Il pensiero oltre la siepe


Povertà e miseria non sono sinonimi. Anzi, la prima può coincidere con la virtù della sobrietà. La seconda è, invece, uno scandalo da combattere. Con l’intervento dello Stato.

Povertà e miseria non sono la stessa cosa: la prima è una virtù, la seconda uno scandalo. La povertà è uno stile di vita che sa distinguere tra i bisogni reali e quelli imposti. È la capacità di dare alle esigenze del corpo il giusto peso senza dimenticare quelle spirituali, affettive, intellettuali, sociali. È un modo di organizzare la società affinché sia garantita a tutti la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali con il minor dispendio di materiali e di energia e la minore produzione di rifiuti.

La miseria, invece, è la condizione di chi non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni fondamentali. L’una è espressione di rispetto, sostenibilità, armonia. L’altra di degrado, violenza, ingiustizia. Dunque, si tratta di due condizioni distinte. L’una da promuovere magari ribattezzandola con termini come sobrietà, frugalità, semplicità, tanto per non dare adito a fraintendimenti. L’altra da combattere perché disumana.

Dove vive la miseria

Le Nazioni Unite definiscono la miseria come povertà multidimensionale e, limitatamente ai Paesi del Sud del mondo (Cina esclusa), calcolano che in questa condizione vivano 1,1 miliardi di persone, il 20% della popolazione di questa porzione di mondo. Persone che non mangiano a sufficienza, non hanno un alloggio degno di questo nome, che non hanno accesso neppure ai primi gradi di istruzione scolastica, che non riescono a curare le malattie più banali come una dissenteria o una bronchite.

Secondo il criterio monetario utilizzato dalla Banca mondiale, vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. Metà di loro sono bambini e adolescenti sotto i 18 anni.

L’Africa è il continente con la più alta concentrazione di miseria: metà di tutti i miseri del mondo si trovano nell’area subsahariana. Un altro terzo è in Asia. E, se guardiamo alla distribuzione fra città e campagna, scopriamo che la miseria è prevalentemente rurale: l’84% di tutti i miseri del mondo vivono nelle campagne.

Miseria e povertà. Foto Towfiqu Barbhuiya – Unsplash.

È sempre Nord e Sud

Le ragioni per cui nel Sud del mondo la miseria continua a mietere così tante vittime affondano le loro radici nel passato coloniale, tutt’altro che tramontato. Il Nord ricco continua a dissanguare il Sud non solo tramite il tradizionale scambio ineguale, oggi esteso anche ai manufatti in virtù della deloca- lizzazione produttiva basata su salari da fame, ma anche tramite il debito e varie altre strategie finanziarie legate alla fuga dei capitali.

La Banca mondiale certifica che, nel 2021, i governi dei 120 paesi del Sud del mondo a reddito basso e medio, avevano un debito verso l’estero pari a 3.500 miliardi di dollari, per il quale hanno sborsato, nello stesso anno, 120 miliardi per interessi. Considerato che, nello stesso periodo, hanno ricevuto in donazioni 108 miliardi di dollari, se ne conclude che il Sud del mondo è stato un finanziatore netto del Nord ricco per 12 miliardi di dollari. Un esborso che la popolazione ha pagato sotto forma di minore assistenza sanitaria, minor spesa scolastica, minori investimenti per elettrificazione e sussidi all’agricoltura. Le Nazioni Unite ci informano che 4 miliardi di persone vivono in nazioni dove la spesa per gli interessi sul debito è più alta di quella per sanità o istruzione. Come se non bastasse molte multinazionali presenti nel Sud del mondo si ingegnano in tutti i modi possibili per evadere le tasse ed esportare illegalmente le ricchezze ottenute nel Paese. La fuga illegale di capitali provoca all’Africa un salasso annuo di quasi 90 miliardi di dollari, mentre nel periodo 2004-2013 l’America Latina ha perso 765 miliardi. Parola di Unctad e di Un Eclac, due organi delle Nazioni Unite che si occupano di commercio internazionale l’una e di questioni economico sociali dell’America Latina, l’altra.

Corruzione e latifondo

Alle storture internazionali si aggiungono fenomeni interni ai singoli paesi del Sud che immiseriscono ulteriormente la popolazione. Fra essi la corruzione (che contribuisce a sottrarre risorse alle casse pubbliche) e la protezione dei latifondisti a danno dei piccoli contadini. Ovunque nel mondo si assiste all’avanzata dei grandi proprietari terrieri che sottraggono terra ai piccoli contadini, ma in certi angoli del Sud del mondo le sproporzioni sono gigantesche. Secondo l’ultimo censimento agrario condotto in India nel 2011 il 4,9% dei proprietari terrieri controlla il 32% di tutte le terre agricole, mentre 101 milioni di famiglie rurali, il 56,4% del totale, non ne possiedono affatto. La mancanza di terra è una delle ragioni principali per cui l’84% degli immiseriti si trova nelle campagne.

Detto questo, si capisce che il primo passo per ridare dignità a quel miliardo di miseri è una seria riforma agraria che deve essere accompagnata da tutti gli altri correttivi necessari a garantire ai governi i fondi necessari a realizzare investimenti nel campo dell’elettrificazione, della viabilità, della sanità, dell’istruzione.

E nei paesi ricchi

Di miseri ce ne sono anche nel Nord opulento. Li vediamo nei sottopassi delle stazioni o delle metropolitane, derelitti sdraiati su cartoni di fortuna. Li vediamo anche nelle file in coda per un piatto di minestra alle mense della Caritas. Nella sola diocesi di Roma, nel 2023 sono stati distribuiti 65mila pasti gratuiti. In Italia i conti nazionali ce li fornisce l’Istat che definisce la miseria con il termine di «povertà assoluta», precisando che considera povero assoluto chiunque sia incapace di permettersi un «paniere di beni e servizi considerati essenziali», comprendente prodotti alimentari, alloggio, riscaldamento, trasporto, spese sanitarie e altro.

Secondo le ultime statistiche del 2023 in Italia la povertà assoluta colpisce 2,18 milioni di famiglie, per un totale di 5,6 milioni di persone, quasi un abitante su dieci. A fare ancora più male è sapere che il 22% dei poveri assoluti (1,2 milioni) sono bambini e adolescenti. In effetti il 13,4% di tutti i minorenni in Italia si trova in povertà assoluta, con ripercussioni non solo sul piano materiale, ma anche scolastico. Nella scuola dell’obbligo il tasso di dispersione scolastica è al 14%. Come dire che 14 ragazzi su 100 abbandonano precocemente la scuola o, se vi rimangono, è come se fossero parcheggiati considerato che non riescono a raggiungere gli obiettivi formativi prefissati. Colpisce, inoltre, la sovrapposizione delle due cifre: 13,4% di povertà assoluta e 14% di dispersione scolastica.

Aumenti e servizi pubblici

In un mondo dominato dagli scambi monetari, la miseria è il frutto di due opposti fenomeni: redditi troppo bassi e prezzi di beni e servizi essenziali troppo alti. Ad esempio, dopo l’aumento vertiginoso delle bollette elettriche verificatosi nel 2022, anche famiglie che normalmente se la cavavano si sono avvicinate al baratro della miseria. Oltre alla bolletta energetica, anche affitti troppo alti e la demolizione di servizi pubblici come la sanità pesano sulle spalle delle famiglie fragili che, non potendo sostenere i costi imposti dalle strutture private, semplicemente rinunciano
a curarsi.
Dunque, un primo fronte su cui intervenire per arginare la miseria è la fornitura di servizi pubblici gratuiti in ambiti essenziali come sanità, istruzione, trasporti. E subito dopo politiche per calmierare i prezzi di altri servizi altrettanto essenziali come alloggio, energia, cibo, acqua, che un sistema di svliluppo ideologico ha ceduto al mercato. Ricordandoci che i prezzi sono una via potente di distribuzione della ricchezza: impoveriscono chi compra e arricchiscono chi vende.

Il secondo fronte su cui intervenire è quello del reddito. In prima battuta con interventi tampone, tipo reddito di cittadinanza, per garantire un introito minimo a chi ne è sprovvisto. E, subito dopo, creando le condizioni affinché tutti possano disporre in maniera autonoma di redditi sufficienti a vivere dignitosamente.
In un sistema in cui la principale fonte di sostentamento è rappresentata dal lavoro salariato, la categoria a maggior rischio di grave deprivazione materiale è quella dei disoccupati. La Caritas conferma che il 48% delle persone che si rivolgono alle sue strutture sono disoccupati o inoccupati che fanno fatica a trovare un lavoro. Ma aggiunge che stanno crescendo anche le persone che un lavoro ce l’hanno, ma riscuotono un salario troppo basso per arrivare alla fine del mese. Si tratta dei cosiddetti «working poors» (ne abbiamo già parlato su MC a dicembre 2021), persone che sono povere pur lavorando. In Italia sono 2,7 milioni, l’11,3% di tutti gli occupati.

Il ruolo dello Stato

Le misure più urgenti per combattere la miseria sono due: garantire un salario dignitoso a chi lavora e garantire un lavoro a chi un’occupazione non ce l’ha. In ambedue i casi il ruolo del potere pubblico è determinante. Per il primo obiettivo la strada da battere è l’introduzione, per legge, di un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. Che non significa depotenziare l’attività contrattuale del sindacato, ma soccorrere le categorie più deboli che un sindacato non ce

l’hanno o ne hanno uno troppo debole per imporre livelli salariali dignitosi. Quanto al secondo obiettivo lo stato deve smetterla di aspettare che siano le imprese private a creare occupazione. Il lavoro può e deve crearlo lo Stato che deve concepirsi come un datore di lavoro di ultima istanza. Ossia un soggetto che assicura a tutti un posto di lavoro. L’idea non è nuova ed è interessante notare che uno dei primi a proporla fu Martin Luther King che, fra le altre battaglie, conduceva anche quella contro la disoccupazione che era un vero e proprio flagello per la popolazione nera del tempo.

In un proclama del 1964, pochi giorni prima di essere assassinato, King si scaglia contro il governo degli Stati Uniti: «È l’ostinata insensibilità del governo nei confronti della miseria che alimenta la rabbia e la frustrazione. Benché la disoccupazione semini disperazione nei ghetti neri, il governo continua a cincischiare con misure senza efficacia. Soprattutto si rifiuta di diventare datore di lavoro di ultima istanza. Continua a buttare la palla nel campo delle imprese private come se i fallimenti occupazionali registrati fin qui possano fare da garanzia di successi futuri».

Martin Luther King si appellava al governo perché sapeva che lo stato è l’unica entità in grado di creare occupazione indipendentemente da qualsiasi altra condizione. Il mercato crea lavoro solo se vende. Lo Stato, in quanto tutore dei beni comuni e produttore di servizi a beneficio di tutti, può creare occupazione per decisione unilaterale. Il mercato stesso, quando si accorge si essere in una situazione di stallo, chiede allo Stato di intervenire per ridare impulso alla macchina produttiva.

Quello che dovremmo fare è smettere di concepire lo Stato solo come stampella del mercato e vederlo, piuttosto, come la casa comune dentro la quale tutti possono trovare rifugio e una tripla area di sicurezza. Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute. In secondo luogo, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia. Infine, la garanzia di un lavoro che dia a tutti la possibilità di sentirsi utili e socialmente apprezzati.

Miseria e povertà. Foto Dulana Kodithuwakku – Unsplash.

Immaginare e fare

Se vogliamo salvarci, dobbiamo cambiare progetto. Convincerci che oltre al vendere e al comprare, al competere e al gareggiare, al profitto e allo sfruttamento, all’arricchimento personale e alla proprietà privata, esiste anche la comunità, la solidarietà, la gratuità, i beni comuni. E come loro – multinazionali, signori della finanza, investitori – hanno il diritto di organizzarsi per arricchirsi, allo stesso modo noi, i piccoli, abbiamo il diritto di organizzarci per vivere. E l’unico modo possibile è la forma comunitaria perché la solidarietà collettiva è la sola ricchezza su cui possiamo contare. Ecco perché dovremmo avere il coraggio di riorganizzarci su una logica di doppia economia: quella dei bisogni fondamentali e quella degli optional. La prima, affidata alla comunità, funzionante con il lavoro di tutti per la dignità di tutti. La seconda, affidata al mercato, funzionante con il lavoro di chi ambisce a maggiori consumi. Fantasticherie? Può darsi. Ma quando l’impostazione corrente non è in grado di dare le risposte attese, bisogna sapere gettare il pensiero oltre la siepe.

Francesco Gesualdi

 

 

 




Amante della gioia


Anche chi non conosce molto dei Vangeli, di certo sa che Gesù ha compiuto il suo «primo miracolo» trasformando l’acqua in vino a Cana (Gv 2,1-11).
Chiunque abbia frequentato un po’ il Vangelo di Giovanni, però, è ben consapevole che esso è un’opera complessa, dove il messaggio più immediato è vero, ma rimanda anche a qualcosa di più profondo. D’altronde, è l’evangelista stesso a suggerirlo quando definisce i miracoli di Gesù non «prodigi», come fanno spesso gli altri vangeli, ma «segni». Un segno, si sa, non ha valore soltanto per se stesso, ma perché rimanda anche ad altro.

È possibile, allora, che anche un racconto che in apparenza è molto semplice nasconda insegnamenti ulteriori, come peraltro la sua posizione all’inizio del Vangelo potrebbe farci sospettare. Per coglierli, lasciamo che sia il racconto a guidarci. Innanzitutto, dobbiamo capire che cosa dice a un primo livello (che resta autentico e significativo), e quali indizi ci dà lo scrittore per scendere al secondo livello.

Non troppo ascetico

Tutte le tradizioni religiose, ma in fondo tutte le scelte di vita, anche quelle politiche o sportive o dello spettacolo, ci insegnano che per raggiungere un risultato dobbiamo fare grosse rinunce. Una certa tendenza ascetica c’è in ogni scelta di vita seria.

Può quindi stupirci un po’ (ma probabilmente anche farci piacere) che il primo gesto pubblico di Gesù è di andare a una festa di nozze. Il tono del Vangelo, finora, è stato molto solenne, tanto che difficilmente ci saremmo aspettati una svolta di questo tipo. In più, in questo banchetto, sembra di cogliere non poca improvvisazione. Ci viene detto, infatti, che a Cana di Galilea c’è una festa di nozze alla quale è presente Maria, mentre Gesù con i suoi discepoli è invitato quasi come aggiunta, come recupero pensato all’ultimo momento (v. 1-2). Le feste nuziali del Vicino Oriente, spesso ancora oggi, non assomigliano tanto ai nostri pranzi di matrimonio con il numero e la disposizione esatta degli invitati programmati in anticipo, quanto più a una festa di paese, dove qualche posto si può sempre aggiungere. Sembra che questa sia la situazione di Gesù, che si unisce a Maria e si porta dietro anche i suoi nuovi discepoli. Se Gesù ci mostra il volto del Padre, la prima istantanea che ci regala in questo passo è di un Dio un po’ diverso da quello dei filosofi (o dei catechismi, a volte). Se abbiamo in noi l’immagine di Dio come di un vecchio severo con la barba bianca e mai un sorriso, ecco, qui ci troviamo di fronte a un Padre giocoso, a cui non dispiace il clima umano della festa, anche se un po’ improvvisata e approssimativa. Pronto a divertirsi in semplicità e calore.

Ma se abbiamo parlato di improvvisazione, è perché il racconto ce la fa intuire tramite le parole di Maria rivolte a Gesù: «Non hanno vino». Che idea ci si può fare di qualcuno che per delle nozze non mette a disposizione abbastanza vino? Pazienza per il cibo, alla fine ce n’è sempre troppo, ma non si può fare festa senza bere. In più, non sono neanche stati capaci di rimediare con discrezione: infatti deve intervenire Maria, un’invitata, che ne parla al figlio.

Un secondo livello?

La risposta di Gesù all’osservazione di Maria («Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora») è tanto strana da costringerci a fermarci, rileggerla e poi chiederci, perplessi, che cosa sia successo o se voglia dire qualcosa di particolare. Probabilmente questa nostra reazione è esattamente quello che lo scrittore voleva suscitare in noi lettori, ossia che ci fermiamo e notiamo i particolari con stupore, così che non ci sfuggano. Come l’autore di un giallo, Giovanni vuole farci notare che ci sta dando un indizio.

Intanto ci domandiamo: ma davvero Gesù può parlare così a Maria? Lo sappiamo tutti che non si risponde con quel tono a una mamma.

Quel secco «donna», di certo, non suona brutale solo a noi: avrà scioccato anche i primi lettori del Vangelo.

È una parola che richiama la nostra attenzione. Per questo vale la pena soffermarcisi: può essere l’indicazione per intuire più in profondità il senso del versetto. Usata come appellativo rivolto a Maria, la ritroviamo in Gv 19,26 quando Gesù sta per morire in croce, cioè quando è arrivata la sua ora, e sotto la croce si trovano «la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava». Non è certo un contesto nel quale ci si possa lasciare andare a espressioni fuori luogo.

Qui però ci sembra quasi di dover spiegare un enigma con un altro enigma: ad esempio, chi è «il discepolo che egli amava»? Di solito si risponde Giovanni l’evangelista, come ci dice la tradizione. Questo perché si parla di questo discepolo solo nel suo Vangelo, quindi deve trattarsi di lui. Se però fosse davvero l’autore del Vangelo a definirsi così, di certo non sarebbe segno di umiltà e, senza dubbio, avrebbe deciso di usare una formula un po’ ambigua che pare suggerire il fatto che Gesù non amasse gli altri discepoli. La tradizione, per provare a mettere ordine, l’ha intesa come il «discepolo prediletto», nel senso che sì, ovviamente amava tutti, ma a Giovanni era più legato, come può lecitamente succedere tra gli esseri umani. Il Vangelo, però, non parla di predilezione, ma proprio del «discepolo che Gesù amava»; un discepolo che, altrove, è caratterizzato dal fatto di essere veloce a intuire, pronto di riflessi ma in piena umiltà, un discepolo che non guida gli altri ma è rapido a giungere alla fede (pensiamo a Gv 20,1-8 e 21,7). C’è allora da pensare che in questa espressione si nasconda il discepolo ideale, il modello di discepolo, quello che ognuno di noi è chiamato a essere, che magari non ha incarichi particolari nella Chiesa ma vive nella fede il rapporto con Gesù. Se sotto la croce, quindi, quel discepolo è un simbolo dei credenti cristiani, di ciascuno di noi, allora anche «la madre» probabilmente è un simbolo. Ma di cosa? Se ci pensiamo, sarebbe ben curioso che Gesù si ricordasse solo in quel momento di affidare sua madre a qualcuno, dopo tre anni che se ne andava in giro e non badava a lei. È ben difficile che, nel contesto teso e solenne della crocifissione, Gesù pensi a non lasciare in giro bollette non pagate.

Maria è il «luogo» dal quale viene Gesù. Egli nasce, come tutti, da una donna, ma anche da una tradizione (che peraltro erano le donne a dover trasmettere). Gesù è figlio di tutta la storia religiosa del popolo di Israele (che è un nome femminile nella Scrittura), spesso presentato come una donna in attesa dello sposo (Dio), simbolicamente raccolta nell’immagine della «figlia di Sion» (nei profeti, e poi in 2 Re 19,21; Sal 9,15, e anche in Gv 12,15). Interpretate simbolicamente, quelle parole di Gesù sulla croce sono ricchissime: mentre muore, Gesù invita la tradizione religiosa del Primo Testamento a riconoscersi nella Chiesa, e questa a essere riconoscente nei confronti di colei da cui viene: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19,26), proprio ciò che la Chiesa cristiana ha fatto accogliendo e onorando tra le proprie Scritture quelle ebraiche.

In continuità con il passato

Tutto questo ragionamento, ci riporta a Cana: già in quell’episodio la «madre di Gesù» è anche simbolo della comunità religiosa del Primo Testamento? Se così fosse, si capirebbe l’insistenza, altrimenti strana, sulle anfore in pietra (Gv 2,6), con l’allusione alla «purificazione rituale dei giudei»: a Giovanni sarebbe bastato scrivere che i servi avevano preso dell’acqua, ma l’evangelista voleva indirizzare lo sguardo del lettore sulla tradizione ebraica: è (anche) quella a segnalare che c’è una mancanza nell’umanità che fa festa, e a indicare Gesù come colui che è da ascoltare, per risolvere il problema. Non sa spiegare che cosa Gesù farà, ma sa dire che c’è da seguire lui.

I profeti e la legge contenuti nel Primo Testamento non «deducono» la figura di Gesù, ma sanno suggerire che Dio tornerà a prendersi cura dell’umanità, entrando nell’umanità stessa. Gesù compie le attese del Primo Testamento, pur in parte sorprendendole.

E non solo: è la madre a sollecitare Gesù a intervenire. Non pregandolo o comandandoglielo, perché non potrebbe. O meglio: Maria, madre fisica di Gesù, potrebbe chiederglielo o persino ordinarglielo (la tradizione ebraica è molto esigente per quanto riguarda i doveri dei figli, soprattutto maschi, nei confronti dei genitori), ma è evidente che qui Giovanni non sta pensando a lei, quanto al suo ruolo simbolico. La tradizione del Primo Testamento non è padrona di Gesù, che è totalmente libero di agire o astenersi dall’azione. Però lo inserisce in una storia in cui il Dio di Israele è pronto a commuoversi per la sofferenza umana, a farsi coinvolgere nella vita dei suoi e anche a violare le proprie norme per non perdere la relazione con l’umanità (ci porterebbe fuori strada affrontare questo tema, ma nel Primo Testamento accade spesso che Dio «minacci» il suo popolo di rompere la comunione con lui se non rispetta le sue «leggi», e che poi, però, faccia un passo indietro, preferendo perdere la faccia piuttosto che il rapporto con l’essere umano).

Non sarà ancora giunta la sua ora, ma Gesù, se vuole essere fedele a quel Dio del Primo Testamento, non può restare indifferente di fronte all’imbarazzo umano e, sia pure senza dire di aver cambiato idea (come pare umano anche in questo), di fatto si mette a disposizione di quella festa, «inventandosi» un modo di risolvere l’impaccio che è senza precedenti nella Bibbia.

Il volto del Padre

C’è qualcosa di nuovo che questo episodio ci mostra sul volto divino?

Prima di tutto Gesù ci mostra un Padre che non si vergogna dell’umanità anche nei suoi aspetti più «banali», di festa, di gioia semplice, persino disorganizzata e improvvisata. Non ci troviamo di fronte a un Dio rigidamente perfetto, che esige dei figli impeccabili, ma a un amante della vita, che ci potremmo immaginare sorridere al vedere il banchetto e le bevute e inquietarsi all’idea che la festa possa rovinarsi prima del tempo.

E poi ci troviamo di fronte a un Padre fedele e imprevedibile, che non abbandona mai la sua amicizia con l’umanità e, allo stesso tempo, sa anche inventare soluzioni nuove e impensate ai problemi che si presentano, anche quando, in sé, potrebbero non sembrare problemi vitali. Un amico capace di sorprese infinite, ma che gli amici non li abbandonerà mai.

Angelo Fracchia
(Il volto del Padre 02 – continua)


Un dono specialissimo per voi

È disponibile in versione pdf la raccolta dei 38 articoli di Paolo Farinella su «Le nozze di Cana», pubblicati in questa rivista tra il febbraio 2009 e il gennaio 2013.

Un lavoro appassionante alla scoperta e approfondimento di uno degli episodi più belli e gioiosi dei Vangeli.
240 pagine da leggere con il cuore.

Cliccare sull’immagine per scaricare.

Augurandovi una proficua lettura, ci permettiamo di ricordarvi che un’eventuale donazione ci aiuterà a continuare a servirvi al nostro meglio.
Grazie.

 




Rwanda, un Paese per donne. Forse

 

In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne, parliamo del Rwanda, Paese dell’Africa centrorientale ai primi posti nel mondo per le politiche sull’uguaglianza di genere, ma, in realtà, ancora profondamente patriarcale.

Più del 61% dei seggi in Parlamento sono occupati da donne, le quali ricoprono anche metà delle posizioni ministeriali. I loro diritti sono tutelati da numerose leggi, tra cui spicca quella contro la violenza di genere. Negli ultimi anni, la mortalità materna è calata drasticamente e le norme statali garantiscono equità tra maschi e femmine nell’accesso a ogni livello d’istruzione.

Il Rwanda sembra il Paese ideale per le donne. Tanto più che, da inizio anni Duemila, questo piccolo Stato dell’Africa centrorientale si posiziona stabilmente ai primi posti delle classifiche mondiali su uguaglianza di genere ed empowerment femminile, con indicatori di gran lunga superiori a molti Paesi occidentali.

L’immagine del Rwanda come Paese al femminile è nata subito dopo il genocidio del 1994, a seguito del quale il 70% della popolazione era composto da donne: molte avevano preso il posto degli uomini – uccisi, fuggiti o incarcerati – come capifamiglia e nel mondo del lavoro. Nel 2003, poi, la parità di genere è stata inserita nel preambolo della Costituzione di «uno Stato basato sul principio dell’uguaglianza di tutti i rwandesi, così come dell’uguaglianza tra uomini e donne».

Nei fatti, però, la situazione è ben diversa. Come spesso accade, tra la teoria e la pratica c’è un abisso e, dietro ai dati che descrivono una situazione apparentemente invidiabile, si nascondono diversi ostacoli e problematiche.

Con il 61% di deputate e il 35% di senatrici, nel 2023, il Rwanda era il Paese del mondo con il maggior numero di donne in Parlamento (mentre nel 2008 era stato il primo a eleggere più donne che uomini). Ma, in uno Stato la cui politica dal 1994 è dominata dal crescente autoritarismo di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico rwandese, la maggioranza delle parlamentari appartiene al partito dominante ed è incapace di portare avanti una propria agenda per la tutela dei diritti femminili.

Il considerevole numero di donne in Parlamento, quindi, il più delle volte, non si traduce nell’approvazione di politiche a loro favore, se non sono coerenti con le direttive del partito. Dunque, non deve sorprendere che sia stata un’Assemblea, composta per il 56% da donne, ad approvare nel 2009 la riduzione da dodici a sei settimane del congedo pagato per la maternità.

Le donne che si oppongono alla narrativa di Kagame sono spesso – ancor più degli uomini – oggetto di violenze e persecuzioni, anche a sfondo sessuale. Quando nel 2010 Victoire Ingabire, principale rivale del presidente in vista delle elezioni di quell’anno, è tornata nel Paese dopo sedici anni di esilio, è stata immediatamente arrestata e incarcerata con l’accusa di cospirazione. Foto di Diane Rwigara nuda hanno invece iniziato a circolare sul web appena 72 ore dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2017. Esclusa sulla base di presunte irregolarità nella registrazione della domanda, poco dopo, Rwigara è stata arrestata per una presunta evasione fiscale.

Più ombre che luci, dunque. E la politica, l’esempio più sfavillante del Rwanda al femminile, non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema dove l’uguaglianza di genere è in realtà ben lontana dall’essere realizzata.

Uguaglianza apparente

Come si è detto, il Paese si è dotato di un panorama legislativo all’avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ma tra norma e prassi persiste ancora una grande distanza, a causa di cultura patriarcale e tradizioni sociali particolarmente radicate.

Dal 1999, le donne possono ereditare le proprietà di famiglia, ma, di fatto, la condizione posta dalla legge – presentare un certificato di registrazione di un matrimonio monogamo, in un Paese dove le unioni informali e/o poligame sono frequenti – impedisce loro di beneficiare di questo diritto.

Limiti che ritornano anche nella gestione delle risorse finanziarie e nell’esercizio dei diritti fondiari: tendenzialmente, le decisioni su denaro e proprietà sono assunte dagli uomini, mentre le donne, senza certificati di matrimonio, faticano anche solo a ottenere prestiti bancari. Non a caso, esse rappresentano il maggior numero di poveri in Rwanda.

Anche quando sono vittime di violenza, le donne sono spesso in difficoltà. Nonostante la legge sulla violenza di genere (2008) abbia condannato qualsiasi forma di aggressione nei loro confronti e inasprito le pene, la violenza è ancora diffusa – soprattutto nei contesti rurali – e poco denunciata. Le donne temono infatti di essere stigmatizzate dalla società se denunciassero, e di perdere qualsiasi risorsa finanziaria, dal momento che il denaro familiare il più delle volte è nelle mani degli uomini.

Non va meglio nel mondo dell’istruzione: sebbene la legge prescriva parità nell’accesso alle scuole, solo il 30% di coloro che ricevono un’istruzione secondaria sono ragazze. È infatti ancora profondamente radicata l’idea che le donne si debbano occupare della casa e della cura di marito e figli e che quindi non sia necessario investire nella prosecuzione dei loro studi.

Dunque, l’8 marzo in Rwanda – come in tanti altri Paesi di tutto il mondo – ricorda quanto la strada verso la reale parità di genere sia ancora lunga e passi, non solo attraverso leggi e provvedimenti, ma attraverso il superamento di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata.

di Aurora Guainazzi




Iran. Droni e petrolio vendesi

Nonostante le foto diffuse dall’Agenzia di stampa della Repubblica islamica (Irna) sembrino mostrare il contrario, venerdì 1 marzo l’Iran – paese con 88 milioni di abitanti – è andato alle urne senza alcun entusiasmo, segnando la più bassa partecipazione di votanti dalla rivoluzione del 1979: il 41 per cento degli aventi diritto. In gioco c’erano i 290 seggi del Parlamento (Majlis) e gli 88 dell’Assemblea degli esperti. Quest’ultima è l’organo clericale cui spetta la scelta della Guida suprema, attualmente rappresentata dall’ayatollah Ali Khamenei (85 anni).

Come ampiamente previsto, anche senza attendere i risultati del secondo turno (sarà a maggio), hanno vinto i conservatori e gli ultra conservatori, agevolati dall’assenza – per divieto o per boicottaggio – non solo dei candidati progressisti ma anche di gran parte di quelli moderati.

Donne iraniane al voto venerdì 1 marzo 2024 in una foto diffusa dall’Agenzia di stampa statale. (Foto Maryam Almomen – IRNA)

Il popolo iraniano sta vivendo anni bui sotto il giogo della casta sciita al potere. Dopo le manifestazioni di piazza del 2022 (proteste guidate dalle donne), la violazione dei diritti civili e la carcerazione o l’uccisione degli oppositori sono una prassi consolidata.

Per la teocrazia iraniana non mancano, però, le note positive. Nonostante un’inflazione elevata (40 per cento annuo), l’economia resiste (più 4,2 per cento nel 2023), sospinta dai legami sempre più stretti con la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, paesi che lo scorso 1° gennaio hanno accolto l’Iran in seno al gruppo dei Brics. La produzione di petrolio, grande ricchezza del Paese, è in crescita (2,99 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2023, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia) con la quota d’esportazione quasi interamente acquistata dalla Cina. In questo momento storico il maggiore successo economico (e politico) del Paese è però dato dalla vendita di un micidiale prodotto tecnologico per uso militare: i droni, i veicoli aerei senza pilota (Unmanned aerial vehicles, Uav). I droni iraniani – come lo «Shahed 136» o il «Mohajer-6» – sono venduti soprattutto alla Russia per la sua aggressione all’Ucraina, ma anche in Africa (Etiopia, Sud Sudan e Fronte Polisario del Sahara occidentale) e in America Latina (Venezuela e Bolivia).

Inoltre, essendo il Paese sponsor delle milizie sciite in Libano (Hezbollah), in Yemen (Houti) e in Iraq, i droni di fabbricazione iraniana sono un’arma sempre più utilizzata nell’esplosiva regione mediorientale.

Paolo Moiola




Bielorussia. Lukashenko: ieri, oggi e domani

È al potere dal 1994 e pochi giorni fa ha annunciato che l’anno prossimo si presenterà per ottenere il settimo mandato consecutivo. Insomma, ad Alexander Lukashenko non bastano 30 anni di potere assoluto: ne vuole altri cinque. È il dittatore più longevo d’Europa, precedendo l’alleato e sodale Vladimir Putin, fermo a quota 24.

Dal febbraio 2022 la Bielorussia – paese con 9,5 milioni di abitanti – ospita sul proprio territorio truppe russe impegnate nella guerra d’aggressione contro l’Ucraina. Si parla – inoltre – anche di una sua collaborazione nella deportazione illegale di bambini dalle città ucraine occupate dalla Russia.

Nel frattempo, domenica 25 febbraio si è tenuta una tornata di «elezioni» per i 110 seggi della camera bassa e per i consigli locali. Non c’erano candidati dell’opposizione né sono stati ammessi osservatori dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Dal suo esilio lituano, Sviatlana Tsikhanouskay (moglie di Sergei, politico e attivista bielorusso condannato a 18 anni di carcere), leader dell’opposizione, aveva chiamato al boicottaggio, memore di quanto avvenuto nell’agosto 2020.

Sviatlana Tsikhanouskay, probabile vincitrice delle elezioni presidenziali del 2020, si è rifugiata in Lituania. (Foto eroparl.europa.eu)

In quell’occasione c’erano state grandi (e inusuali per il Paese) manifestazioni di protesta dopo che i dati ufficiali avevano attribuito la vittoria a Lukashenko con l’80 per cento dei voti. Le opposizioni avevano accusato il governo di aver scippato la vittoria a Svetlana Tikhanovskaja, poi costretta a rifugiarsi nella vicina Lituania.

In questi ultimi anni Lukashenko ha messo di nuovo mano alla Costituzione e varato nuove leggi per consolidare il proprio potere, garantirsi l’immunità da eventuali accuse e limitare la possibilità di candidarsi per gli oppositori. Intanto, è continuata la repressione interna. In carcere è finito anche Ales Bialiatski, premio Nobel per la pace 2022 (assieme all’organizzazione russa Memorial e all’ucraina Ccl), fondatore e presidente del «Centro per i diritti umani Viasna», organizzazione di Minsk che, dal 1996, fornisce aiuto e assistenza ai prigionieri politici e alle loro famiglie.

Con la sua unica avversaria politica in esilio, gli oppositori interni in carcere (sono 1.413 persone, secondo Viasna) e il grande sponsor saldamente al potere a Mosca, Alexander Lukashenko può dormire sonni tranquilli.

Paolo Moiola