Marocco. Il pane brucia

Reportage dal paese del Maghreb

Donne con il velo integrale a Ourika, cittadina nella provncia di Al Haouz, la più colpita dal terremoto del 2023. Foto Silvia Zaccaria.
Marocco
Silvia Zaccaria

C’è una siccità che brucia i campi e l’esistenza delle persone. C’è stato il terremoto più devastante nella storia del Paese. Non c’è lavoro né futuro per i giovani. Ecco perché quasi tutti cercano di fuggire all’estero. Costi quel che costi.

Ouled Kichou. È un piccolo villaggio agricolo nei dintorni di Beni Mellal, capoluogo dell’omonima regione del Marocco centrale, tra le più colpite dalla siccità che sta mettendo in ginocchio il Paese. Dal minareto di una moschea, udiamo un muezzin dalla voce sgraziata richiamare gli abitanti alla preghiera dell’alba (salat-al-fajr).

La gente del posto rimpiange il suo predecessore che si cimentava in virtuosismi canori – prima si diventava muezzin per fede, e non per lo stipendio, seppur modesto, che attualmente ricevono – e il tempo in cui l’acqua, che scendeva abbondante dalla diga di Ben Ouidan (realizzata dai francesi nel 1955), sull’antistante catena dell’Atlante, rendeva fertile la terra e nei campi c’era lavoro.

Una spianata con alberi di olivo secchi e il sidr che avanza. Foto Silvia Zaccaria.

Una siccità mai vista e l’abbandono dei campi

A Ouled Kichou oggi manca anche l’acqua potabile e la quotidianità è fatta di donne e bambini che si alternano davanti alle poche cisterne allestite nel douar («villaggio» in darija, il dialetto marocchino). I campi sono quasi abbandonati e il sidr, albero del deserto citato nel Corano (chiamato «spina-christi» da ebrei e cristiani che l’associano alla corona di spine di Cristo), sembra tornare ad avere la meglio sugli ulivi centenari, in uno scenario apocalittico che un anziano descrive come il «giudizio universale».

I pochi che hanno risorse economiche provano a scavare un pozzo profondo almeno cento metri ma non è detto che si trovi la falda. Per questo si affidano ancora ai poteri divinatori del moul Al ouidet (letteralmente «il padrone delle bacchette di legno»), il rabdomante.

Qualcun altro presagisce il ritorno delle piaghe d’Egitto e sette anni di carestia.

In effetti i segni ci sarebbero tutti, visto anche il terremoto devastante, il più forte della storia del Paese, che nel settembre dello scorso anno ha colpito la provincia di Al Haouz e il suo capoluogo Marrakech, provocando almeno 2.900 morti (il bilancio non è ancora definitivo).

La zona dell’epicentro, svantaggiata dal punto di vista geografico ed economico, era nota per ospitare siti con una forte connotazione culturale e spirituale, come Tinmel, antica capitale della dinastia amazigh (berbera) degli Almohadi, e il mausoleo di Moulay Ibrahim, un santo locale.

A Tinmel, oltre al villaggio, è stata distrutta anche la moschea risalente all’XI secolo e appena ristrutturata, mentre il santuario, meta di pellegrinaggio e luogo di ricovero per persone con disturbi psichiatrici, è stato gravemente danneggiato.

Due testimoni di Ijoukak, uno dei villaggi lungo la strada R203, tornata solo da poco percorribile, raccontano: «Il terremoto è venuto a darci la caccia», paragonando il boato che ha preceduto la prima scossa al rumore sordo provocato dagli spari dei cacciatori.

Malgrado la perdita di familiari, compaesani e di tutti i propri beni, malgrado i contributi ricevuti siano modesti (le indennità statali ammontano a 14mila euro per chi ha perso la casa e a 4mila euro per chi ha subito danni, più 250 euro mensili per un anno elargiti, secondo alcuni testimoni, in modo casuale), questa gente di montagna, in tende adibite anche a scuole e moschee (solo alcuni villaggi hanno ricevuto container), resiste grazie a una fede incrollabile e alla solidarietà dei cittadini accorsi da ogni angolo del Paese.

C’è anche chi grida al miracolo. Uicha («piccola Aïcha») è uscita illesa dal crollo del mausoleo di Moulay Ibrahim; la bottega di Baha, lo speziale, è rimasta intatta. Si dice che a Tajghaout si sia salvato solo l’imam.

Inoltre, il sisma ha innescato un fenomeno geologico straordinario: con la frattura e lo spostamento delle rocce, le acque sotterranee hanno trovato nuovi spazi per fluire e salire in superficie e così in diversi luoghi, compreso l’epicentro, Ighil, dalle montagne anch’esse asciutte per l’assenza di pioggia e neve, sono sgorgate sorgenti d’acqua pura che gli abitanti hanno interpretato come una benedizione.

Tendopoli allestita dalla Protezione civile nel pressi di Ighil, epicentro del sisma. Foto Silvia Zaccaria.

Calamità presenti e future

Il presente è grigio: scarsità d’acqua, post terremoto da gestire, aumento dei prezzi, sistema sanitario e scolastico a pezzi (da settembre è in corso uno sciopero dei maestri a contratto), disoccupazione, soprattutto giovanile (15-24 anni), ai massimi storici (38,25% nelle zone rurali e 49,7% in quelle urbane). E il futuro all’orizzonte è ancora più fosco: lunghi periodi di siccità e conseguente avanzata della desertificazione. Per questo non sorprende che la gente comune paragoni le calamità, naturali e non, che stanno colpendo il Paese a quelle bibliche. Ma è l’ultima delle piaghe d’Egitto, la morte dei primogeniti maschi, quella che più si presta a una lettura attualizzata se messa in relazione con l’esodo dei più giovani che, intraprendendo il viaggio migratorio lungo rotte sempre più pericolose, accettano implicitamente il rischio di morire.

D’altronde un detto popolare recita «il pane brucia» (kkubz hār in darija) e per guadagnarselo bisogna soffrire, mettendo anche a repentaglio la vita.

I giovani in fuga, una scelta obbligata

Nei villaggi non si parla di altro. Della pioggia che non arriva, delle preghiere nelle moschee per invocarla, e dei giovani che vanno via. Solo Ouled Kichou, villaggio con una popolazione stimata di duemila persone, negli ultimi sei mesi ne sono partiti più di sessanta, tutti tra i ventiquattro e i trent’anni. Un primo gruppo, composto da una quarantina di persone, è arrivato a destinazione (l’Italia). Il secondo, composto da ventiquattro, ha avuto meno fortuna: quattro hanno desistito lungo il viaggio, diciassette sono stati rimpatriati. Tre, avendo in mano dei passaporti falsi, sono bloccati in Turchia.

Scartata la rotta del Mediterraneo orientale (dopo l’intensificazione dei respingimenti in mare da parte della Grecia dal 2019) e quella del Mediterraneo occidentale verso la Spagna, vista l’ulteriore stretta del Marocco nel controllo delle frontiere a seguito della nuova pioggia di finanziamenti europei (500 milioni di euro, stanziati dopo la tragedia – era il 22 giugno 2022 – a Melilla in cui morirono 37 persone), sempre più marocchini tentano – assieme a iracheni, afghani, pachistani, bengalesi, siriani e palestinesi – la rotta balcanica.

Arrivati con l’aereo in Turchia (per i marocchini non c’è l’obbligo di visto), i migranti devono attraversare ben sette frontiere: turco-bulgara, serba, bosniaca, croata e slovena-italiana.

Raggiungere la prima, con la Bulgaria, è la parte più difficile e rischiosa. Quelli più fortunati sono accompagnati in auto a pochi km dal confine anche se poi è difficile superarlo per via della border police che non esita a impiegare armi da fuoco, cani e mazze da baseball e a denudare le persone.

Altri, come il gruppo dei 24 di Ouled Kichou, sono lasciati anche a decine di km di distanza. Devono dunque proseguire a piedi, nei boschi, guidati da un rehber («guida», in turco).

Il rehber – come il ra’ìs, il capitano o «scafista» che guida la barca sulla rotta mediterranea – è un connazionale, spesso coetaneo che, dopo vari tentativi, conosce i punti di controllo e di incontro per essere presi in consegna dal successivo gruppo di trafficanti. Se riuscirà a passare, non dovrà pagare nulla (secondo le testimonianze, il viaggio può costare sino a ottomila euro).

Mentre si attraversa il bosco si può, inoltre, cadere nelle imboscate di banditi curdi che estorcono denaro, anche sotto forma di riscatto.

Due anziani di Ouled Kichou davanti alla macelleria del paese, distrutta e abbandonata. Foto Silvia Zaccaria.

L’odissea di chi fugge

Se si viene intercettati dalla polizia turca, si viene condotti in centri di detenzione amministrativa (sarebbero almeno 30, secondo asylumineurope.org), gestiti dalla Direzione generale per la gestione della migrazione, dove attendono – per un tempo indefinito – il rimpatrio.

I giovani rimpatriati che abbiamo intervistato a Ouled Kichou, sono stati portati nel centro di Kirklareli, al «Pehlivanköy Reception and Removal Centre».

Finanziato nel 2011 all’85% da fondi europei, per accogliere 750 richiedenti asilo, in seguito dell’accordo Turchia-Ue del 2016, esso è stato trasformato in centro per il rimpatrio che ospiterebbe circa 5mila persone. I testimoni lo descrivono come una vera e propria prigione: i cellulari vengono sequestrati, non si può uscire e non possono entrare organizzazioni umanitarie o legali.

«Nel centro – raccontano i giovani – si dorme almeno in otto per stanza. Non ci sono interpreti o mediatori per cui puoi ottenere informazioni sulla tua situazione solo tramite connazionali che stanno lì da tempo. Abbiamo visto anche persone con le gambe in cancrena per il freddo o lacerate dai morsi dei cani o doloranti per i lividi provocati dalle bastonate, non ricevere assistenza medica adeguata. Ci sono anche delle celle sottoterra e ci hanno detto che lì sono detenuti i terroristi».

Uicha, sopravvissuta al crollo del santuario di Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.

Il sogno europeo resiste

Per coloro che sono stati rimpatriati, la legge marocchina prevede che non possano lasciare il Paese per cinque anni. I giovani di Ouled Kichou però non vogliono mollare.

Seppur nessuno si sogna di intraprendere una seconda volta il viaggio lungo la rotta balcanica, qualcuno come Y., che di tentativi via terra e via mare ne ha già fatti una decina, sta già pensando ad altre vie di fuga: «Magari la prossima volta prendo un biglietto per il Brasile. Poi nello scalo esco e scappo». Per qualcuno non sono che degli incoscienti, per altri degli eroi.

Per Mohammed, studente di diritto all’università di Marrakech, i giovani nascono già con l’idea di migrare e quindi non sviluppano un senso di appartenenza al Paese, mentre è ancora forte, malgrado i fallimenti o le fatiche delle generazioni precedenti che sono emigrate, l’idea che l’Europa sia un posto pieno di opportunità, e per raggiungerla sono pronti a tutto.

«È anche vero che qui un laureato guadagna non più di 400 euro al mese e che per studiare all’università, o diventare giudice, come sogno di fare io, devi corrompere qualcuno. Quindi, se il Paese non lo puoi cambiare, lo devi solo lasciare. Se le frontiere fossero aperte, qui non rimarrebbero che donne e vecchi».

Silvia Zaccaria

Baha, lo speziale, davanti alla sua erboristeria, a Moulay Brahim. Foto Silvia Zaccaria.
Un uomo prega alla fermata del taxi di Moulay Brahim, con alle sue spalle la moschea distrutta dal terremoto. Foto Silvia Zaccaria.
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Silvia Zaccaria

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