Uomini armati, volti coperti dal passamontagna, droni, cecchini, funerali, cimiteri, morti e feriti. Questa è la Cisgiordania (West Bank). Reportage da Jenin, la piccola Gaza.
Jenin. Un nutrito gruppo di persone si affolla davanti all’uscita dell’ospedale Khalil Suleiman. Ci sono molti ragazzi armati e con il volto coperto da un passamontagna. Alcuni di loro srotolano delle bandiere del partito di Al-Fatah.
Questa notte è morto, in seguito alle ferite riportate dopo l’esplosione di un razzo, Jamal Mashaqa, combattente della resistenza di Jenin. Oggi si celebra il suo funerale. Il corpo viene portato fuori dall’ospedale su una barella, trasportata dai suoi amici. Jamal è avvolto nella bandiera delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa», movimento di cui faceva parte. Attorno alla testa una kefiah. Sul corpo sono posate le armi che usava durante i combattimenti. Il corteo funebre si muove a passo veloce, quasi di corsa. Fa il giro della città. I combattenti sparano in aria, cantano, intonano inni a Dio, ad Hamas, e urlano il nome di Jamal aggiungendo: «La tua morte ci ha spezzato il cuore. Seguiremo l’esempio del tuo martirio».
Sono stati così tanti i morti a Jenin nel 2023, anche prima del 7 ottobre, che è stato necessario creare un nuovo cimitero. È qui che termina la marcia. Jamal viene posato per terra davanti all’imam, ai suoi parenti e agli amici. Si recitano le ultime preghiere, il corpo viene adagiato nella fossa appena scavata.
A pochi passi dalle tombe, un grande murales raffigura la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa durante un attacco israeliano, proprio qui, nel 2022.
Martiri e soldati
Dal cimitero, insieme ad altri uomini, mi sposto in un centro sportivo per ragazzi. È qui che, dal 7 ottobre, si tengono tutte le veglie funebri. Ci sono solo uomini, fumano, bevono tè, discutono. Le foto di Jamal, in mimetica, che imbraccia un fucile, sono ovunque.
Qui incontro suo fratello, IIyad Azmi: «Jamal – mi racconta – era un ragazzo sorridente, sempre pronto a scherzare, lo conoscevano tutti per il suo senso dell’umorismo. Noi a Jenin abbiamo sempre rispettato ogni cultura e religione, lo vedi anche tu da quanti cristiani ci sono e che vivono fianco a fianco con noi. Israele pensa di scoraggiarci raid dopo raid. Pensa che distruggere le nostre case, uccidere i nostri giovani, ci spezzerà. Non ha capito che noi non ci arrenderemo mai, non ci piegherà: noi non alzeremo mai bandiera bianca».
Mentre intervisto altri ragazzi, mi si avvicina un uomo: è scortato da due giovani armati. Si presenta usando uno pseudonimo: Abu Arab (tradotto «padre degli arabi», soprannome del poeta della rivoluzione palestinese Ibrahim Mohammed Saleh). Mi chiede chi io sia e cosa stia facendo qui.
Abu Arab è uno dei portavoce del campo di Jenin. Anche lui è stato un combattente, durante la seconda intifada, e ha passato diversi anni in carcere. Quando gli chiedo se i palestinesi, pur avendo pochi mezzi a disposizione, siano davvero in grado di fronteggiare Israele, mi risponde: «Oggi si combatte in maniera diversa rispetto a quando lo facevo io. I nostri ragazzi sanno usare la tecnologia, questo è sicuramente un vantaggio. I nostri combattenti, più che all’unisono, agiscono come “lupi solitari”. Questo li rende più efficaci. La cosa più importante però è che, a differenza degli israeliani, qui sono tutti pronti a combattere per la libertà dei palestinesi, anche se questo vorrà dire aspettare due, tre generazioni. I soldati israeliani, spesso, sono giovani di leva che vengono mandati a combattere, ma vorrebbero essere ovunque tranne che qui, magari su una bella spiaggia di Tel Aviv. I ragazzi della resistenza palestinese invece, sanno che, molto probabilmente, moriranno durante gli scontri. Sono disposti a dare la propria vita come martiri. È questo spirito di sacrificio che manca a Israele, è per questo che non riescono a piegarci o mandarci via».
La piccola Gaza
Il campo profughi di Jenin è nato nella periferia dell’omonima città, costruito per ospitare i palestinesi in fuga durante la Nakba del 1948. Molte famiglie sono arrivate qui da Haifa, provincia dalla quale, nel 1953, cinquemilamila soldati israeliani avevano deportato ottantamila palestinesi.
Anche se quello di Jenin viene chiamato «campo» profughi, non è una tendopoli.
Anche se poverissimo e con infrastrutture pericolanti, è una vera e propria cittadina di ventimila abitanti, fatta di case in muratura, moschee e negozietti. Jenin è anche conosciuta, in questi mesi, come «la piccola Gaza». È qui, infatti, che si concentrano la maggior parte degli attacchi di Israele in Cisgiordania.
I continui raid sono volti a fiaccare quella che è una delle resistenze più coriacee della Palestina: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo armato del partito di Al-Fatah, nato in questo campo profughi nel 2000, durante la seconda intifada.
I responsabili del campo controllano le mie credenziali, il mio lavoro, gli articoli scritti in passato. Vogliono assicurarsi che riporti la verità su quello che vedrò. Dopo qualche giorno e, dopo essermi fatto conoscere, vengo accolto con molta ospitalità. Comincio a frequentare il campo con regolarità.
Mi ritrovo spesso a chiacchierare con gli anziani e i giovani combattenti. Mi raccontano le loro vicissitudini, quelle delle loro famiglie. Passiamo ore bevendo tè e giocando a backgammon. I raid israeliani, nel frattempo, non si fermano mai e anch’io ne sono testimone.
Le modalità degli attacchi
Gli attacchi avvengono sempre nella stessa modalità: cominciano con una ricognizione di droni, seguita dal lancio di ordigni esplosivi. Subito dopo, i soldati installano dei check-point mobili per chiudere ogni varco di ingresso o uscita dal campo. Le operazioni continuano con l’entrata dei bulldozer, che distruggono le strade principali e qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino.
Ai mezzi pesanti segue l’ingresso dei soldati. I cecchini si appostano sui punti più alti, i militari entrano nelle case per perquisirle, molto spesso distruggendole e picchiando chi si trova all’interno. I raid, in media, vanno avanti tutta la notte fino a tarda mattinata.
Il 29 novembre, durante l’ennesima incursione, un cecchino spara in testa a un bambino di otto anni: Adam Samer Al-Ghoul. Il bambino è colpevole di aver lanciato un sasso contro un mezzo blindato israeliano. Adam Samer si accascia sul selciato. Un altro ragazzino, di quindici anni, Basil Suleiman, cerca di trascinare il bambino più piccolo al riparo dietro una macchina, ma anche lui viene colpito al petto dallo stesso cecchino.
Durante i raid, i soldati bloccano anche le ambulanze, che, per ore, aspettano all’ingresso del campo. Anche Basil Suleiman muore.
Alla fine delle operazioni, il comando dell’Israel defense forces (Idf) dichiara che i due ragazzi avevano attaccato usando ordigni esplosivi. Ai media israeliani si comunica che, durante il raid a Jenin del 29 novembre, sono stati uccisi «Two high-ranking terrorists», due terroristi di alto grado.
La storia di Arna, l’ebrea
Dal 7 ottobre, a Jenin, ogni giorno c’è almeno un funerale. Quasi sempre si tratta di minori di 18 anni, o comunque giovanissimi. Uno dei luoghi simbolo del campo di Jenin è il Freedom Theater.
Nel 1953, dopo essere stata testimone degli attacchi di Israele contro le case dei palestinesi, Arna Mer-Khamis, ebrea israeliana (1929-1994), decide di andare a Jenin e aiutare le migliaia di arabi in fuga. Arna Mer-Khamis fonda una Ong, porta aiuti in cibo, medicine e contribuisce all’istruzione dei bambini. Durante la prima intifada costruisce anche un teatro: The Stone Theater. Successivamente chiuso. Dopo la morte di Arna Mer- Khamis, suo figlio Juliano, nel 2006, decide di aprire un nuovo teatro: il Freedom Theater. Juliano viene assassinato nel 2011. Nessuno ha mai scoperto chi sia stato. Israele e Palestina, ancora oggi, si accusano a vicenda del suo omicidio.
Oggi, il direttore del teatro è Mustafà Sheta. Mi accoglie facendomi visitare la struttura: «Il teatro è anche una forma di lotta. Ognuno resiste con le armi che ha, noi lo facciamo con l’arte. Per molti, all’ inizio, sembrava una follia avere un teatro in un posto come questo: un campo profughi sempre sotto attacco. Ma è proprio in luoghi come questo che è più necessario. Noi portiamo in scena grandi classici come La fattoria degli animali di Orwell, Alice nel paese delle meraviglie e altri. Ogni rappresentazione è riletta alla luce della situazione palestinese: raccontiamo la nostra storia attraverso opere famose, così che il pubblico possa avere un riferimento. Come puoi vedere, ora non ci è possibile lavorare, dopo il 7 ottobre è diventato troppo pericoloso. Abbiamo spostato le nostre attività nelle scuole fuori dal campo».
Mustafà mi mostra i danni fatti dagli ultimi raid. Pur essendo chiuso, il teatro viene comunque vandalizzato dai soldati dell’Idf. Ci sono fori di proiettili, involucri di granate. Sul palco, Mustafà mi racconta: «Un giorno stavamo facendo uno spettacolo per bambini. Gli israeliani hanno cominciato ad attaccare. I più piccoli si sono stretti ai genitori. Gli attori, nonostante il rumore delle esplosioni, hanno continuato a recitare. Nessuno si è mosso. Quello, per noi, è stato un vero atto di resistenza. È questo che il nostro teatro rappresenta».
Il 13 dicembre, dopo la nostra visita, i soldati israeliani faranno nuovamente irruzione nel teatro, ne distruggeranno l’interno, soprattutto le apparecchiature elettroniche (telecamere, microfoni, schermi e amplificatori). Mustafà Sheta sarà arrestato.
Di lui, ancora oggi, non ci sono più notizie. Insieme a un gruppo di altri giornalisti europei, vicini al teatro, abbiamo scritto all’ufficio pubbliche relazioni delle carceri israeliane – l’Israel prison service – per chiedere informazioni. Nessuna delle nostre domande ha, però, ottenuto risposta.
Nablus e il campo di Balata
Subito dopo Jenin, in Cisgiordania, il secondo luogo più attaccato è il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus. Sorge di fronte alla chiesa del Pozzo di Giacobbe, oggi amministrata dalla diocesi greco ortodossa. Balata è il campo più popolato della Palestina. In mezzo a piccole stradine fangose, qui vivono circa 32.500 persone.
Anche prima del 7 ottobre, gli scontri erano molto frequenti in questa zona.
Molti settlers, i coloni ebrei, si recavano al Pozzo (rientrante nel perimetro di proprietà della chiesa) in pellegrinaggio, armati e scortati dai soldati. A ogni visita, i militari installavano i check-point, chiudevano le strade e i negozi nelle vicinanze. Queste operazioni scatenavano la rabbia dei palestinesi di Balata, che rispondevano attaccando. Così si è andati avanti per decenni. Oggi la chiesa è chiusa e, di conseguenza, anche i pellegrinaggi dei coloni al Pozzo di Giacobbe.
Anche qui, come a Jenin, l’obiettivo di Israele è quello di sconfiggere la resistenza e chi la supporta. Malgrado gli attacchi quotidiani, Balata continua le sue attività, anche in ambito culturale. Per gli abitanti di Nablus, è il simbolo dei giovani che non si vogliono arrendere.
I soldati a casa di Adhan
Quando ci arrivo, alcuni uomini mi mostrano ciò che resta delle proprie case: camere da letto bombardate, buchi sul tetto, fori di proiettile ovunque.
Vengo invitato in una di queste abitazioni, dove una famiglia vuole raccontarmi la sua storia. Ad accompagnarmi c’è Adhan. La facciata della sua casa è coperta da lenzuola per nascondere il danno fatto dai soldati. In questa palazzina di tre piani, vivono venti persone, tutte della stessa famiglia ma di generazioni diverse. Ci accomodiamo in quello che era il soggiorno. Oggi è una stanza vuota con qualche sedia.
La madre di Adhan, Izdehar, mi serve del tè e mi racconta: «Durante l’ultima irruzione, i militari hanno distrutto tutti i mobili. Quindi, adesso lasciamo la stanza vuota. Non era la prima volta che entravano, usavano spesso questa casa per piazzare i cecchini. Però, in precedenza, prima del 7 ottobre, con i soldati potevamo almeno parlarci, erano più ragionevoli. La violenza e le aggressioni che abbiamo subìto l’ultima volta, sono qualcosa di nuovo. Una notte, abbiamo sentito delle esplosioni, poi l’arrivo dei bulldozer. Era una cosa che accadeva spesso, quindi, ci siamo stretti tra noi aspettando che passasse. Dalla porta sul retro sono arrivati i primi spari, i proiettili hanno perforato le finestre arrivando dentro casa. I soldati hanno sfondato la porta, sono entrati, si sono trovati davanti mio suocero, una persona molto anziana. Lo hanno colpito in testa con il calcio del fucile».
«Mia sorella – continua Adhan – aveva suo figlio piccolo in braccio, ma l’hanno colpita ugualmente. Abbiamo urlato: “Come potete picchiare una donna con un bambino?” Allora hanno radunato tutti noi uomini, ci hanno portato in strada, ammanettati e messi faccia a terra. Hanno cominciato a picchiarci, mio fratello Anas è stato il più colpito. Gli hanno dato così tanti calci in faccia, che ha perso conoscenza. Nonostante questo, un soldato gli ha ordinato di leccare il sangue dal suo stivale. Mio fratello era ormai svenuto, non rispondeva più. Abbiamo chiesto di far arrivare un’ambulanza, ma l’hanno bloccata impedendo a qualsiasi aiuto di arrivare. Lo hanno ridotto così – mi spiega, mostrandomi una foto del fratello in ospedale: la testa bendata, il volto tumefatto e livido -. Avremmo voluto reagire, ma con i fucili puntati in testa, cosa avremmo potuto fare?».
Tutto questo avveniva davanti agli occhi dei bambini, pietrificati nell’assistere a quelle scene. Ci rivolgiamo al fratello piccolo di Adhan, Ahmad di nove anni, chiedendogli cosa abbia visto quella notte: «C’erano i soldati, picchiavano forte gli uomini…». Ahmad si porta le mani al volto, finisce la frase in un pianto strozzato.
Izdehar ci dice ancora: «Durante quei momenti, a noi donne dicevano delle cose che non posso ripeterti, insulti orribili che fanno ancora male. Non mi trovo a mio agio a raccontare queste cose pubblicamente, anche se so che è importante per le persone sapere. Il mondo deve sapere».
Il mio interprete mi sussurra: «I soldati sanno bene cosa offende le donne musulmane. Gli insulti che rivolgono loro sono cose così orribili che nessuna donna li ripeterà mai, tanta è la vergogna».
I cecchini non sbagliano
Mentre termino l’intervista, la tensione nel campo cresce visibilmente. Dei ragazzini cominciano a posizionare dei grandi massi sulle strade principali. Arrivano gruppi di giovani armati e con il volto coperto. In lontananza si sente il ronzio dei droni: sta arrivando un nuovo raid. Per strada incontro alcuni colleghi fotografi. Appena cominciamo a sentire le esplosioni dei primi droni che bombardano il campo decidiamo di ripararci in un punto più coperto. Mentre camminiamo, i cecchini aprono il fuoco anche contro di noi. Colpiscono bersagli ai nostri lati, sparano contro l’asfalto che abbiamo appena calpestato, contro il taxi che si è fermato per farci salire.
Il tassista ci dice: «I cecchini non sbagliano. Se avessero voluto, sareste già morti. Vi vogliono spaventare».
Durante la mia lunga permanenza in Cisgiordania, le vicessitudini di cui sono stato testimone a Jenin e Nablus si sono ripetute anche a Hebron, Tulkarem, Ramallah. Eppure, anche durante gli attacchi, ogni stazione radiofonica, ogni canale televisivo era sintonizzato su Gaza. Alla fine di ogni raid, anche dopo gli arresti, le umiliazioni e la perdita di decine di familiari, tutti mi dicevano: «Dobbiamo andare avanti per rispetto di quello che sta accadendo a Gaza. Nulla è paragonabile a Gaza. Non possiamo piangere».
Angelo Calianno
Su MC 01/2024. Essere palestinesi in Cisgiordania / 1: «Cacciati come bestiame dai coloni»