Italia. I taxi del mare non esistono

 

«Il fatto non sussiste». Così il Gup di Trapani mette fine a un processo durato sette anni che aveva portato al sequestro della nave Iuventa e all’accusa del personale di tre Ong.

Ci sono voluti più di sette anni per assolvere gli oltre venti membri delle Ong Jugend rettet, Save the children e Medici senza frontiere accusati di favoreggiamento dell’immigrazione illegale.
Il tribunale di Trapani è finalmente giunto a una conclusione e ha negato ogni accusa, sono stati prosciolti gli imputati ed è stato ordinato il dissequestro della nave Iuventa.
Quello definito da molti come il più grande processo nei confronti delle Ong che soccorrono i migranti in mare si è chiuso con la disposizione di non luogo a procedere. Un lieto fine che, però, lascia danni irreparabili alla nave Iuventa che è stata lasciata arrugginire durante il periodo di sequestro e non potrà più salvare vite in futuro, come non ha potuto farlo per questi lunghi sette anni di processo. Un lieto fine che porta con sé anche grossi danni economici, per le Ong prima di tutto, con la perdita dell’imbarcazione e le altre spese collegate, ma anche per lo Stato, a cui il processo è costato all’incirca 3 milioni di euro.

La nave Iuventa, rovinata da salsedine e ruggine dopo anni di sequestro. Foto di Iuventa Crew.

La storia era iniziata a settembre 2016 quando tre agenti di un’agenzia privata che operavano come personale di sicurezza per la nave Vos Hestia noleggiata da Save the Children, avevano avanzato sospetti di irregolarità nelle condotte di queste Ong. Gli agenti avevano deciso prima di informare i servizi segreti, poi alcuni esponenti politici come Matteo Salvini (Lega) e Alessandro Di Battista (Movimento 5 stelle), e infine di sporgere denuncia alla polizia. Le accuse riguardavano presunti rapporti ambigui con i trafficanti con i quali le Ong si sarebbero accordate per organizzare trasferimenti di migranti.
Erano iniziate così le indagini, che sono continuate fino al 2021 e, per la prima volta, hanno portato all’udienza preliminare, iniziata a maggio 2022 e conclusa nel febbraio di quest’anno con il proscioglimento di ogni accusa.
Sull’onda delle polemiche legate a questo caso, Luigi Di Maio il 21 aprile 2017 in un post su Facebook aveva definito le Ong come «taxi del Mediterraneo», formula che da allora è diventata sempre più comune nella propaganda dei partiti di destra, in particolare la Lega, che in questi anni hanno più volte cercato di criminalizzare il ruolo e l’operato delle Ong impegnate ogni giorno a solcare il mare per salvare più vite possibile.
Sono 3.129 i migranti morti nel Mediterraneo nel 2023 secondo il progetto Missing migrants dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni (Oim): bambini, donne e uomini che forse, almeno in parte, si sarebbero potute salvare se i nostri governi avessero favorito l’operato delle Ong.
Invece la nostra politica ha scelto ancora una volta di ostacolare le loro azioni. Basti pensare al nuovo sistema di assegnazione dei porti nei quali le navi umanitarie sono autorizzate a sbarcare. Esso le obbliga a percorrere migliaia di chilometri in più perdendo tempo e soldi.
La nave Iuventa poteva essere un piccolo ma fondamentale aiuto nel salvataggio di persone in difficoltà in questi anni. È stata invece un’altra occasione mancata di umanità.

Mattia Gisola




Spese militari nel mondo. Mai così alte


Gli eserciti e l’industria delle armi festeggiano il 2023 come l’anno più positivo di sempre.
Nel mondo, infatti, la spesa militare non era mai stata tanto alta: 2.443 miliardi di dollari secondo un recente rapporto del Sipri, l’autorevole Istituto di ricerca internazionale per la Pace di Stoccolma.

Per provare a dare una misura alla cifra, basti pensare che secondo l’Unesco, in un mondo abitato da moltissimi analfabeti, nel 2020 si erano spesi 2.200 miliardi per l’istruzione; secondo l’Oms nel 2019 si erano spesi 8.600 miliardi per la salute; secondo Banca Mondiale nel 2022 il debito estero dei paesi a basso e medio reddito (una delle palle al piede di centinaia di milioni di persone) era stimato in circa 9mila miliardi.

L’aumento del 6,8% in un solo anno della spesa militare globale trova le sue ragioni nello scenario di forte instabilità internazionale.

Sembra che i governi delle grandi e piccole potenze, per affrontare le crisi e i conflitti in atto, non riescano a credere ad altro che all’aumento della propria capacità di minaccia nei confronti degli avversari.

È così che nel 2023 l’Ucraina ha aumentato la sua spesa militare del 51% rispetto all’anno precedente, dedicandole il 37% del suo Prodotto interno lordo, 64,8 miliardi di dollari, e che la Russia ha aumentato la sua spesa militare del 24% consumando 109 miliardi di dollari, il 5,9% del suo Pil.

Tra i paesi europei spicca la Polonia, che ha incrementato la sua spesa militare in un solo anno del 75%; ma anche la Finlandia (54%) e la Danimarca (39%).

Altri aumenti notevoli sono stati quelli dell’Algeria, 76%, della Turchia, 37%, di Israele, 24%.

In dieci anni, dal 2014 al 2023, la spesa militare globale è aumentata di quasi un terzo, il 27%.

Bastano i primi due Paesi nella classifica per mettere insieme la metà dell’intera spesa globale: gli Usa con 916 miliardi e la Cina con 296.

Dopo Usa e Cina, troviamo la Russia (109), l’India (83,6), l’Arabia saudita (75,8).

I successivi cinque paesi sono Regno Unito (74,9), Germania (66,8), Ucraina (64,8), Francia (61,3) e Giappone (50,2). L’Italia, con i suoi 35,5 miliardi, è al dodicesimo posto.

Il Sipri, in una nota, sottolinea che con la formula «spese militari» non s’intende la sola spesa in armamenti, ma «tutta la spesa pubblica per le forze e attività militari, compresi stipendi e benefici, spese operative, acquisto di armi e attrezzature, costruzioni, ricerca e sviluppo, amministrazione centrale, comando e supporto».

I dati raccolti dal centro di ricerca svedese mostrano un mondo diviso da profondi conflitti e pronto a esplodere. L’unico elemento di unità sembra essere la fede cieca nell’idolo della forza, quella che genera il circolo vizioso a cui stiamo assistendo: io mi armo perché tu ti armi, tu ti armi perché io mi armo, e così via.

Se fosse possibile misurare in dollari anche le vite spezzate, le sofferenze, gli sfollamenti, le distruzioni, sia materiali che culturali e spirituali, le libertà negate, la visione fosca del futuro, il conto, già esorbitante, sarebbe completamente fuori dalla capacità di calcolo delle persone comuni.

Luca Lorusso




Costa d’Avorio. Addio padre Matteo

Il missionario della Consolata italiano padre Matteo Pettinari, quarantaduenne, nato a Chiaravalle (Ancona) e cresciuto a Monte San Vito, è deceduto nel pomeriggio del 18 aprile 2024, a causa di un grave incidente stradale avvenuto a Niakara, villaggio dell’area centro nord della Costa d’Avorio, quando l’auto che lui guidava si è scontrato con un autobus di linea. Padre Matteo lascia il padre Pietro, la sorella Francesca, il fratello Marco e cinque nipoti. La mamma Roberta è mancata tre anni fa.

Il Papa Francesco, durante i saluti dopo il Regina Caeli, nella domenica del Buon Pastore (21 aprile), ha voluto ricordare la figura del missionario generoso: «Con dolore ho appreso la notizia della morte, in un incidente, di padre Matteo Pettinari, giovane missionario della Consolata in Costa d’Avorio, conosciuto come il missionario ‘instancabile’ che ha lasciato una grande testimonianza di generoso servizio» – ha detto il Pontefice, invitando a pregare per la sua anima.

Un missionario con lo spirito dell’Allamano
Sul terribile incidente che ha causato la morte di padre Matteo, preziosa è la testimonianza di padre Stefano Camerlengo che, dopo aver terminato il suo mandato come Superiore Generale, era stato destinato, pochi mesi fa, alla Costa d’Avorio e proprio con padre Matteo erano insieme responsabili della parrocchia di Dianra.
In un messaggio ha condiviso con noi quegli ultimi momenti vissuti insieme a padre Matteo. «Davanti a una persona giovane, buona e un missionario instancabile, come ha detto il Papa Francesco, non ci sono altre parole da aggiungere. Uno vuole vivere questo momento nel silenzio, come ho detto questa mattina alla nostra gente in chiesa; silenzio nella comunione tra di noi, nella fraternità e nella preghiera», dice padre Stefano e poi racconta cosa era successo giovedì 18 aprile, quando padre Matteo ha avuto il tragico incidente, sulla strada che, attraversando il Paese, collega il Nord con la capitale Abidjan, sulla costa atlantica.
«Di fronte a un triste evento come questo cosa impariamo? – si chiede padre Stefano -. Sono situazioni che non hanno risposta e che capiremo solo quando saremo con il Signore. Abbiamo davanti una persona buona e generosa che si è donata, un missionario della Consolata con lo spirito dell’Allamano: amore e passione per la gente, voglia di promozione umana per fare crescere le persone; oltre a una grande intelligenza che gli ha permesso di essere aperto a tutti e amico di tutti. Celebriamo la morte di un uomo che, come buon pastore, si è speso per le sue pecore che conosceva, con la preoccupazione anche per quelle che non stavano nell’ovile e le cercava. Credo che questo sia il ricordo più bello di padre Matteo».
«In comunione fraterna, preghiamo il Signore per il suo riposo eterno e che, per intercessione della Madonna della Consolata, conceda a noi e alla sua famiglia consolazione e pace. Imploriamo per lui dalla misericordia di Dio la luce della Risurrezione» – si legge nella nota pubblicata venerdì 19 aprile dal Superiore generale, padre James Lengarin e dal segretario imc, padre Pedro Louro.
La notizia ha lasciato una grande tristezza per l’improvvisa scomparsa del giovane missionario, pieno di energia e molto attivo nella missione in Costa d’Avorio, dove lavorava dal 2011 e, nel 2022, era divenuto Superiore Delegato per l’Istituto. «Nel grande dolore, ci ancoriamo alla speranza della risurrezione, testimoniata in modo splendido dalla vocazione e dalla vita di Padre Matteo» – rende noto dalla Diocesi di Senigallia la sua comunità di origine con cui manteneva stretto rapporto con progetti in favore della popolazione ivoriana. Attraverso i social, aggiornava sui progressi e gli aiuti che arrivano per la missione.
«Sei volato in cielo ed ora con mamma vegliate su di noi. Il tuo ricordo sarà sempre nel mio cuore e nessuno potrà portarmelo via» – ha scritto su Facebook la sorella Francesca, postando una foto del fratello Matteo in missione, con una bimba in braccio.
Diversi mezzi di comunicazione in Italia hanno riportato notizie e messaggi di cordoglio. Un punto di riferimento era a Monte San Vito padre Matteo, a cui era molto legato e dove tutta la sua famiglia è conosciuta e apprezzata. «La comunità di Monte San Vito – ha scritto il Comune – si stringe profondamente addolorata attorno alla famiglia Pettinari per l’improvvisa perdita di Padre Matteo. Ogni iniziativa in programma verrà rinviata a data da destinarsi» – ha affermato il sindaco Thomas Cillo -. Solo una grande fede può dare spiegazioni a certi eventi e per chi rimane c’è solo immenso dolore».

Amava la preghiera e la Parola di Dio
Padre Alexander Likono, imc, che ha lavorato con padre Pettinari per 13 anni, lo definisce «un uomo di grande fede che amava veramente la preghiera e la Parola di Dio» – dice e aggiunge – «Anche se arrivava stanco, non lasciava mai il suo impegno di preghiera».
Padre Alexander racconta che insieme avevano organizzato la formazione in Costa d’Avorio, poi avevano lavorato nei centri sanitari di Marandallah e Dianra Villaggio. Padre Matteo è stato il suo Vice superiore per tre anni e recentemente erano nella stessa comunità di Dianra.
«Ricordo la sua passione e il suo entusiasmo per la missione, la sua energia e il desiderio di donarsi completamente per il regno di Dio, la salvezza e il benessere di tutte le persone. Era un vero figlio dell’Allamano e della Consolata. Abbiamo perso un missionario molto intelligente e capace di fare tante cose con precisione e ordine» – ricorda padre Alexander.
Altre caratteristiche in lui erano il dialogo e l’amicizia. «Padre Matteo era amato da tutti: dai vescovi, preti, confratelli, religiosi e religiose, autorità civili e tradizionali, dai cristiani e anche dai non cristiani. Aveva un cuore grande capace de vedere i bisogni degli altri, facendo il possibile per aiutarli. Sempre era disponibile, anche quando era stanco, o ammalato» – assicura padre Alexander.

Una chiesa per mostrare la bellezza della fede
Presenti dal 2002 nella diocesi di Odienné (Nord della Costa d’Avorio), in zona musulmana e animista, i Missionari della Consolata accompagnano oggi la crescita della Chiesa locale, arricchendola con edifici per l’istruzione e ospedali sanitari. Nel 2019, a Dianra Village è stata inaugurata la nuova chiesa parrocchiale dedicata a san Joseph Mukasa, uno dei martiri d’Uganda, nato nel 1860, martirizzato nel 1885 e proclamato santo nel 1964. Completata dopo tre anni di lavori, la chiesa è umile, ma bella e fa parte del progetto Pietra rossa. «Se qualcosa deve parlare di Dio, allora deve parlare il linguaggio di Dio, che è la comunione», aveva detto padre Pettinari all’architetto-capo del progetto di costruzione della chiesa, Daniela Giuliani. Lo raccontava lei stessa in una intervista del febbraio 2023 a L’Osservatore Romano. Parole di incoraggiamento, quelle del religioso, che sono state di grande ispirazione per l’architetto, che proviene dalla sua stessa diocesi: «Padre Matteo mi ha insegnato la via della Chiesa».
Nel Dossier sulla Costa d’Avorio, appena pubblicato sulla rivista Missioni Consolata (aprile 2024), padre Matteo così aveva raccontato la missione: «Insieme alle persone con cui condividono questa meravigliosa avventura, i missionari visitano i villaggi per l’annuncio del Vangelo, si aprono alle ricchezze delle culture che li accolgono, realizzano progetti educativi (alfabetizzazione serale e scolarizzazione) e di appoggio all’economia domestica (microcredito per donne e apicoltura). Sperimentano lo stupore della fraternità interreligiosa di cui è intessuto il loro quotidiano e, inoltre, amministrano un centro sanitario che oggi fornisce diversi servizi: dispensario, maternità, studio dentistico, laboratorio analisi, centro trasfusioni, salute mentale, accompagnamento di persone sieropositive e affette da tubercolosi, centro nutrizionale e telemedicina in cardiologia».
Proprio come desiderava il fondatore, il beato Giuseppe Allamano, i missionari «annunciano il Vangelo con opere di promozione umana». La sensibilità e lo sforzo per sviluppare un’evangelizzazione «inculturata» sono confluiti nella costruzione della chiesa di Dianra Village, secondo padre Matteo, «per dire la bellezza della fede» come spiega nel suo articolo. «Questa chiesa è un’ulteriore testimonianza fatta architettura e arte, capace di parlare della bellezza di Dio e della vita nuova in Cristo a chiunque la contempli (…). La sfida di inculturazione che abbiamo raccolto in questo spazio liturgico crediamo possa raccontare la sfida della missione stessa nel mondo».

Breve biografia
Padre Pettinari, dopo un periodo nel seminario di Ancona (Italia), era entrato nell’Istituto dei Missionari della Consolata, dove aveva concluso la sua formazione. Al termine dell’anno di noviziato a Bedizzole (BS), la professione dei voti temporanei, il 27 agosto 2006. Si era poi specializzato in teologia biblica a Madrid, in Spagna. Prima dell’ordinazione sacerdotale, dal 2007 al 2009 aveva svolto uno stage pastorale a Sago, in Costa d’Avorio, Paese che aveva mparato ad amare, scegliendolo poi, più tardi, nel servizio missionario.
Ritornato a Madrid, aveva fatto la professione perpetua l’8 dicembre 2009; ordinato diacono il 28 febbraio 2010, era diventato sacerdote l’11 settembre 2010 nella cattedrale di Senigallia. Da allora aveva trascorso 17 anni di professione religiosa e 13 di sacerdozio.
Dopo un periodo di animazione missionaria in Europa, nel 2011 era stato inviato in Costa d’Avorio, Paese che già conosceva e dove ha trascorso la maggior parte della sua vita missionaria, in particolare a Sago, San Pedro e Dianra Village.
Qualche anno fa, in un’intervista a La voce misena, periodico della diocesi di Senigallia, padre Matteo aveva detto: «Quello che l’Africa mi ha insegnato è di vivere la vita non a partire dai problemi che ci sono o che non ci sono, che potrebbero esserci o non esserci, ma dalle relazioni che, comunque e sempre, sono il sale, la gioia, la ricchezza del quotidiano. Io amo dire quando sono a Dianra – aggiungeva – che abbiamo mille problemi, ma mille e una soluzione, nel senso che le difficoltà, le crisi, la precarietà di ogni tipo non dovrebbero condizionare lo slancio con cui si affrontano le giornate».

La presenza di consolazione in Costa d’Avorio
L’Istituto della Consolata è presente in Costa d’Avorio dall’inizio del 1996. Attualmente lavorano nel Paese 14 missionari nelle diocesi di Odienne e di San Pedro e nell’archidiocesi di Abidjan. Le comunità imc sono in totale sei (San Pedro, Abidjan, Dianra, Grand-Zattry, Marandallah e Sago). La comunità formativa di specializzazione, ad Abidjan, accoglie cinque studenti professi.
L’impegno per la consolazione ha preso forma in alcune opere: la scuola primaria di Sago (2007), i centri sanitari di Marandallah (2007) e Dianra Village (2012), il microcredito per donne e apicoltura a Dianra e Marandallah (2013). A partire dal 2023, a San Pedro, funziona un Centro di Animazione e Spiritualità Missionaria, promozione vocazionale, mediazione culturale e formazione giovanile.
Padre Matteo ha partecipato attivamente a questa storia di consolazione. Nella domenica del Buon Pastore e celebrando la 61ª Giornata Mondiale di preghiera per le Vocazioni, siamo grati a Dio per il dono della sua vocazione religiosa e missionaria. Siamo anche riconoscenti alla sua famiglia per aver «regalato» un figlio alla missione della Chiesa nel mondo e per la presenza arricchente di padre Matteo nella nostra famiglia Consolata.
Il nostro «missionario instancabile» che ha creduto nella Risurrezione e nella vita eterna, e ha compiuto la sua missione come sacerdote religioso della Consolata possa contemplare in eterno la luce di Cristo Risorto e intercedere per noi.

Jaime C. Patias

Pubblicato in: www.consolata.org




Sudan. È crisi umanitaria senza precedenti

 

Un anno di guerra. Un conflitto civile senza quartiere che vede opposti l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan ai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) che fanno capo a Mohammed Hamdan Dagalo detto «Hemetti».

Il Sudan ha vissuto mesi di scontri, violenze, fughe. Le fazioni in guerra avevano originariamente stretto un’alleanza dopo la rivoluzione che nel 2019 ha portato alla caduta del dittatore sudanese Omar al-Bashir. Avevano promesso una transizione verso la democrazia, ma invece hanno rovesciato il governo civile di transizione con un secondo colpo di stato nel 2021. Gli ex alleati si sono poi divisi sui piani per una nuova transizione e sull’integrazione del gruppo ribelle Rsf nell’esercito regolare.
Dal 15 aprile 2023, l’esercito sudanese e la Rsf sono impegnati in una lotta di potere su chi potrà gestire una nazione ricca di risorse che si trova in un crocevia vitale tra Nordafrica, Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso. Alle loro spalle alleati internazionali. Arabia Saudita, Egitto e Iran sostengono l’esercito sudanese, mentre gli Emirati arabi uniti sono accusati di sostenere il leader ribelle Hemetti. Anche la Russia ? presente. I suoi mercenari sono allineati con la Rsf. Gli Stati Uniti la accusano di armare la milizia in cambio di oro di contrabbando. Gli esperti affermano che parte di queste ricchezze vengono poi impiegate per finanziare la guerra di Mosca in Ucraina.

Intanto il conflitto ha causato una grave crisi umanitaria. In un anno di scontri sono morte 14mila persone e, secondo dati Onu, 8,6 milioni di sudanesi hanno lasciato la propria casa per cercare rifugio in zone sicure, 1,8 milioni delle quali hanno trovato ospitalità all’estero. Nell’ultimo anno, 16mila rifugiati sudanesi si sono registrati all’Unhcr in Libia altri 6.500 in Tunisia. La Libia e la Tunisia sono punti di partenza per chi cerca di proseguire verso l’Europa. L’anno scorso in Italia sono stati registrati quasi seimila arrivi di sudanesi, contro i mille del 2022. I rifugiati sudanesi in Europa sono relativamente nuovi e i loro viaggi differiscono da quelli di popolazioni di rifugiati più consolidate provenienti dal Corno d’Africa, che spesso hanno legami familiari e di parentela in Europa. Questo, sottolinea Unhcr, li rende più suscettibili allo sfruttamento e agli abusi.
Uno studio condotto dalla stessa Unhcr ha individuato nelle aggressioni fisiche (30%), in sistemi fiscali illegali (24%) ed estorsioni (22%) le motivazioni principali che hanno spinto la gente a fuggire.

Chi invece non cerca rifugio in Europa, fugge nella Repubblica Centrafricana, in Ciad, Egitto, Etiopia e Sud Sudan. Quest’ultimo accoglie il maggior numero di persone, compresi migliaia di rimpatriati sud sudanesi, grandi flussi hanno investito anche il Ciad e l’Egitto. L’arrivo di migliaia di persone ogni giorno in aree di confine remote e insicure, mette a dura prova le scarse strutture e la logistica per portare gli aiuti per fornire un minimo sostegno agli arrivati.
Alla crisi degli sfollati si aggiunge quella delle strutture del Paese. Le scuole sono chiuse da un anno e meno di un terzo degli ospedali del Sudan è ancora attivo: le strutture funzionanti si occupano principalmente di curare i feriti di guerra. I blackout elettrici e le interruzioni della rete internet sono frequenti, l’accesso a medicine e beni di prima necessità è complesso ovunque. Le Nazioni Unite hanno chiesto un intervento urgente per scongiurare quella che può diventare la più grave crisi umanitaria degli ultimi anni.

Enrico Casale




Unione europea. Diritto di asilo negato

 

Un nuovo pacchetto di riforme in materia di migrazioni è stato approvato dal Parlamento europeo. In teoria vuole superare gli accordi di Dublino, in pratica non garantisce nessun aiuto ai paesi di prima accoglienza e potenzia i sistemi di esternalizzazione delle frontiere e dei respingimenti.

Il Parlamento europeo, a due mesi dalle prossime elezioni, ha approvato il nuovo «Patto su migrazione e asilo». Definito da molti come una misura storica, comprende una serie di regolamenti volti a riformare e uniformare le procedure con cui i paesi europei gestiscono i flussi migratori. Ci sono però diversi punti critici che potrebbero mettere in pericolo i diritti dei migranti.

Il dibattito si è sviluppato soprattutto intorno a due questioni fondamentali. Il primo grande tema riguarda la volontà di riformare gli accordi di Dublino per cui l’accoglienza dei migranti è responsabilità dei paesi di primo arrivo. Questo crea un grosso carico sulle spalle dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, primo fra tutti l’Italia. Il nuovo Patto propone un meccanismo che vorrebbe superare questa disparità ma che, in realtà, risolve ben poco. Con l’applicazione delle nuove regole i paesi europei sarebbero apparentemente obbligati a partecipare agli sforzi dei paesi di primo approdo definiti «sotto pressione»: potranno scegliere se accogliere una parte dei migranti oppure pagare una quota economica ad un fondo comune. Non c’è quindi nessun vero obbligo alla redistribuzione delle persone accolte.

La quota che i paesi dovranno versare per ogni mancato ricollocamento potrà essere utilizzata dall’Unione per sostenere i paesi europei sotto pressione ma anche per finanziare accordi con paesi terzi volti al contenimento delle partenze. Accordi come quelli già in atto con Libia e Tunisia che, finanziate dall’Unione europea, bloccano con la forza quanti più migranti possibili. Questo rientra in un processo di esternalizzazione delle frontiere che l’Ue porta avanti ormai da anni con lo scopo di scaricare le responsabilità dei flussi migratori su paesi terzi, facendo finta di non sapere che in questi paesi gli standard sui diritti umani sono molto più bassi e che il contenimento delle partenze si traduce spesso in atroci violenze.

Un altro punto centrale, e molto criticato, di questo patto è l’istituzione di procedure accelerate per l’esame delle richieste di asilo, che oggi richiedono diversi mesi se non anni. Con la riforma tutte le persone che arrivano da paesi ritenuti «sicuri», criterio spesso fondato su basi più politiche che fattuali, o che comunque hanno un tasso di accettazione delle richieste di asilo inferiore al 20% potranno avere risposta in massimo 12 settimane. In questo modo sarà ancora più difficile, se non impossibile, valutare la reale motivazione per cui una persona ha deciso di lasciare il proprio Paese, e il processo sommario e superficiale con cui il suo futuro sarà deciso si baserà esclusivamente sullo Stato di origine ignorando la sua storia personale. Non si avrà così il tempo di valutare se nella specifica regione interna in cui vive c’è l’influenza di gruppi criminali o terroristici, o se il suo orientamento sessuale o politico la costringono a subire vessazioni che mettono in pericolo la sua incolumità.

Il nuovo Patto comprende tante altre riforme, volte a uniformare e spesso irrigidire i processi di accoglienza, il tutto nell’ottica di un progetto definito da molti «fortezza europa» in cui i confini dell’Unione appaiono sempre più alti e sicuri. I reali risultati a cui porteranno le nuove regole saranno evidenti solo con il tempo, ma nell’attesa di poterli giudicare è utile ricordare che questo approccio portato avanti ormai da diversi anni non ha mai ottenuto i risultati sperati di ridurre i flussi migratori, le rotte si sono via via adattate, diventando solo più pericolose per le vite che le percorrono.

Mattia Gisola




Brasile. Ailton Krenak, oltre il silenzio e l’invisibilità

Da 84 anni, il mese di aprile è dedicato alla celebrazione dei popoli indigeni dell’America Latina. Quest’anno, però, per quelli del Brasile, la ricorrenza dell’Abril indígena assume un significato particolare, essendo stata segnata da due avvenimenti di portata storica.

Il 10 aprile scorso, Davi Kopenawa, leader e sciamano noto a livello internazionale, ha incontrato papa Francesco per chiedergli di unire i suoi sforzi a quelli del presidente Lula per contrastare la minaccia che ancora oggi incombe sul destino del suo popolo, gli Yanomami, rappresentata dalla nuova ondata di cercatori d’oro che si riversano nel territorio a loro riconosciuto nel 1992.

Qualche giorno prima, il leader indigeno e ambientalista Ailton Alves Lacerda (1953), del popolo Krenak (di qui il nome Ailton Krenak), era stato insignito dall’«Accademia brasiliana delle lettere» del titolo di «immortale» (riservato ad accademici illustri) divenendo il primo scrittore indigeno a insediarsi nella prestigiosa istituzione brasiliana.

Già sul finire degli anni Ottanta, Krenak, tra i promotori del movimento indigeno, era stato protagonista di un altro atto di grande valore simbolico: durante i lavori dell’Assemblea nazionale costituente di cui era partecipante – in segno di lutto e protesta – si era dipinto il viso di jenipapo (frutto che rilascia una tinta scura utilizzata in diverse culture per la pittura corporale) per mobilitare l’opinione pubblica e i parlamentari affinché approvassero i due articoli della Costituzione (varata poi nel 1988) che riconoscono gli indigeni come cittadini brasiliani e il loro diritto a vivere sulle terre da essi tradizionalmente occupate secondo la propria cultura.

Divenuto un leader riconosciuto e affermato a livello nazionale fin dalla giovane età, non ha mai smesso di denunciare i soprusi e le violenze che, dall’inizio del XX° secolo fino al periodo della dittatura militare (1964-1985), hanno segnato in modo indelebile la sua storia personale e quella del suo popolo.

Dal 1940, con l’espansione dell’industria mineraria nel Minas Gerais a opera della compagnia «Vale do Rio Doce» (Valle del fiume Dolce), il territorio krenak è attraversato da una linea ferroviaria per il trasporto dei minerali destinati all’esportazione. Da quel momento, la vita degli indigeni krenak cambiò per sempre: il contatto con gli operai provocò la diffusione di malattie e l’ambiente fu completamente stravolto: «Le nostre montagne – scrive Krenak – si sono trasformate in merce da trasportare su treni e vagoni».

Considerati un intralcio allo sviluppo, i Krenak, che già allora erano un popolo di poche decine di persone (oggi sono circa 500), furono successivamente espulsi dalla terra d’origine e segregati (tra il 1969 e il 1972) in un luogo conosciuto come il «Riformatorio». Krenak, che fu deportato in questa struttura gestita dalla polizia militare quando era ancora un ragazzo per essere «rieducato», non esita a definirla un «campo di concentramento». Solo dal 1980 in poi, dopo un’altra serie di deportazioni, i Krenak riconquistarono il proprio territorio.

Nel 2015, una nuova tragedia si abbattè sul piccolo popolo indigeno: il cedimento della diga di contenimento di una impresa sussidiaria della Vale, provocò lo sversamento nel fiume di residui tossici derivanti dell’estrazione dei minerali ferrosi. Ailton Krenak sentì l’urgenza di denunciare il disastro ambientale che aveva determinato la morte del rio Doce o «Watu», cioè «nostro nonno» in lingua krenak, che era «entrato in coma».

Nella sua lunga frequentazione del mondo del bianco, Krenak ha compreso che è necessario traslare la potenza della lingua nella scrittura – «la scrittura dell’oralità» – attraverso la quale è possibile veicolare all’esterno il discorso e le rivendicazioni dei popoli indigeni.

Anche come reazione all’ennesimo trauma vissuto dal suo popolo, tra il 2019 e il 2022 ha scritto una serie di saggi che, in poco tempo, sono diventati dei veri e propri best sellers, tradotti in diciannove paesi: Ideias para Adiar o Fim do Mundo (2019), A vida não é util e O amanhã não está à venda (2020) e Futuro ancestral (2022).

Nel suo discorso di investitura all’Accademia brasiliana delle lettere, Krenak ha dichiarato che con lui entrano nell’istituzione oltre 300 popoli indigeni – più precisamente 305 -, e ha reso omaggio non alla «lusofonia» ma alla «sinfonia» delle oltre 200 lingue native che rappresentano la diversità culturale del Brasile.

Come l’indio «sceso da una stella colorata, brillante» di cui canta Caetano Veloso, Krenak, nell’uniforme verde e oro dei sovrani colonizzatori, ma con il capo cinto da una bandana del popolo Huni kuin – «gli uomini veri» dell’Acre (ai quali è legato da vincoli di parentela e di storia) -, è atterrato sul palcoscenico della Storia per riscattare i popoli indigeni dal silenzio e dall’invisibilità a cui sono stati relegati per oltre 500 anni e per riconnetterci con la nostra ancestralità, senza la quale non può esserci futuro.

Silvia Zaccaria

 




Cina. Armi: più export e meno import

Una Sviluppato dalla statale Aviation industry corporation of China (Avic), il jet è un aereo monoposto, bimotore, per caratteristiche paragonabile – del colosso della difesa americana Lockheed Martin. Non solo la tecnologia stealth consente ai velivoli di individuare prima gli avversari e lanciare attacchi a sorpresa. Secondo Wei Dongxu, esperto militare citato dal South China morning post, gli FC-31 possono trasportare un’ampia selezione di munizioni, fino a due missili aria-superficie o tre missili aria-aria, oltre a diverse bombe a guida laser.

L’acquisto allunga la lista della spesa di Islamabad e consolida la posizione della Cina tra gli esportatori di armi globali. A confermarlo è l’ultimo rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), stando al quale, nel periodo 2019-23 la Cina ha venduto armi a 40 stati: con una quota dell’export globale del 5,8%, il gigante asiatico si è posizionato di nuovo al quarto posto nella classifica mondiale, sebbene il volume delle vendite sia leggermente inferiore al quinquennio precedente.

Il primo acquirente è proprio il Pakistan, che da solo ha assorbito il 61% delle esportazioni cinesi, seguito da Bangladesh (11%) e Thailandia (6%). Il dato è particolarmente visibile nell’Africa subsahariana. Qui, nel periodo preso in esame, la Cina ha ottenuto una quota del 19% delle importazioni di armi, superando – anche se di poco – la Russia, ferma al 17%. Numeri che rendono la Repubblica popolare il nuovo fornitore numero uno, sebbene Mosca detenga ancora il primato nel continente, se al conto si aggiunge il Nord Africa (24%). Tendenza che, oltre ad essere trainata dalla ricerca di profitti, sembra in parte guidata dalla necessità di armare e stabilizzare i paesi dove la Cina ha investito più massicciamente. Non a caso tra gli ultimi accordi spiccano forniture di attrezzature militari allo Zimbabwe, ricco di miniere di litio.

Contestualmente, secondo lo studio del Sipri, la «non c’è stata una spaccatura politica tra Ucraina e Cina in grado di impattare le relazioni militari». Il motivo, secondo l’organizzazione con base a Stoccolma, è che la Russia non può sostituire completamente l’Ucraina, paese da cui anche Mosca ha storicamente attinto per ottenere attrezzature navali e aeree. Ma il vero ostacolo resta la produzione di aerei: nonostante i progressi nel settore dei motori, Pechino dovrà continuare a importare aeromobili ad elica dalla Russia o a costruirli su licenza con la Francia.

La Repubblica popolare costituisce un po’ un’eccezione in Asia, la regione in assoluto dove lo shopping di armi è aumentato più drasticamente. Secondo il Sipri, negli ultimi cinque anni, India, Pakistan, Giappone, Australia, Corea del Sud si sono classificati tra i primi dieci importatori su scala globale. Il primato delle importazioni globali di armi lo detiene Nuova Delhi, che fronteggiando perennemente il rischio di un conflitto con Islamabad e Pechino, ha aumentato la spesa del 9,8% rispetto al 9,1% del lustro precedente. Almeno in parte, sempre il fattore Cina sembra giustificare la sostenuta crescita dell’arsenale di Giappone e Corea del Sud: i due paesi asiatici hanno incrementato la quota degli acquisti militari rispettivamente del +155% e +6,5%. Complice la minaccia nordcoreana.

Non serve troppa immaginazione per capire da chi si siano riforniti: gli Stati Uniti – che muovono i fili delle alleanze regionali – sono stati la principale fonte di armi per entrambi i paesi asiatici. Con una crescita del 17%, Washington ha raggiunto il 42% delle vendite mondiali: sono ben 107 gli stati ad aver ottenuto attrezzature americane tra il 2019 e il 2023. A gennaio il Tokyo si è impegnato ad acquistare 400 missili da crociera Tomahawk, con capacità di contrattacco in territorio nemico. Ai sensi dell’accordo, il Sol Levante sosterrà un esborso di circa 254 miliardi di yen (1,6 miliardi di dollari), per i missili e le attrezzature correlate, su un periodo di tre anni a partire dall’anno fiscale 2025.

Alessandra Colarizi




Senegal. Il più giovane dei presidenti

 

È Bassirou Diomaye Faye, il nuovo presidente del Senegal. Ha prestato giuramento ed è entrato in carica lo scorso 2 aprile. A 44 anni è il più giovane presidente senegalese di sempre, non ha mai avuto cariche elettive ed era praticamente sconosciuto. Funzionario di alto livello del servizio delle imposte, antisistema e panafricanista è noto come persona rigorosa e gran lavoratore.

Faye ha passato gli ultimi undici mesi in prigione sotto l’accusa di oltraggio a un magistrato per un post su Facebook (alla quale si sono aggiunte quelle più gravi per attentato alla sicurezza dello Stato e incitamento all’insurrezione), per uscirne il 14 marzo, grazie all’amnistia pre elettorale. Come lui, anche molti altri oppositori, incarcerati con pretesti nei mesi scorsi, attraversati da tensioni per il processo elettorale, nel goffo tentativo del presidente Macky Sall di restare al potere. Primo fra tutti Ousmane Sonko, fondatore (insieme a Faye) e leader del partito Pastef (Patrioti africani del Senegal, per il lavoro, l’etica e la fraternità), principale oppositore del presidente uscente. Sonko, dato vincente da tutti i sondaggi, era stato condannato e il Pastef sciolto nel luglio dello scorso anno. Bassirou Diomaye Faye è quindi stato scelto come piano B, in sostituzione di Sonko, e ha vinto al primo turno con il 54,28% dei voti.

«Il nuovo presidente del Senegal è un uomo di sani principi, rigoroso, che non parla molto, ed è molto rispettoso delle leggi del paese. Speriamo che saprà fare del Senegal un paese emergente», ci dice il giornalista Ama Dieng, contattato telefonicamente, senza nascondere un certo entusiasmo.
Il giorno dell’investitura, il neo presidente ha subito nominato primo ministro lo stesso Ousmane Sonko. I due si trovano oggi ai vertici del paese: insieme avevano elaborato un programma di sviluppo per il Senegal, che ora hanno la possibilità di provare a realizzare.
Tale ambizioso programma prevede, ha ricordato Faye: più giustizia, meno corruzione, una migliore ripartizione delle ricchezze, più equità nelle relazioni internazionali, la lotta all’iper presidenzialismo, la sovranità economica e la riforma monetaria.

Sonko, dopo la nomina ha dichiarato, tra l’altro: «Alla testa della squadra che stiamo per formare, daremo tutto quello che abbiamo e non risparmieremo nessuno sforzo per raggiungere quello che abbiamo promesso al popolo senegalese, ovvero la rottura (con i governi del passato, ndr), il progresso e il cambiamento definitivo nel giusto senso».
E il primo ministro la squadra l’ha formata rapidamente. È composta di 25 ministri (dieci in meno del precedente governo) e cinque sottosegretari. Tra i punti critici della nuova compagine, si segnala la presenza di solo quattro donne, e ben due generali (alla difesa e all’interno). Il 9 aprile si è tenuto il primo Consiglio dei ministri, per una prima conoscenza, mentre il passaggio di consegne è ancora in corso nei diversi dicasteri.
Oltre ad alcuni membri del Pastef in ministeri di peso, fanno parte del nuovo governo diverse personalità della società civile poco conosciute, e quasi tutti ministri alle prime armi. Resta da capire se effettivamente si tratta di un governo di unità e vicino alla popolazione, come Sonko ha promesso.
«Abbiamo questo duo al potere, nel quale Faye è il capo di Sonko nel governo, ma nel partito è il contrario – ci ricorda Ama Dieng -. Un coppia sulla quale abbiamo molte speranze e pensiamo davvero che cambieranno le cose, perché la popolazione ha bisogno di cambiamento, e lo ha dimostrato con il voto, con la schiacciante vittoria al primo turno del candidato dell’opposizione».

Marco Bello




Vaticano. Salvare l’Amazzonia per salvare il Pianeta

Davi Kopenawa, lo sciamano e portavoce del popolo Yanomami, ha lasciato la grande casa collettiva nell’Amazzonia brasiliana con una missione importante: portare l’appello dei popoli della foresta agli abitanti della foresta di pietra. «L’uomo bianco delle merci non ci ascolta. Abbiamo bisogno di lanciare le parole come una freccia per toccare il cuore della società non indigena», dice Kopenawa, sapendo bene che chi comanda non ascolta.

Nella sua agenda in Italia, mercoledì 10 aprile, a Roma, il leader indigeno noto a livello internazionale per il suo impegno nella protezione dell’Amazzonia si è incontrato in privato con Papa Francesco, un alleato importante. «Ho chiesto al Papa di aiutare il presidente Lula a rimuovere tutti gli invasori, i cercatori d’oro (garimpeiros) e gli sfruttatori delle terre indigene», spiega Davi ai giornalisti rivelando di aver scritto una lettera a Francisco nel 2020 e che da tempo desiderava parlare con lui.

A questo incontro – avvenuto grazie alla collaborazione con il vaticanista Raffaele Luise  -, Kopenawa è stato accompagnato da fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata a Roraima, in Brasile, suo amico e braccio destro da 50 anni, responsabile assieme alla fotografa e attivista Claudia Andujar della campagna per il riconoscimento del territorio Yanomami nel lontano 1979.

Carlo Zacquini, Davi Kopenawa Yanomami e Raffaele Luise.

David ha già dimostrato in diverse occasioni la sua profonda conoscenza delle minacce per l’intera umanità: salvaguardare la foresta e i suoi abitanti è fondamentale per garantire l’esistenza stessa della nostra Casa comune. Tra le maggiori minacce per i territori indigeni, Kopenawa elenca la contaminazione dell’acqua per l’uso criminale del mercurio (per separare l’oro dal resto, ndr) da parte dei minatori; l’ingresso di allevatori di bestiame con l’appoggio dei governi di tutto il mondo che comprano carne, così come l’espansione della coltivazione della soia sotto la pressione della Cina che ne richiede sempre di più. «La foresta brucia, la terra si esaurisce, gli uccelli, gli animali, i pesci muoiono e il nostro popolo si ammala. Forse qui voi siete protetti da questo, ma ci sono altre malattie», avverte lo sciamano.

Davi Kopenawa ritiene che il nuovo ministero dei Popoli indigeni e la Fondazione nazionale dei popoli indigeni (Funai), entrambi diretti per la prima volta da due donne indigene, Sonia Guajajara e Joenia Wapichana, «hanno bisogno di risorse per proteggere il popolo Yanomami, costruire posti di sorveglianza e per delimitare e riconoscere le terre indigene». Negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, le risorse sono state tagliate, rendendo impossibile il lavoro.

Il popolo Yanomami conta circa 42mila persone, tra Brasile e Venezuela. Si stima che nel 2023 fossero oltre 20mila i garimpeiros nelle loro terre. Entrano illegalmente nella foresta, tagliano alberi, scavano buche enormi, usano pompe idrauliche, avvelenano i fiumi.

All’inizio dell’anno 2024, sono state diffuse immagini dove si vedevano bambini yanomami malnutriti, uguali o addirittura peggiori di quelle del 2023. Poco più di un anno dopo l’azione delle forze federali brasiliane la Terra yanomami affronta ancora la crisi dell’estrazione mineraria illegale, della fame e della salute. Finora tutto è stato vano. «Molte volte abbiamo richiesto di rimuovere gli invasori dalle nostre terre, di prevenire la deforestazione e l’inquinamento dei fiumi, ma non ci ascoltano perché non sono nostri “parenti” (indigeni come noi, ndr). Abbiamo pochi amici. I politici ascoltano solo la voce del denaro, del mercato. Papa Francesco è diverso. Lui è figlio di Dio e non può mentire. Come leader, non può promettere e non fare», dichiara Davi mostrandosi fiducioso.

Nella lotta per la protezione del Pianeta, la sintonia tra Davi Kopenawa e il Papa Francesco è grande. Ricordando che il Pontefice nel 2015, nell’enciclica Laudato si’ affermava: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie, costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (LS 23). La preoccupazione con la cura del Creato da parte di Francesco è stata anche dimostrata con la realizzazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 e nei suoi vari interventi e documenti.

Il leader Yanomani apprezza lo sforzo di Francesco, ma osserva che «molte persone sono contro la protezione dell’ambiente perché i grandi imprenditori non vogliono sentire quello che lui dice sulla foresta amazzonica, che è in grave pericolo. Loro cercano le ricchezze. Noi siamo per l’ambiente. Se non fosse per gli indigeni, la foresta non ci sarebbe più. Noi Yanomami ci prendiamo cura del polmone del pianeta. Ma questo ai politici, ai fazendeiros, ai garimpeiros non interessa. E l’esercito li sostiene. Dicono che la Terra indigena yanomami (Tiy) sia troppo grande per pochi indigeni, ma non si rendono conto che noi stiamo proteggendo l’intero pianeta».

La Tiy include un’area estesa oltre 9 milioni di ettari nel Nord del Brasile. In questa regione, i fiumi sono preziosi canali di comunicazione che uniscono le diverse comunità. Fu a monte del fiume che i missionari della Consolata italiani, Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi fondarono, nel 1965, la Missione Catrimani, a 250 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Nel corso degli anni, la coesistenza di Yanomami con i missionari ha contribuito a rafforzare un modello di missione basata sul rispetto e il dialogo, nella difesa della vita, della cultura, del territorio e della foresta. Tre missionari e quattro missionarie della Consolata sono attualmente impegnati nella Missione Catrimani. Mentre, da Boa Vista, all’età di 87 anni, fratel Carlo Zacquini, instancabile, continua a sostenere la causa di Davi Kopenawa, degli Yanomami e della foresta amazzonica.

Jaime Carlos Patias




Italia. Un Ramadàn di polemiche

Con circa tre milioni di persone, i musulmani d’Italia costituiscono la seconda comunità religiosa dopo quella cattolica. Anche loro – al pari di tutti i fedeli islamici del mondo – hanno rispettato il mese del Ramadàn, che quest’anno è caduto tra il 10 marzo e il 9 aprile. Durante questo mese, dall’alba al tramonto, è fatto obbligo ai musulmani di astenersi da cibi, bevande e rapporti sessuali. Il primo giorno dopo il Ramadàn si tiene l’«Eid al-fitr» (ci sono diverse traslitterazioni dall’arabo), la festa di rottura del digiuno, quest’anno celebrata dal 10 aprile e per tre giorni.

In Italia, le polemiche attorno alla ricorrenza islamica sono state copiose e hanno coinvolto politici e mezzi di comunicazione, evidenziando ancora una volta le difficoltà del Paese ad accettare la convivenza con culture diverse. I casi più eclatanti sono scoppiati a Pioltello (Milano), Renate (Monza) e Monfalcone (Gorizia).

A Pioltello, involontario protagonista della polemica è stato l’Istituto comprensivo statale Iqbal Masih, un istituto che, sul proprio sito, si presenta con queste parole: «La scuola si propone di garantire il successo formativo a tutte le alunne e gli alunni secondo il principio guida di Don Milani “Non uno di meno!”. Coordinate valoriali chiave per la realizzazione di tale ideale sono: l’equità dei percorsi e degli esiti, l’inclusività dei modelli, la flessibilità delle pratiche, la partecipazione attiva della comunità scolastica». A marzo, una delibera del consiglio d’istituto ha deciso di chiudere la scuola nella giornata del 10 aprile 2024, in coincidenza con la festa di fine Ramadàn, prevedendo un «altissimo tasso di assenza» tra i molti alunni di fede islamica (circa il 40 per cento del totale). Insomma, una misura di buon senso assunta in conformità alle proprie prerogative in materia di calendario scolastico. Invece, la polemica è subito divampata con titoli infuocati da parte di alcune trasmissioni televisive (Fuori dal coro su Rete 4, ad esempio) e di alcuni quotidiani (la Verità e Libero, in primis). «È una pessima iniziativa. Non dobbiamo indietreggiare sui nostri valori, sui valori dell’Occidente» ha sentenziato la ministra Daniela Santanchè. Mentre il presidente Mattarella e la Curia di Milano hanno espresso solidarietà alla scuola.

Non troppo lontano da Pioltello, a Renate, don Claudio Borghi ha concesso la disponibilità del cortile dell’oratorio per una cena (gratuita e aperta a tutti) di Ramadàn, anche qui generando una sequela di polemiche. Più a Nord, a Monfalcone, la sindaca leghista Anna Maria Cisint ha scelto, invece, lo scontro con la folta comunità islamica della città alla quale – a fine 2023 – aveva imposto la chiusura dei due centri che fungevano da moschea. Anche in questo caso sono stati due esponenti della locale Chiesa cattolica don Flavio Zanettie don Paolo Zuttion – a intervenire per difendere la libertà di culto. Mentre, in occasione del Ramadàn, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia, ha inviato un messaggio di auguri alle comunità islamiche cittadine.

Nel frattempo, da poche settimane è in vendita un libro-intervista della prima cittadina di Monfalcone con la prefazione del ministro Matteo Salvini. Il titolo è molto esplicativo: «Ora basta. Immigrazione, islamizzazione, sottomissione».

Paolo Moiola