Zimbabwe. Dittatura legalizzata


Il presidente Emmerson Mnangagwa è stato riconfermato senza sorprese. Aveva sostituito Robert Mugabe dopo quarant’anni di «regno». Ma le regole non sono cambiate, anzi, leggi liberticide sono state promulgate, e la «democrazia matura» è sempre più un regime autoritario.

Il 21 novembre 2017, gli abitanti di Harare, la capitale dello Zimbabwe, erano scesi in strada per festeggiare la fine del regno di Robert Mugabe. In un Paese stremato da quasi quarant’anni di dominio dispotico, dove diritti umani, libertà di espressione e democrazia erano stati costantemente violati e l’economia devastata, si facevano strada speranza ed entusiasmo. Il nuovo presidente, Emmerson Mnangagwa, appartenente allo stesso partito del suo predecessore, l’Unione nazionale africana dello Zimbabwe-Fronte patriottico (Zanu-Pf), nel salire al potere prometteva l’inizio di un nuovo corso, quella che lui chiamava la «seconda Repubblica», dove democrazia e diritti umani sarebbero stati rafforzati e rispettati.

Tuttavia, le speranze e le promesse di uno Zimbabwe più democratico e libero sono rapidamente venute meno. Il predominio violento della Zanu-Pf non è cessato e, nel giro di pochi anni, Mnangagwa ha avviato una stretta sempre più forte nei confronti di libertà e diritti, colpendo in particolare associazionismo, informazione e opposizione politica. Il leader è cambiato, ma il sistema è rimasto lo stesso.

Il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa il 4 settembre 2023. (Photo by Zinyange Auntony / AFP)

Nulla di nuovo dal 2018

L’entusiasmo di non vedere per la prima volta dopo 38 anni il nome di Mugabe sulla scheda elettorale è durato ben poco. Secondo i dati rilasciati dalla Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec), al voto del 2018, Mnangagwa aveva ottenuto il 50,8% dei consensi. Di poco sopra la soglia della maggioranza assoluta necessaria per aggiudicarsi la presidenza al primo turno, tanto da scatenare accuse di brogli da parte dell’allora principale partito di opposizione, il Movimento per il cambiamento democratico, il cui leader, Nelson Chamisa, ufficialmente si era fermato al 44,3%.

Come in passato, non erano mancate intimidazioni e minacce agli abitanti delle aree rurali affinché votassero per la parte «giusta», mentre l’esercito aveva sparato sui manifestanti che chiedevano la pubblicazione tempestiva dei risultati, causando morti e feriti. Il modus operandi della Zanu-Pf e delle forze dell’ordine non era cambiato. Il partito, al potere dall’indipendenza del 1980, ancora una volta non aveva disatteso la sua lunga tradizione di violenza e violazioni dei diritti umani che, soprattutto in prossimità delle elezioni, si intensifica con arresti e detenzioni arbitrari, uccisioni e intimidazioni.

Negli anni, ogni forma di opposizione è stata repressa. A partire dal primo rivale della Zanu-Pf, l’Unione popolare africana dello Zimbabwe, che, dopo essere stata attaccata, nel 1987 era stata costretta a fondersi con il partito al potere. Successivamente, anche se alle elezioni, in apparenza, partecipavano più partiti, la vittoria della Zanu-Pf non era mai in discussione. Attraverso esecuzioni extragiudiziali, torture, pestaggi e rapimenti, documentati da diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, ogni forma di opposizione veniva silenziata.

Con la salita al potere di Mnangagwa, nulla è cambiato. Ancora una volta, arresti e detenzioni arbitrari, limitazioni alla diffusione di informazioni, intimidazioni e brogli hanno permesso di reprimere ogni forma di dissenso. Una stretta che si è progressivamente intensificata con l’avvicinarsi delle elezioni del 23 agosto 2023.

Libertà sotto attacco

Libertà di associazione e informazione sono state le prime a essere colpite, nonostante siano tutelate dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli di cui lo Zimbabwe è firmatario.

Il 2023 si è aperto con l’applicazione del Private voluntary organizations act del 2021 grazie al quale l’esecutivo ha deregistrato 291 Ong, accusate di gestione non trasparente dei finanziamenti e di minare la sicurezza nazionale. Questa mossa – insieme all’emendamento approvato pochi giorni dopo per impedire a questi enti di prendere parte a qualsiasi attività politica – ha permesso al governo di mettere fuori gioco le organizzazioni più critiche, che avrebbero potuto rivestire un ruolo importante nell’educazione al voto dei cittadini e nel monitoraggio delle elezioni.

Sul versante dell’informazione, invece, a causa del Cyber and data protection act (2021), sono cresciuti intimidazioni, arresti e condanne tra i giornalisti, spesso accusati di pubblicare dati e informazioni falsi finalizzati a danneggiare figure legate al governo. Una misura, comunque, non sufficiente a silenziare le voci critiche e rafforzare il predominio dei media statali. Tanto che nella primavera del 2023 il direttore dell’informazione della Zanu-Pf, Tafadzwa Mugawadi, ha minacciato di scollegare le antenne paraboliche di chi guardava stazioni informative straniere. Tra di esse, Al Jazeera – rea di aver appena pubblicato Gold Mafia, un’inchiesta su traffico d’oro, corruzione e riciclaggio di denaro da parte dell’élite politica zimbabweana -, Cnn, Bbc, France 24 ed Euronews.

Poco spazio per l’opposizione

Alle elezioni l’opposizione parte sempre in una condizione di svantaggio. La Zanu-Pf controlla strutture politiche, forze dell’ordine, Zec e mass media. La possibilità dell’opposizione di fare campagna elettorale è costantemente messa in discussione dall’introduzione di provvedimenti apparentemente destinati a tutelare la sicurezza nazionale, ma che in realtà mirano a limitare il più possibile manifestazioni di dissenso.

In vista delle elezioni dello scorso agosto, il nuovo movimento di Chamisa, la Coalizione dei cittadini per il cambiamento (Ccc), è stato attaccato su più livelli. Le sue reali possibilità di fare campagna elettorale e mobilitare gli elettori sono state notevolmente limitate. Con l’applicazione selettiva del Maintenance of peace and order act del 2019 (che impedisce incontri pubblici se non viene avvertita la polizia con una nota scritta), all’opposizione è stato spesso impedito di tenere raduni e mobilitare i suoi sostenitori. Secondo Tendai Biti, parlamentare della Ccc, nella prima metà del 2023 sono stati vietati ben 63 incontri del suo partito.

Quando poi le manifestazioni si tengono, sono spesso interrotte dalle forze dell’ordine che accusano i partecipanti di minare la sicurezza nazionale. In un’escalation di arresti, nel corso del 2023, numerosi sostenitori e membri del partito sono stati fermati con l’accusa di mettere a repentaglio l’ordine pubblico.

Ma non solo. Molte zone rurali sono state dichiarate «no-go areas», località in cui la Ccc non poteva recarsi, impedendole così di fare campagna elettorale in vaste parti del Paese. Un divieto che non si applicava alla Zanu-Pf, libera di intimidire gli elettori. Ugualmente, la Ccc non ha potuto accedere alle liste degli elettori registrati, nonostante la Zec sia obbligata a fornirle a tutti coloro che ne fanno richiesta e pagano la quota stabilita. Anche in questo caso, la Zanu-Pf ha fatto eccezione: le ha ottenute e se ne è servita per mobilitare i votanti e mandare sms intimidatori.

Ma ancora prima di riuscire a fare campagna elettorale, i membri dei partiti di opposizione hanno faticato addirittura a candidarsi. Il rialzo della tassa per partecipare alla corsa presidenziale, passata dai 16mila dollari del 2018 ai 20mila di oggi, ha contribuito a dimezzare le candidature a capo dello Stato, scese da 23 a 11. Allo stesso modo, è cresciuta la quota per concorrere a un seggio parlamentare (da 800 a mille dollari), rendendo difficile per l’opposizione, le cui risorse finanziarie sono minori rispetto alla Zanu-Pf, di competere alla pari.

È evidente come le richieste che la Zimbabwe election support network (Zesn) avanza dal 2018 siano finora rimaste completamente inascoltate. Le riforme elettorali non hanno mai portato alla creazione di un ambiente libero da violenze, intimidazioni e minacce, dove tutti i partiti possano fare campagna liberamente e la popolazione manifestare il proprio supporto all’una o all’altra parte.

Contro ogni forma di dissenso

Le misure degli ultimi anni hanno non solo colpito l’opposizione politica, ma limitato qualsiasi forma di disaccordo. Le forze dell’ordine non hanno fatto distinzioni nel sedare manifestazioni di studenti, medici o sostenitori dell’opposizione. Il messaggio era sempre lo stesso: qualsiasi forma di dissenso non è ammessa.

I medici zimbabweani scendono frequentemente in strada per chiedere migliori condizioni di lavoro e maggiori salari, venendo dispersi dalle forze dell’ordine. La stessa sorte tocca agli studenti dell’Università che, oltre a manifestare contro l’élite politica, protestano per le crescenti tasse universitarie che stanno rendendo il diritto allo studio ancora più esclusivo in un Paese dove, secondo l’Unicef, quasi la metà dei giovani non ha accesso all’istruzione.

Senza dimenticare i frequenti blocchi di internet che affiancano la dura reazione delle forze dell’ordine durante manifestazioni e proteste. Rendere difficile l’accesso alla rete è infatti uno strumento repressivo adottato per limitare la capacità dei manifestanti di organizzarsi e mobilitarsi.

Non va meglio a esponenti del mondo della cultura critici nei confronti del governo. La scrittrice Tsitsi Dangarembga è stata condannata a sei mesi con condizionale per aver partecipato a proteste contro la difficile situazione economica, mentre il musicista Wallace Chirumiko, dopo aver espresso il proprio malcontento nei confronti della classe politica, è stato minacciato e costretto a cessare la propria attività.

La legge patriottica

Il culmine nell’adozione di strumenti repressivi è stato raggiunto un mese prima del voto con la Criminal law (Codification and reform) amendment bill. Meglio conosciuta come Patriotic bill, la «Legge patriottica» criminalizza chi deliberatamente mina la sovranità e l’interesse nazionale dello Zimbabwe.

Tuttavia, il tono vago della disposizione, denunciato da Amnesty International, ne facilita la manipolazione e applicazione a piacimento da parte del governo. È infatti a discrezione dell’élite politica decidere se, quando e nei confronti di chi applicare condanne che vanno dalla perdita della cittadinanza, all’incarcerazione a vita, fino alla pena di morte. In violazione della Costituzione, che prevede la pena capitale solo in caso di assassinio con circostanze aggravate.

Esprimere il proprio dissenso diventa sempre più complesso e rischioso e, ancora una volta, sono colpite tutte le forme di opposizione: dalla politica, alla società civile, all’informazione. La libertà di espressione è stata ormai completamente messa al bando nel Paese.

Tanto che la portavoce della Ccc, Fadzayi Mahere, subito dopo l’approvazione della legge, ha affermato che Mnangagwa è addirittura peggiore di Mugabe e che ormai lo Zimbabwe si trova sotto piena dittatura. Il fatto che il provvedimento sia stato varato poco prima delle elezioni non è una casualità. Assieme agli strumenti repressivi già introdotti e alla onnipresente violenza elettorale, la Legge patriottica è un altro mezzo con cui la Zanu-Pf può mettere fuori gioco gli sfidanti più pericolosi.

Il paradosso di una «democrazia matura»

È stato in questo clima che lo Zimbabwe si è recato alle urne lo scorso agosto. I risultati comunicati dalla Zec non hanno riservato sorprese. Mnangagwa si è aggiudicato la presidenza per la seconda volta con il 52,6% dei voti, mentre Chamisa si è fermato al 44%. Festeggiando una rielezione scontata, Mnangagwa ha definito lo Zimbabwe una «democrazia matura» e ha detto di essere «orgoglioso che sia una nazione indipendente e sovrana». Tutto ciò nonostante l’opposizione abbia rifiutato il risultato e denunciato diverse irregolarità e brogli.

Prime tra tutte, le incongruenze nella registrazione degli elettori e nella definizione delle circoscrizioni. Alcuni votanti sono stati cancellati dagli elenchi, altri iscritti in sedi lontane chilometri. Alcuni seggi sono stati duplicati, altri posizionati in aree remote del Paese.

Oltre a tentare di scoraggiare la partecipazione elettorale degli zimbabwani residenti sul posto, ancora una volta, non è stata mantenuta la promessa del 2018 di permettere alla diaspora – circa 5 milioni di persone, il 30% della popolazione – di partecipare alle elezioni dall’estero, sostenendo che non fossero previsti collegi nelle sue aree di residenza. Una chiara dimostrazione dell’assenza di volontà politica di concedere diritto di voto a una frangia di popolazione il cui contributo alla fragile economia del Paese è significativo: secondo la Banca mondiale, nel 2021, le rimesse della diaspora erano pari a 2 miliardi di dollari, il 7% del Pil nazionale.

Non è andata meglio la giornata elettorale. Forti ritardi hanno costretto a mantenere aperti i seggi anche il giorno successivo: in alcuni distretti, tra cui Harare, fortezza dell’opposizione, le schede sono arrivate solo nel pomeriggio. Mentre Netblocks (organizzazione che monitora la libertà di accesso a internet) ha denunciato come la connessione internet fosse sensibilmente peggiorata già il 22 agosto, rendendo difficile sia accedere alle informazioni sia permettere alle notizie di uscire dal Paese.

Violenze e intimidazioni nei confronti dell’opposizione, limiti nell’accesso a un’informazione imparziale e pochi giornalisti – soprattutto stranieri – accreditati a seguire il voto sono tra le problematiche denunciate dalla Zesn – di cui 40 membri sono stati arrestati – e dai pochi osservatori stranieri presenti.

Brogli e frodi sono proseguiti anche dopo la conclusione delle procedure elettorali. A inizio ottobre, Jacob Mudenda, portavoce dell’Assemblea nazionale e membro della Zanu-Pf, ha detto di aver ricevuto una lettera dal segretariato generale della Ccc che comunicava che 15 parlamentari non appartenevano al partito. I seggi erano stati immediatamente dichiarati vacanti, nonostante la Ccc avesse preso le distanze dal comunicato e ricordato di non avere un segretariato generale. Si trattava di una frode per tentare di ridurre il numero di parlamentari dell’opposizione e aumentare quelli della Zanu-Pf.

Crisi economica permanente

L’immagine dello Zimbabwe che emerge dopo il 23 agosto è simile – se non peggiore – a quella del Paese dopo una delle tante tornate elettorali manipolate da Mugabe. Uno scenario confermato da Freedom House (Ong Usa), che, analizzando lo stato della democrazia nel mondo, colloca lo Zimbabwe tra i paesi «non liberi».

Da decenni in una spirale di crisi economica e monetaria, disoccupazione e iperinflazione, il Paese ha accumulato un ingente debito con creditori esteri – nel 2022 pari a 14 miliardi di dollari, secondo la Banca africana di sviluppo – ed è prostrato dalle sanzioni occidentali varate all’epoca di Mugabe a causa delle violazioni dei diritti umani e in vigore ancora oggi.

Di fronte all’assenza di prospettive e alla sempre maggiore restrizione di diritti e libertà, molti giovani fuggono, cercando opportunità migliori negli stati vicini, ma anche in Europa e Stati Uniti. Al contempo, la classe politica corrotta continua a perpetuare il proprio potere, attraverso reti clientelari, senza preoccuparsi delle reali necessità della popolazione. La «seconda Repubblica» promessa da Mnangagwa, non è ancora arrivata.

Aurora Guainazzi




Troppo cibo sprecato


Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre  e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.

Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.

Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.

Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.

Misurare lo spreco

Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.

La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.

Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.

Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.

Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.

La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.

«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.

I disastri che «mangiano» il cibo

A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.

Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.

Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.

Esempi di disastri

Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.

Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.

A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.

Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».

Nairobi, Kenia. Agosto 04/2020. Hogar Familia Ya Ufariji. Huerta en Ngomongo. © Bruno Cerimele

Campagne, app e tecnologia contro lo spreco

Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.

A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.

E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.

Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.

Nei paesi in via di sviluppo

Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.

Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.

L’esperienza nelle missioni

Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.

Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.

Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».

Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.

Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».

Chiara Giovetti




«Cacciati come bestiame dai coloni»


La Cisgiordania (West Bank) dovrebbe essere palestinese. In realtà, è occupata da Israele con oltre 500mila coloni. Siamo andati a cercare di capire una situazione che è ingiusta ed esplosiva.

Nella mappa si vedono Gaza e la Cisgiordania (West Bank) con gli insediamenti dei coloni israeliani.

Arrivo in Cisgiordania passando dal valico di «King Hussein bridge», in Giordania. Normalmente, la coda per attraversare il confine è chilometrica. Oggi siamo soltanto in tre a entrare. Il confine, di solito, è affollato da cooperanti, palestinesi che vivono all’estero e viaggiatori. Dal 7 ottobre – giorno dell’attacco di Hamas e dell’inizio della nuova guerra – è semideserto. Quello che sta accadendo a Gaza ha fatto lasciare la Cisgiordania a quasi tutte le Ong straniere.

Per entrare bisogna passare molti controlli, il primo check point israeliano è quello più complicato. Rimango in attesa per circa tre ore, prima di essere interrogato. Mi vengono fatte le domande più disparate: da quelle personali, ai dettagli tecnici sulla mia presenza qui.

Passato il posto di frontiera, i controlli non diventano più facili. Nelle ultime settimane i militari hanno chiuso moltissime strade: a volte ci vogliono sei ore per un percorso che, normalmente, si potrebbe fare in un’ora.

La Cisgiordania è sempre stata un punto nevralgico per tutto il Medioriente. Quello che accade qui ha eco anche in tutte le nazioni confinanti o vicine: Giordania, Egitto, Libano.

Gli scontri, soprattutto in contrapposizione all’occupazione e all’espandersi delle colonie israeliane in Palestina (riconosciute illegali dalle Nazioni Unite nel 1979 con la risoluzione n. 446), sono quasi quotidiani. È proprio dopo l’arrivo delle colonie che sono nati alcuni dei movimenti armati che conosciamo oggi: la Pij (la Jihad islamica) nel 1979, Hamas a Gaza nel 1987.

Nel 2000, iniziando da Gerusalemme e poi espandendosi in Cisgiordania, dopo il fallimento dei negoziati di Camp David, è scoppiata la seconda intifada. Una rivolta che sarebbe durata cinque anni. Al termine di quel conflitto, sarebbero state circa 1.300 le vittime israeliane e più di 6.000 quelle palestinesi, la metà di loro civili, annoverate nelle statistiche come «vittime collaterali». In quegli anni di intifada, sono nati altri gruppi armati come le brigate di al-Aqsa, movimento formatosi alla fine del 2000.

Da 75 anni, cioè dalla «Nakba» del 1948, quando oltre 750mila palestinesi furono costretti ad abbandonare le proprie terre, tra periodi più quieti e picchi di violenze, la tensione in questa parte del mondo non si è mai attenuata.

Cosa accade oggi dopo gli eventi del 7 ottobre? Quali sono le conseguenze dei bombardamenti a Gaza su questa parte della Palestina, soprattutto in quei territori da sempre contesi tra palestinesi e coloni?

Armati e incappucciati, due combattenti della brigata Aqsa di Jenin. Foto Angelo Calianno.

«Cacciati come bestiame»

Abu Hasen all’interno dell’ufficio della «Colonization & wall resistance commission». Foto Angelo Calianno.

A Ramallah ha sede una commissione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata «Colonization & wall resistance commission». Si occupa di fornire assistenza legale e aiuto a tutte quelle persone aggredite dai coloni o che si ritrovano le proprie terre occupate abusivamente. Oltre ai dipendenti governativi, questo gruppo è formato da volontari, anche internazionali, che attuano una resistenza pacifica all’espansione delle colonie. Qui incontro uno dei responsabili: Abu Hasen.

Già tre volte è stato arrestato dai militari israeliani. La detenzione più lunga è stata durante la seconda intifada. Quando gli chiedo il perché dell’arresto, stringe le spalle sorridendo: «Non c’è quasi mai un perché. Li chiamano reati amministrativi. Può essere di tutto: da un post su internet a una parola detta male, a una resistenza a perquisizione. Siamo palestinesi, questo basta per essere arrestati».

Continua raccontandomi: «Devi capire che qui ora è cambiato tutto. Non dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, come molti pensano, ma dal dicembre 2022. L’anno scorso, infatti, Ben Gvir (ministro della sicurezza nazionale israeliano, ndr) ha annesso i coloni nella riserva dell’esercito. I settlers (così come vengono chiamati qui gli abitanti delle colonie) per anni, con il benestare di Israele, hanno preso la nostra terra e perpetrato continui attacchi volti a sfinire la popolazione. Il fine è quello di spingerci ad abbandonare tutto e andare via, un po’ come è successo nel 1948. Accorpando queste persone alle forze armate, hanno praticamente legittimato i coloni ad avere armi e a usarle contro di noi, senza temere nessun tipo di ripercussioni.

A seguito di raid e attacchi, sia da parte dell’Israel defence forces che dei settlers, in Cisgiordania sono state uccise 189 persone, più di 8mila sono stati i feriti. Questo accadeva prima del 7 ottobre. Io non sono mai stato un sostenitore di Hamas, sono membro di Al-Fatah, ma so che quello che ha fatto Hamas è stata la risposta a questa legge e a tutte le morti che ha causato».

Solo un mese fa, Abu Hasen ha subito un nuovo arresto. La detenzione è stata di nove ore durante le quali, però, l’uomo è stato interrogato con metodi di tortura di cui porta ancora i segni addosso.

«Con il nostro gruppo cerchiamo di aiutare e difendere chi continuamente subisce soprusi dai coloni. Mi trovavo vicino a un campo di beduini, da tempo i coloni cercano di espropriarne le terre per continuare l’espansione. Eravamo lì per impedirlo. Sono arrivati i soldati, ci hanno interrogato, hanno trovato un coltello e mi hanno arrestato. Il coltello era un semplice coltello da cucina, ce l’avevamo perché eravamo lì accampati e abbiamo cucinato sul fuoco. Mi hanno portato in una delle tende dei beduini, mi hanno colpito con il calcio del fucile sulla testa, più volte. Mi hanno urinato addosso, preso a calci. Poi mi hanno ordinato di mangiare gli escrementi delle capre. Mi hanno insultato e urlato che ero un terrorista di Hamas. Ho chiesto loro di smetterla tentando di spiegare che io non c’entravo nulla con Hamas, ma loro hanno continuato.

Penso mi abbia salvato solo il fatto che parlo ebraico. Ho cominciato a spiegarmi nella loro lingua e poi, dopo nove ore, mi hanno lasciato andare. Il risultato è che ora non torno più a casa. Sono così traumatizzato che, quando non dormo in quest’ufficio, cambio luogo ogni notte per paura che mi vengano a prendere».

Gli chiedo: che messaggio vorresti dare a chi conosce poco la storia di questi luoghi? «Sembra che, per Israele, l’unica soluzione possibile sia quella di mandarci tutti via da questa terra, mandarci in Egitto, in Giordania, come se fossimo bestiame. Io vorrei dire che siamo esseri umani anche noi, così come gli ucraini. Perché per loro tutta la comunità internazionale si è mobilitata e per noi no? Sto vedendo in tutto il mondo le manifestazioni, in nostro supporto, per denunciare il genocidio che stanno compiendo a Gaza. Questo a noi dà molta forza. Secondo me, il cambiamento si avrà solo quando in Occidente le persone, ognuna nella propria nazione, si faranno valere contro quei governi che appoggiano Israele».

A Taybeh, villaggio cristiano

Per verificare le storie di Abu Hasen, decido di andare nei villaggi da lui menzionati. Mi trovo a circa trenta chilometri da Gerusalemme, nel villaggio di Taybeh. Taybeh è l’unico villaggio, in Palestina, ad essere interamente abitato da cristiani. Oggi ci vivono appena 1.300 persone, sono 8.000 invece i suoi cittadini residenti all’estero. Il nome Taybeh è stato dato al villaggio durante il dominio di Saladino. In antichità invece, la cittadina era conosciuta come Efraim, città della Samaria dove, come riportato nel Vangelo di Giovanni, Gesù dimorò alcuni giorni prima della passione.

In una delle vie del paese, incontro padre Jack Nobel, sacerdote della chiesa cattolica greco-melchita di San Giorgio. Padre Jack ha studiato a Roma e, in un perfetto italiano, mi racconta: «Qui siamo tutti cristiani: melchiti, cattolici latini e ortodossi. Prima della guerra, c’erano tantissimi pellegrini che si fermavano a Taybeh, sulla via o di ritorno da Gerusalemme. Io ho sempre detto a tutti i turisti che passavano: “Pensate, voi qui potete andare e viaggiare ovunque e muovervi liberamente. Io, nonostante sia un sacerdote, nonostante parli diverse lingue correttamente, non sono libero di andare in pellegrinaggio a pregare in Terra Santa. Questo perché sono palestinese”. La situazione ora, ovviamente, è peggiorata. I continui attacchi dei coloni, soprattutto durante la raccolta delle olive, hanno spaventato davvero tantissima gente».

Gli chiedo: perché tanta violenza verso di voi, padre? Chi sono esattamente i coloni e cosa vogliono? «Questa è una storia lunga decenni. I coloni, in Israele, sono conosciuti come: “hilltop youth” (i giovani delle colline). Sono estremisti di destra, gente violenta che Israele non vuole, e quindi li spedisce da noi. Quello che vogliono è semplice: che ce ne andiamo. Per loro questa terra gli spetta di diritto, perché promessa da Dio». L’ideologia degli hilltop youth prende ispirazione dal partito clandestino ebraico del Brit HaBirionim («Alleanza degli uomini forti») e dal cananismo, entrambi movimenti attivi tra gli anni ’30 e ’40. Il pensiero di questi gruppi si ispirava al regime fascista di Benito Mussolini.

Continuando a camminare per il villaggio, la gente del luogo mi indica la casa di Eliana e Khalil, una coppia cristiana recentemente aggredita dai coloni. I due gentili anziani mi accolgono alla porta. Khalil ha 77 anni, Eliana 69. Lei porta una vistosa fasciatura al braccio. Mi offrono del caffè e dei dolci.

La donna racconta: «Il 26 ottobre stavamo raccogliendo le olive. Alle nostre spalle sono arrivati dodici settlers. Hanno cominciato a distruggerci l’attrezzatura e a prenderci a bastonate. Avevano delle lunghe spranghe con delle punte di metallo. Hanno cercato di colpirmi in testa, io mi sono riparata con il braccio e così me lo hanno rotto in due punti. I coloni ci hanno sempre provocato. Spesso troviamo i terreni danneggiati, gli alberi d’ulivo tagliati o bruciati. Ci lanciano sassi e bottiglie contro la casa, ma delle aggressioni con tanta violenza non c’erano ancora state qui. In questa situazione, nemmeno i nostri figli possono raggiungerci perché, con tutti check point e le strade chiuse, viaggiare per i palestinesi è diventato impossibile. Poi però vediamo quello che accade a Gaza, e allora ci riteniamo fortunati».

Coppia cristiana di Taybeh aggredita dai coloni (foto Angelo Calianno).

Le immagini dei martiri

Mentre continuo le interviste attraverso i villaggi di questa zona, mi arriva la notizia che ad Al Am’ari, il campo profughi alla periferia di Ramallah, c’è stato un altro attacco delle forze dell’Idf. Decido di rientrare per documentare la situazione. Al Am’ ari è uno dei campi più piccoli di tutta la Cisgiordania, oggi ci vivono 15mila persone. Questi campi sono soggetti a raid e arresti continui perché, secondo le forze di sicurezza israeliane, sono rifugio di molti combattenti palestinesi.

Entrando in questi luoghi, le prime cose che si notano sono le fotografie. Ci sono immagini ovunque, quasi sempre di giovani ragazzi: foto sui poster, volti disegnati sui muri, fotografie appese alle insegne dei negozi, spille raffiguranti dei volti: sono i martiri. I martiri non sono sempre combattenti, è considerato martire chiunque abbia perso la vita durante gli scontri, i raid e gli arresti da parte di Israele.

Alcuni bambini, sorridendo, mi mostrano la loro medaglietta raffigurante una delle vittime. L’ultima, in ordine cronologico: Mohannad Jad Al-haq, ucciso il 9 di novembre. I bambini mi conducono nella casa dove vive la sua famiglia, invitandomi a bussare.

Qui incontro la madre di Mohannad e il fratello: «Mio fratello non aveva fatto davvero nulla. Non si è mai interessato di politica, non aveva mai avuto a che fare con la resistenza. Stava andando a lavorare quella mattina, erano le sette e trenta, si trovava per strada quando è cominciato il raid. Ha chiamato la moglie per dirle di rimanere a casa, perché i militari israeliani stavano entrando nel campo. È stato raggiunto da un proiettile allo stomaco, è morto in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il medico ci ha detto che era stato colpito da un proiettile “dum dum”». I «dum dum» sono pallottole a espansione. Sono cioè progettate per espandersi all’interno del corpo del bersaglio, aumentando così la gravità delle ferite.

Sua madre Khadija, orgogliosa, mi mostra la medaglietta che ha al collo con la foto del figlio: «È il terzo ragazzo a morire nel gruppo degli amici di Mohannad. Nessuno di loro si è mai interessato alle fazioni politiche. Siamo gente semplice che vuole lavorare. Quando Mohannad è morto tutti piangevano, ma io no, sorridevo. Perché Dio mi ha dato la forza di sopportare tutto questo».

Angelo Calianno

Striscione in onore di Mohannad su una strada del campo di Al Am’ ari. Foto Angelo Calianno.

 

 




Lettori e Missionari in dialogo


Parlami nel silenzio

Padre Giampietro Casiraghi (© AfMC/Gigi Anataloni)

Abituato a parlarti
con troppe parole,
mi rivolgo a Te, Signore,
nel silenzio.
Parole belle e gradevoli,
ma astratte e lontane,
ripetute all’infinito.

Nel frastuono che mi circonda
non sento più la Tua voce.
Parlami, o Signore, nel silenzio.

Ho bisogno del tuo silenzio
che mi penetri dentro
nell’intimità del cuore,
che mi avvolga e mi parli
per ridare slancio
alla mia preghiera.

Ho bisogno del tuo silenzio.
Che possa ascoltarlo a lungo!
Mentre mi immergo
nel mistero del Tuo amore,
parlami nel silenzio.

Che possa sempre ascoltare
la Tua voce, Signore.

Giampietro Casiraghi

Questa preghiera era nella stanza di padre Giampietro Casiraghi, missionario della Consolata che il Signore ha chiamato a sé il 16 novembre scorso. Una preghiera particolarmente intensa per uno come lui che era un maestro della parola.

Nato il 23 aprile 1936 a Osnago, allora provincia di Como, a vent’anni emette i primi voti come missionario della Consolata ed è ordinato sacerdote il 7 aprile 1962. Brillante e preparato, è mandato prima come professore nel seminario minore di Bevera (Como, ora Lecco) fino al 1964, e poi è trasferito a Rivoli (Torino) nella redazione di questa rivista e di altre due che erano pubblicate allora: «La vedetta» (per ragazzi) e «Selezione missionaria». Il suo compito è pubblicare quest’ultima, che vuole essere la versione missionaria di Selezione del Reader’s Digest per far conoscere in Italia il meglio di quanto si pubblica nel mondo sulle riviste missionarie degli altri paesi. La bella avventura si conclude nel 1970 e nel 1971 diventa insegnante di Cristologia (lo studio approfondito della figura di Gesù Cristo) nella scuola di teologia della Fist (Federazione italiana studentati teologici) a Torino dove studiano i seminaristi della Consolata (tra cui lo scrivente) e di altri istituti.

Da quel momento la sua vita è segnata dall’insegnamento e, quando nel 1990 la Fist chiude, passa a insegnare all’Università di Vercelli dove può condividere un’altra delle sue passioni, l’Epigrafia e lo studio della storia medioevale, campo nel quale diventa uno degli esperti più qualificati sulla storia della Sacra di San Michele e delle pievi del Piemonte.

Impegnato a livello della diocesi di Torino nell’ufficio della pastorale, assistente del Movimento Rinascita cristiana, responsabile degli studi nell’Imc, padre Casiraghi vive una vita intensa, pubblicando diversi libri e collaborando attivamente con questa rivista fino al 2015, quando la sua salute è condizionata pesantemente da una malattia cerebrale che gli impedisce di dedicarsi agli studi e alla predicazione come era nel suo stile brillante e profondo.

Nel 2021 deve essere trasferito nella residenza per missionari anziani ad Alpignano (Torino), dove il Signore lo chiama a sé.

Una cosa importante abbiamo imparato da lui, noi che siamo stati suoi studenti, quella di non accontentarci mai delle risposte più ovvie e popolari, ma di mantenere sempre un forte senso critico e continuare ad approfondire la conoscenza a tutto campo. Grazie.

Il testamento di una mamma

Caro padre,
mi faresti un grande regalo se potessi pubblicare questa lettera testamento che mia mamma scrisse nel lontano 1955 prima di andare all’ospedale per l’asportazione di un rene, un’operazione molto rischiosa allora. Grazie a Dio tutto è andato bene e lei è vissuta ancora per molti anni, fino al 1994. Ho sempre conservato gelosamente questa lettera. Allora avevo solo undici anni, ora vivo anch’io nell’attesa di andare in Paradiso a fare festa con lei e mio padre Guido. Grazie

padre Carlo Laguzzi, Imc
Torino, 02/11/2023

 

«Caro Guido e carissimi figli miei,
se per caso non tornassi più (sia fatta la volontà di Dio! Adoriamola) raccomando a voi che siete i miei amatissimi, di avere l’un verso l’altro un grande amore scambievole; ed ai maggiori raccomando anzitutto di sopportare ciascuno col suo carattere, e di aver cura dei più piccoli.

Abbiate tutti voi figli cura di vostro padre, che è sempre stato verso di voi generoso e affettuoso, e pei quali non ha risparmiato sacrifici.

Quel poco che è mio egli lo dividerà equamente fra di voi: abbiate sacri i suoi pareri e i suoi consigli. Vi manifesto i miei ultimi desideri che avrei piacere fossero ottemperati:

Non fate avvisi per la mia morte: se proprio il babbo lo vuole, a funerali avvenuti e senza lutto per mio espresso desiderio. Il funerale deve essere il più umile possibile, e desidero essere sepolta nel campo comune, senza tomba, senza pietra. Quando potete mi porterete qualche fiore di campo, qualche margherita, che io ho sempre prediletto.

Quello che invece caldamente vi raccomando, è che mi facciate dire, e soprattutto che ascoltiate per me, il maggior numero di Messe possibile.

Avrei voluto andarci sovente, per voi non ho potuto; riparate per quel che potete alla mia negligenza. Vestitemi col mio vestito nero solito e bruciate tutti gli scritti miei che troverete in casa, soprattutto quelli (lettere) riuniti in una scatola nella parte inferiore della libreria, e quelli (quaderni) in uno scatolone posto sopra la libreria.

Ho pregato spesso perché a tutti i miei cari fosse concessa la grazia della perseveranza finale: possa essere veramente il nostro viatico comune per l’aldilà. Vi bacio tutti e porto tutti con me nel cuore».

La vostra mamma
Torino, 27/01/1955

 

I racconti di padre Rondina

Camminare nella foresta, di notte…

Storia che ho raccolto dalla bocca del novantaquattrenne padre Aimone Rondina, ospite nella Residenza Allamano ad Alpignano.

«Quella mattina dovevo alzarmi presto per recarmi in un dispensario a qualche chilometro da Matiri (la mia missione, nella regione del Meru in Kenya). Mi avrebbero dato un passaggio ma solo all’andata, il ritorno era affidato alle mie stanche gambe, che conoscevano bene il sentiero attraverso il bush (lett. cespuglio, figurativamente indica una zona disabitata con folti cespugli e piante, ndr). Non avevo però fatto i conti con l’unica e più subdola variabile, le chiacchiere; una tira l’altra e il tempo passò senza che me ne rendessi conto. Fu solo quando osservai l’orologio che tornai alla realtà, erano quasi le sei del pomeriggio e fra un po’ si sarebbe fatto buio, quel buio che qui in Kenya arriva all’improvviso. Mi affrettai a salutare e ripresi la via di casa. Il tramonto mi colse quando ero già sulla piccola strada sterrata. La sicurezza iniziale cominciò a lasciare il posto a un po’ di ansia, mentre sentivo chiaramente i mille rumori della foresta venirmi incontro.

Frugai in tasca alla ricerca della torcia, che sciocco, non l’avevo presa con me tanto sarei tornato presto. Solo, nel buio che più buio non si può, compresso fra due “muri” di vegetazione da dove poteva spuntare qualsiasi cosa da un momento all’altro. Non sapevo quanto avevo camminato (l’orologio non era fosforescente), né quanto mi restasse da camminare, soprattutto se avevo tenuto il sentiero giusto. Unica fonte luminosa che mi dava un po’ di sicurezza: una grande luna sempre di fronte.

Cominciai a pregare per rassicurarmi, ma per fortuna dopo appena qualche minuto intravvidi una flebile luce in lontananza che faceva capolino fra la vegetazione. Era proprio la missione! La raggiunsi abbastanza velocemente, entrai e il missionario mio collega mi accolse con un “era ora, cominciavamo a preoccuparci”.

Da allora andai nei villaggi sempre in auto, andata a e ritorno, anche quando pensavo di rientrare presto».

R.L. Rivelli
Torino, novembre 2023

 

Sete di verità

Spett. Redazione,
grazie mille della vostra preziosa risposta su MC di novembre. Considero il dialogo, anche per email, sempre fonte di crescita, specie se con persone speciali come vi ritengo.

La famosa frase del papa che lei cita «chi sono io per giudicare» forse è stata un po’ strumentalizzata dai sostenitori dell’omosessualità. Non si tratta di giudicare le persone ma lo sbaglio, infatti occorre separare l’errore dall’errante. Drogarsi è sbagliato e da condannare, i drogati sono da accogliere e da guidare verso il superamento dell’errore, liberarli.

Il mio discorso non era un voler giudicare ma una preoccupazione per i giovani. Chi è genitore sa quanto sia difficile crescere i figli in una società che non sa più ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in un tempo in cui è di moda il relativismo, il «così è se vi pare».

Invece esiste la verità, abbiamo un grandissimo bisogno di verità, di sapere ciò che è realmente buono e non solo apparentemente. Quando non distinguiamo più ciò che è veramente bene dal falso bene unica ancora di salvezza è la chiesa, il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Conosco la preoccupazione di tanti genitori che vedono i giovani alla deriva specie quelli che sono più soli, per un motivo o per l’altro abbandonati a se stessi e che si trovano senza guida senza sapere più ciò che è bene o ciò che è male.

Non si tratta di essere progressisti o meno, di diritti o meno, ma di salvaguardia della natura umana e di riconoscimento di molti casi di omosessualità come malattia psicologica. Le malattie per guarirle bisogna prima riconoscerle come tali. Malattia causata sovente dalla moda e dal fatto che i media, il libero accesso a internet anche a 9/10 anni spingono i giovani a una sessualità sempre più precoce. Gli insegnanti lamentano preoccupazioni e interessi in età in cui si dovrebbe poter crescere serenamente, giocare, studiare, ecc. ma non essere precocemente spinti alla sessualità. Unica luce è il Vangelo e gli Atti degli apostoli. Al riguardo ci sono brani contro l’ipocrisia, contro chi vede la pagliuzza nell’occhio altrui e non vede la trave nel proprio, ma ci sono sapientemente altri brani che rappresentano una guida sicura.

I comportamenti dei sodomiti continuano ad essere indicati come errori, considerati tali nella Bibbia ma anche nel Vangelo. Nella lettera di san Paolo ai Romani si legge: «Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo mortale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare Dio glorioso e immortale. Per questo Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fino al punto di comportarsi in modo vergognoso gli uni con gli altri … Dio li ha abbandonati lasciandoli travolgere da passioni vergognose: le loro donne hanno avuto rapporti sessuali contro natura invece di seguire quelli naturali. Anche gli uomini, invece di avere rapporti con le donne, si sono infiammati di passioni gli uni per gli altri. Uomini con uomini commettono azioni turpi, e ricevono così in loro stessi il giusto castigo per questo traviamento…» (Rm 1,20-32).

Nella lettera di Giuda, fratello di Giacomo, si legge: «Ricordate Sodoma e Gomorra e le città vicine: anche i loro abitanti si comportavano male, si abbandonarono ad una vita immorale e seguirono vizi contro natura. Ora subiscono la punizione di un fuoco eterno, e sono un esempio per noi» (Giuda 1,7).

Il Vangelo è veramente luce del mondo e i preti che con fatica e con eroismo annunciano la Parola di Dio sono grandi portatori della luce evangelica. Il mondo ha tantissima sete della verità evangelica.

Con ammirazione per le vostre missioni e per il vostro lavoro porgo cordiali saluti

Enrica B.
11/11/2023

La tentazione era quella di tagliare alcune delle frasi della sua lunga lettera perché possono suscitare reazioni polemiche, in un tempo come il nostro in cui sembra che il dialogo non sia più consentito e sperimentiamo una forte radicalizzazione delle posizioni. Un esempio è l’accesissimo dibattito che stiamo vivendo a proposito della guerra in atto in Palestina, dove chi cerca veramente il dialogo è ostracizzato ed emarginato.

Nello stesso tempo, i temi che lei affronta, così scottanti e conflittivi, trovano conferme terribili quasi ogni giorno. Mentre scrivo, la scena è occupata dall’uccisione di Giulia, centocinquesima nella lista dei femminicidi del 2023 (il cui numero sta tristemente continuando a crescere) è un segnale di allarme che sfida tutti a un ripensamento forte del nostro modo di relazionarci.

Probabilmente l’umanità ha sempre avuto gli stessi problemi che abbiamo oggi. I testi nel libro della Genesi e le tirate di Paolo, ne sono una prova. Certo noi oggi stiamo vivendo le stesse problematiche ma con nuove dimensioni, forse anche perché, soprattutto nella nostra società, l’educazione sembra essere scappata dalle mani della famiglia, della scuola e della comunità cristiana.

Basti pensare alla pervasiva influenza che hanno sui nostri bambini i contenuti da cui sono raggiunti tramite i molteplici schermi e piattaforme, incantati dai cartoni animati e dalla pubblicità consumista (io sono il centro e ho diritto ad avere tutto, se non ce l’ho sono un fallito e un infelice) che subiscono senza possibilità di reagire. Senza poi parlare della realtà dei social, spesso usati acriticamente e soprattutto senza un supporto di relazioni di amicizia sane e concrete.

È un tempo, questo, che non ha bisogno solo di preti testimoni autentici della Parola di Dio, ma soprattutto del risveglio di ogni cristiano, che diventi soggetto vivo e attivo nella comunità, nella società, nella politica. È lo spirito del Sinodo che stiamo celebrando. Nessuno può dire «non tocca a me». Solo così si evita il rischio di dividere il mondo in «buoni e cattivi», in «noi e loro», «padroni e servi» o negli altri mille stereotipi che siamo abilissimi a creare.

L’ascolto della Parola di Dio ci fa allora sperimentare che il vero amore non è possedere l’altro e avere tutto, ma è la felicità dell’altro. La vera felicità è far felici gli altri, è diventare «servi» degli altri e non padroni, custodi del creato e non rapinatori di risorse.

Il giorno in cui davvero impareremo a vivere questo, sarà un mondo nuovo, pur nella diversità e unicità di ogni persona.

Ambiguità

Gentile Sig. Pescali,
ho letto con interesse il dossier del numero 8-9 2023 di MC sull’Islanda. Lei dice che con il sindaco Gnarr la città si arricchita di riferimenti alla pace. Siccome mi incuriosiva mi sono informato e sono rimasto molto deluso nel constatare che le strade della città in realtà sono/erano dipinte con l’arcobaleno… a sei colori (senza l’azzurro). Ma scusi, lei conosce la differenza tra la bandiera arcobaleno a sei colori e quella della pace a sette colori? Credo che confondere le due cose sia molto grave! Non so se pensare ad una ingenuità (grave per chi intende fare giornalismo di buon livello) o voluta ambiguità, che sarebbe ancora peggio. Rischio di fare il sapientone ma ci tengo a evitare queste confusioni nelle quali siamo purtroppo quotidianamente immersi. La bandiera della pace è un arcobaleno a sette colori e il viola è in alto (spesso con la scritta Pace). C’è l’azzurro. La bandiera arcobaleno a sei colori è l’emblema della lobby Lgbtiq+ per rivendicare diritti (secondo me non tutti legittimi e quindi solo presunti) e con la pace non c’entra nulla. Sarebbe auspicabile almeno che sulle riviste cristiane, e comunque sulle riviste serie, questa confusione non venga più fatta. Cordiali saluti

Andrea Sari
14/11/2023

Abbiamo passato la sua lettera all’autore del dossier. Qui il nocciolo della sua risposta.

Gentile sig. Sari,
nell’articolo in questione non ho scritto che «con il sindaco Gnarr, la città (Reykjavik, ndr) si è arricchita di riferimenti alla pace». Ad una più attenta lettura, ciò che invece ho scritto è che «viaggiando per la nazione non si può fare a meno di notare la quantità di riferimenti alla pace: strade vivacizzate con i colori arcobaleno, semafori con luci a forma di cuore». Il riferimento, quindi, non era limitato alla città di Reykjavik, ma all’Islanda tutta, dove ho visto strade e bandiere (lo ribadisco) arcobaleno.

Arcobaleno perché, se la fisica non ci inganna, i colori dell’arcobaleno sono… sette. Quindi, da uomo di scienza, nessuna ingenuità, nessuna voluta ambiguità, nessuna confusione e, soprattutto, nessun deterioramento della serietà dell’articolo e della rivista. Anzi, semmai questa distinzione razionale e scientifica denota una maggiore autorevolezza della stessa.

Piergiorgio Pescali
04/12/2023

 




Taiwan. Campagna elettorale visitando i templi

 

In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».

Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.

I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che
punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per

I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.

Leggi il nostro approfondimento su Taiwan qui.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




Bangladesh. La sceicca si conferma al potere

Lo scorso 7 gennaio si sono svolte in Bangladesh le prime elezioni del 2024. Nessuna sorpresa dalle urne: ha stravinto l’«Awami League» (222 seggi parlamentari su 300), il partito della premier Sheikh Hasina Wazed, giunta al quinto mandato, il quarto consecutivo. Una vittoria scontata anche perché ottenuta dopo che il «Bangladesh nationalist party» (Bnp, guidato da un’altra donna, Khaleda Zia), il principale partito d’opposizione, si era ritirato dalla competizione elettorale, giudicandola – con molte ragioni – gravemente viziata.

La premier Sheikh Hasina, 76 anni, è al suo quinto mandato, il quarto consecutivo: una vita al potere. (Screenshot da «The Daily Star»)

La leader Sheikh Hasina, 76 anni, viene da lontano. Nel 1971, suo padre, Sheikh Mujibur Rahman, era stato l’artefice della separazione del paese (già Pakistan orientale o Bengala orientale) dal Pakistan, dopo una guerra con almeno 3 milioni di morti.

Nel corso degli ultimi 15 anni il potere della premier e del suo partito si è però trasformato in autoritarismo. Molti membri dell’opposizione sono stati arrestati o processati, e la libertà di parola è stata soffocata.

Altri due fatti di rilievo hanno caratterizzato i governi di Hasina: l’accoglienza di quasi un milione di profughi di etnia rohingya, popolazione islamica perseguitata nel confinante Myanmar; i pessimi rapporti con l’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace 2006, fondatore della Grameen Bank, probabilmente il più noto bangladese al mondo.

Anche alle ultime elezioni non sono mancate le violenze. Il 9 gennaio The Daily Star, il principale quotidiano in lingua inglese del Paese, riportava due notizie contrapposte, molto significative: da una parte la reazione degli Stati Uniti che hanno giudicato le elezioni non libere e non giuste, dall’altra quella della Cina che si è congratulata con i vincitori per il successo elettorale.

Il Bangladesh conta oltre 171 milioni di abitanti, al 90 per cento di religione islamica (e un 9 per cento di induisti). Con i suoi 1.315,1 abitanti per chilometro quadrato, possiede una delle più alte densità demografiche al mondo. Nonostante l’impetuosa crescita economica degli ultimi anni (più 6-7 per cento all’anno, incremento dovuto soprattutto all’industria dell’abbigliamento), il Paese rimane una nazione povera, diseguale e con un alto tasso di emigrazione. Vivono all’estero 7,5 milioni di bangladesi. In Italia, ce ne sono oltre 150mila (secondo i dati ministeriali), formando la più numerosa comunità del Paese asiatico in Europa.

Dalle elezioni in Bangladesh si possono trarre alcune lezioni di carattere generale: l’autoritarismo e e la trasformazione dei governi in principati (nel senso descritto da Machiavelli) sono tendenze mondiali sempre più diffuse; la contrapposizione tra i paesi a democrazia occidentale e gli altri è destinata ad acuirsi sotto la spinta di Cina e Russia; non basta essere donna per rendere la politica migliore.

Paolo Moiola




Taiwan. In gioco la stabilità mondiale?

 

Il 13 gennaio è sempre più vicino. Sarà quello il giorno in cui Taiwan deciderà il suo prossimo presidente. Una scelta che non determinerà solo il futuro di quella che la Cina considera una La lunga campagna elettorale ha vissuto il suo culmine sabato 30 dicembre, quando si è svolto il primo e unico dibattito televisivo tra i candidati alla presidenza della Repubblica di Cina, il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto. Si tratta tradizionalmente del momento decisivo, visto che a dieci giorni dalle urne viene imposto il blocco di tutti i sondaggi.

Il dibattito è stato dominato dal tema delle relazioni intrastretto, su cui sono emerse le grandi differenze tra i candidati. Tutti e tre dicono di voler mantenere lo status quo, ma ognuno propone una ricetta diversa per farlo, svelando non solo diverse strategie politiche, ma anche un diverso sentimento identitario sul sottile filo che corre tra il definirsi «cinese» oppure «taiwanese».

Il favorito, Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp, sigla in inglese), ha giocato in difesa. Noto per le sue posizioni a favore dell’indipendenza formale di Taiwan, l’attuale vicepresidente ha provato a porsi in perfetta continuità con la presidente uscente, la moderata Tsai Ing-wen. Durante il dibattito, Lai ha ribadito l’impegno a mantenere la pace e si è detto disposto al dialogo con Pechino, ma senza fare concessioni sulla sovranità e soprattutto sottolineando la necessità del rafforzamento dell’esercito e di nuovi acquisti di armi dagli Stati Uniti. Ha poi attaccato i rivali definendoli «filocinesi», presentando il voto come una «scelta tra democrazia e autoritarismo», e alludendo dunque a un possibile rischio di «inglobamento» in caso di vittoria del Kuomintang (Kmt), il partito nazionalista tradizionalmente più dialogante con Pechino.

Hou Yu-ih, il candidato del Kmt, ha invece descritto le elezioni come una «proposta» di Xi Jinping: ha infatti reiterato il rifiuto a «un paese, due sistemi», il modello di fatto fallito a Hong Kong che Pechino vorrebbe applicare anche a Taiwan.

Il terzo incomodo, Ko Wen-je, è in realtà apparso a molti come il più convincente dei tre durante il dibattito. Soprattutto dai più giovani che hanno commentato sui social. Ko, ex sindaco di Taipei e leader del Taiwan People’s Party (Tpp), si racconta come l’unica possibile novità nel tradizionale bipolarismo taiwanese. Durante il dibattito ha più volte esaltato il suo Sui rapporti intrastretto descrive il Dpp come «troppo anticinese» e il Kmt «troppo filocinese», proponendosi come depositario della linea di «riduzione del rischio», coniata da Unione europea e Stati Uniti: «Taiwan può diventare un ponte tra Washington e Pechino invece che un punto di tensione», sostiene, anche se non ha elaborato una proposta concreta per riavviare il dialogo.

Il favorito è senza dubbio Lai, che negli ultimi sondaggi disponibili era dato in vantaggio con una forbice che a seconda dei casi variava tra i 3 e i 10 punti. Al secondo posto Hou, con Ko non lontano. L’alleanza tra i due, naufragata a fine novembre, avrebbe con ogni probabilità messo fine al dominio del Dpp che dura dal 2016. Portando a un abbassamento delle tensioni militari con Pechino, ma a un prevedibile aumento del pressing politico per arrivare a un accordo che lo stesso Kmt non può garantire. Nel discorso di fine anno, Xi Jinping ha ribadito che la «riunificazione è una necessità storica». Un avvertimento che non cambierà i calcoli dei taiwanesi alle urne.

Molto importante poi il risultato delle elezioni legislative. Secondo tutte le proiezioni, nessun partito dovrebbe avere la maggioranza allo yuan legislativo (il parlamento unicamerale). Ciò significa che un’ipotetica presidenza Lai partirebbe azzoppata, con potenziali problemi nel far passare una serie di riforme e provvedimenti, a partire da quelli in materia di difesa. Uno scenario instabile che potrebbe non dispiacere a Pechino, che potrebbe provare a far leva sulle divisioni interne per guadagnare posizioni anche a livello politico.

Lorenzo Lamperti, da Taipei




L’umanità si è persa


Hadar, David, Fouad erano ragazzi israeliani. Erano studenti di architettura di Tel Aviv e Haifa, e li avevo conosciuti durante un tirocinio a Barcellona. Eravamo diventati amici. Io non conoscevo quasi nulla di Israele e della questione palestinese. Non avevo preconcetti. Loro raramente mi parlavano della situazione nel Paese. A volte si lamentavano del servizio militare che, per tutte e tutti durava tre anni e continuava poi per molto tempo con addestramenti periodici. Un giorno David si spinse a parlarmi degli attentati terroristici, dicendo: «Non ti puoi immaginare l’impressione che fa vedere l’esito di un’esplosione in piena città. E l’odore di carne bruciata…». Avevamo tutti appena finito l’università, avevamo grandi speranze e sogni. I loro, però, erano condizionati dal vivere in un luogo nel quale dovevano costantemente fare attenzione alla loro sicurezza, dove l’organizzazione dello Stato e della vita dei cittadini era impostata sul controllo e sulla protezione personale. Dove essere armati non era poi così strano.

Una decina di anni dopo, a inizio 2001, visitai Israele e la Cisgiordania. Si era nel pieno delle seconda intifada e i Territori palestinesi erano stati chiusi per ridurre al minimo la circolazione delle persone. C’erano stati diversi attentati in Israele a opera di Hamas e della Jihad islamica, per cui c’erano molti controlli e la tensione era alta. I militari ai check point per entrare e uscire dalla Cisgiordania seguivano rigide misure di sicurezza. Erano ragazzi e ragazze che mi ricordarono i miei amici.

Parlai con molte persone: ebrei israeliani, arabi israeliani, palestinesi della Cisgiordania, arabi cristiani, e alcuni stranieri, in particolare religiose e religiosi che vivevano da anni in Israele o nei Territori.

Entrai in contatto con molteplici realtà. Mi sorpresi nel vedere Gerusalemme divisa in quartieri così diversi tra loro. E poi i luoghi santi per ebrei e musulmani, vicini fisicamente ma lontani allo stesso tempo. Al Aqsa, nel mezzo della spianata delle moschee (terzo luogo santo dell’Islam), quasi sorretta dal muro del pianto, sacro per gli ebrei. Capii che gli arabi con nazionalità israeliana (circa il 20% della popolazione), vivevano una sorta di apartheid, con tanto di indicazione dell’etnia sulla carta d’identità.

Vidi le colonie israeliane in Cisgiordania (quindi fuori dello Stato di Israele): «Agglomerati urbani, ultramoderni, con tutti i servizi. Dominano perché costruiti in cima alle colline, spesso vicine alla città palestinesi, le circondano in tutte le direzioni. […] Sono collegate da superstrade, proibite ai palestinesi, e protette dai militari israeliani, che in poche decine di minuti portano alle città israeliane», scrivevo all’epoca. «Abitate normalmente da ebrei ultraortodossi sempre armati, e da cittadini israeliani attirati dalle facilitazioni economiche offerte dallo Stato». E ancora: «È una presenza surreale, inquietante anche a livello psicologico, soprattutto se si pensa che gli abitanti delle due parti (colonie e città palestinesi), così vicini, conducono vite completamente diverse, non hanno gli stessi diritti, e non c’è alcun contatto tra loro».

Vidi le case di Betlemme e di Ramallah bombardate dall’esercito israeliano.

Visitai un kibbuz nel nord di Israele, e parlai con chi ci viveva della loro esperienza comunitaria e pacifica. Una vita un po’ isolata e un po’ protetta allo stesso tempo.

Le tante facce di un piccolo fazzoletto di terra, concentrato di storia e di umanità.

Sono passati più di vent’anni e il mondo si è come dimenticato dei palestinesi. I «due stati per due popoli» non sono stati realizzati. Tuttavia, con gli accordi di Abramo del 2020, era iniziato un processo di distensione dei rapporti tra stati arabi e Israele, e così gli estremisti hanno reagito, avendo la meglio, come spesso accade.

«Hamas è il peggior nemico dei palestinesi». Non solo i suoi miliziani hanno compiuto una carneficina mai vista, ma usano gli abitanti di Gaza come scudi umani per difendersi. E che dire del governo israeliano e del suo esercito che si accanisce contro due milioni di civili – inclusi bambini e malati -, anziché preoccuparsi di liberare gli ostaggi?

Nella mia piccola esperienza dell’area ho visto due popoli, molto simili, che potrebbero dialogare, collaborare, ma si affidano a dirigenti estremisti che li portano a combattersi.

Talvolta penso ad Hadar, David, Fouad. Che ne sarà stato della loro vita blindata?

Intanto il motto di Vittorio Arrigoni, «restiamo umani», rimane inascoltato.