Il diritto di essere figli

Cosa c’è dietro al calo delle adozioni internazionali

Italia
Paola Strocchio

Il numero di adozioni internazionali in Italia è in calo da alcuni anni. Le motivazioni sono tante, dai Paesi che chiudono ai costi troppo elevati. Secondo il presidente di un ente autorizzato occorre cambiare sistema. Per fare sì che i genitori adottivi non siano di serie B.

Non è un Paese per l’adozione. Con il groppo in gola e anche con più di un pizzico di rabbia, è difficile scrivere qualcosa di diverso quando si sceglie di raccontare come vanno le adozioni internazionali in Italia. I numeri sono impietosi, e fa male vedere che in troppi continuano a dimenticarsi del diritto inviolabile di ogni bambino del mondo ad avere una famiglia che possa accoglierlo e amarlo. Il diritto di essere figlio, insomma. Eppure questo diritto, per ragioni che è fin troppo facile individuare, non viene tenuto sufficientemente in considerazione.

Partiamo proprio dai numeri, che regalano una fotografia della situazione. Nel 2023 si è toccato il fondo: i bambini nati in tante parti del mondo che hanno trovato una famiglia in Italia, infatti, sono stati 478, il 15 per cento in meno rispetto all’anno precedente, quando le adozioni erano state 565. Non era andata così male nemmeno nel 2020, l’anno passato alla storia per via della pandemia da Covid, che, comprensibilmente, aveva bloccato anche le adozioni internazionali: allora di adozioni internazionali ce ne furono 563.

Perché il calo

Ma cosa c’è dietro questo calo drammatico? Tanti elementi. Le situazioni di conflitto che hanno coinvolto e continuano a coinvolgere alcune aree del mondo. Scelte – più o meno difficili da comprendere – fatte da alcuni Paesi, che hanno deciso di chiudere all’Italia le adozioni internazionali. Relazioni di politica estera non ottimali. Forse anche il fatto che, mentre sulle pratiche di procreazione medicalmente assistita si puntano i riflettori, sul mondo delle adozioni internazionali capita molto meno. Anche di questo, con un briciolo di cinismo, ma con tanto realismo, non è così difficile comprendere la ragione. Nell’immaginario di una coppia c’è un bambino piccolo, da crescere e magari perfino da svezzare, un «profilo» che non corrisponde all’adozione internazio- nale, la quale rischia di diventare un’opzione di serie B.

Ci sono poi le ombre che hanno velato alcune pratiche del passato (ma non in Italia): in Danimarca, per esempio, l’agenzia per le adozioni internazionali ha chiuso la sua attività per il prossimo biennio, dopo che un’agenzia governativa aveva sollevato dubbi su alcune pratiche adottive concluse negli anni scorsi.

Insomma, sono tempi duri per le adozioni internazionali. E soprattutto all’orizzonte non si vedono possibili soluzioni per risollevare il trend.

Inoltre, alcuni Paesi da cui fino a qualche tempo fa arrivavano in adozione molti bambini che si trovavano in stato di abbandono, hanno iniziato a mostrare nei loro confronti una maggiore cura, agevolando anche le adozioni nazionali, che così avanzano, anche se timidamente.

Ma torniamo ai numeri che raccontano la crisi in Italia: stando al rapporto diffuso dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’ennesima contrazione del numero delle adozioni concluse nel corso del 2023 è dovuta «ad alcune conclamate criticità riscontrate in Paesi di origine da cui storicamente provenivano molti minori adottati da famiglie italiane quali la Federazione russa, l’Ucraina, la Repubblica popolare cinese e la Bielorussia e da una riorganizzazione interna all’Autorità centrale colombiana che ha rallentato i percorsi adottivi delle coppie instradate nel Paese». Sempre a proposito dello scorso anno, l’India è stato il Paese da cui è arrivato il maggior numero di bambini adottati in Italia: le pratiche concluse sono state infatti 119. Subito dopo, con 71 adozioni, c’è l’Ungheria. A seguire, nonostante i rallentamenti, troviamo la Colombia, con 68 adozioni concluse. Si segnala, nota positiva, che dalla Sierra Leone, realtà con cui gli enti autorizzati hanno iniziato a collaborare recentemente, sono arrivati i primi nove bambini.

Paesi «chiusi»

Come scritto poco sopra, sono decisamente dolenti le note che arrivano dalla Bielorussia, che registra uno zero allarmante, proprio come era accaduto nell’anno precedente, il 2022. A preoccupare, oltre allo zero, ci sono ben 206 procedure pendenti, vale a dire 206 coppie di aspiranti genitori che sono in attesa di abbinamento con il proprio figlio.

Le cose vanno poco meglio nella Federazione russa, che ha chiuso il 2023 con appena quattro adozioni e che ha sospeso fino al 2027 tutti gli enti italiani. Male anche la Cina, dove si sono concluse soltanto due procedure. Proprio riguardo alla Cina si segnalano ben 87 coppie con procedure di adozione pendenti. Tra queste una trentina ha già ricevuto la famosa «pergamena verde», vale a dire l’abbinamento con un bambino che da ormai parecchi anni aspetta di incontrare mamma e papà, in attesa della «pergamena rossa», cioè l’invito ufficiale a recarsi in Cina per poter completare l’intero iter adottivo.

La voce degli enti autorizzati

Infine, una panoramica sugli enti autorizzati: quello che da sempre riesce a concludere il maggior numero di adozioni è il Cifa di Torino, che ha chiuso il 2023 con 44 adozioni. Subito dopo c’è Asa, con 36, poi Gvs, che ne ha portate a termine 28. Abbiamo fatto il punto della situazione proprio con il dottor Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa. «Il Covid ha sicuramente complicato una situazione già di per sé molto critica, perché ha bloccato ogni tipo di spostamento, elemento imprescindibile quando si tratta di adozioni internazionali. Credo però che le motivazioni di una crisi delle adozioni così dirompente siano anche altre – spiega l’esperto -. Penso al tema economico, per esempio. Pur con la possibilità di portare in detrazione fiscale le spese sostenute per accogliere un bambino nato in un Paese lontano, i costi rappresentano ancora un deterrente importante per le famiglie che non possono contare su un reddito alto. Potrà sembrare un pensiero banale, ma sarebbe bello che l’adozione internazionale fosse “gratuita” come quella nazionale, e che quindi fosse lo Stato a farsene carico. E poi ci sono i tempi, che sono oggettivamente lunghi da sopportare anche dal punto di vista emotivo. Perché se è pur vero che l’adozione è quell’istituto che permette a ogni bambino di vedere rispettato il proprio diritto a diventare figlio, è altrettanto vero che non si può pretendere che gli aspiranti genitori siano dei supereroi con il mantello. Sono esseri umani, come ciascuno di noi, e attendere qualcosa come cinque anni è oggettivamente un fardello pesante da sopportare, anche per chi è animato da tanta volontà».

A oggi, stando sempre al report della Commissione adozioni internazionali, le coppie in attesa di concludere la loro procedura di adozione sono infatti 2.395, ed è facile arrivare alla previsione di attesa di ben cinque anni tenendo conto del numero esiguo di pratiche che vengono portate a termine ogni anno. E in un periodo così lungo in una coppia può capitare di tutto, pur con le migliori intenzioni di questo mondo. Anche che si rinunci a diventare genitore.

Bambini Macuxi del Villaggio Jawarizinho

Genitori di serie B

Continua a spiegarci il presidente del Cifa Arnoletti: «La ricerca di un figlio è qualcosa che ormai arriva piuttosto tardi con l’età. Una serie di incertezze con cui si è costretti a fare i conti, anche e soprattutto dal punto di vista economico, portano a rimandare sempre di più la decisione. Capita che i 40 anni si avvicinino senza accorgersene, e a quel punto la via più semplice è quella di provare ad avere un figlio biologico. Capita che poi questo figlio biologico magari non arrivi, anche perché non si è più giovanissimi. Solitamente si tenta con qualche pratica di procreazione medicalmente assistita e poi si arriva all’adozione, come ultima spiaggia. Senza voler giudicare, questo tipo di approccio non aiuta. Resta il fatto che sarebbe davvero bello se questa forma di genitorialità non venisse considerata sempre e soltanto di serie B, come un ripiego a una strada che fino a quel momento non ha portato da nessuna parte». Tanto più che, spesso, soprattutto nelle adozioni internazionali, le proposte di abbinamento sono di bambini inseriti nella categoria special needs. Si tratta di bambini dai bisogni speciali , che spesso hanno più di otto anni e problemi di salute più o meno gravi e più o meno reversibili. Continua a spiegarci Arnoletti: «Senza contare che a volte le informazioni legate allo stato di salute del bambino sono scarne ed è difficile conoscere con precisione le condizioni del piccolino. Che sia chiaro, le mie non vogliono essere parole di terrorismo e l’ultima cosa che desidero è allontanare le persone che scelgono di intraprendere questa strada. Quello che maggiormente mi sta a cuore, come presidente di un ente autorizzato, come nonno e soprattutto come padre di una figlia adottata nell’ormai lontano 1981, è che le adozioni continuino a garantire ai bambini di poter diventare figli e di non restare bambini e basta. L’unica certezza è che dobbiamo cambiare marcia, tutti insieme, e che questo cambiamento deve riguardare l’intero sistema e deve arrivare dall’alto, in modo che ne sia garantita la buona riuscita e la completa trasparenza. Servono misure volte a sostenere le famiglie che nascono, e naturalmente non soltanto quelle che sbocciano grazie all’adozione internazionale».

Burocrazia inutile

«Così come è importante debellare il razzismo – prosegue Arnoletti -, una questione ancora tristemente di attualità, che non può non preoccupare un genitore in attesa di adottare un bambino con tratti somatici diversi da quelli caucasici». Insomma, di lavoro da fare ce n’è tanto. E sarebbe bello che il 2024 potesse essere l’anno della svolta. Magari partendo dagli enti autorizzati. Conferma Arnoletti: «Nel 2023 su un totale di 48 organizzazioni, 9 non hanno concluso adozioni, mentre 29 ne hanno realizzata meno di una al mese e solo uno ha superato le 40. Questo significa che le adozioni si concentrano soltanto su 17 enti, che di fatto corrispondono al 35 per cento di quelli regolarmente registrati nell’albo. Questo quadro è intriso di adempimenti burocratici inutili alla realizzazione della procedura adottiva ma dovuti, caso unico in Italia, per le attività di vigilanza sulla rete degli enti e di raccolta dati. La rete delle autorità centrali volute dalla Convenzione dell’Aja (sull’adozione internazionale, ndr) è molto frammentata e variegata nei compiti e non ha permesso accordi di cooperazione tra Stati in materia di adozioni che abbiano portato a un incremento dei numeri. Che fare? Vedo una sola soluzione: che gli enti svolgano la loro attività in regime di concessione simile a quello dei servizi forniti da privati alla pubblica sanità. In questo si potrebbero assistere in modo appropriato le coppie alle prese con le difficoltà di inserimento di un minore nella società, senza dover badare alle risorse disponibili. L’albo degli enti autorizzati andrebbe rivisto sulla base di un’attività annuale minima che consenta di formare una squadra compatta con l’autorità centrale per affrontare le sfide che il mondo ci pone per rispettare i diritti dei bambini».

Già, i bambini. È per loro che vale la pena lottare. Perché l’adozione è anche gioia, come raccontano mamma Claudia e papà Fausto che, dopo avere adottato in Cina, nel 2015, il loro Lorenzo Ai Guo, da pochi mesi sono tornati in Italia con Poornima Sofia, adottata in India: «Che percorso incredibile è quello dell’adozione! Noi la definiamo una giostra che alterna tante emozioni. Siamo partiti sette anni fa con grande slancio per la nostra seconda disponibilità, ma poi il cammino è stato tortuoso e difficile, tanto che in alcuni momenti abbiamo pensato di mollare tutto. Il nostro primogenito ci ha dato la forza di andare avanti, combattere, perseverare e finalmente eccoci qua con il nostro pezzettino mancante, il nostro dono grande. Non potremmo essere più felici e fieri della nostra famiglia colorata. Alle coppie in attesa diciamo di non mollare perché la felicità è dietro l’angolo, e vi assicuriamo che prima o poi arriva e tutte le fatiche a quel punto svaniranno. Forza, quindi!».

Paola Strocchio

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