree degradate. In effetti la libera balneazione non è solo un problema di estensione, ma anche di qualità delle spiagge. Scrive Legambiente: «In molti Comuni le uniche aree non in concessione sono quelle vicino allo scarico di fiumi, fossi o fognature dove al massimo ci si può sdraiare a prendere il sole, non certo a fare il bagno dal momento che la balneazione è vietata perché il mare è inquinato. Ma nessuno controlla che le spiagge libere non siano relegate in porzioni di costa di «serie B», mentre i numerosi cittadini che vogliono fruirne meri- terebbero di trovarle almeno in luoghi monitorati e balneabili».
Il 13 dicembre 2022, in occasione dell’assemblea nazionale di Confesercenti, la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, sostenne che le spiagge vanno affidate ai privati perché «se uno va a vedere le spiagge libere, in posti anche meravigliosi, ci sono i tossicodipendenti, rifiuti e nessuno che pensa a tenerle in ordine».
La ministra dimentica che, in quanto rappresentante della Repubblica, avrebbe l’obbligo di elaborare proposte capaci di tenere insieme decoro e godimento dei beni comuni da parte di tutti. Quanto alla tossicodipendenza non è certo con la repressione e con le recinzioni di epoca previttoriana che si risolve il problema. Soprattutto la ministra dovrebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione secondo il quale l’iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.
Francesco Gesualdi
Fentanyl, la droga letale in rapidissima diffusione
È un oppioide sintetico nato come farmaco antidolorifico e anestetico. Potentissimo, sta facendo migliaia di vittime nel Nord America. Ma è arrivato anche sulle piazze dello spaccio italiane ed europee. L’allarme è grande e giustificato.
Ascoltando la splendida Purple rain, il pensiero corre subito a Prince, il genio di Minneapolis, che venne ucciso il 21 aprile 2016 da un’overdose di fentanyl. Questo è un oppioide sintetico che il cantante statunitense aveva assunto in seguito all’intervento a un’anca. Lo stesso fentanyl sarebbe la causa della morte nel 2018 di Dolores O’Riordan, la cantante dei Cranberries e di Tom Petty (morto nel 2017), un cantautore e chitarrista statunitense che lavorò anche con Bob Dylan. Questi sono alcuni dei casi più famosi di morti legate all’abuso di fentanyl, sostanza che sta uccidendo centinaia di migliaia di persone ogni anno negli Usa e in Canada e che, da qualche tempo, ha fatto il suo ingresso anche in Europa, dove si teme possa verificarsi un’analoga situazione, benché, per il momento, il numero dei decessi sia ancora basso.
La potenza del fentanyl spiega le sempre più frequenti morti per overdose di coloro che se lo procurano per strada o via dark web oppure lo consumano inconsapevolmente, perché, da qualche anno, viene utilizzato come sostanza da taglio per eroina, cocaina, allucinogeni ed ecstasy. In totale, nel 2023 i decessi per overdose negli Usa hanno superato le 112mila unità e per oltre l’80% di loro il responsabile è stato il fentanyl.
Le cause della diffusione
Per capire come questo farmaco sia diventato una delle droghe più diffuse e sia aumentato enormemente il numero di coloro che ne sono diventati dipendenti è necessario risalire ai primi anni Novanta.
All’epoca i medici negli Usa iniziarono a prescrivere il fentanyl come antidolorifico, con una certa disinvoltura legata ad una vera e propria campagna di disinformazione mirata a farne aumentare le prescrizioni, campagna messa in atto da diverse case farmaceutiche. Contro di esse, nel corso degli anni, si sono accumulate oltre duemila azioni legali che hanno portato, tra l’altro, al fallimento della Purdue Pharma. Nella sua campagna promozionale veniva infatti asserito che il fentanyl non crea dipendenza, mentre invece è provato che il suo abuso porta a una gravissima forma di dipendenza e al rischio di overdose.
Un’altra causa della diffusione del fentanyl illegale negli Usa è insita nella mancanza in questo Paese di un sistema di assistenza sanitaria universale, sostituita dal sistema assicurativo. Questo ha portato i meno abbienti a rivolgersi al mercato clandestino dei narcotrafficanti che su queste droghe hanno creato un impero, soprattutto quando il legislatore ha tentato di arginare la situazione rendendo più controllate la prescrizione e la distribuzione del fentanyl.
Protagonisti sono i cartelli messicani che, da anni, immettono negli Usa e in Canada grosse partite di fentanyl. Si sospetta che stiano tentando di orientare tutto il consumo di droghe verso questa sostanza che, come detto, viene utilizzata anche come adulterante di altre droghe. Questa situazione è fonte di enormi guadagni per i cartelli della droga per più di un motivo: il fentanyl crea forte dipendenza, è facile da produrre e costa poco perché, come tutti gli oppioidi sintetici, non necessita di piantagioni (che infatti in Messico stanno diminuendo), non è soggetto all’aggressione dei parassiti o alle variazioni climatiche.
Inoltre, dato che il fentanyl è molto potente, circa 50 volte l’eroina, è molto più facile da trafficare: basta pensare che 100 grammi di fentanyl equivalgono a 5 kg di eroina.
La geopolitica del fentanyl: Cina, Messico, Usa
I narcotrafficanti messicani hanno organizzato nel loro territorio dei laboratori clandestini, nei quali specialisti di chimica assoldati allo scopo sintetizzano questa e altre sostanze a partire dai loro precursori provenienti dall’Asia. Tuttavia, essi acquistano anche grandi quantitativi di fentanyl a basso prezzo direttamente dalla Cina, che da anni ne è il più grande produttore mondiale. E ciò nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’illegalità della sua produzione e si sia impegnato a perseguire chi lo sintetizza. E ciò su pressione degli Stati Uniti, con cui la Cina ha ratificato un accordo in occasione di un incontro – tenutosi a San Francisco lo scorso novembre – tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping.
Per capire la portata di questo giro d’affari, basta considerare quanto afferma un rapporto della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia federale antidroga degli Usa, secondo cui un chilo di fentanyl a elevato grado di purezza acquistato in Cina costa tra i 3.300 e i 5.000 dollari.
Una volta mescolato ad altre sostanze, si possono ottenere da 16 a 24 kg di prodotto e il profitto può arrivare fino a 1,9 milioni di dollari.
Se invece il fentanyl viene smerciato tal quale, essendo molto potente, con soli 10 grammi si arriva a produrne più di 300 dosi, che hanno di solito un prezzo compreso tra i 10 e i 60 dollari, a seconda della zona di spaccio. Dato il prezzo abbordabile, anch’esso causa dell’aumento delle overdosi da fentanyl, questa sostanza è consuma-
ta soprattutto tra le fasce più deboli della popolazione americana, in primis gli afroamericani seguiti dai latinoamericani.
Sperimentazioni
Mentre negli Usa si tiene il conto delle morti da overdose, in Messico nessuno se ne cura, per cui i narcotrafficanti possono sperimentare liberamente le nuove combinazioni del fentanyl con altre droghe.
Il problema è quello di riuscire a rendere i clienti dipendenti, senza ucciderli con dosi letali, ma per questo occorre sperimentare su esseri umani.
Le cavie vengono reclutate solitamente nei quartieri marginali di alcune città, tra cui Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez con distribuzioni gratuite o a bassissimo prezzo.
A seguito di queste sperimentazioni, molti giovani sono morti e moltissimi sono diventati dipendenti. Si stima che nel 2018 solo a Tijuana e Mexicali vi fossero almeno mezzo milione di dipendenti da sostanze. I centri di disintossicazione presenti solo in queste due città sono 76.
Negli Stati Uniti si sono susseguite tre ondate di crescente consumo di oppiacei (morfina e sostanze similari) e di oppiodi (sostanze con attività morfino-simile), con conseguente aumento delle morti per overdose. Secondo i dati del Cdc (Center for disease control and prevention), agenzia federale del Dipartimento della salute statunitense, la prima ondata si è verificata come conseguenza dell’aumento delle prescrizioni di oppioidi negli anni Novanta, a cui ha fatto seguito un aumento dei decessi da overdose a partire dal 1999.
Si sospetta che, in qualche caso, possano avere fatto uso degli oppioidi anche i familiari dei pazienti, avendo spesso a disposizione le rimanenze del farmaco, per eccesso di prescrizione.
La seconda ondata ha avuto inizio nel 2010, quando è aumentato notevolmente il numero dei decessi per overdose da eroina, cercata da chi non necessitava più di controllare il dolore, ma era ormai diventato dipendente da oppiacei ed era quindi portato a cercarli nel mercato illegale.
La terza ondata è cominciata nel 2013 con un significativo aumento dei decessi da overdose dovuta agli oppioidi sintetici, soprattutto il fentanyl prodotto illegalmente e spesso mescolato ad altre sostanze.
Attualmente gli oppioidi sintetici sono la prima causa di morte sotto i cinquant’anni negli Usa, dove si registrano circa 200 morti al giorno. Nella sola New York ci sono stati tremila decessi per overdose nel 2023. Tuttavia il primato delle morti per overdose spetta a Filadelfia (dove sta emergendo anche il problema del fentanyl tagliato con xilazina, un potente sedativo, analgesico e miorilassante per uso animale, altrimenti conosciuta come tranq), seguita da San Francisco.
Tra il 2013 e il 2021 negli Usa è stato rilevato un aumento di 30 volte dei decessi correlati al fentanyl in età pediatrica e tra gli adolescenti. Mentre per questi ultimi è ipotizzabile il consumo di stupefacenti a scopo ricreativo, per i bambini non si può fare a meno di pensare alla carenza delle cure parentali e soprattutto di attenzione da parte dei familiari consumatori di oppioidi, che molto probabilmente lasciano le sostanze incustodite e a portata di mano dei piccoli.
Le droghe su misura
Come fanno i narcotrafficanti a eludere i controlli e a immettere sul mercato grandi quantitativi di sostanze stupefacenti? La risposta sta nelle designer drug o «droghe su misura», cioè molecole sintetizzate da chimici clandestini che cambiano qualche parte della molecola originale in modo che la nuova sostanza imiti l’effetto del model-
lo di partenza senza essere riconosciuta dai sistemi di controllo. La categoria di designer drug in più rapida espansione è proprio quella degli oppioidi sintetici. Basta pensare che nel 2009 l’Unodc (United nations office on drugs and crime) registrava un solo oppioide costruito «su misura», mentre nel 2023 erano già 132. Le designer drugs riescono a circolare liberamente e legalmente finché non vengono riconosciute, cosa che necessita di test sempre nuovi e più sofisticati. Gran parte delle droghe su misura attualmente in circolo appartengono a quattro categorie: i cannabinoidi sintetici, i catinoni, le fenetilammine e gli oppioidi sintetici. Ciascuna di queste categorie comprende centinaia di molecole molto diverse per natura chimica ed effetti. Queste sostanze sono prodotte principalmente in Cina e India, ma dal 2015 sono stati scoperti almeno 52 laboratori di sintesi clandestina anche in Europa.
Il ruolo del web
Il mercato di queste sostanze è spesso su internet, sia nel deep web che su normali siti dediti alla vendita di prodotti apparentemente «innocenti»: i cannabinoidi sintetici spruzzati su mix di piante secche da fumare sono venduti come incensi; i catinoni, che si presentano come polveri cristalline e si confondono facilmente con sali da bagno o fertilizzanti, e come tali vengono smerciati. Qualche volta vengono venduti come composti chimici per laboratori di ricerca.
Nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di internet, non solo è stato creato un mercato di sostanze stupefacenti sul web, ma per molti chimici clandestini è stato possibile scambiarsi informazioni e, soprattutto, accedere liberamente alla letteratura scientifica, quindi alle procedure di sintesi. In pratica, le ricette sono sul web e i chimici-cuochi producono e vendono dai laboratori clandestini.
Ad esempio, uno studio risalente al 1974 della Janssen Pharmaceutica ha permesso ai chimici clandestini di sintetizzare i derivati del fentanyl, altrimenti detti fentenili. È chiaro quindi che molte designer drugs derivano da molecole di ricerca biomedica e potrebbero pertanto tornare utili nella pratica medica per il loro potenziale terapeutico. Per non parlare del possibile utilizzo in questo campo dell’Intelligenza artificiale (Ia).
Nel 2021 un gruppo di ricerca diretto da David Wishart dell’Università dell’Alberta in Canada ha messo a punto una Ia chiamata DarkNps (New psychoactive substances), la quale ha assimilato le strutture di 1.753 sostanze psicoattive note e ha generato circa 9 milioni di varianti con una capacità di prevedere circa il 90% delle nuove droghe prodotte dai chimici clandestini, rivelandosi utilissima nella lotta al narcotraffico. Tuttavia, le Ia di questo tipo potrebbero presto diventare delle ottime assistenti anche per i chimici clandestini. Nel contempo potrebbero ideare e realizzare la sintesi di nuove molecole utili a scopo terapeutico. Come sempre la scienza è neutra e sta a noi usarla bene o male.
Rosanna Novara Topino
Allamano. Una passione nascosta
A Torino, al Museo dei missionari della Consolata (Cam), fa bella mostra di sé uno strano oggetto, classificato come «macchina fotografica». L’aveva voluta il fondatore Giuseppe Allamano per donarla ai suoi primi missionari partenti per l’Africa, ed essi ne fecero buon uso, realizzando fotografie di ottima fattura. Tali fotografie furono poi ampiamente utilizzate dalla rivista del santuario della Consolata per far conoscere ai numerosi lettori le attività dei missionari in Kenya, e così suscitare nuove vocazioni missionarie e anche offerte a favore delle missioni.
Scopriamo questo interesse dell’Allamano per la fotografia già nel 1899, quando prese l’iniziativa di affidare al celebre fotografo della Sindone, l’avvocato Secondo Pia, il compito di ritrarre per la prima volta il quadro della Consolata. Con la stessa macchina fotografica servita per la sacra Sindone, l’avvocato Pia impiegò tre giorni per riprendere il più fedelmente possibile il volto della Vergine Consolata (cfr MC 06/2023). L’immagine, riuscita in modo ottimo, venne ampiamente utilizzata non soltanto dalla rivista del santuario, ma anche per fare riproduzioni di ogni tipo e dimensione. Ai benefattori del santuario e delle missioni, l’Allamano amava farne dono apponendovi la propria firma, accompagnata sovente da quella dell’arcivescovo di Torino, il cardinale Agostino Richelmy.
La riproduzione fotografica del quadro della Consolata suscitò varie iniziative pastorali che ebbero allora grande successo, come la consacrazione delle abitazioni alla Consolata tramite il suo collocamento ai muri o alle porte.
Se l’Allamano aveva mostrato tale zelo nel diffondere l’immagine della Vergine Consolata, e anche nel far conoscere le attività dei suoi missionari in Kenya attraverso le fotografie, altrettanto non si può dire circa la sua disponibilità a lasciarsi fotografare. Rare volte l’Allamano ha accettato di mettersi in posa davanti alla macchina fotografica, per l’innata e ricercata tendenza a non voler apparire. Mentre lo troviamo sempre in prima linea quando si tratta di favorire iniziative di bene e di apostolato, non così quando si trattava di giocare lui stesso il ruolo di protagonista.
Alle solenni celebrazioni centenarie della Consolata nel 1904, ad esempio, vediamo la partecipazione di importanti personalità civili ed ecclesiastiche: raramente l’Allamano appare, anche se è stato lui il primo promotore di quest’importante evento. Era il suo stile costante: fare e non apparire. Il suo unico intento: «Tutto per la gloria di Dio e della Vergine Consolata».
padre Piero Trabucco
Protettore annuale
I missionari e le missionarie della Consolata hanno la bella tradizione, ereditata dal beato Allamano, di affidarsi ogni anno a un protettore speciale al quale rivolgersi nella preghiera e del quale imitare le virtù. Quest’anno, e per tre anni di fila, è stato scelto proprio lui, il beato Allamano, come protettore dei nostri due istituti. Di seguito la lettera di presentazione inviata dai nostri superiori a tutti i missionari e missionarie
«Nella carità consiste essenzialmente la santità… la carità è santità: amare e farsi santi è la stessa cosa… La carità verso Dio è necessaria in modo particolare a noi che abbiamo ricevuto la vocazione e la missione di comunicarla alle anime».
Beato Giuseppe Allamano
Carissimi missionari e missionarie,
è con il cuore colmo di gratitudine che ci rivolgiamo a voi per comunicarvi che il beato Giuseppe Allamano sarà il protettore per i prossimi anni 2024, il 2025 e anche 2026 (in quest’ultimo celebreremo il centenario della sua morte).
Ci ha spinti a proporvi l’Allamano come protettore per tre anni consecutivi il nostro desiderio di offrirvi l’opportunità di vivere un tempo privilegiato per stare a contatto con il fondatore da veri figlie e figli. Siamo certi che il fondatore è vivo, presente in mezzo a noi, nella nostra storia, nella missione, e continua a donarci il suo spirito se noi rimaniamo in comunione con lui.
Su un biglietto ritrovato dentro il suo sarcofago nel 1989, durante la ricognizione della salma, era scritta questa invocazione: «Padre donaci il tuo spirito… nelle piccole e grandi cose, facci figlie/i disponibili, perché il tuo spirito, che è in Dio, si prolunghi oggi e sempre a ogni popolo».
Desideriamo continuare a pregarlo perché ci trasmetta il suo spirito, il suo zelo, perché dalla sorgente del suo insegnamento e del suo esempio possano continuare a scaturire sorelle e fratelli capaci di donazione a Dio e a ogni persona.
Crediamo che il nostro fondatore abbia ancora da dirci molte cose, che possa illuminare la nostra vita di donne e uomini consacrati e che possa aiutarci a vivere in profondità la vita delle nostre comunità e quella dei nostri istituti.
L’Allamano più volte ha ribadito che sarebbe stato vicino ai suoi missionari e missionarie anche dopo la morte: «Quando sarò poi lassù, vi benedirò ancora di più; sarò poi sempre dal balcone [per guardarvi, benedirvi e seguirvi]».
«Per voi sono vissuto tanti anni e per voi consumai roba, salute e vita. Spero morendo di divenire vostro protettore in Cielo».
Un padre che amava intensamente ciascuno
Contempliamo con amore di figlie e figli questo nostro padre. Che diventi sempre più padre per noi. L’esperienza più forte che i nostri missionari e missionarie ebbero dell’Allamano fu soprattutto quella della sua paternità: lo sentivano come un padre che amava intensamente ciascuno, così tanto da lasciare un ricordo indelebile fin dal primo incontro: «Sono passati otto giorni da quando sono ritornata da Rivoli dove sono stata 15 giorni con il nostro amato padre – scrisse suor Emilia Tempo l’11 settembre 1925. Sono stati giorni meravigliosi. Il padre mi sembrò più che mai “padre”, e, credimi, specialmente alle sere abbiamo goduto immensamente della sua compagnia… il padre si sedeva sul sofà e noi ci inginocchiavamo ai suoi piedi e chiacchieravamo con lui fino alle 10».
Padre Alfredo Ponti nel 1906 racconta:
«Una sera a Tosamaganga (Iringa, Tanzania), mentre sulla missione si scatenava un terribile temporale, mi rifugiai nella stanza di padre Nazareno… Quasi spontaneamente… il discorso cadde sugli anni felici della nostra giovinezza… Rivivemmo per qualche istante i nostri primi anni di vita di Istituto… Il discorso cadde naturalmente su colui che di quella famiglia era il vincolo, sostegno, guida, padre. Ricordammo tutto di lui: la bontà verso di noi, la grande comprensione e la felicità nostra di poter convivere con lui. Il ricordo palpitante dell’amato padre ci aveva commossi entrambi. Congedandoci padre Nazareno esclamò: “Era veramente un padre; nostro padre”».
Sostiamo dunque accanto al nostro padre e insieme a lui vogliamo riflettere e meditare sui suoi grandi amori: «L’Eucarestia, la Consolata, la carità fraterna, la santità, la Chiesa, lo zelo, la salvezza delle anime…». Contempliamo la sua santità e sentiamoci stimolati a vivere sempre più secondo il suo cuore, le sue scelte, il suo esempio.
Ascoltare e vivere la sua parola
In questo triennio i due Istituti saranno impegnati a camminare nella luce del nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Sia nostro impegno ascoltare e vivere la sua parola. Sentiamolo mentre ci incoraggia a essere sempre più come lui ci voleva, preghiamolo perché ci renda famiglia missionaria chiamata ad annunciare il Vangelo e a vivere «la carità a qualunque costo». Continuiamo a pregare il fondatore per i nostri Istituti e per tutta l’umanità nella speranza di poterlo venerare presto come «Santo» insieme a tutta la Chiesa.
Beato Giuseppe Allamano, prega per noi.
La benedizione del fondatore possa avvolgerci e accompagnarci in questo cammino:
«Vi benedico come foste a me presenti, desideroso d’infondervi colla benedizione della nostra Consolata quanto un padre vi desidera in Domino».
«Sii forte nella prova; la Consolata ti accompagnerà e ti aiuterà. Il padre ti ricorda ogni giorno. Ti benedico. Padre».
A nome delle due Direzioni generali, fraternamente vi salutiamo suor Lucia Bortolomasi Mc – Superiora generale padre James Bhola Lengarin Imc – Superiore generale
L’Allamano e il Convitto ecclesiastico
L’Allamano, appena nominato rettore alla Consolata, dovette affrontare il problema del convitto ecclesiastico. Per disposizione dell’arcivescovo, il convitto, che era presso il santuario, era stato chiuso quattro anni prima, e i convittori erano stati ospitati in seminario. Monsignor Gastaldi aveva preso questa decisione a motivo dell’insegnamento della teologia morale, che seguiva una linea da lui non condivisa. Se ne era addirittura assunto personalmente l’insegnamento, componendo dei trattati appropriati. Questa situazione aveva creato un po’ di sconcerto, specialmente tra il clero.
L’Allamano ben presto si vide pressato da varie parti perché convincesse l’arcivescovo a riportare il convitto ecclesiastico presso il santuario. Così il 24 giugno 1882, appena due anni dopo il suo ingresso alla Consolata, scrisse dal santuario di Sant’Ignazio una lunga lettera all’arcivescovo. Senza giri di parole, gli domandò se non fosse giunto il momento di fare tornare i giovani convittori alla Consolata.
L’arcivescovo venuto a Sant’Ignazio a predicare un corso di esercizi spirituali fu d’accordo nel riaprire il convitto ecclesiastico presso il santuario della Consolata a condizione che l’Allamano fosse il capo delle conferenze di morale.
Il convitto ecclesiastico
Era proprio quello che l’Allamano non si sarebbe aspettato. La condizione era molto gravosa. A nulla valsero le sue obiezioni, non si sentiva portato alla scuola, ed era gravato già da tante altre occupazioni. L’arcivescovo fu irremovibile: «O tu, o non se ne fa niente». «Monsignore – disse con molta franchezza -, assumo la scuola, ma non adotterò i suoi trattati». «Non importa, fa come credi, di te mi fido», rispose monsignor Gastaldi.
L’Allamano si immedesimò subito con la nuova missione e fece il possibile per tenere vivo lo spirito del Cafasso tra i sacerdoti del convitto. Proponeva senza mezzi termini l’ideale della santità sacerdotale. Commentando il testo paolino: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3), diceva ai convittori: «Voi dovreste già essere santi… ma giacché, senza far torto a nessuno, non lo siete ancora, procurate di divenirlo».
Quando doveva riprendere qualcuno, lo faceva con semplicità e chiarezza, terminando sempre con un incoraggiamento: «Là! Ora mettiamo una pietra su tutto. Si metta d’impegno e procuri di essere un buon sacerdote».
Per curare meglio la dimensione spirituale della formazione, fin dal 1886, l’Allamano chiamò come direttore spirituale dei convittori il beato Luigi Boccardo, del quale era stato direttore spirituale in seminario. Questa scelta fu molto apprezzata. Un biografo del Boccardo commentò: «Se si tiene conto della cura con cui l’Allamano studiava i suoi convittori, e della fama che godeva di profondo conoscitore di giovani sacerdoti, si tratta di una scelta significativa». E riportò compiaciuto il pensiero di un altro sacerdote: «La diocesi torinese deve perenne riconoscenza al can. Allamano per questa scelta, che intrecciò gli splendori di due astri riverberanti sul convitto ecclesiastico della Consolata».
«Con questa schiera di giovani sacerdoti che preparava per il sacro ministero – affermò il can. G. Cappella – il Servo di Dio portò il santuario ad uno sviluppo veramente eccezionale. Come superiore del convitto ecclesiastico lasciò un’orma imperitura, dimostrando ottime qualità di formatore del clero».
Contro l’economia di guerra
Un’opera collaborativa che evidenzia la violenza del modello economico dominante ed esplora alternative virtuose. In nome del rispetto degli esseri umani e della natura. Alla ricerca di una economia di pace.
Cittadella editrice ha il merito di aver pubblicato un agile libro che raccoglie i contributi di diversi attivisti e studiosi per mettere a fuoco le dinamiche dell’economia di guerra nella quale siamo immersi, e individuare percorsi virtuosi verso un’alternativa di pace.
La prima parte del testo è dedicata all’analisi delle drammatiche crisi in atto: il clima, le guerre, l’eclissi della democrazia, dell’uguaglianza e della giustizia. Esse sono prodotte dal modello neoliberista dominante nel quale sono riconoscibili almeno tre tendenze generali.
Tendenze del capitalismo
La prima è la tendenza alla concentrazione del potere economico in poche mani, frutto della lotta per la conquista dei mercati che ha alimentato una polarizzazione tra paesi creditori, come Cina, Russia, Arabia Saudita, e paesi debitori, come gli Stati Uniti. Relazioni internazionali più tese stanno portando allo sviluppo di politiche protezionistiche e alla creazione di aree amiche o nemiche, in un pericoloso «equilibrio di guerra» che rischia di saltare in ogni momento, anche a causa delle crescenti spese militari, le quali, ad esempio nei paesi Nato dell’Unione europea, sono aumentate di quasi il 50% in 10 anni: da 145 miliardi nel 2014 a 215 nel 2023.
Una seconda tendenza è la corsa al controllo delle fonti di energia fossile. I conflitti armati del secondo dopoguerra sono scoppiati per quasi la metà a causa degli idrocarburi: o per conquistare i territori che ne sono ricchi, o per impedire che un paese produttore acquisisse una posizione dominante nel mercato internazionale, o per controllare le rotte di trasporto di petrolio e gas.
È utile sapere che il 64% della spesa italiana per missioni militari all’estero è assorbita da operazioni connesse alla difesa delle fonti fossili. Non si può, poi, evitare di considerare che, nella guerra russo-ucraina, le zone contese del Donbass sono ricche di carbone e petrolio.
Una terza tendenza è l’impossibilità di mettere in atto una seria transizione ecologica, necessaria per affrontare la crisi climatica. Risulta infatti evidente che il cambiamento dovrebbe essere fondato su una conversione economica che sappia rinunciare a un modello di sviluppo centrato sullo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Oggi invece «l’inquinamento ambientale è causato dalla difesa armata dell’unica ideologia esistente, il capitalismo» (pag. 145).
Dunque, la «radice della guerra […] va ricercata nella violenza strutturale su cui si basano i modi di produzione, distribuzione e riproduzione oggi trionfanti […]. Un sistema mortifero, biocida. Perché genera guerre, colonizza e militarizza le menti, recide ogni relazione con chi è diverso da sé, distrugge la biosfera, riduce gli spazi vitali di ogni specie vivente.
Per ripudiare la guerra è necessario estirpare le sue radici profonde ed inventare un’economia di pace» (pag. 97).
Alternative concrete
Nella seconda parte del testo, «Appunti per un’economia di pace», sono presentati alcuni contributi che propongono alternative possibili allo scenario descritto in precedenza.
Un cambiamento di paradigma è rappresentato dal modello dell’economia gandhiana, fondato su sei concetti chiave: nonviolenza, non sfruttamento, autolimitazione e sobrietà, lavoro autodiretto al servizio dello sviluppo proprio e della comunità di appartenenza, sviluppo locale autocentrato, amministrazione fiduciaria per gestire le attività economiche.
In questa prospettiva si collocano le esperienze di decentramento, autogestione e cittadinanza attiva come i Gas (Gruppi di acquisto solidale), le comunità energetiche per l’autoproduzione di energia a livello locale, le forme di boicottaggio nei confronti di prodotti insostenibili a livello sociale e ambientale. Queste iniziative rappresentano l’esercizio del potere del consumatore che diventa consum-attore contribuendo a indirizzare l’economia con le sue scelte di acquisto anche attraverso campagne collettive e organizzate (quelle, ad esempio, contro le banche armate).
Se le fonti fossili sono strettamente legate a un’economia di guerra, le fonti rinnovabili, decentrate e controllabili dal basso, rappresentano un diverso modello di società e di economia, un’economia di pace.
Oltre a queste sono presentate nel libro una molteplicità di esperienze e mobilitazioni civili che si battono per rendere i territori, le società e perfino le scuole sempre meno legate all’industria e alla mentalità bellica: dal comitato che ha creato il marchio etico «war free» alla mobilitazione della società civile della valle Sacco, a sud di Roma, contro l’industria bellica e chimica che inquina, dal movimento No base a Pisa Rossore contro la base militare Usa di Camp Darby, all’osservatorio contro la militarizzazione delle scuole (vedi MC ottobre 2023).
Un nuovo paradigma
Il testo si chiude con alcune proposte che invitano il lettore a ripensare i paradigmi economici della società nella direzione del rispetto e della convivenza con il resto dell’umanità e con la Terra.
Si parla quindi di decolonizzare la mente e il pianeta (sviluppare il senso del limite e della cura al posto della paura del nemico e della precarietà), di decostruire la retorica della sicurezza (riumanizzare l’altro, perseguire la giustizia economica), di porre la pace disarmata alla base della politica (obiezione fiscale per la conversione delle spese militari; costruzione dei Corpi civili di pace; riconversione industriale; disarmo e ripudio della guerra; difesa popolare nonviolenta), di mobilitarsi in reti e movimenti territoriali per costruire la pace dal basso, rifondare l’economia passando dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione.
Un libro ricco di spunti da conoscere, sviluppare, promuovere, e tradurre in azioni concrete.
Angela Dogliotti
Costa d’Avorio. Una Chiesa inculturata. Bellezza che evangelizza
Costruire una chiesa per dire la bellezza della fede. La missione prende casa
Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné, Nord della Costa d’Avorio, in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano la crescita della Chiesa locale. Annunciano il Vangelo con opere di promozione umana. Nel 2019 hanno inaugurato la nuova chiesa: umile, ma bella come una basilica. Una costruzione che parla della missione con la M maiuscola.
Dianra Village si trova nel Nord della Costa d’Avorio, nella regione del Béré, diocesi di Odienné. La parrocchia, dedicata a san Joseph Mukasa, catechista ugandese nato nel 1860, martirizzato nel 1885, proclamato santo nel 1964, è sorta nel 2012 ed è stata affidata ai Missionari della Consolata che sono presenti nell’area dal 2002. Il vescovo locale ha affidato loro l’intero dipartimento di Dianra che si estende su un territorio di tremila chilometri quadrati e conta attualmente duemila cattolici su una popolazione di circa centoventimila abitanti, prevalentemente musulmani e animisti.
In questo contesto la missione percorre i sentieri dell’annuncio, della consolazione e del dialogo attraverso un impegno di evangelizzazione dai molteplici volti, che incarnano il desiderio di manifestare a tutti la tenerezza di Dio.
Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia.
Segno del Regno nel cuore del mondo
Qui, su un piccolo poggetto di pietra rossa, nel 2019 è stata inaugurata la nuova chiesa, costruita con la più umile delle architetture, ma capace di stupire chi arriva come fosse una basilica.
Il progetto della chiesa parrocchiale è nato e si è sviluppato innanzitutto nel cuore e nel desiderio dei fedeli della comunità.
Successivamente condiviso con i missionari della Consolata e da loro accolto, ha visto l’approvazione del vescovo diocesano e ha potuto realizzarsi grazie alla comunione di amicizia con tanti che lo hanno appoggiato spiritualmente, tecnicamente e finanziariamente.
Questa storia ci parla di un cammino lungo, bello e faticoso, fatto di piccoli passi e di sorprese, di incontri inaspettati e di provvidenza, di vita donata e gratuita offerta di sé… in una parola del mistero della Chiesa, segno vivente dell’inizio del Regno nel cuore del mondo.
Un segno di cui questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli.
«Voi siete tempio di Dio» (2 Cor 6,16)
Nel quinto anniversario della dedicazione della chiesa, abbiamo pensato di raccontare in un dossier la sfida missionaria del cantiere. La costruzione della Chiesa, infatti, va ben oltre i mattoni e gli affreschi: è occasione per rivelare a ogni uomo che egli stesso è tempio di Dio, a ogni comunità che è chiamata a essere popolo di Dio. La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo.
Matteo Pettinari
Dare forma visibile al mistero della salvezza.
Una chiesa per Dianra Village
Una consacrata di Senigallia, architetto, viene coinvolta nella progettazione di uno spazio liturgico in un territorio di prima evangelizzazione. Il suo racconto degli elementi architettonici della chiesa è lo spunto per una riflessione, quasi un canto di lode, sulla bellezza come strumento di annuncio.
La chiesa parrocchiale San Joseph Mukasa di Dianra Village nasce dalla fede grande del catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, sia locali che italiani, e dalla follia del mio amico padre Matteo Pettinari, che nel 2012 mi ha chiesto di dar forma al loro sogno di celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi.
Quello di Dianra era il mio primo cantiere. Io abito nella diocesi di Senigallia (An), ed ero a 7.186 km da lì, ma fortunatamente padre Matteo mi ha accolta diverse volte nella missione e mi ha insegnato ad ascoltare e amare la terra e la gente, perché, se uno spazio deve parlare di Dio, allora deve parlare il suo linguaggio, che è la comunione.
La nuova chiesa di Dianra Village ha sostituito la piccola cappella costruita dai primi catechisti nel 1986 e ormai incapace di contenere la comunità.
Nel terreno della parrocchia sorge un poggetto da cui si apre la vista sul villaggio. Qui vi sono la casa parrocchiale, con stanze per l’ospitalità e gli incontri, le aule per il catechismo e l’alfabetizzazione e il centro sanitario della missione. Ma il cuore spirituale della comunità è il boschetto accanto alla chiesa: sotto questi alberi secolari, padre Marcel Dussud, della Società delle missioni africane, celebrò la prima messa nel 1985. Qui, ancora oggi, c’è la grande pietra usata come altare.
La chiesa di Dianra è costruita attorno al fonte battesimale nel quale, durante la notte di Pasqua, scendono i catecumeni che si spogliano dell’abito vecchio per indossare quello di luce. Una volta battezzati, i nuovi cristiani «salgono» nella «stanza al piano superiore», nel corpo centrale della chiesa, nel quale tutto viene dato in dono dalla mano aperta del Padre che è rappresentata nel punto più alto sopra l’altare.
Tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside: lì tutto ciò che oggi è fatica e sudore diventa oro pieno di luce.
Ogni volta che lavoravo in cantiere, mi tornavano alla mente le parole di Gesù: «Perché abbiano la vita in abbondanza». Ecco, questo desidero e di questo credo parli la nostra piccola grande chiesa.
La stanza al piano superiore
Alla samaritana che gli chiede quale sia il luogo adatto per adorare Dio, il Signore risponde: «È giunto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4).
La nostra non è la religione del tempio e, per capire come edificare un luogo per la liturgia, è stato necessario comprendere dove e come ogni liturgia si svolge, perché l’edificio di mattoni potesse essere vero ponte del mistero di salvezza.
Nell’Ascensione, Cristo sale in cielo portando la natura umana nella dimora dell’Altissimo. Nella Pentecoste lo Spirito scende sulla terra e si nasconde nell’uomo per renderlo simile a Dio.
La liturgia della Chiesa è un dare forma, voce, spazio, materia, a questa azione della Trinità: ovvero è un accogliere lo Spirito che scende in noi e che ci rende Corpo di Cristo; ed è un salire in cielo, alla Casa del Padre, in Cristo.
Il brano che narra la Pentecoste ci dice che gli apostoli si riuniscono in una stanza al piano superiore. Progettando uno spazio nel quale celebrare il mistero della divina liturgia, abbiamo scelto di approfondire la Parola proprio su questo: la stanza al piano superiore è, ad esempio, la stanza del Re (Gdc 3,20; 2 Sam 19,1; Ger 22,14), ed è anche una stanza nuziale (CdC 1,4).
I fedeli di tutti i tempi hanno voluto edificare chiese che cantassero con la loro bellezza le lodi di Dio. Le case dei re, quelle del capo villaggio o del prefetto, anche a Dianra, si distinguono dalle altre per i colori della facciata e alcuni semplici elementi decorativi. E così anche la chiesa. Però, mentre le case dei potenti sono private e inaccessibili, la casa del nostro Re è aperta a tutti, è una bellezza a cui possono prendere parte tutti.
La chiesa è anche luogo di intimità con lo Sposo. Può sembrare fuori luogo far riferimento all’intimità coniugale in un contesto culturale poligamo come quello del Nord della Costa d’Avorio. Ma proprio per questo il messaggio cristiano è salvifico: Cristo ti ama, ti chiama, ti cerca personalmente, non come uno tra tanti, ma come persona unica e speciale.
La stanza al piano superiore, poi, per la Scrittura è anche il luogo della vita eterna (1Re 17,19; 2Re 4,10; At 9,36-43) e dell’Eucarestia (Mc 14,15; Lc 22,12; At 1,13; At 20,8).
Ogni chiesa è luogo di resurrezione e di festa: questa pienezza di vita che ci attende in paradiso, già ora ci è donata mediante i sacramenti. L’asse principale dello spazio liturgico parte dal fonte battesimale, posto all’ingresso, e culmina nell’abside, nella piazza d’oro dell’Apocalisse.
La centralità dell’altare richiama il banchetto a cui il Signore ci invita. E questa comunione con Lui rende anche noi Corpo di Cristo, sue membra. La pianta a croce latina è dall’antichità simbolo della Chiesa-Corpo di Cristo.
La stanza al piano superiore, infine, è nei cieli (Ap 4,1), ed è, al tempo stesso, nel cuore della città (At 1,13; At 9,37; At 20,8): la liturgia per noi cristiani non è un rito, ma partecipazione alla festa che i santi celebrano in cielo. Lo spazio liturgico è luminoso, colorato, più bello possibile, nell’intento di accendere nei fedeli il desiderio del paradiso. Allo stesso tempo la chiesa è fontana del villaggio, luogo da cui sgorgano pace, mitezza, gioia, bellezza, amicizia, riconciliazione per tutti. Ecco perché lo spazio attorno alla chiesa diventa una piazza, il luogo della danza e della festa.
Venite a me voi tutti
Quando arrivi sul poggetto dove è costruita la chiesa, ti accoglie un portico.
Come accadeva già nelle prime chiese cristiane, vi è uno spazio dedicato al catecumenato, all’iniziazione cristiana, esperienza e tempo di grazia in cui la persona che si sente attirata dalla testimonianza e dall’annuncio comincia a leggere la propria vita con lo sguardo della rivelazione cristiana.
Il portico mette in dialogo alcuni simboli cristiani con l’arte tradizionale senufo (etnia maggioritaria nella zona, ndr). Le persone che arrivano, infatti, non vedono come prima cosa una iconografia cristiana che non saprebbero decifrare, ma simboli che, da un lato richiamano la loro esperienza quotidiana e, dall’altro, attirano a qualcosa di nuovo (inframezzati ai simboli senufo vi sono, ad esempio, alcuni simboli paleocristiani come il pesce).
Sotto il portico si svolgono le catechesi e le settimane di formazione residenziale. È un luogo che prepara, quindi, all’ingresso in chiesa e all’ingresso nella Chiesa, ma è anche luogo e spazio di relazione. Concretamente, così come c’è stato bisogno che alcuni padri traducessero il Vangelo in lingua senari (una delle lingue parlate dai Senufo, ndr), così anche l’architettura dice la necessità di mettersi in dialogo con la cultura specifica del popolo che abita questo luogo.
Il portico è lo spazio del dialogo tra il Vangelo e la realtà, di incarnazione e di inculturazione. Non a caso è verde: perché ci ricorda che già tutta la creazione e tutte le culture, e i popoli, portano i semi del Verbo e gemono nell’attesa di poter celebrare il creatore (Rm 8,19-24).
Nel portico c’è tutto il verde della foresta, della savana, e la cultura di questo popolo che attende Cristo, così come ogni uomo. L’uomo in ricerca è simboleggiato dalle cerve che sono disegnate con l’arte senufo, perché la cerva ci ricorda l’anelito dell’uomo a Dio: la tradizione dice che la cerva che mangia il serpente nell’arsura cerca l’acqua come noi cerchiamo il Signore dopo il peccato.
Sotto il portico è raccontato questo incontro attraverso tre icone dipinte sopra le porte, raffiguranti i vangeli che la chiesa utilizza come testi di riferimento nel tempo quaresimale per il cammino dei catecumeni.
Io sono la porta, dice Gesù (Gv 10), e noi abbiamo costruito una porta enorme, da cui tutti posso entrare: nel portale è inciso il simbolo di Cristo (P) ed è raffigurato il Buon pastore che attira a sé le pecore: «Venite tutti a me», Ye myé yaa maa mì mà, in senari. È Cristo che ci attende, ci attira a sé, viene a chiamarci fuori dalle tenebre, per salvarci dalla morte.
Chi arriva in questo luogo santo non può che alzare lo sguardo e incontrare il suo.
Attorno al Cristo, sul portale c’è un arco dipinto con i simboli tradizionali senufo: il Cristo viene a chiamare tutte le culture e tutti i popoli, nessuno escluso. Non ci sono più persone o gruppi maledetti esclusi dalla grazia. Ogni cosa è chiamata a ricapitolarsi in Cristo, a ritornare a Lui.
Daniela Giuliani
La materia trasfigurata dall’amore
È il Natale del 2012 quando in tantissimi rimangono fuori dalla piccola cappella perché non c’è più posto. A sorpresa, padre Matteo mi presenta alla comunità: l’amica architetto che progetterà la nuova chiesa. Il mio stupore e timore sono grandi. Gli abbracci della gente dicono: «Dio si è ricordato di noi».
Seguono tre anni di ascolto dei missionari, della tradizione del popolo senoufo, di Maxime e dei catechisti, di amici artisti e tecnici. Poi tre anni di cantiere. È un lavoro che ci insegna tanto: sulla cultura locale, sulla fede della gente semplice, sui materiali del posto, sul cammino dei nuovi cristiani che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, sulle architetture copte e siriache che sono le più vicine alla terra ivoriana.
Procediamo spesso a tentoni, senza pretendere di capire tutto. Viviamo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano arrivano.
E con stupore i mattoni impastati uno a uno diventano muri, archi, volte. Cose mai viste a Dianra, realizzate da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni dapprima frammentano, e poi ricompongono, con l’aiuto di giovani italiani arrivati a Dianra per un’esperienza di missione.
E poi c’è Soro, un uomo piccolo di statura che si arrampica su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti usando tre barattoli di colori da carrozzeria con un’abilità degna dei migliori artisti.
In chiesa lavorano differenti abilità, lingue, etnie e religioni. Potrebbe essere una Babele, ma non lo è. Chi fa i mosaici a terra, chi dipinge le pareti, chi costruisce la volta a botte. Ciascuno è qui non per essere il primo, ma per servire nell’unità.
Lo spazio liturgico è abitato, è spazio di incontro. La Liturgia che vi si celebra mette in relazione la vita della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade) con quella del cielo (dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio illumina tutto).
Ciascuno si ripete: «Quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: ad esempio sta nel fatto di non poter usare i materiali che vorresti, di non poter decidere tu, di fidarti dell’altro. Allora ciò che edifichi non parla più solo di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio.
Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio», come amano definirla le persone del luogo, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, possono essere i più belli della Costa d’Avorio!
D.G.
Catecumeni nella notte di Pasqua
Celebrare la vita nuova
Il racconto meditato di una veglia pasquale nella quale 27 catecumeni ricevono il battesimo. Ogni elemento architettonico e iconografico della chiesa di Dianra accompagna la celebrazione e il senso della vita cristiana che i battezzati vivranno.
Questa è la notte delle notti, la notte di Pasqua: i catecumeni della missione di Dianra Village sono ventisette e oggi, vestiti di bianco, celebrano la vita nuova che è data loro in dono. Nessuno può trattenere la gioia e la commozione, che si fanno danza, canto, rendimento di grazie.
Tutta la chiesa è costruita per celebrare questa notte, nella quale Cristo con la sua morte e resurrezione ci dona la Vita nuova, che non muore più.
Quando si entra in chiesa attraverso il portale si fa memoria della vita nuova che abbiamo ricevuto, o ci si prepara a riceverla. Sul portale è dipinto il Buon Pastore che chiama le pecore a uscire dalle tenebre, dalla morte, per trovare vita in lui.
Come nell’arte paleocristiana, anche qui il Pastore che prende la pecora sulle spalle è figura di Cristo che vuole donarci vita in abbondanza. Cristo nel battesimo ci innesta in sé. Lui è la Porta e, attraverso di lui, entriamo in una nuova vita, nella Chiesa, suo Corpo (Eb 9,24-28).
Entrando dal portale ci si ritrova sotto una volta a botte dipinta di azzurro che ci avvolge come un grembo materno, un grembo di cielo, al cui centro è collocato il fonte battesimale: è la Chiesa che genera i suoi figli portandoli a Cristo nel sacramento del battesimo. Lo Spirito santo è dipinto sul portale come una colomba, e a terra, nel mosaico, come una fiamma e come un uovo fecondo, perché è nello Spirito e da esso che riceviamo la Vita (Gen 1,2; Gv 3,1-8).
Al centro c’è il fonte battesimale a forma di croce, con tre gradini che scendono e tre che salgono: rinasciamo immersi nella morte di Cristo, nella sua Pasqua (Rm 6,1-14)
Ed eccoli i catecumeni di Dianra, che nella notte di Pasqua, al buio e vestiti di bianco, scendono i tre gradini del fonte, morendo alla vita vecchia con Cristo. Chinano il capo, i padrini tengono una mano sulla spalla, padre Matteo li battezza versando l’acqua sul capo che scende e bagna le vesti. Poi sollevano il capo e risalgono i gradini verso la comunità. Risorti con Cristo. Il volto è raggiante.
Le pareti interne del fonte sono rivestite di mattonelle azzurre che rimandano all’acqua viva del battesimo a cui sempre possiamo attingere: la porta e il fonte posti all’ingresso della chiesa permetteranno in futuro a questi nuovi cristiani di fare memoria del dono ricevuto questa notte.
E chi questo dono non può riceverlo o lo ha dimenticato? Di fronte agli uomini e alle donne di Dianra, in un contesto di primissima evangelizzazione, nel quale i cristiani sono minoranza, di forte presenza dell’islam e dell’animismo, le domande sulla salvezza diventano urgenti.
Per questo nella chiesa abbiamo aperto altre due porte ai lati del portale: quella del battesimo delle lacrime, per ricordare che Cristo accoglie tutti coloro che sono nel pianto, e quella del battesimo del sangue, per ricordare che la partecipazione al sacrificio di Cristo può avvenire anche «fuori» della Chiesa, come i piccoli santi della strage degli innocenti (Mt 2).
Nel pentimento e nel dono di sé tutti possono entrare nello spazio della salvezza che è Cristo.
Vivere da figli, imparando ad amare
I neofiti escono dal fonte, e si apre per loro la vita cristiana. Il primo passo poggia su una croce. E anche quello dopo e quello dopo ancora, su croci colore rosso che guidano il cammino fin sotto l’altare. Cantano percorrendo la navata. Sanno di non essere più soli nel cammino.
La forma della vita nuova, della vita cristiana, è la croce, è l’amore. Questa via crucis è in realtà una via amoris, un cammino di amore che ci fa diventare sempre più conformi a Cristo.
Il percorso della vita cristiana va dalla vita ricevuta alla vita donata, è un percorso che inizia dal battesimo che abbiamo ricevuto gratuitamente e termina sull’altare, laddove offriamo con Cristo, per Cristo, in Cristo, la vita al Padre.
Questo percorso non si fa da soli, ma dentro un popolo: la navata, infatti, ricorda una barca, simbolo della Chiesa, e alle sue pareti ritroviamo volti e storie di questo popolo che cammina, da un lato quello di Israele nell’Antico testamento, dall’altro quello di Cristo nel Nuovo testamento.
I neobattezzati arrivano così davanti all’altare. Lì, a terra, un mosaico pieno di colori con una croce al centro segna il punto in cui per la prima volta si ciberanno del Corpo di Cristo.
Si inchinano. Qui la terra tocca il cielo. La loro umile vita tocca l’infinito di Dio.
Questo luogo, nelle chiese antiche si chiama onphalos (ombelico in lingua greca), ed è collocato spesso sotto la cupola, il punto in cui la costruzione dell’uomo arriva a toccare il cielo, e si apre facendo entrare un raggio della luce di Dio che ci raggiunge. L’ombelico è il baricentro dell’uomo ed è il punto tramite il quale, quando si trova nel gremo materno, riceve il nutrimento. Nell’onphalos noi riceviamo il nutrimento per il cammino, il corpo e il sangue di Cristo.
Attorno all’onphalos, quattro pilastri ricordano i pinnacoli che reggono la cupola: in essi sono raffigurati gli evangelisti, perché è l’ascolto della Parola che sorregge il nostro cammino e ci rende amici di Dio.
Dopo l’inchino, ora i nuovi cristiani alzano il capo e il loro sguardo si fa raggiante: dopo essere morti e risorti nel fonte, dopo aver percorso nella navata il cammino in una via crucis d’amore, dopo aver ricevuto il nutrimento del Pane di vita e della Parola, ora non sono più schiavi, ma figli amati e amici del Signore e, alzando lo sguardo, incrociano lo sguardo del Cristo Risorto, in Gloria.
Chi entra in chiesa nota subito l’assenza del crocifisso al centro dell’abside, tipico di molte chiese degli ultimi secoli. Qui a Dianra abbiamo ripreso la tradizione del primo millennio nella quale al centro dell’abside vi era sempre il Risorto, il Veniente, il Pantocrator, a ricordarci che la croce non è punto di arrivo, il compimento della vita cristiana, ma il cammino, la forma pasquale della vita cristiana e dell’amore che si dona, che trova pienezza e compimento nella gloria, nella Gerusalemme celeste.
Il culmine della vita nuova ricevuta nel Battesimo e del cammino cristiano è la Vita Eterna, il Paradiso.
Ora non è più notte. La luce ha vinto le tenebre. Non dobbiamo più temere la morte. Esplode tra i neofiti il canto dell’Alleluja.
Daniela Giuliani
Rappresentare un Dio accessibile
La parola si fa carne e volto
In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente.
La fede nasce dall’ascolto. Mi commuovo ogni volta che sento annunciare il Vangelo in senari, la lingua locale del popolo senufo. Perché Dio Padre non potrebbe parlare a questa gente se alcuni missionari innamorati di Dio e degli uomini non avessero fatto la fatica di imparare questo idioma e di tradurre la Buona Novella.
Allo stesso modo, a questa Parola urge un volto. Perché la nostra non è la fede del libro, ma è la fede in Cristo Gesù che si è fatto uomo ed è venuto a rivelarci il volto di Dio.
In questa terra a maggioranza islamica, dove è proibito raffigurare Allah, e dove nella religione tradizionale animista è causa di morte vedere il volto delle maschere sacre, il volto di Cristo è dirompente. È il volto di un Dio che non è inaccessibile e ci vuole incontrare, è il volto dell’amore. È il nostro volto, di noi che siamo creati a sua immagine e somiglianza.
Gli affreschi della chiesa mostrano volti, rendono presenti coloro che sono raffigurati, chiedono un incontro. E sono accessibili a tutti, non occorre saper leggere o conoscere chissà quali dottrine: basta lasciarsi incontrare dal suo sguardo.
Si è incarnato
Nella navata che rappresenta il cammino del popolo di Dio, le pareti sono affrescate con la storia della salvezza. Avendo l’altare di fronte, sulla sinistra sono rappresentati episodi dell’antico testamento, sulla destra del nuovo.
Una storia della salvezza che comincia dal principio, con Adamo ed Eva, e trova compimento nell’incarnazione, fino alla morte e resurrezione di Cristo. Il Risorto spalanca le porte degli inferi e libera Adamo ed Eva dalla morte. E con loro ciascuno di noi, raggiunti dall’annuncio.
A chiunque entra nella chiesa, missionario o neofita che sia, illetterato o teologo, le scene della salvezza pongono una domanda: la luce viene nel mondo, sei pronto ad accoglierla e a riconoscerti figlio di Dio? O sceglierai di restare nelle tenebre?
I quattro pannelli dell’Antico testamento riprendono le grandi tappe della liturgia della Parola della notte di Pasqua.
Adamo ed Eva nel giardino (Gen 3,1-13): qui contempliamo l’origine di ogni peccato. Eva si mette in ascolto del serpente, anziché dialogare con Dio, e sceglie di disobbedire, di dar credito alle menzogne della tentazione, di non fidarsi del Signore che ha dato loro la vita. L’uomo sceglie qui di rompere la sua relazione con Dio.
Caino e Abele (Gen 4,1-16): nella seconda icona contempliamo le conseguenze della rottura con Dio, che porta alla rottura della relazione con il fratello. Dall’albero da cui Eva coglie il frutto della disobbedienza, simbolicamente è presa anche la pietra con cui Caino uccide Abele. Il non ascolto di Dio ci rende sordi al fratello.
Abramo e il sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19): nella terza immagine troviamo Abramo, padre nella fede, primo dei credenti. In lui, che torna a dialogare con Dio e a fidarsi della sua Parola, si compie la prima alleanza. Qui è raffigurato nell’atto di sacrificare Isacco (figura di Cristo, il quale si offrirà allargando le braccia sulla croce).
Mosè e il passaggio del Mar Rosso (Es 15,1-21): l’ultima scena dall’Antico testamento raffigura Mosè che, nella notte della Pasqua ebraica, apre le acque del Mar Rosso, e porta in salvo gli israeliti. Vittoria di Dio sul faraone d’Egitto, notte di liberazione dalla schiavitù, che accende anche in noi la speranza di una salvezza possibile, di una vita nuova in cui non essere più schiavi, che troverà compimento nel battesimo.
Specularmente, le icone raffigurate sulla parete di destra narrano il mistero di Cristo instaurando un dialogo di rimandi tra antico e nuovo testamento.
L’annunciazione (Lc 1,26-38): nella prima scena contempliamo il sì di Maria, la nuova Eva, che rivolge l’orecchio e il cuore alla Parola. Si mette in ascolto di Dio che in Lei compie le sue promesse. E il rotolo della Parola, che Maria abbraccia, diventa il cammino verso l’altro, verso Elisabetta.
La visitazione, l’incontro con Elisabetta (Lc 1,39-56): se in Caino abbiamo visto che la disobbedienza rompe la relazione con Dio e con il fratello, in Maria vediamo invece che l’obbedienza e l’ascolto ci rendono capaci di andare verso l’altro, di portare la novità che è Cristo nelle relazioni.
La natività (Lc 2,1-20; Mt 2,1-12): la terza scena raffigura la natività del Signore, ed è posta in dialogo con il sacrificio di Abramo. Lì Abramo è pronto a offrire il figlio per non rompere l’alleanza con Dio, qui è Dio Padre che offre il Figlio per l’umanità. Nessun sacrificio è più necessario, Cristo si fa uomo, Dio-con-noi, e viene a salvarci.
Il battesimo di Cristo nel Giordano (Lc 3,21-22): l’ultima scena, di fronte a quella di Mosè che apre il Mar Rosso, raffigura il battesimo di Cristo. Gesù scende nel Giordano come dentro una tomba, si immerge nella morte dei nostri peccati, per darci vita. Il suo battesimo santifica le acque del Giordano e quelle di ogni fonte battesimale: immersi in Lui, anche noi possiamo partecipare alla liberazione dalla schiavitù della morte e del peccato, come gli israeliti che attraversano il Mar Rosso.
Il compimento della storia dell’alleanza
Completa il ciclo del Nuovo testamento, ormai giunti dinanzi all’abside, l’icona della passione e morte di Cristo: è Cristo che dà la vita per noi, in una kenosis (svuotamento) che comincia con l’incarnazione, trova prefigurazione nel battesimo, e arriva fino alla morte in croce (Gv 19,16-30). È lui il Figlio mandato dal Padre per salvarci. È lui che ci mostra l’Amore del Padre, che avevamo perduto.
E dalla parte opposta, il compimento della storia dell’umanità, la resurrezione di Cristo raffigurato nella discesa agli inferi (At 2,22-31; Ap 1,17-18). Qui ritroviamo Adamo ed Eva, quindi tutta la storia, tutta l’umanità, ogni popolo che sta nello sheol (il regno dei morti). Cristo vi entra e dona vita nuova all’umanità, aprendo per sempre le porte degli inferi. Cristo è davvero risorto!
Per la salvezza del mondo
Tra lo spazio della navata, che è quello del popolo in cammino, dell’ascolto e della catechesi, e lo spazio dell’abside, è collocato un arco. Questo introduce all’altare e al mistero eucaristico, come per l’iconostasi delle chiese ortodosse.
Nella sommità dell’arco troviamo la mano del Padre aperta che ci ricorda che Dio è amore che dona tutto, dona se stesso nel sacrificio del Figlio per la salvezza e la vita del mondo. Tutta la liturgia ha origine in questa mano sempre aperta.
Accanto alla mano del Creatore, fonte e sorgente della liturgia che si celebra sulla Terra, troviamo due angeli che ci ricordano la liturgia che si celebra nei cieli, speculari a due altri pannelli in stile batik tradizionale che si trovano in basso e riproducono alcune donne che portano doni danzando, e due ballafonisti che suonano.
La liturgia terrena, che vede il popolo lodare il Signore con la danza e l’offerta dei doni, è speculare a quella celeste nella quale gli angeli portano anch’essi doni all’Altissimo e suonano cimbali e sistri: segno della comunione tra cielo e terra.
Nelle liturgie di Dianra, le offerte, in monete o in natura, non sono raccolte tra i banchi, ma vengono deposte ai piedi dell’altare dai fedeli che, danzando in processione, compiono un percorso di offerta di sé all’altare di Cristo, un’offerta importante per la vita della Chiesa.
L’altare
L’altare è il cuore dell’azione liturgica dell’eucarestia, la mensa nella quale Cristo ci ha resi partecipi del suo dono d’amore.
L’altare della chiesa è di forma quadrata: ricorda i quattro punti cardinali, e quindi l’universalità della salvezza. È un’offerta per la vita del mondo, per tutti, per ogni continente, ogni popolo.
L’altare è costruito su delle pietre prelevate dalla comunità dal poggio sul quale sorge la chiesa.
Qui, sotto gli alberi, ci sono delle grandi pietre usate come altare dai primi missionari arrivati negli anni 80: l’altare di oggi si fonda sulla fede di chi ci ha preceduti e ha dato la vita perché giungesse a noi il Vangelo. Incastonata nell’altare si trova anche la reliquia di santa Maria Goretti, dono della diocesi di Senigallia, a significare anche il legame di fede tra la Chiesa locale italiana e quella di Dianra.
L’abside
Il compimento dell’azione liturgica che parte dalla mano aperta del Padre e ci invita a offrire la nostra vita, è rappresentato nell’Apocalisse, ai capitoli 21 e 22, e raffigurato nell’abside della chiesa.
Il Cristo seduto sul trono, la piazza d’oro, la Gerusalemme celeste adorna come una sposa, la comunione dei santi.
Fiumi d’acqua viva sgorgano dal trono di Cristo, e non avremo più sete, e anche le nostre capanne diventeranno d’oro, perché ciò che noi costruiamo nell’amore è partecipazione del regno e lo ritroveremo trasfigurato ed eterno in paradiso.
Accanto ai fiumi di acqua viva che danno vita e agli alberi i cui frutti guariscono le nazioni, troviamo il popolo di Dio in cammino: una famiglia che raccoglie il cotone, altri che raccolgono il riso, accanto a un operatore sanitario, un maestro, un catechista.
L’abside rivela l’orizzonte e il compimento della vita cristiana: alla sera della vita torneremo al Padre, con i suoi doni e il frutto del nostro lavoro, e celebreremo insieme a tutti i santi la misericordia e la bontà del Signore.
Nella liturgia che celebriamo tra noi e con tutti i santi e i defunti che ci hanno preceduto nella fede e, allo stesso tempo, nella «liturgia» quotidiana del lavoro, dell’attività pastorale, ciascuno è parte della trasformazione del mondo dove ogni cosa partecipa dell’amore e loda il Creatore.
La liturgia domenicale diventa sorgente e maestra dell’arte della vita.
Il granaio
La cappella feriale, luogo della custodia del Santissimo, è realizzata come un grande granaio: un volume rotondo, alto, che riprende le architetture rurali dei villaggi nei quali ogni nucleo ha uno spazio per custodire il riso o il cotone, ciò che dà sostentamento alla famiglia.
Chi vede un granaio sa che lì si custodisce ciò che dà nutrimento ed è fonte di vita.
Il granaio è la cappella dove ci si ritrova in fraternità attorno alla mensa della Parola e del Pane.
Il granaio è luogo di intimità, di adorazione silenziosa, ma ricorda anche che la liturgia è per la salvezza del mondo che attende quel pane di vita, e che noi discepoli siamo chiamati a farci pane per il villaggio, a farci missionari.
A indicare questa missione è il mosaico composto sul pavimento del granaio: raffigura un pane nel quale riconosciamo Cristo con il costato trafitto da cui sgorga la grazia dei sacramenti. Questo pane genera altri dodici pani che ricordano che anche noi siamo chiamati a farci pane. «Noi diventiamo ciò che riceviamo», diceva san Gregorio Magno: nutrendoci di Cristo diveniamo pane di vita per chi ha fame, cibo per la salvezza del mondo.
Dietro l’altare abbiamo posto una croce in legno composta da una pala verticale che raffigura Cristo mentre offre il pane e il vino, e da due pale orizzontali che presentano i dodici apostoli chiamati a nutrirsi di quel pane per portarlo al mondo.
È significativo farci Corpo di Cristo proprio qui, dove si riuniscono in special modo i catechisti e i responsabili della comunità. Da qui attingono la grazia di divenire uno, un solo corpo e un solo spirito, per poi tornare al villaggio tra la gente.
Sotto il tuo manto
Nell’incrocio del transetto, andando verso il granaio, troviamo uno spazio dedicato alla statua della Consolata e alla devozione a Maria.
Maria è cammino della Chiesa. È lei che indica la via: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5).
Maria è la via dell’incarnazione. Grazie a lei, Dio ha posto la sua tenda tra gli uomini: per questo abbiamo decorato questo spazio come una tenda.
La preghiera dell’angelus, che i Missionari della Consolata recitano prima di ogni azione liturgica, ci ricorda il mistero dell’incarnazione: senza Maria il Verbo non avrebbe preso carne.
Maria ci insegna a confidare in Dio. La preghiera del Magnificat, che i fedeli recitano ogni mattino qui in chiesa, è anch’essa una chiave di lettura per la liturgia: la nostra piccolezza può aprirsi alle grandi opere di Dio se gli affidiamo ogni cosa.
Maria Consolata, dona a noi il Consolatore. Questo spazio, questo angolo mariano, è visibile e accessibile anche dall’esterno, e chi passa può fermarsi a pregare. È a lei che per prima chiediamo conforto e consolazione e spesso è proprio con Maria che avviene il primo incontro del fedele.
Maria è raffigurata con il manto aperto, è il manto di misericordia, di accoglienza, di protezione, di intercessione. Nel suo grembo è dipinto il volto di Cristo, perché in lei Dio si incarna e si dona a noi.
E Maria, raffigurata con le mani alzate nell’atto di imitare il Cristo, è anche la «somigliantissima», colei che, primizia tra i credenti, si fa simile al figlio, la tutta santa, ci insegna la via della santità.
Daniela Giuliani
Il giorno della dedicazione
Dianra Village, 3 marzo 2019. Dal centro sanitario parte la processione composta dal vescovo di Senigallia, monsignor Franco Manenti, con l’emerito monsignor Giuseppe Orlandoni, dal vicario di monsignor Antoine Koné, il vescovo di Odienné, dai padri missionari giunti da tutta la Costa d’Avorio, e dalla comunità di Dianra. Arriva davanti alla porta della chiesa dove il rito di dedicazione prevede che l’architetto, i muratori, gli artisti e i donatori consegnino simbolicamente la nuova chiesa al vescovo.
In un istante rivivo tutti i sei anni di lavoro.
Ricordo la notte di Natale del 2012, i dubbi, i racconti di Maxime, le visite ai villaggi per trovare terracotte e ispirazioni. E poi Konaté e i suoi tecnici e muratori
Silue, Noel, Fofana. Ricordo Gioele, Martina, Francesco, e i tanti catecumeni. Il paziente Abou chino sui mosaici, Riccardo e Carla.
E poi i siti copti e l’aiuto di Stella che aprono al lavoro sui dipinti. E Soro: grazie al lavoro di questo giovane, piccolo di statura e silenzioso, e ai suoi tre barattoli di colori da carrozzeria, ogni uomo e ogni donna oggi possono incontrare il tuo sguardo d’Amore, Signore.
Ecco, la processione è arrivata a noi, padre Matteo illustra l’impostazione della chiesa, come già tante volte gli è capitato di fare perché la comunità crescesse insieme al cantiere in questi anni, e noi consegniamo le chiavi. Per la Gloria di Dio e la Salvezza del Mondo, ci ricorda la liturgia.
Il vescovo bussa tre volte e si spalanca la porta. E in uno sguardo pieno di stupore ci appare la chiesa adorna come una sposa pronta per il suo sposo.
È gioia grande. Percorriamo la navata: dal fonte battesimale, grembo di vita nuova, alla Gerusalemme celeste, dove un giorno ci ritroveremo tutti nell’Amore che non ha fine.
Tutti gli occhi ora sono rivolti verso Te, Signore.
Noi artigiani e artisti ci facciamo piccoli da una parte: sappiamo bene che il vero Architetto sei tu. Che tutto hai disposto per avere una dimora in cui lasciarti incontrare dagli uomini e dalle donne di Dianra.
Magnificat anima mea!
D.G.
Hanno firmato il dossier:
Daniela Giuliani
Consacrata dell’Ordo Virginum della diocesi di Senigallia, architetto.
Matteo Pettinari
Missionario della Consolata, in Costa d’Avorio dal 17 gennaio 2007. Dal 17 dicembre 2011 vive e lavora nella missione di Dianra. Da luglio 2022 è il superiore della delegazione dei Missionari della Consolata nel Paese. È parroco a Dianra Village.
Per ulteriori immagini e video: Canale youtube «Consolataivoire».
Piano Mattei, le condizioni per farlo funzionare
Il Piano Mattei per l’Africa, varato dal governo Meloni nel novembre del 2023 e lanciato con il vertice Italia – Africa a Roma lo scorso gennaio, sta suscitando molto dibattito in vari settori della società. Abbiamo provato a riunire alcuni punti di vista.
È a realizzare questo sviluppo che si rivolge il Piano, concentrandosi su «cinque priorità di intervento: istruzione e formazione; salute; agricoltura; acqua ed energia», intorno alle quali costruire una relazione di «cooperazione da pari a pari», non predatoria e non caritatevole, con i Paesi africani.
Il Piano, ha annunciato Meloni, potrà contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo, oltre che sull’impegno del governo italiano a coinvolgere altri donatori e istituzioni finanziarie internazionali e a creare assieme a Cassa depositi e prestiti, entro il 2024, un nuovo strumento finanziario per agevolare gli investimenti del settore privato nei progetti del Piano Mattei.
In questa prima parte del 2024 è presto per dire se siamo davanti a un cambio di paradigma in grado di reimpostare le relazioni con l’Africa rendendole paritarie, a un’operazione di maquillage, o a una terza variante fra questi due estremi.
Fra le preoccupazioni principali emerse subito dopo il vertice c’era quella che la priorità di intervento relativa all’energia finisca per fagocitare tutte le altre e che si concentri sul gas e altri combustibili fossili invece che sulla promozione di energia da fonti rinnovabili. Altre perplessità sorgevano poi dalla poca chiarezza riguardo la dotazione finanziaria: che cosa significa, esattamente, che i 5,5 miliardi verranno destinati dal Fondo per il Clima e dalle risorse per la cooperazione? Verranno ridefiniti i Paesi prioritari per la cooperazione? Verranno spostati fondi, ne verranno aggiunti? O ci si limiterà a quello che il sito «info-cooperazione» ha definito re-branding, cioè l’apporre un’etichetta con il logo del Piano Mattei sulle iniziative già esistenti, senza però modificarne la sostanza@?
L’operazione più onesta, in attesa di risposte certe a queste – e molte altre – domande, è quella di spacchettare ciò che si sa del Piano e individuare le condizioni per le quali potrebbe funzionare. È in questo che si stanno cimentando le varie articolazioni della società, italiana e africana, che si aspettano di essere più coinvolte di quanto lo siano state finora nella definizione del Piano.
Che cosa ne pensano gli africani
Pochi giorni prima del vertice, infatti, la campagna Don’t gas Africa, che riunisce decine di associazioni della società civile africana, ha diffuso una lettera e un comunicato stampa@ per lamentare la mancata consultazione proprio di quelle organizzazioni che cercano di dar voce alle comunità nel continente, incluse quelle più marginalizzate. Secondo il responsabile della campagna, Dean Bhekumuzi Bhebhe, il Piano Mattei è «un simbolo delle ambizioni dell’Italia sui combustibili fossili» e «minaccia di trasformare l’Africa in un mero canale energetico per l’Europa», rinunciando a sostenere il continente in una equa transizione energetica verso le rinnovabili.
Durante il vertice, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha poi usato parole di apertura ma anche di monito: dopo aver elencato le priorità africane – agricoltura, infrastrutture, ambiente, energia, sanità, istruzione, digitalizzazione – e le difficoltà che il continente deve affrontare per realizzarle – il peso del debito, il cambiamento climatico, l’estremismo violento e il terrorismo, l’instabilità, la mancanza di finanziamenti adeguati e i gravi errori di governance – ha commentato che il Piano Mattei, «sul quale avremmo voluto essere consultati, appare coerente» con le esigenze africane. «L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità della sua attuazione», ha concluso Faki Mahmat, sottolineando però «la necessità di far corrispondere le azioni alle parole. Capirete che non possiamo accontentarci di promesse che spesso non vengono mantenute»@.
Che cosa ne pensa il mondo della cooperazione
Anche dalle parole di Ivana Borsotto, presidente della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv)@, emerge una complessiva apertura di credito nei confronti del Piano Mattei: «Che l’Africa sia messa al centro del dibattito è un fatto positivo, mai avvenuto prima, e nelle parole della presidente Meloni ci sono alcune prese di posizione importanti: ad esempio, ha riconosciuto che il nostro destino è legato intrinsecamente all’Africa e che il modello di relazione non deve essere paternalistico». Gli organismi di volontariato, sottolinea Borsotto, sostengono e praticano questo approccio da sessant’anni ed è senz’altro positivo che ora risuonino anche nel discorso della premier.
Ma ci sono delle condizioni, oggettive e misurabili, da soddisfare perché il Piano sia efficace: «La prima è che le risorse finanziarie siano adeguate e garantite nel tempo». Borsotto è anche portavoce della Campagna 070@ per innalzare allo 0,70% del prodotto nazionale lordo i fondi destinati allo sviluppo, in linea con gli impegni presi dall’Italia in sede Onu. Fa notare che nel 2022 l’Italia è arrivata a destinare lo 0,32%: circa 6,15 miliardi di euro, cioè meno della metà dei 13 miliardi necessari per raggiungere l’obiettivo.
La seconda condizione riguarda la «condivisione a livello europeo». Il Global Gateway, la strategia dell’Unione europea per sviluppare infrastrutture e servizi in tutto il mondo, ha un valore complessivo di circa 300 miliardi di euro e il suo pacchetto Africa-Europa prevede investimenti per 150 miliardi: «L’iniziativa italiana deve armonizzarsi con questi strumenti e risorse messi a disposizione dall’Ue». Considerando la scala di grandezza del piano europeo, del resto, non è pensabile che l’Italia possa risultare davvero incisiva se mira ad agire da sola.
La terza condizione è quella di «evitare il superamento operativo della legge 125/14» (che ha riformato l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, ndr): con questo, la presidente Focsiv si riferisce al fatto che il Piano Mattei prevede la creazione di una struttura di missione in capo alla presidenza del Consiglio, finanziata con 2,3 milioni di euro l’anno a partire dal 2024, che rischia di sovrapporsi all’operato dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, entità già esistente, legata al ministero degli Esteri e incaricata, appunto, di coordinare le iniziative di cooperazione.
Nel suo intervento al vertice Italia – Africa, Giorgia Meloni ha annunciato come inclusi nel Piano Mattei nove progetti pilota in Marocco, Tunisia, Algeria, Egitto, Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Repubblica del Congo e Mozambico: «Noi organizzazioni della società civile» aggiunge Ivana Borsotto, «attendiamo fiduciose anche di essere coinvolte nella definizione di questi progetti». E conclude: «La politica estera dice chi siamo e come vogliamo stare al mondo: ricordiamo allora che è la legge 125 stessa a indicare nella cooperazione allo sviluppo una parte integrante e qualificante della nostra politica estera».
Che cosa ne pensa il mondo missionario
Anche padre Giulio Albanese, missionario comboniano oggi direttore dell’ufficio per le Comunicazioni sociali e di quello per la Cooperazione missionaria tra le Chiese della diocesi di Roma, appare cauto ma possibilista: accoglie come positiva la dichiarata volontà del Piano Mattei di andare oltre l’approccio caritatevole, se con questo si intende il superamento di quella «carità pelosa» alla quale padre Giulio da anni rivolge dure critiche. Ma, constata il missionario, il piano Mattei per ora è un contenitore di buone intenzioni: occorrerà vedere come si concretizzerà e su quante risorse potrà effettivamente contare.
Riflettendo poi sull’apporto che potrebbe venire dal mondo missionario, padre Giulio ricorda che questo ha fatto «senz’altro progressi nell’allontanarsi da uno stile paternalistico e da un modello emergenziale per concentrarsi di più sullo sviluppo sostenibile». Ma resta una certa frammentazione, una difficoltà a parlare con una sola voce, e questo rischia di rendere meno efficace il contributo dei missionari nell’eventualità in cui il Governo li interpellasse per delineare i contenuti del Piano.
«È mancata una reazione compatta e incisiva da parte del mondo missionario», aggiunge padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata in servizio alla Casa generalizia di Roma. In effetti, non risulta a chi scrive che gli organismi missionari abbiano preso posizione in modo unitario e ufficiale, mentre farlo avrebbe aiutato a dimostrare che il mondo missionario è consapevole della necessità di vigilare sulla formazione delle politiche che riguardano l’Africa e si sforza di inserirsi nel dibattito per contribuire a determinarle.
Il ruolo delle imprese
Il cuore del Piano Mattei riguarderà l’ambito imprenditoriale. Questa la previsione di Mario Giro, membro della Comunità di Sant’Egidio e sottosegretario, poi viceministro, degli Esteri fra il 2013 e il 2018, riportata sul numero speciale di gennaio 2024 della rivista «Africa e Affari» dedicato al Piano Mattei@. Si tratterà, a detta dell’esperto, di soft loans, cioè prestiti a tassi agevolati rispetto a quelli di mercato, «che verranno usati tendenzialmente per le imprese come tentativi di fare equity», cioè acquisto di azioni, «e di comprare imprese o parti di imprese africane e sostenere imprese o joint venture di imprese africane».
Giro giudica «intelligente, lungimirante» da parte del Governo, lo sforzo di rafforzare le relazioni con il sempre più vivace settore privato africano: operazione che altri membri Ue portano avanti da anni. Ma non manca di porre alcune domande cruciali: «Chi applicherà la teoria? Chi acquisterà tutta o parte di un’impresa africana? […] Esistono in Italia consulenti che conoscono talmente bene l’Africa da poter segnalare per un dato Paese quali sono le dieci imprese da finanziare e quali altre invece è meglio lasciare perdere?».
Il fuoco sembrava spento. Invece si è riacceso improvvisamente e Cabo Delgado, in Mozambico, è tornato a incendiarsi. Dopo diversi mesi di relativa tranquillità, la provincia è stata teatro di una nuovi attacchi terroristici che il mese scorso, stando a stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), hanno costretto più di 99.000 persone, tra cui 61.492 bambini, ad abbandonare le proprie case. Molte aree sono tornate sotto il controllo dei miliziani islamici senza che l’esercito mozambicano e i suoi alleati, le truppe del Rwanda e quelle della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), riuscissero a contenerne l’avanzata.
Nei mesi precedenti la nuova offensiva, secondo quanto riportano gli analisti, i gruppi jihadisti hanno lavorato sul campo con le comunità locali con un’azione di indottrinamento instillando odio nei confronti del governo di Maputo che ha sempre trascurato il Nord del Paese. I jihadisti si sono poi presentati come alleati delle comunità locali acquistando anche le merci dei contadini a prezzi maggiorati.
Dopo l’uccisione in battaglia, nell’agosto 2023, di Bonomado Omar, o Ibn Omar, considerato il carismatico leader locale dei jihadisti mozambicani, in molti si erano illusi che fosse iniziata la parabola discendente del terrorismo a Cabo Delgado. I fatti stanno dimostrando che così non è stato.
Con un sostrato popolare in certe aree non ostile, i terroristi si sono riorganizzati. Fonti locali credibili indicano che si sia addirittura formato un nuovo gruppo, con base nella zona di Macomia, più giovane, dinamico e aggressivo rispetto al precedente, e per adesso non necessariamente in competizione. Sarebbe proprio questa compagine ad avere scatenato l’inferno nel corso del 2024. I suoi biglietti da visita sono distinguibili rispetto a quelli degli attacchi tradizionali: anzitutto, una chiara retorica anti cristiana.
Nel posto di blocco che hanno stabilito per entrare a Mucojo (che, secondo quanto si sa da fonti non ufficiali, starebbe ancora sotto il controllo dei jihadisti), negato veementemente dalle autorità locali, passano soltanto autisti musulmani o chi può pagare più di 50mila meticais (equivalente a circa 650 euro). I terroristi hanno addirittura condiviso nelle reti sociali una loro dichiarazione, scritta in portoghese e inglese, spiegando le regole di questo «casello» da loro controllato.
Ancora in senso anti cristiano, l’attacco del 12 febbraio a Mazeze (distretto di Chiúre, estremo sud di Cabo Delgado, al confine con la provincia di Nampula) ha visto la distruzione, oltre che del mercato e del piccolo ospedale locale, anche della chiesa e della casa del parroco. In secondo luogo, i jihadisti che hanno portato gli ultimi attacchi rivelano un’eccellente capacità di sorprendere l’avversario, fatto che dimostrerebbe un lavoro di contro intelligence di alto livello, assai preoccupante.
Il grande interrogativo che tutti, in Mozambico, si pongono, è quale sarà il futuro di Cabo Delgado e dei suoi abitanti, al netto di ciò che Total vorrà fare rispetto al suo investimento sul gas. La Missione Samim (Sadc mission in Mozambique) ha già annunciato che lascerà il paese a giugno, anche se non è da escludere un ripensamento, viste le condizioni attuali sul terreno. Il Rwanda è presente con più di duemila effettivi; certo, potrebbe ancora aumentare il numero dei suoi militari, ma il prezzo che il Mozambico dovrà pagare a Paul Kagame sarà poi altissimo. Sullo sfondo, una disponibilità russa nell’aiutare l’alleato mozambicano a debellare il nemico jihadista. La prima volta, con la Wagner, andò male, ma adesso, forse, l’esperienza potrebbe essere più positiva, per gli interessi di Mosca.
Gli Stati Uniti hanno promesso ulteriori aiuti. L’annuncio è stato fatto dall’ambasciata Usa a Maputo in una nota diffusa al termine di una visita di cinque giorni nel Paese di Anne Witkowsky, assistente segretario di Stato americano per le operazioni di stabilizzazione.
«Gli Stati Uniti intendono fornire 22 milioni di dollari in nuovi finanziamenti nel 2024, una volta avuta l’approvazione del Congresso, per aiutare il Mozambico negli sforzi di stabilizzazione nelle regioni settentrionali – si legge nella nota – con questo investimento, gli Stati Uniti avranno destinato quasi 100 milioni di dollari all’assistenza incentrata sulla stabilità nel nord del Mozambico a partire dal 2022».
Le autorità del Mozambico temono che il contrabbando di legname nella provincia di Cabo Delgado, che si stima frutti circa 1,8 milioni di euro al mese, possa finanziare le attività dei gruppi ribelli che agiscono nell’area nord orientale del Paese.
«Sebbene non vi sia traccia di legami diretti con il terrorismo, il fatto che il contrabbando di legname e di altri prodotti forestali avvenga in aree con una attiva minaccia terroristica suggerisce che questa attività sia stata una fonte di reddito per i terroristi, dal momento che si stima che il contrabbando di legname a Cabo Delgado frutti ai contrabbandieri circa 125 milioni di metical al mese», si legge nel Rapporto nazionale di valutazione del rischio di finanziamento del terrorismo, riportato dall’agenzia Lusa.
Il Regno Unito sosterrà il Mozambico con circa 10 milioni di euro per far fronte alla crisi umanitaria nella provincia settentrionale di Cabo Delgado dovuta agli attacchi terroristici, ma anche alle conseguenze negative degli eventi meteorologici estremi. È quanto riferito negli scorsi giorni da Radio France internationale (Rfi), citando l’Alto commissario britannico a Maputo, Helena Lewis, al termine di una visita di tre giorni nel nord del Paese, colpito da attacchi terroristici.
«Data la situazione con nuovi sfollati, forniremo oltre 8,3 milioni di sterline nei prossimi tre anni nel settore dell’accoglienza, della salute mentale e anche per il coordinamento della comunità internazionale, e in un settore molto importante dell’identità per rifare e offrire nuovamente i documenti di identificazione per gli sfollati», ha sottolineato Helena Lewis, ricordando che questo sostegno si aggiunge a quello dell’anno scorso: «Abbiamo già fornito più di 28 milioni di euro alla provincia di Cabo Delgado in termini di aiuti umanitari non solo in risposta agli attacchi e per gli sfollati, ma anche a causa degli eventi climatici», ha concluso.