Rwanda, un Paese per donne. Forse

Il Paese dell'Africa centrorientale e le sue donne

Donne rwandesi. Foto in CC via flickr di A'Melody Lee / World Bank.
Rwanda
Aurora Guainazzi

 

In occasione dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne, parliamo del Rwanda, Paese dell’Africa centrorientale ai primi posti nel mondo per le politiche sull’uguaglianza di genere, ma, in realtà, ancora profondamente patriarcale.

Più del 61% dei seggi in Parlamento sono occupati da donne, le quali ricoprono anche metà delle posizioni ministeriali. I loro diritti sono tutelati da numerose leggi, tra cui spicca quella contro la violenza di genere. Negli ultimi anni, la mortalità materna è calata drasticamente e le norme statali garantiscono equità tra maschi e femmine nell’accesso a ogni livello d’istruzione.

Il Rwanda sembra il Paese ideale per le donne. Tanto più che, da inizio anni Duemila, questo piccolo Stato dell’Africa centrorientale si posiziona stabilmente ai primi posti delle classifiche mondiali su uguaglianza di genere ed empowerment femminile, con indicatori di gran lunga superiori a molti Paesi occidentali.

L’immagine del Rwanda come Paese al femminile è nata subito dopo il genocidio del 1994, a seguito del quale il 70% della popolazione era composto da donne: molte avevano preso il posto degli uomini – uccisi, fuggiti o incarcerati – come capifamiglia e nel mondo del lavoro. Nel 2003, poi, la parità di genere è stata inserita nel preambolo della Costituzione di «uno Stato basato sul principio dell’uguaglianza di tutti i rwandesi, così come dell’uguaglianza tra uomini e donne».

Nei fatti, però, la situazione è ben diversa. Come spesso accade, tra la teoria e la pratica c’è un abisso e, dietro ai dati che descrivono una situazione apparentemente invidiabile, si nascondono diversi ostacoli e problematiche.

Con il 61% di deputate e il 35% di senatrici, nel 2023, il Rwanda era il Paese del mondo con il maggior numero di donne in Parlamento (mentre nel 2008 era stato il primo a eleggere più donne che uomini). Ma, in uno Stato la cui politica dal 1994 è dominata dal crescente autoritarismo di Paul Kagame e del suo Fronte patriottico rwandese, la maggioranza delle parlamentari appartiene al partito dominante ed è incapace di portare avanti una propria agenda per la tutela dei diritti femminili.

Il considerevole numero di donne in Parlamento, quindi, il più delle volte, non si traduce nell’approvazione di politiche a loro favore, se non sono coerenti con le direttive del partito. Dunque, non deve sorprendere che sia stata un’Assemblea, composta per il 56% da donne, ad approvare nel 2009 la riduzione da dodici a sei settimane del congedo pagato per la maternità.

Le donne che si oppongono alla narrativa di Kagame sono spesso – ancor più degli uomini – oggetto di violenze e persecuzioni, anche a sfondo sessuale. Quando nel 2010 Victoire Ingabire, principale rivale del presidente in vista delle elezioni di quell’anno, è tornata nel Paese dopo sedici anni di esilio, è stata immediatamente arrestata e incarcerata con l’accusa di cospirazione. Foto di Diane Rwigara nuda hanno invece iniziato a circolare sul web appena 72 ore dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali del 2017. Esclusa sulla base di presunte irregolarità nella registrazione della domanda, poco dopo, Rwigara è stata arrestata per una presunta evasione fiscale.

Più ombre che luci, dunque. E la politica, l’esempio più sfavillante del Rwanda al femminile, non è altro che la punta dell’iceberg di un sistema dove l’uguaglianza di genere è in realtà ben lontana dall’essere realizzata.

Uguaglianza apparente

Come si è detto, il Paese si è dotato di un panorama legislativo all’avanguardia nella tutela dei diritti delle donne, ma tra norma e prassi persiste ancora una grande distanza, a causa di cultura patriarcale e tradizioni sociali particolarmente radicate.

Dal 1999, le donne possono ereditare le proprietà di famiglia, ma, di fatto, la condizione posta dalla legge – presentare un certificato di registrazione di un matrimonio monogamo, in un Paese dove le unioni informali e/o poligame sono frequenti – impedisce loro di beneficiare di questo diritto.

Limiti che ritornano anche nella gestione delle risorse finanziarie e nell’esercizio dei diritti fondiari: tendenzialmente, le decisioni su denaro e proprietà sono assunte dagli uomini, mentre le donne, senza certificati di matrimonio, faticano anche solo a ottenere prestiti bancari. Non a caso, esse rappresentano il maggior numero di poveri in Rwanda.

Anche quando sono vittime di violenza, le donne sono spesso in difficoltà. Nonostante la legge sulla violenza di genere (2008) abbia condannato qualsiasi forma di aggressione nei loro confronti e inasprito le pene, la violenza è ancora diffusa – soprattutto nei contesti rurali – e poco denunciata. Le donne temono infatti di essere stigmatizzate dalla società se denunciassero, e di perdere qualsiasi risorsa finanziaria, dal momento che il denaro familiare il più delle volte è nelle mani degli uomini.

Non va meglio nel mondo dell’istruzione: sebbene la legge prescriva parità nell’accesso alle scuole, solo il 30% di coloro che ricevono un’istruzione secondaria sono ragazze. È infatti ancora profondamente radicata l’idea che le donne si debbano occupare della casa e della cura di marito e figli e che quindi non sia necessario investire nella prosecuzione dei loro studi.

Dunque, l’8 marzo in Rwanda – come in tanti altri Paesi di tutto il mondo – ricorda quanto la strada verso la reale parità di genere sia ancora lunga e passi, non solo attraverso leggi e provvedimenti, ma attraverso il superamento di una cultura patriarcale ancora profondamente radicata.

di Aurora Guainazzi

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Aurora Guainazzi

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