Allamano. Giubileo sacerdotale


Il 20 Settembre 2023 ricorrevano i centocinquanta anni dell’ordinazione sacerdotale del beato Giuseppe Allamano. Mentre stiamo ancora godendo la notizia dell’approvazione, da parte della commissione medica del Dicastero per le cause dei santi (manca ancora quella della commissione teologica), del miracolo che dovrebbe portarlo alla canonizzazione, è motivo di riflessione ricordare questo giubileo che segna la fedeltà di Dio nella vita del beato.

Il sacerdote è una persona che si dona generosamente nel servizio al popolo di Dio, che offre fedelmente il sacrificio eucaristico e la preghiera per il bene della Chiesa, portando speranza e consolazione alle persone nelle quali il calore dell’amore di Dio si è spento.

Giuseppe Allamano si era preparato a essere consacrato durante il tempo del seminario con un impegno sistematico verso la perfezione e la santità attraverso sacrifici ed esercizi ascetici quotidiani. La sua vita sacerdotale fu notevole: si distingueva per l’unità, l’armonia e l’equilibrio con cui teneva assieme contemplazione e azione. Era un riflesso della sua vita interiore e del suo intimo rapporto con Dio alimentato dalla preghiera. Era centrata nell’Eucaristia e nell’amore per la Consolata.

L’Allamano parlava del sacerdozio secondo la visione teologica del suo tempo che concepiva la dignità della vita ordinata come regale, angelica e divina; tuttavia, non ha mai espresso in senso trionfalistico il suo ministero, quanto piuttosto in una forma dinamica che si concretizzava nell’impegno per la santificazione personale prima, e per il lavoro pastorale in mezzo al popolo di Dio poi. Il nostro fondatore capì questo segreto, e continuava a ricordare ai suoi figli e figlie che se non fossero stati buoni religiosi, sarebbero diventati dei pessimi missionari: «Senza santità non sarete che ombre di missionari, e farete più male che bene».

Celebrando i 150 anni del suo giubileo sacerdotale, abbiamo ricordato come, per Giuseppe Allamano, la messa fosse «il tempo più bello» della sua vita: «Anche se dovessimo prepararci per 15 o 20 anni per celebrare un’eucaristia, come saremmo felici!». E aggiungeva: «Vi voglio sacramentini, uniti a Gesù sacramentato. Questo titolo dovrebbe valere per tutti i cristiani, religiosi e sacerdoti, e ancor più per i missionari». E, precorrendo i tempi, vedeva nell’apostolato missionario il grado superlativo del sacerdozio: «Ogni sacerdote è missionario di natura sua perché non c’è differenza tra la vocazione sacerdotale e quella missionaria. Tutto ciò che serve è un grande amore per Dio e per le anime. Non tutti potranno realizzare il desiderio di recarsi in missione, ma tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti».

padre Jonah Mulwa Makau


Una spiritualità feconda

Nella sua prima lettera ai Corinzi San Paolo scrive: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12,4-6). Questa pericope paolina permette di parlare di frutti e di spiritualità al plurale in Giuseppe Allamano. San Paolo afferma che ci sono molti doni diversi, ma sempre lo stesso Spirito; quindi, una stessa persona animata dallo Spirito può vivere la spiritualità in molti modi, producendo molte spiritualità che si traducono in frutti diversi. Vediamo alcuni dei frutti che le spiritualità di Giuseppe Allamano hanno prodotto anche oltre i confini della vita religiosa missionaria.

La formazione e la direzione spirituale di sacerdoti

Le parole pronunciate dall’arcivescovo Lorenzo Gastaldi durante l’ordinazione sacerdotale di Giuseppe Allamano non solo sono entrate nella sua anima e nella sua mente, ma hanno anche costruito una casa permanente in esse. Nel suo sermone, l’arcivescovo disse: «Dedicatevi a Dio, a lavorare e a soffrire per la sua gloria e per la salvezza del vostro prossimo. Vi aspettano grandi sacrifici, ma con l’aiuto di Dio li supererete. E quale consolazione potete aspettarvi? Abbiate fede e siate generosi con il Signore; ora date solo un posto d’onore al duro lavoro; non pensate che questo sia il momento di riposare, il nostro riposo sarà in cielo».

La realtà di queste parole dell’Arcivescovo si riflette perfettamente nella vita del beato Allamano ed emerge come una delle caratteristiche principali della sua spiritualità espletata nell’impegno posto nella formazione e nella direzione spirituale.

Il primo incarico che Giuseppe Allamano ricevette subito dopo la sua ordinazione sacerdotale fu quello di tornare in seminario come primo assistente o prefetto, con il compito, quindi, di seguire individualmente gli studenti di teologia, nei loro studi e nelle loro altre attività, intervenendo anche per correggere errori e negligenze. Il secondo incarico arrivò poco dopo il primo, quasi completandolo, quando Giuseppe Allamano fu nominato direttore spirituale nel seminario.

Padre Igino Tubaldo riassumeva così la sua personalità: «Era molto dedito a tutto ciò che poteva servire a formare lo spirito degli studenti secondo le regole stabilite da Gesù Cristo e dalla Chiesa per i suoi ministri… per abituarli a giudicare tutto alla luce della fede, per mantenere l’unione con Dio ed essere pieni dello spirito di preghiera».

Domenico Agasso afferma che il suo stile è visibile perfino nella lettura di alcuni degli «avvisi» con cui Giuseppe Allamano richiamava l’attenzione degli studenti, come dovevano prestare attenzione durante le prediche o condividere con fede le preghiere in cappella o a Messa. I sacerdoti che formò furono sono uno dei frutti della sua spiritualità, e in loro si vide la nobiltà e la responsabilità con cui valutava l’idoneità di ognuno al sacerdozio.

Queste caratteristiche così spiccate dell’Allamano sono certamente frutto della sua spiritualità e lo distinguono come maestro di formazione e direzione spirituale.

L’accompagnamento spirituale dei laici

Nei dialoghi con i suoi missionari, l’Allamano ricordava un fatto accaduto nel 1881: una donna di Loranzè (diocesi di Ivrea), fu inviata alla Consolata dal suo vescovo nella speranza di vederla liberata da una «ossessione diabolica». All’Allamano fu chiesto di andare a esorcizzarla per ordine dell’arcivescovo Gastaldi. L’Allamano le mise la medaglia della Consolata contro la bocca e disse: «Riconosci il tuo amante!». La donna guarì e in seguito ogni anno faceva un pellegrinaggio al santuario Consolata per ringraziare la Madonna. Anche quella guarigione fu un frutto della spiritualità dell’Allamano che cercava l’incontro con persone che erano interiormente tormentate in vari modi.

Giuseppe Allamano fu anche rettore del santuario di Sant’Ignazio sulle colline di Lanzo Torinese: con la sua presenza il santuario divenne una casa di ritiro di «prima classe». «Non c’era mai una stanza vuota».

La causa di beatificazione di Giuseppe Cafasso

Rispetto al processo di beatificazione di Giuseppe Cafasso, l’Allamano diceva: «Non avrei mai fatto tutto questo se fosse stato solo perché don Cafasso faceva parte della mia famiglia. Invece posso dire onestamente che ho introdotto questa causa, non per motivi di affetto o di relazione, ma per il bene che può venire dall’esaltazione di questo santo sacerdote».

La Chiesa è immensamente grata all’Allamano, poiché è solo a lui che si deve la beatificazione di don Cafasso. Questa era l’opinione del cardinale Carlo Salotti, che aveva seguito tutto il processo. In risposta a ciò, l’Allamano ammise che, in alcune notti, era sfinito dalla fatica di frequentare gli uffici romani. L’avvenuta beatificazione di san Giuseppe Cafasso fu certamente frutto della spiritualità dell’Allamano.

La fondazione dei due istituti missionari

Come affermano le Costituzioni dei missionari della Consolata: «Un’intensa vita spirituale e un ardente zelo apostolico permisero al nostro Fondatore di accettare e approfondire il suo carisma». L’enfasi è posta sulla frase: «Vita spirituale intensa».

La fondazione dei due istituti è un altro frutto della spiritualità dell’Allamano e della centralità che in essa ha la vita apostolica con le sue due finalità: la santificazione dei membri e la cura del popolo di Dio. Da allora i Missionari e le Missionarie della Consolata si sono sparsi nel mondo portando la buona notizia della consolazione di Dio ai popoli e condividendo così i frutti spirituali dell’Allamano.

Possiamo ricordare particolarmente due missionarie della Consolata che sono state a loro volta beatificate: Irene Stefani e Leonella Sgorbati. Queste due suore portavano in sé i frutti spirituali dell’Allamano in modo così speciale che oggi tutta la Chiesa le celebra come «beate». Anche questo è un frutto molto significativo della spiritualità dell’Allamano.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice ai suoi discepoli: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,7-8). I frutti spirituali di Giuseppe Allamano trovano pienamente il loro posto in queste parole di Gesù.

padre Charles Orero


L’Allamano e l’Addolorata

La festa della Consolata che si celebra il 20 giugno è preceduta dalla novena durante la quale i missionari e le missionarie si alternano all’ambone per offrire una riflessione sulla relazione del beato Allamano con la Madonna. Suor Tiziana Fabbri si è soffermata sull’immagine della Madonna Addolorata che il beato fondatore esortava a invocare per trovare aiuto nelle fatiche e sofferenze della missione.

L’Addolorata sostiene nella sofferenza

Nella conferenza tenuta alle suore il 14 aprile 1916, l’Allamano, a proposito della Madonna Addolorata, diceva: «Questa devozione è utile in vita e in morte. È utile in vita perché come missionari abbiamo tutti da soffrire, chi più chi meno, ma chi ci sosterrà? L’aiuto migliore è quello di questa madre che ci aiuterà a soffrire, ci sosterrà quando abbiamo dei sacrifici da fare che adesso sono piccoli, ma ne avremo di grossi».

Nei suoi incontri con le missionarie e i missionari ritornò più volte sul mistero dell’Addolorata. Suggeriva l’attenzione ai dolori di Maria come modello per essere poi in grado di sostenere le sofferenze fino al martirio connessi con la vita di missione.

Il 19 settembre 1920 disse alle suore: «Ricordate sempre che la devozione all’Addolorata serve tanto per aumentare nello spirito. Quando sarete insidiate contro la carità o da qualche altra passione e avrete ripugnanze o altre cose, la Madonna vi darà aiuto e vi dirà: “Ma sii un po’ generosa, io sono stata più generosa”, allora vi scuoterete».

Consolare la Madonna

L’Allamano, più che al sentimento mirava alla volontà, all’impegno coerente della vita. La sua pietà mariana era molto calda e delicata e in occasione di alcune celebrazioni dedicate a Maria Addolorata, ha suggerito di «consolare la Madonna».

Nella conferenza ai missionari il 25 marzo 1910 disse: «Noi, poi, che siamo figli della Consolata, abbiamo speciale dovere di consolare nostra madre perché sia da noi veramente consolata. Non è per nulla che portiamo sì bel nome». Consolare la Madonna per l’Allamano significava essere coerenti nei propri doveri. È per questo che ci diceva e ci ripete: «Il nome che portate deve spingervi ad essere quello che dovete essere».

Un’esperienza significativa

Quando ero missionaria in Argentina e lavoravo nella parrocchia della Consolata di Mendoza, in occasione della festa patronale si decise di celebrare la novena in un quartiere lontano dalla parrocchia in cui vi erano problemi di violenza e di droga, dove nessuno voleva andare per paura. Era una sfida per tutti. Cercammo delle famiglie disponibili ad accogliere la statua della Madonna nelle loro case, e queste, nella loro semplicità e povertà offrirono il meglio che avevano: un posto di riguardo ben preparato, con fiori, candele, tovaglie ricamate e altre cose.

Una mattina portammo la statua in una casa e, con mia sorpresa, la signora non aveva preparato nulla, anzi era occupata per cui non ci accolse neppure. Disse alla figlia di dirci di lasciare la Madonna davanti alla porta d’entrata su di un tavolino. Mi sembrava un affronto alla presenza di Maria, una mancanza di accoglienza, il tavolino spoglio, senza neppure una tovaglietta. Io guardavo le donne che mi accompagnavano e non riuscivo a dire nulla, ma dentro di me sentivo una grande tristezza. Tra di noi il silenzio regnava, ma ad un certo punto una delle signore che abitavano in quel quartiere mi chiese molto delicatamente: «Non sei contenta di aver lasciato la Madonna lì?». Non sapevo cosa rispondere e le dissi che sentivo qualcosa in me che mi provocava tristezza. E lei mi rispose: «Sai, questa è la tristezza di tante mamme di questo quartiere che vedono il proprio figlio o il proprio marito in carcere per ingiustizie o per essere stati vittime degli abusi degli spacciatori. Ciascuna di loro sente l’impotenza di non essere stata una buona mamma e che non hanno saputo proteggere il loro figlio».

Coraggio, ci sono io!

Questo mi scosse e mi resi conto che il Signore mi chiedeva di vivere quella novena in una maniera differente, non fatta di sentimenti, ma della richiesta a Maria di essere coerente con il nome che portavo, senza pregiudizi nei confronti degli altri, senza condannare, ma semplicemente facendo sentire loro che nonostante tutto sono creature amate da Dio.

La mia sorpresa fu alla sera quando andammo per la preghiera: la signora che aveva accolto la Madonna condivise il suo dolore e il dramma che portava nel suo cuore, e disse: Questa Madonna mi ha dato forza. La guardavo e sembrava che mi dicesse: «Coraggio, ci sono qua io che come te ho sofferto e so cosa vuol dire il dolore. Guardando questa bella statua ho incontrato una mamma al mio mio fianco che mi ha aiutato a rialzare la testa e andare avanti».

Questa esperienza che porto nel cuore mi ha fatto capire che dalla sofferenza nasce la consolazione vera, dall’accoglienza del proprio dolore nasce la possibilità di una vita nuova. Non importa se non ci sono i fiori, le candele e la tovaglia, perché ci siamo noi, sue figlie e figli che facciamo onore al suo nome.

suor Tiziana Fabbri

 

 




Donne. Perseguitate due volte


Le donne delle minoranze religiose sono la fascia più colpita dalle persecuzioni. La maggior parte sono cristiane, ma non mancano altri casi, come quello delle musulmane rohingya o delle yazide. Rapite, convertite forzosamente, picchiate, violentate, tenute segregate.

Rapite, violentate, schiavizzate. Le donne delle minoranze religiose sono spesso perseguitate due volte: innanzitutto perché appartenenti a gruppi tenuti ai margini della società, poi perché, appunto, donne.

Accade in Pakistan, Nigeria, Burkina Faso, Egitto, solo per fare qualche esempio, e per la gran parte si tratta di donne cristiane.

Non mancano, però, casi che riguardano altri gruppi religiosi.

In Myanmar, per esempio, Paese a maggioranza buddhista nel quale da anni viene perseguitata la minoranza musulmana dei Rohingya, una donna non può sposare un musulmano se non a rischio della vita.

Qualche anno fa a Pegu, una delle più grandi città del Paese, una folla impazzita incendiò l’intero quartiere di una ragazza buddhista per punirla della sua relazione con un musulmano.

Stesso destino di discriminazione spetta alle donne rohingya. «Nascere donna ed essere di origine rohingya significa, molto probabilmente, essere destinata a una vita fatta di privazioni e discriminazioni di natura etnica, religiosa e sessuale», sottolinea Amnesty international.

Amina, donna nigeriana fuggita in Niger dopo l’uccisione del marito da Boko Haram

Cristiane, le più perseguitate

Tornando alle donne cristiane che vivono in paesi nei quali la loro fede è in minoranza, come in molte zone dell’Asia, del Medio Oriente o dell’Africa, esse «sono le prime vittime», afferma la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) in un rapporto di novembre 2022: «Se credere in Gesù Cristo implica seri rischi in molte parti del mondo, essere una donna cristiana è ancora più difficile. In molti paesi in cui vige la persecuzione religiosa, la violenza contro le donne è spesso usata come arma di discriminazione».

Sulla stessa linea sono i dati emersi nella ricerca The 2023 gender report presentata, in occasione della giornata internazionale della donna dell’8 marzo 2023, da Porte Aperte/Open Doors, organizzazione internazionale che sostiene i cristiani perseguitati e che aggiorna ogni anno, con la sua World watch list, la classifica dei paesi dove si registrano le maggiori persecuzioni a causa della fede.

«Per le donne – sottolinea il rapporto – la violenza sessuale e fisica, il matrimonio forzato e la riduzione in schiavitù, uniti alle minacce e al controllo dei cellulari, sono elementi che le intrappolano in una ragnatela soffocante».

Il report presenta anche la classifica dei paesi nei quali le donne sono perseguitate sia per la loro fede che per il loro genere.

Al primo posto troviamo la Nigeria. A seguire Camerun, Somalia, Sudan, Siria, Etiopia, Niger, India, Pakistan e Mali.

Nelle regioni settentrionali della Nigeria, dove i cristiani subiscono i livelli più alti di violenza, le donne cristiane sono vittime di rapimenti, spostamenti forzati, traffico di esseri umani, uccisioni e violenza sessuale.

La punta di un iceberg

I casi di donne rapite, violentate, convertite forzosamente, uccise che emergono nelle cronache sono solo la punta di un iceberg. Spesso, infatti, le famiglie, per paura o per vergogna, non denunciano i crimini subiti.

È quanto emerge dalla ricerca Ascolta le sue grida, pubblicata da Acs Italia nel 2021, nella quale si evidenzia che, tra i membri delle minoranze religiose, le ragazze e le giovani donne cristiane sono le più esposte agli attacchi.

Secondo l’Associazione cristiana della Nigeria, per esempio, il 90 per cento delle donne e delle ragazze detenute dagli islamisti è di fede cristiana. In Pakistan, il Movimento per la solidarietà e la pace ha stimato che le cristiane costituivano, già dal 2014, fino al 70 per cento delle ragazze e delle giovani di minoranze religiose che ogni anno erano costrette a convertirsi e a contrarre matrimonio.

Ma le denunce non corrispondono mai alla reale entità del fenomeno.

Un altro dato chiave, che emerge frequentemente nelle ricerche sull’argomento, è la maggiore incidenza di persecuzioni sessuali e religiose ai danni delle donne in aree di conflitto.

Questo è stato particolarmente evidente durante la presa del potere da parte dell’Isis (Daesh) su alcune aree della Siria e dell’Iraq. In quelle zone, in quegli anni – secondo il dossier del luglio 2020 della Coalition for genocide response intitolato Without justice and recognition the genocide by daesh continues – vigeva «un sistema organizzato di schiavitù sessuale delle minoranze».

Rohingya women with kids are walikng to the camp with relief food. Near Block D5, Kutupalong extension Camp, Cox’s Bazar, Bangladesh
2 July 2018.

Nadia Murad e le schiave sessuali

A raccontare le atrocità subite in prima persona, perché yazida, cioè donna della minoranza religiosa che vive per lo più nella Piana di Ninive, in Iraq, è stata Nadia Murad, Premio Nobel per la pace 2018. Nel suo libro L’ultima ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro l’Isis, edito da Mondadori, l’attivista per i diritti umani racconta: «A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio». È il racconto dello stupro usato come arma di guerra. È la storia del rapimento e della prigionia che nel 2014 ha cambiato la vita di questa ventenne yazida che sognava una vita normale.

Nadia ha deciso di denunciare al mondo le violenze subite nella speranza di essere lei «l’ultima» del suo popolo ad aver vissuto quel genere di sofferenze.

La prassi di ridurre le donne delle minoranze religiose in schiave sessuali è presente anche altrove. Ad esempio in Mozambico e in altri paesi nei quali il fondamentalismo religioso ha gettato nel caos intere comunità.

Le violenze dei gruppi terroristici e islamisti hanno inoltre determinato una forte intensificazione del traffico di esseri umani.

C’è poi il caso della Nigeria dove si sono ripetuti diversi rapimenti di massa nei confronti delle donne cristiane da parte del gruppo jihadista di Boko Haram.

L’intento della milizia vicina all’Isis è, tra gli altri, quello di cacciare le comunità cristiane dai loro villaggi (cfr. MC 10/2016).

Asia Bibi e le altre

La persecuzione e le sofferenze non sono però solo numeri e dati, sono soprattutto storie di persone concrete.

Il caso che ha avuto maggiore rilievo sui media internazionali è stato quello della donna cristiana pachistana Asia Bibi che, dopo dieci anni di carcere duro e con una condanna a morte che pendeva sulla sua testa con l’accusa di blasfemia, ha ritrovato la libertà nel novembre 2018.

Oggi vive in Canada con la sua famiglia perché restare in Pakistan sarebbe stato per lei e i suoi familiari troppo pericoloso.

Ma ci sono tante altre Asia Bibi nel mondo. In Somaliland, ad esempio, due donne sono in carcere dal 2022 perché colpevoli di essere cristiane. Una delle due donne si chiama Hanna Abdirahman Abdimalik. Il 30 maggio 2022 è stata arrestata per essersi convertita al cristianesimo e per aver condiviso la sua fede attraverso un gruppo cristiano su
Facebook. La polizia non ha esibito un mandato d’arresto, ha interrogato la ragazza senza la presenza di un avvocato e le avrebbe ripetutamente domandato chi l’avesse convertita, aggiungendo che, qualora avesse rivelato l’identità della persona, oppure si fosse nuovamente convertita all’islam, sarebbe stata rilasciata. Hanna ha rifiutato di abiurare e il 27 giugno le forze di polizia del Somaliland hanno concluso le indagini presentando un fascicolo a suo carico al procuratore regionale di Hargeisa. Il procuratore ha quindi formalizzato le accuse di «crimini contro la religione dello stato» nei suoi confronti. I capi di accusa sono: blasfemia, oltraggio alla religione islamica e al Profeta dell’islam tramite social media, e diffusione del cristianesimo. Il 6 agosto 2022 il tribunale regionale l’ha condannata a cinque anni.

Il secondo caso riguarda la ventisettenne Hoodo Abdi Abdillahi, condannata a sette anni di carcere per essersi convertita, anche lei, al cristianesimo.

La donna è reclusa dall’ottobre 2022 presso il carcere femminile di Gebiley. Nel corso del processo non avrebbe avuto un avvocato difensore, mentre durante la reclusione non avrebbe potuto avere contatti con la famiglia.

Attualmente i due casi sono all’esame della Corte d’appello del Somaliland, in attesa di una sentenza definitiva.

Bangladesh, istruzione negata

Rahima Akter Khushi, 20 anni, è una giovane rifugiata rohingya, la maggiore di cinque fratelli nati nel campo profughi di Kutupalong a Cox’s Bazar, in Bangladesh. A raccontare la sua storia è Amnesty international.

Dopo aver completato gli studi superiori, a gennaio 2019 Rahima si era iscritta alla Cox’s Bazar international university con il sogno di conseguire una laurea in giurisprudenza. Dopo che un’agenzia di stampa internazionale l’aveva inserita in un video come una delle pochissime giovani donne rohingya in grado di raggiungere l’eccellenza accademica, il 6 settembre 2019, l’università le ha proibito di proseguire gli studi poiché «secondo le regole del governo del Bangladesh, nessun Rohingya può studiare in alcuna università pubblica o privata».

Negare l’istruzione alle giovani delle minoranze religiose è una delle armi di persecuzione: ad esempio in Nigeria è accaduto più volte che Boko Haram rapisse studentesse il giorno prima degli esami per negare loro un futuro.

Magda, rapita in Egitto

In Egitto, negli ultimi anni, la situazione dei cristiani è migliorata dopo l’ondata di attentati e vittime che c’erano stati nel periodo in cui era forte la presenza nel Paese del movimento dei Fratelli musulmani.

Se in generale nel Paese rimangono strascichi di emarginazione, ad esempio nel mondo del lavoro, situazioni nelle quali i cristiani continuano a essere penalizzati, è soprattutto nel Sud che si manifestano ancora oggi le forme più forti di persecuzione: una di queste è la piaga dei rapimenti di donne copte che avvengono lontani dagli occhi dei media, anche a causa del fatto che la maggior parte dei casi non viene denunciata.

Magda Mansur Ibrahim, cristiana copta ventenne, il 3 ottobre del 2020 è stata sequestrata mentre viaggiava dalla sua casa di Al-Badari verso il college di Assiut.

A riferire la sua vicenda è stato il portale Coptic solidarity. Sebbene la famiglia abbia denunciato il caso alla polizia, le autorità non hanno preso provvedimenti.

Tre giorni dopo il rapimento, è stato pubblicato sui social media un video in cui Magda appariva con indosso un hijab e dichiarava di essersi convertita all’islam sei anni prima, di essere fidanzata con un musulmano e, alla fine del filmato, chiedeva di non essere cercata.

I suoi genitori non si sono arresi e alla fine, poco meno di una settimana dopo, Magda è stata restituita loro. Dopodiché la famiglia ha chiuso ogni comunicazione senza fornire ulteriori informazioni circa il rapimento. Alcuni ipotizzano che tra le condizioni poste per la liberazione della ragazza vi fosse il divieto di parlare con i media, di sporgere denuncia o di cercare di scoprire l’identità del rapitore.

Rifugiata rohingya

Gli stupri in Pakistan

Era il 14 febbraio 2021 quando la trentenne Neelam Majid Masih, cristiana, è stata aggredita da Faisal Basra. Lui era armato quando è entrato in casa di Neelam nel villaggio di Nanokay, Punjab, Pakistan. Sotto minaccia della pistola la ragazza è stata trascinata nella camera da letto, picchiata e violentata. Poi un vicino e cugino di secondo grado della donna è intervenuto costringendo Basra alla fuga.

A raccontare la vicenda è il portale persecution.org: «Pretendeva che lo sposassi e che mi convertissi, ma io ho rifiutato dicendo che non ero disposta a rinnegare Gesù. Lui ha risposto che mi avrebbe uccisa se non avessi accettato», ha raccontato la ragazza. La giovane, che ha riportato ferite al viso, alla spalla e alle gambe, ha sporto denuncia contro Faisal Basra, accusandolo di stupro. L’avvocato della vittima, Sumera Shafique, chiedendo aiuto all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha sottolineato: «Neelam è determinata a raccontare la propria storia per porre fine alle aggressioni contro le ragazze e le giovani donne cristiane».

Schiava in Mozambico

Nel rapporto Ascolta le sue grida già citato si racconta la storia di Aana (nome di fantasia), giovane cristiana del Mozambico, rapita da un gruppo armato.

La giovane, dopo la sua liberazione, ha riferito che alle ragazze cristiane veniva imposta una «scelta»: «Avevamo tre opzioni. Le prime due erano essere selezionate da uno dei soldati per diventarne la moglie oppure essere scelte da alcuni uomini, non per il matrimonio, ma per seguire le norme più radicali dell’islam. Loro istruivano le giovani donne a diventare vere islamiche e brave madri perché credono che la donna sia colei che educa la famiglia a seguire i precetti nel modo corretto. La terza opzione riguardava le cristiane che non volevano convertirsi. Queste sarebbero state scelte dai soldati per essere loro schiave».

Aana ha spiegato che il suo indottrinamento è iniziato non appena è stata presa in ostaggio: «Il giorno in cui siamo arrivate ci hanno letto dei passi del Corano e hanno parlato dell’ingiustizia nel Paese, degli abusi sociali e della corruzione. Una delle cose che ripetevano più spesso era che la democrazia era demoniaca, perché in Mozambico permetteva ai politici di rubare e alla gente di morire di fame senza alcun tipo di assistenza. Cercavano di indottrinare le donne perché accettassero la loro proposta». Alla fine, la pressione psicologica conduceva le ragazze a «cambiare parte», ha spiegato la giovane. In condizioni di riduzione in schiavitù, spesso è l’unica via d’uscita.

Aana è riuscita a scappare e a denunciare. Oggi non è più prigioniera.

Manuela Tulli

 

 




Un’India troppo solare


Nella regione nord occidentale del Rajasthan i progetti di enormi parchi di pannelli solari provocano gravi conseguenze sociali e ambientali. Il governo centrale, quelli locali e le grandi aziende dell’energia le ignorano nonostante le mobilitazioni delle popolazioni.

Chi l’avrebbe mai detto che l’energia solare avrebbe potuto provocare seri problemi ambientali, sociali ed economici laddove ci si aspettava invece solo benefici?

Eppure, è quello che sta succedendo negli ultimi anni in diverse parti del mondo, tra cui molte regioni dell’India.

Testimonianze di giornalisti e abitanti del Rajasthan, dove si stanno costruendo molti parchi solari, ad esempio, aiutano a comprendere le condizioni e i meccanismi per i quali i progetti di energie rinnovabili non sono esenti da criticità e possono causare notevoli impatti socio-ambientali.

Un problema che dovrebbe interessare anche l’Italia e l’Europa, perché tra i maggiori investitori tramite le loro aziende elettriche a partecipazione pubblica.

L’impatto del solare

Quella solare è considerata una fonte imprescindibile di energia rinnovabile per le sue basse emissioni di CO2. Quando si parla, però, dell’anidride carbonica prodotta dal solare, non si considerano le emissioni provocate dall’estrazione dei materiali necessari (cfr. Daniela Del Bene, Miniere green, MC agosto-settembre 2021, p. 56) e nemmeno la perdita dei terreni utilizzati per i parchi solari, o l’abbandono di pratiche agricole e pastorizie che mantengono la biodiversità del territorio.

Ben conoscono questa problematica gli abitanti dello stato indiano del Rajasthan, molto noto per la meravigliosa architettura dei principati precoloniali, il vivace artigianato, le colorate città, o le escursioni sui cammelli nel deserto.

Proprio questi deserti sono stati considerati il luogo ideale da convertire in una gigantesca batteria di energia solare a beneficio dell’intero Paese.

Parco solare del villaggio di Nedan

Un’India sempre più solare

L’espansione di questa tecnologia è stata dichiarata imprescindibile dal governo di Narendra Modi, in carica dal 2014.

Già nel 2010, l’allora governo in carica aveva lanciato un piano che, secondo molti scettici, sarebbe stato irraggiungibile: la National solar mission. Il suo obiettivo era effettivamente ambizioso: installare 20 gigawatt (GW) di capacità elettrica da tecnologia solare entro il 2022.

Il programma ha raggiunto l’obiettivo con quattro anni di anticipo.

Dati i buoni risultati, il governo Modi ha fissato altri obiettivi, facendo del solare un pilastro di quella che considera un’India moderna e sviluppata.

Già nel 2015, in occasione della Cop21 di Parigi, il primo ministro presentò l’International solar alliance (Isa) con l’impegno di sviluppare 100 GW di progetti solari entro il 2022.

Benché questa volta il progetto si sia dimostrato effettivamente troppo pretenzioso, tuttavia durante il 2023 il Paese sta già raggiungendo i 70 GW di capacità solare, circa il 16% dell’energia totale generata in India.

Il settore è oggi in crescita, con ulteriori obiettivi fissati ai 280 GW da installare entro il 2030 che andrebbero a sommarsi ad altre rinnovabili per un totale di 500 GW di «energia pulita».

Parchi solari nel Rajasthan

Nel 2016, il ministero per le Energie nuove e rinnovabili (Mnre) dichiarò di avere individuato «grandi porzioni di terreno» per sviluppare 34 parchi solari per 20 GW di capacità, molti dei quali nello stato nordoccidentale del Rajasthan.

Nel corso degli anni, questa cifra è aumentata fino all’attuale normativa, la Rajasthan renewable energy policy, nella quale il governo statale ha fissato l’obiettivo di 90 GW di progetti di energia rinnovabile da sviluppare entro il 2029-30. Dei 90 GW, 65 deriveranno dal solare, 15 da fonti eoliche e ibride e 10 da impianti idroelettrici e di pompaggio e da sistemi di batterie per l’accumulo dell’energia.

Il ministero sta dando priorità ai grandi parchi solari chiamati Ultra mega solar plants, con capacità superiori a 0,5 GW. Essi, rispetto ai parchi più piccoli, hanno il vantaggio di ridurre costi e perdite di trasmissione. Inoltre, rendono più semplice l’acquisizione dei terreni e delle autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso della terra.

Ma chi decide quali porzioni di terreno sono disponibili per questi megaprogetti? Chi dichiara il cambio d’uso di un terreno? E poi, chi beneficia di questa elettricità, e per farne cosa?

Il governo centrale e quello statale hanno un ruolo chiave. L’autorità pubblica attrae gli investimenti privati, fornisce assistenza e facilita l’assegnazione dei «terreni governativi». Si tratta di terreni di proprietà pubblica sui quali contadini e pastori locali esercitano diritti d’uso consuetudinari e dai quali dipende il loro sostentamento.

Se invece i terreni individuati appartengono a dei privati, le aziende li prendono in affitto per una quota che per loro risulta irrisoria ma per la gente locale rappresenta una cifra altissima.

Le concessioni alle imprese normalmente sono di 25 anni.

Analizzando la mappa degli attori presenti oggi in Rajasthan si trovano i nomi delle più grandi aziende indiane dell’energia: Adani, Tata e Reliance; ma anche di aziende straniere, tra cui la francese Edf e la nostra Enel.

Nel caso di queste ultime, i loro investimenti sono ancora in una fase iniziale, per cui ciò che succederà intorno ai loro megaprogetti si vedrà nei prossimi mesi e anni. Tuttavia, bene farebbero a prendere in considerazione quanto avviene in altri casi simili e valutare se davvero quella degli Ultra mega solar plants sia una strada da percorrere per una transizione energetica sostenibile e giusta.

Un villaggio in conflitto

Nel 2015 Adani green energy e il governo regionale del Rajasthan, all’epoca nelle mani del partito conservatore Bjp (Bharatiya Janata party), hanno firmato un memorandum d’intesa «per sviluppare il Rajasthan come polo mondiale dell’energia solare» attraverso la costruzione di centrali nel deserto per 10 GW in dieci anni.

I progetti sono stati affidati alla Adani renewable energy park Rajasthan ltd (Areprl), una joint venture tra Adani e l’impresa statale Renewable energy corporation ltd (Rrecl).

Il più grande parco solare costruito da Areprl, il Fatehgarh solar park, si trova oggi vicino al villaggio di Nedan, nella parte occidentale dello Stato e, come si temeva, ha generato un importante conflitto con la popolazione locale.

Nel 2017, infatti, il governo ha cambiato la destinazione d’uso del terreno scelto per il megaprogetto da «agricolo» a «sterile». Tuttavia, la terra in questione – in un territorio dove le zone fertili sono rare e per questo preservate da usi industriali o costruzioni – non era affatto sterile, ma veniva tradizionalmente usata per la coltivazione, il pascolo e la celebrazione di rituali comunitari. Un territorio nel quale la popolazione locale, tra cui i dalit (storicamente conosciuti anche come «intoccabili» o senza casta) e gli adivasis (indigeni), aveva costruito un serbatoio d’acqua, una scuola, un tempio, e si prendeva cura di un oran, un luogo considerato sacro e di grande importanza identitaria. Gli oran sono spazi ricchi di biodiversità che comprendono spesso un corpo idrico. I pastori, da secoli, vi portano il bestiame al pascolo e vi organizzano incontri comunitari, feste e altri eventi legati ai ritmi agricoli.

Cause legali e marce

La popolazione si è dunque rivolta alla magistratura per opporsi a quello che considerava un accaparramento di terra illecito e illegale. Tuttavia, i risultati delle azioni legali sono stati discordanti.

Nel 2018, l’Alta corte del Rajasthan ha parzialmente accolto le argomentazioni degli abitanti dei villaggi e ha stabilito che una parte dell’area assegnata ad Adani fosse riportata a uso comunale. Nel 2020, una volta avviata la costruzione del parco, gli agricoltori hanno intentato un’altra causa contro la ridefinizione dei terreni come sterili. Il caso tuttavia è stato respinto. Nel 2021, è stata presentata una nuova causa d’interesse pubblico per annullare l’assegnazione di un altro lotto per un ulteriore ampliamento del parco solare che si sovrapponeva stavolta a un bacino idrografico ecologicamente sensibile. La petizione è stata nuovamente respinta dall’Alta corte del Rajasthan, e ai firmatari è stato ordinato di pagare 50mila rupie (615 dollari) di spese legali.

Gli abitanti del villaggio hanno inoltre denunciato tentativi di cooptazione da parte di uomini che hanno offerto loro un lavoro nella centrale elettrica in cambio della rinuncia alla causa legale. Una volta persa la causa, le offerte di lavoro sono state immediatamente ritirate.

Nel dicembre 2022, è stata organizzata l’Oran bachao yatra, una marcia che ha percorso 300 km e 40 villaggi nella regione di Jaisalmer per chiedere al prefetto la protezione degli oran.

Sumer Singh, un pastore e uno dei leader della marcia, ha dichiarato ai microfoni del giornale indiano The Hindu: «Lo sviluppo dovrebbe andare avanti, ma non in questo modo. Gli alberi vengono tagliati da un giorno all’altro. Alcuni di questi alberi hanno centinaia di anni. Che ne sarà di noi? Questo è il nostro sostentamento».

La povertà è il problema

Abbiamo intervistato la giornalista locale Ankita Mathur che lavora sulla questione. «La gente non è consapevole dell’importanza di questi pascoli. A lungo termine ne vedrà gli impatti, ma per ora si accontenta dei soldi che riceve. La povertà è il grande problema qui».

Ankita ci spiega l’interdipendenza tra l’impatto ambientale e quello socio economico di tali progetti. «L’area è una zona bharani, una terra dove la gente non coltiva grandi quantità di prodotti, ma dove, quando piove, cresce della vegetazione molto nutriente. Con i progetti solari le persone perdono questo raccolto, per piccolo che sia. Anche i frutti secchi selvatici (chiamati ker, sangri, fog, keep, khejri, e roheda), importanti come riserva di cibo durante la siccità, scompaiono».

La biodiversità, resa invisibile dalla narrativa della «terra sterile», dipende dall’interazione della vegetazione con la fauna locale. I terreni da pascolo, quelli cioè che non vengono coltivati e che spesso si presentano con dune di sabbia, sono l’habitat di animali come la volpe del deserto, serpenti, conigli, camaleonti, gatti, lucertole. Per costruire i parchi solari le dune vengono spianate distruggendo l’ambiente degli animali presenti ed eliminando la funzione naturale di barriera per il vento che porta la sabbia sui pochi terreni coltivati e irrigati, compromettendone il raccolto.

Potere e proprietà della terra

Ankita ci spiega che l’impoverimento delle famiglie nel Rajasthan rurale e le difficili condizioni climatiche spingono le persone ad accettare le offerte di acquisto delle imprese per il loro terreno. «Quando le persone hanno i soldi, migrano verso le città. Altre volte no, ma trovandosi con una quantità di denaro che non avevano mai visto prima, non sanno come gestirlo, e diventano perfetti consumatori: comprano auto e si godono la vita, per qualche tempo. Dimenticano come coltivare la terra e, in un ambiente così difficile, si arrendono facilmente. Con la diminuzione della terra disponibile per l’allevamento, la gente finisce il foraggio per i propri animali e deve comprarlo al mercato. Ma tanto, dicono, ricevono soldi dalla cessione dei loro terreni, quindi chi se ne importa? Molti agricoltori rinunciano ai loro animali perché non ne hanno più bisogno. Ora possono comprarlo, il latte, non serve mungere la propria mucca. Gli animali vengono abbandonati, soprattutto bufali, mucche, pecore, capre.

L’agricoltura in India non è un’attività redditizia e la gente, se non viene supportata, se ne va non appena ne ha la possibilità. Intanto, nei villaggi le persone influenti stanno concentrando su di sé il potere politico e la proprietà della terra.

Non dimentichiamo che in India i grandi proprietari terrieri sono solitamente politici, o entrano presto in politica. Si crea così un circolo vizioso che toglie mezzi di sussistenza alle persone e accumula ricchezze nelle mani di pochi. Questi pochi poi garantiscono la presenza indisturbata delle grosse aziende».

Risorse scarse, violenza in aumento

L’arrivo di queste imprese porta importanti cambiamenti e, con essi, dei rischi per la popolazione locale. «Capita che persone estranee entrino nelle comunità con i loro grossi veicoli e si fermino per qualche giorno. Ma qui il cibo e l’acqua sono scarsi, quindi la gente dei villaggi finisce per non averne abbastanza.

Nelle famiglie, i membri che danno in affitto o cedono la terra, o svolgono una mansione per l’azienda, si ritrovano con un’improvvisa disponibilità di denaro che non sanno gestire. Si danno spesso all’alcol, a droghe, e questo porta un aumento della violenza, ad esempio la violenza domestica, e quindi la disintegrazione delle famiglie».

Anche sulla sostenibilità delle politiche aziendali e della visione del Rajasthan come «batteria solare» dell’India, Ankita esprime perplessità: «Alcune aziende hanno promesso di piantare alberi per compensare la perdita dell’habitat locale. E dove li pianteranno? In un altro territorio. Una compensazione senza senso. C’è poi un problema serio con l’acqua: i pannelli solari devono essere puliti, perché qui abbiamo venti sabbiosi. Le imprese prendono l’acqua dall’unico canale che abbiamo, l’Indhira Gandhi, che è l’unica acqua potabile in Rajasthan.

Ci sono mesi nei quali non riceviamo nemmeno una goccia d’acqua dal canale. Le aziende pensano alla terra solo in termini monetari, e non capiscono come funzionano le cose qui. E poi, per cosa useremo l’energia prodotta? Questa energia è destinata a qualcos’altro, non certamente a noi».

L’abbaglio di una soluzione facile

Questioni e conflitti fondiari simili si stanno scatenando in tutta l’India. In alcune località, manifestanti e oppositori dei progetti, sentendosi abbandonati da magistratura e governo di fronte alle grandi multinazionali, attuano sabotaggi e danneggiamenti delle centrali.

Per questo motivo i memorandum d’intesa tra aziende e governo prevedono per i cantieri personale di sicurezza 24 ore su 24, telecamere a circuito chiuso, muri e recinzioni.

I megaprogetti «verdi» del Rajasthan diventano così enormi enclave militarizzate. Oltre al forte impatto ambientale, determinano una perdita di sovranità e autonomia alimentare per le comunità locali e un aumento della concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di vecchie e nuove élite.

Questo modello di transizione energetica presenta sfide forse inaspettate. Ignorarle a causa di un abbaglio e un’ostinata fede in una soluzione facile capace di risolvere l’avidità energetica dell’India moderna potrebbe portare a circoli viziosi di ulteriore povertà e marginalità.

Daniela Del Bene

• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org




Dieci anni in eSwatini


Dieci anni fa, il 27 gennaio 2014, il missionario della Consolata argentino José Luis Ponce De León «prendeva possesso» della diocesi di Manzini nel regno dello Swaziland, oggi eSwatini, proprio il giorno in cui si celebravano i 100 anni dell’inizio della evangelizzazione in quel piccolo paese immerso nel Sudafrica.

Raccontaci del tuo cammino come vescovo».

«Sono arrivato in Sudafrica dall’Argentina, mio Paese natale, nel 1994. Ero poco più che trentenne. Sono stato nelle parrocchie di Damesfontein, Piet Retief e Madadeni, e dal 1999-2004 superiore delegato dei Missionari della Consolata. Finito questo compito nel 2005 sono diventato parroco a Daveyton (Johannesburg). Da lì mi hanno inviato al capitolo generale della Consolata in Brasile e nel 2006 mi hanno chiamato a Roma, come segretario della Direzione generale dell’Istituto e procuratore presso la Santa Sede.

Non so se sia perché mi ero fatto un po’ conoscere in Vaticano o per la mia esperienza sudafricana, ma nel mese di novembre del 2008 sono stato nominato vicario apostolico di Ingwavuma (un vicariato apostolico del Sudafrica che era senza vescovo da tre anni). Da lì è cominciata la mia avventura.

Avevo tre mesi di tempo per organizzare l’ordinazione e l’entrata canonica nel vicariato. Ho però dovuto chiedere una dispensa perché a Ingwavuma nei primi mesi dell’anno è estate e fa davvero troppo caldo per poter fare una celebrazione «impegnativa» come un’ordinazione. Quindi questa è stata fatta il 18 aprile del 2009.

Ad ogni modo c’è un ricordo bello del mio ingresso nel vicariato ancora prima di essere ordinato. Era il 29 gennaio, anniversario della nostra fondazione come Missionari della Consolata, quando con padre Ze (José) Martins, che era venuto a prendermi all’aeroporto, abbiamo attraversato la frontiera di quella che sarebbe stata la mia terra, la mia missione, il vicariato. Assieme abbiamo fatto una preghiera al beato Allamano per benedire quell’impresa che era cominciata. Ingwavuma è un territorio molto bello, prossimo all’Oceano Indiano, immediatamente a sud del Mozambico e est dello Swaziland, oggi eSwatini».

Com’è avvenuto il tuo spostamento a Manzini, nell’unica diocesi cattolica del regno di eSwatini?

«È successo che il mio predecessore in eSwatini è morto improvvisamente all’età di 67 anni.
Evidentemente nessuno se l’aspettava e quindi a Roma hanno pensato bene di nominarmi amministratore della diocesi rimasta senza pastore.

Geograficamente, anche se una frontiera ci divideva, non eravamo lontani. Poi anche la lingua Siswati è molto vicina allo Zulu che è la lingua con la quale si celebra e si educa nei due territori, quindi molto conosciuta.

Bisogna comunque dire con chiarezza che eSwatini e il Sudafrica non sono la stessa cosa. Tutta la storia di apartheid e di violenza del Sudafrica non sono conosciute a eSwatini. Se in Sudafrica come bianco desti subito sospetti circolando fuori dalle zone dove dovresti stare, non succede lo stesso in eSwatini. Lì invece risulta strano se ti scoprono a girare da solo, non perché sei bianco, ma perché sei vescovo, e nella loro mentalità il vescovo va con la macchina e con l’autista.

Insomma, in poco tempo mi sono trovato a essere responsabile di due diocesi in due nazioni diverse. Ricordo che in una comunità cristiana una signora aveva detto che sarebbe stato perfetto se fossi rimasto per sempre a eSwatini perché loro erano contenti e non volevano che me ne andassi. La mia risposta era stata che un vescovo si sposa con una diocesi e che mia moglie era Ingwavuma. La sua risposta era stata lapidaria: “Monsignore, noi siamo una cultura poligama… se puoi avere tutte le donne che vuoi, non vedo perché un vescovo non possa avere tutte le diocesi che voglia”. Alla fine, è andata proprio così. In eSwatini sono stato prima amministratore, poi sono diventato vescovo titolare e sono diventato amministratore di Ingwavuma… insomma, il mio momento di poligamia l’ho anche avuto, aveva ragione la signora».

E come ti sei trovato nella nuova diocesi, tra l’altro unico vescovo cattolico?

«È vero, sono l’unico vescovo cattolico ma non sono solo. Unico in eSwatini, ma ben accompagnato dalla conferenza episcopale che riunisce i vescovi di tre paesi (Sudafrica, eSwatini e Botswana), e anche da un organismo nato nel 1976, il Consiglio delle chiese cristiane, che riunisce tredici Chiese che operano in eSwatini e che da quell’anno, ad esempio per affrontare assieme l’emergenza dei rifugiati provenienti dal Sudafrica dell’apartheid e dal Mozambico durante la guerra civile. Quando la violenza è arrivata anche in eSwatini nel 2021 (vedi MC gennaio 2023) questa solidarietà episcopale ed ecumenica è stata importantissima. Il Consiglio delle chiese è rispettato, ascoltato, indipendente. Insieme abbiamo sempre insistito riguardo la necessità di un dialogo nazionale che ci permetta di discernere insieme il nostro futuro. Come ho scritto in passato, c’è una situazione nella quale alcuni hanno tutto e si sentono sicuri e altri si domandano come fare per avere il minimo necessario per sopravvivere. E noi siamo pastori di tutti loro».

Cosa è successo nel 2021?

«Nel mese di maggio del 2021 è stato trovato barbaramente ucciso un giovane universitario. Tutti i sospetti ricadevano sulla polizia e la celebrazione del suo funerale è stata carica di rabbia e di tensione. I giovani, in modo particolare, hanno cominciato a presentare le loro aspettative ai rappresentanti eletti in Parlamento. A un certo punto il Primo ministro in carica (in realtà l’acting Prime minister – colui che fa la funzione di primo ministro) ha deciso di fermare la protesta.

Noi, Consiglio delle Chiese, abbiamo chiesto un incontro con il Governo e lo stesso giorno che siamo stati ricevuti sono scoppiata incontrollate e violente la rabbia, la frustrazione, la ribellione soprattutto dei giovani.

ESwatini ha sempre avuto un buon sistema educativo, anche dal Sudafrica molti sono venuti a studiare da noi nel tempo della segregazione razziale. Eppure, tutti questi giovani studenti sanno che almeno la metà di loro non troverà un lavoro. Come avere speranza riguardo il futuro? Come pensare a far nascere la propria famiglia?».

Che chiesa hai trovato quando sei arrivato in eSwatini?

«Una chiesa cristiana con radici profonde anche se frantumata in miriadi di sette. È presto detto: i cattolici, che sono la chiesa più numerosa, non superano il 5% della popolazione.

L’evangelizzazione di questo Paese è stata intrapresa dai Servi di Maria italiani che arrivarono, lo scoprii quando mi caddero fra le mani i tre volumi della storia della loro missione in questo territorio, nel 1914. Dopo di loro arrivarono i Salesiani, ma con un solo centro, poi nessun altro per più di 60 anni. Nel frattempo, la missione era diventata Prefettura apostolica il 19 aprile 1923.

Quando arrivai a eSwatini, senza saperlo, ero alle porte della celebrazione del centenario dall’inizio della missione. Abbiamo quindi cercato di rendere solenne la celebrazione perché bisognava riconoscere il grande lavoro fatto, che ha dato consistenza alle parrocchie e alle comunità cristiane. Sto parlando di 17 parrocchie e 120 comunità ben organizzate.

Una delle cose che feci al principio, per poter vedere la mia Chiesa non con gli occhi del vescovo ma con gli occhi dei miei sacerdoti, è stata quella di andare a celebrare l’eucaristia domenicale nelle diverse cappelle senza mai avvisare prima la comunità. Lo facevo con la complicità dei sacerdoti che mi hanno sempre assecondato. Ho trovato celebrazioni nutrite, partecipate, comunità accoglienti e cordiali anche se qualche volta un po’ sorprese di vedere questo nuovo sacerdote che le visitava».

E adesso hai chiamato in diocesi anche i Missionari della Consolata?

«Mi sembrava doveroso farlo. Ricordo di aver scritto una lettera al capitolo generale dell’istituto del 2017 nella quale parlavo di noi come l’ultima nata e riconoscevo il servizio carismatico e lo stile della mia stessa comunità nei giovani missionari arrivati un anno prima.

I missionari della regione del Sudafrica si erano già mossi, e devo ringraziare Dio non solo per la presenza ma per lo stile “consolatino” di lavorare, sempre vicini alle persone.

Quando sono arrivati, ho affidato loro una nuova parrocchia ricavata da quella della cattedrale. Ricordo che una comunità espressamente aveva chiesto di non essere separata dall’anteriore parrocchia, che loro stavano bene così com’erano. Io ai missionari che erano arrivati non avevo detto niente, avevo solo chiesto di cominciare la visita, casa per casa, delle famiglie. Forse è stata una fortunata coincidenza, ma loro, senza sapere niente, hanno cominciato precisamente dal settore che non li voleva. I cristiani non erano abituati a vedere i sacerdoti a casa loro e si sono subito affezionati e gli stessi che non volevano stare nella nuova parrocchia, poco tempo dopo e pubblicamente, hanno fatto sapere che quella era la parrocchia dove stavano meglio».

Durante seminario di studio e sensibilizzazione sul problema dell Aids all’Hope House, centro della Caritas diocesa di Manzini

Che sfide hai davanti?

«Non vedo una riflessione su quello che è successo nel 2021. Vedo più la tentazione di pensare che sia stato il problema di un piccolo gruppo e che non ci sia più bisogno di parlarne. Infatti, la nazione sembra sia tornata a una situazione di calma nella quale nessuno parla più di quello che è successo due anni fa.

Io ho sempre visto questo come chi ha un dolore nel corpo: se non capisce da dove arriva, può prendere un calmante ma il problema rimane. Il tempo ci permetterà di capire di più.

Poi a livello ecclesiale penso che l’esperienza del Covid, dalla quale siamo appena usciti, ha lasciato anche molti insegnamenti. Nel caso nostro, le chiese sono ancora piene, ma la vita parrocchiale gira troppo attorno alla figura del sacerdote. Nei prossimi anni avremo anche delle nuove ordinazioni ma poi da quattro anni nessun seminarista è entrato in seminario.

Papa Francesco vuole una Chiesa più sinodale, con maggiore partecipazione e presenza di ministeri e questa è una sfida che non possiamo non raccogliere.

Quando papa Francesco pochi anni fa ha voluto celebrare uno speciale mese missionario, noi abbiamo celebrato tutto un anno missionario. Poi abbiamo creato un sistema online per raccogliere le preoccupazioni, i sogni, i desideri delle persone… e abbiamo ricevuto dei riscontri che non possiamo lasciare cadere».

Mandato dei catechisti alla cattedrale di Manzini.

Questo è quindi un anno speciale.

«Sono dieci anni che sono vescovo di Manzini. Sono stato nominato 29 novembre 2013 ma fatto l’ingresso il 26 gennaio 2014 in occasione del centenario dell’arrivo dei primi missionari Osm, ordine dei Servi di Maria, detti anche Serviti, avvenuto il 27 gennaio 1914. Mai nella mia vita sono rimasto così a lungo in un posto. Sono anche 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici. Vorrei fosse un anno giubilare per la nostra diocesi che ci permetta – nello spirito del cammino sinodale – guardare insieme dove siamo arrivati e come rispondere alle sfide del presente».

Prime comunioni nella cattedrale di Manzini

Cosa ne pensi del sinodo?

«Quando papa Francesco ha annunciato un sinodo sulla sinodalità, l’ho accolto come un momento provvidenziale per la nostra diocesi. Quando nel 2019, abbiamo celebrato un intero anno missionario, di fatto non l’abbiamo mai chiuso a causa delle normative Covid-19. Quell’anno, all’insegna del motto «battezzati e inviati» (ancora oggi molto vivo), la nostra diocesi vide realizzarsi una serie di iniziative.

Sotto il Covid-19, ad esempio, i nostri social media si sono sviluppati e sono oggi il principale strumento di comunicazione tra di noi. Ci sono circa 1.500 persone sul nostro Whatsapp diocesano e molte altre ci seguono in particolare su Facebook.

Il cammino sinodale ha sfidato la nostra diocesi ad aprire spazi di “ascolto” alla gente. La nostra gente è abituata ad “ascoltare” il vescovo e i sacerdoti, ma difficilmente chiede spazi per parlare. Abbiamo preparato sondaggi cartacei e online, in inglese e in Siswati. La prima indagine si è occupata in particolare dei nostri punti di forza e di debolezza, con chi camminiamo e chi ci lasciamo alle spalle. La seconda si è occupata della liturgia: le nostre celebrazioni, le omelie, i ministri laici (condurre le funzioni senza sacerdote, i ministri dell’Eucarestia, i lettori).

È stato durante il primo sondaggio che abbiamo notato che molte persone parlavano delle difficoltà dei nostri giovani, in particolare dopo il Covid-19. Abbiamo deciso di continuare il cammino sinodale affrontando questa sfida. A febbraio del 2022 abbiamo avuto una sessione in cui quattro giovani (di diverse fasce d’età), provenienti da ciascuna delle 17 parrocchie, si sono riuniti e hanno risposto ad alcune domande sulle loro gioie e difficoltà. Il Consiglio pastorale diocesano si è riunito contemporaneamente in un’altra sala. Li tenevamo separati per paura che i giovani non si sentissero liberi in presenza degli «anziani». Poi, li abbiamo riuniti per condividere le loro risposte.

Un processo simile è stato fatto in ogni parrocchia. Poi, alla fine dell’anno, abbiamo chiesto a tutti i consigli parrocchiali di riflettere sul modo in cui noi, la Chiesa, dovremmo affrontare la situazione politica. Ho chiesto loro di individuare azioni concrete da intraprendere a livello locale (e non di dirmi cosa avrei dovuto fare). Solo tre parrocchie hanno risposto condividendo ciò che era stato detto, su ciò che si era deciso di fare e se era stato fatto o meno (e perché). Le persone partecipano, ma alle attività, meno alla riflessione. C’è bisogno di creare spazi di dialogo e di far dialogare.

Il nostro piano è quello di sviluppare “club per la pace” e “gruppi di Laudato si’” in ogni parrocchia (non è ancora chiaro se si tratterà di due cose diverse o dello stesso gruppo)».

Cosa sperate da questo anno giubilare?

«Celebrando i 110 anni dell’arrivo dei primi missionari cattolici e il decimo anniversario del mio insediamento, la nostra diocesi avrà un anno giubilare da gennaio a novembre.

Sarà un’opportunità per continuare il nostro cammino sinodale e celebrare il primo congresso delle scuole cattoliche (riflettendo sull’identità cattolica delle nostre 60 scuole).

Vogliamo poi sviluppare i “club per la pace” e i “gruppi Laudato si’” in ogni parrocchia.

Inoltre, dare forma a iniziative di cui si è parlato più volte, come lo sportello della famiglia (attuando iniziative di preparazione al matrimonio tenendo conto delle questioni culturali e del sostegno alle coppie dopo il matrimonio). C’è poi lo sportello della salute (coordinando il lavoro del nostro ospedale, delle cliniche, dell’hospice, degli infermieri parrocchiali, dell’équipe di consulenti traumatologici, ecc.).

Importante è anche il rilancio di Caritas eSwatini (l’ufficio nazionale della Caritas che coordinerà il lavoro delle 17 Caritas parrocchiali).

Sarà un anno nel quale daremo fondamento alle cose che vogliamo continuare in futuro e, naturalmente, un anno di rinnovamento personale e familiare. Il (possibile) motto «Lazzaro, vieni fuori», sarà una chiamata a una nuova vita in Gesù coinvolgendo ogni aspetto della nostra vita personale, familiare e ecclesiale.

Jaime C. Patias e Gigi Anataloni

Archivio MC

Siti

https://bhubesi.blogspot.com/ il blog del vescovo di Manzini

Cattedrale di Manzini

 




Kenya. Una terra estrema


L’area del lago Turkana è una zona isolata, nella quale il clima la fa da padrone. Non piove mai, anche
quando in altre zone si verificano alluvioni. È difficile procurarsi medicine e il cibo scarseggia sempre più. Anche andare a scuola è un’impresa. Eppure la gente non rinuncia a lottare.

«Qui i bambini non sanno che cos’è la pioggia. Perché non l’hanno mai vista!». Padre Mark Gitonga, missionario della Consolata a Loyangalani, sulle rive del lago Turkana, parla spesso per immagini. Immagini che, in questa terra estrema e affascinante del nord del Kenya, sono più efficaci di tante parole. Come «pioggia», appunto, «che per noi è solo un vocabolo nel dizionario».

Non la vedono da anni a Loyangalani, sulla sponda est di quello che è il lago desertico più grande al mondo: un vasto e luccicante specchio d’acqua, adagiato nella parte settentrionale della Great Rift valley – la più larga, lunga e cospicua frattura della crosta terrestre -, battuto dal vento e circondato dal nulla.

Il lago Turkana si trova in una delle regioni più inospitali del Paese: vaste distese di rocce laviche e sabbia, punteggiate qua e là da solitarie acacie. Qui, dove le temperature superano spesso i 50 gradi, si intrecciano e a volte si scontrano le vite di varie comunità di allevatori nomadi – in particolare Turkana, Samburu e Rendille – che, a causa della prolungata siccità, hanno perso circa l’80% del bestiame. Mentre gli El molo, che sono considerati la più piccola etnia dell’Africa e vivono in due villaggi lungo le rive del lago, cercano faticosamente di sopravvivere di pesca, nonostante le difficoltà sempre più grandi dovute ai cambiamenti climatici. Cambiamenti che sono all’origine anche di fenomeni estremi come, in altre zone del Paese, le devastanti inondazioni di fine ottobre e inizio novembre. Senza che qui scendesse una goccia di pioggia.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Isolati

«In questo momento siamo completamente isolati», racconta padre Mark a fine novembre. Insieme al diacono congolese Jacques Lwanzo garantisce una piccola presenza missionaria in quello che è un luogo simbolo per i Missionari della Consolata, che arrivarono fin qui oltre settant’anni fa sulla via verso l’Etiopia. Ancora oggi, padre Mark – che vive qui stabilmente dal 2019 – accompagna la piccola comunità cristiana, composta da circa cinquemila fedeli sparsi su un territorio vastissimo, e realizza molte iniziative in campo sanitario e soprattutto educativo, per provare a stare accanto alla gente delle contee Samburu e Marsabit e a dare un’opportunità di istruzione ai bambini che ne rappresentano il futuro. «Per qualche settimana sarà difficile muoversi – conferma il missionario -: l’acqua proveniente dalle montagne e l’esondazione di alcuni fiumi hanno provocato molti allagamenti e reso impraticabili le vie di comunicazione. Già in situazione normale le strade sono in cattive condizioni e alcune piste non sono percorribili a causa dell’insicurezza provocata dagli scontri tra comunità». Questi conflitti sono ulteriormente aumentati negli ultimi anni proprio a causa della grave emergenza provocata dalla siccità con conseguente perdita del bestiame, aumento dei prezzi e una crisi umanitaria senza precedenti.

Innalzamento delle acque. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Uno strano fenomeno

Ad aggravare la situazione, si è aggiunto un altro fenomeno complesso e ancora non completamente indagato dagli scienziati che riguarda direttamente il lago Turkana, le cui acque si stanno rapidamente innalzando, nonostante la mancanza di piogge. Pare sia legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle sorgenti sotterranee e ai movimenti delle placche tettoniche che provocano un analogo innalzamento di altri laghi della Rift Valley. A questo fenomeno si legano anche alterazioni della salinità del lago con riflessi sulle specie animali e vegetali che ci vivono, e anche sulla vita della gente.

Uno dei due villaggi degli El molo, ad esempio, quello di Tumkende, si ritrova oggi diviso in due: una parte sulla riva e un’altra che, a causa dell’inalzamento dell’acqua, è diventata un’isola. Anche la scuola e la chiesa sono minacciate: «Abbiamo già dovuto ricostruire la cucina e alcune aule, mentre ormai non si riesce più a entrare in chiesa perché l’acqua è arrivata sino alla porta», ci dice padre Mark, mentre ci mostra alcuni vecchi edifici che emergono appena dal lago.

Per le popolazioni, inoltre, è diventato ancora più difficile pescare, perché occorre allontanarsi sempre di più dalla riva per trovare il pesce. E se gli El molo, che sono tradizionalmente dediti alla pesca, riescono ad avventurarsi in acque più profonde, i Turkana, che sono fieri pastori e si sono avvicinati al lago solo perché hanno perso il bestiame, rischiano spesso la vita. Nessuno di loro, infatti, sa nuotare e per pescare usano esili zattere costruite con qualche tronco di palma, nonostante il forte vento e le onde spesso alte.

È una terra estrema in tutti i sensi quella del Turkana: una terra dove vita e morte si sfiorano continuamente. «La situazione umanitaria è catastrofica – ribadisce padre Mark -. Essere malnutriti è diventata la normalità per donne e bambini. E gli uomini non stanno molto meglio». In effetti, si fatica a capire come la gente riesca a sopravvivere. A maggior ragione ora che le alluvioni hanno distrutto quel poco che rimaneva loro a disposizione. Secondo le agenzie dell’Onu, «le inondazioni hanno danneggiato terreni agricoli, bestiame e attività commerciali, mettendo in pericolo i mezzi di sussistenza nelle aree nordorientali già colpite da siccità prolungata. I bisogni prioritari sono ripari, cibo, acqua e servizi di primo soccorso».

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Emergenza diffusa

L’emergenza riguarda non solo alcune zone del Turkana, ma anche le contee di Isiolo, Mandera, Marsabit, quella di Garissa più a sud est e quelle di Lamu e Mombasa verso la costa. Anche i due grandi campi profughi di Dadaab (contea di Garissa) e di Kakuma (contea di Turkana) – entrambi con oltre 270mila persone – sono stati colpiti e hanno registrato morti e feriti. Migliaia di persone già sradicate dalle loro terre sono di nuovo in fuga. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), «quasi 25mila persone nel campo di Dadaab sono state interessati dalle inondazioni e molte hanno cercato rifugio nelle scuole e nelle comunità vicine. Alcuni rifugiati hanno aperto le loro case per ospitare i nuovi sfollati, riducendo molte famiglie a una condizione di sovraffollamento. Le strade allagate hanno ostacolato gli spostamenti, rendendo particolarmente difficile l’accesso ai servizi per i più vulnerabili, tra cui le donne incinte che devono raggiungere gli ospedali. Nel campo di Kakuma, un centinaio di famiglie sono state costrette a spostarsi in aree più sicure a causa della massiccia erosione del suolo provocata dalle piogge».

Tutto ciò ha causato anche una situazione igienico-sanitaria molto preoccupante: «Centinaia di latrine sono state danneggiate, mettendo le persone a rischio di malattie infettive, tra cui il colera». Queste inondazioni fanno seguito alla più lunga e grave siccità mai registrata, il cui impatto è ancora drammatico in tutto il Corno d’Africa, dove più di 23 milioni di persone già soffrivano la fame e più di 5 milioni di bambini erano gravemente malnutriti, secondo il World food programme (Wfp).

Malnutrizione. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Cibo e medicine

Per la gente del Nord Kenya convivere con la mancanza di cibo è diventata la quotidianità ormai da diversi anni. A pochi chilometri da Loyangalani, alcune operatrici sanitarie provano a distribuire degli alimenti terapeutici per i bambini più piccoli. Sono loro a spostarsi da una comunità all’altra, perché la gente non riesce neppure a recarsi nei pochi dispensari presenti nei centri più grossi, come Loyangalani, appunto, o Moite più a nord. Oppure non ha nemmeno pochi spiccioli per pagare le medicine. Sempre che queste siano disponibili.

Un’infermiera consegna alcune bustine di cibo energetico a un bimbo di sei anni che pesa solo sei chili. Sua madre sembra pure lei una bambina, anche se porta le tradizionali collane e gli orecchini che la identificano come donna sposata. «Quando tornano nelle capanne, ne mangiano anche le mamme – ci fa notare l’infermiera -, ma che cosa possiamo fare? Pure loro non hanno niente…». Non c’è cibo e non ci sono medicine. «Da diversi mesi il governo non manda nulla», mentre padre Mark fa quello che può per rifornire almeno il dispensario della parrocchia, ma i pazienti sono pochissimi perché quasi nessuno è in grado di pagare cure e medicinali, per quanto costino cifre irrisorie. Se poi qualcuno sta veramente male, deve recarsi a Marsabit, a più di cinque ore di viaggio su piste dissestate, con una sorta di ambulanza che quasi nessuno può permettersi. E che comunque adesso non potrebbe muoversi a causa degli allagamenti con piste trasformate in fanghiglia.

Scuola. El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Le scuole

Sul fronte istruzione le cose non vanno meglio. La missione cattolica gestisce otto scuole con circa 800 studenti. Il governo dovrebbe pagare gli insegnanti, ma sono pochissimi quelli a carico del sistema pubblico. Per tutti gli altri ci devono pensare i genitori o la parrocchia, con l’aiuto di qualche Ong. «In questa regione – fa notare padre Mark – circa il 90% delle persone scolarizzate lo deve ai missionari della Consolata che sono stati qui». Anche lui ha particolarmente a cuore il tema dell’istruzione, come strumento prioritario per «pensare a migliorare globalmente la situazione e le condizioni di vita delle popolazioni locali».

Per il momento, però, la situazione è alquanto precaria: «Da mesi il governo non ci manda il cibo per la mensa», si lamenta Teresalba Sintiyan, direttrice delle scuole elementari cattoliche di Loyangalani. «Istruzione e salute sono le grandi sfide di questo territorio e riguardano innanzitutto le bambine e donne che continuano a essere discriminate e marginalizzate. Non hanno voce, non vengono mandate a scuola e sono forzate a sposarsi giovanissime. La crisi climatica, poi, ha aggravato la situazione e accresciuto i conflitti intercomunitari».

È d’accordo padre Mark: «Quella dell’educazione è la grande sfida e la grande soluzione – dice convinto -. Ed è quello che mi tiene qui». Per questo non risparmia energie per garantire un’istruzione al maggior numero possibile di bambini e bambine.

Le strutture, a volte, sono molto rudimentali, piccole capannucce fatte di rami e paglia, mentre nei centri più grandi, come Loyangalani e Moite, sono in muratura e spesso prevedono anche uno studentato per permettere a quelli che vengono da lontano di poter frequentare le lezioni. «Purtroppo ancora oggi molte famiglie non mandano i bambini a scuola perché non ne capiscono l’importanza. Se lo fanno, a volte, è solo perché possano avere almeno una tazza di porridge al giorno».

A Moite, tutti devono contribuire alla cucina portando un po’ di quel bene preziosissimo che è l’acqua. Non appena albeggia, file di bambini si recano nel greto disseccato di un fiume, dove alcune ragazzine un po’ più grandi scavano nella sabbia finché non trovano un po’ d’acqua. Con alcune tazze riempiono pazientemente le piccole taniche degli alunni che le depositano nella cucina con il fuoco a terra prima di recarsi in classe.

Dall’inizio dello scorso anno, il cibo è fornito dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, che ha avviato proprio qui e in due villaggi vicini un progetto di sostegno nutrizionale per i piccoli allievi.

El Molo Bay, Loyangallani, Lago Turkana. Foto Anna Pozzi.

Teresa

«Stiamo combattendo con le poche forze e le poche risorse che abbiamo per risollevarci», ci dice Teresa Lopowar Etapar, che è la prima e unica donna laureata di questo villaggio grazie ai missionari. Teresa, che è veterinaria, ha deciso di mettere i suoi studi e le sue competenze a servizio della sua comunità. Un esempio e uno stimolo importanti per tanti giovani del posto. Non sono molti, infatti, quelli che tornano da queste parti una volta che sono partiti per altre regioni del Kenya. Lei però, come altri che i missionari hanno fatto studiare, ha voluto rimettersi in gioco qui, per il bene della sua gente.

Attualmente, il missionario sostiene altri 150 studenti in diverse scuole superiori del Kenya, grazie all’ospitalità di tante famiglie locali e al sostegno dei benefattori italiani, che purtroppo, però, si è molto ridotto dopo la pandemia di Covid-19.

«L’insicurezza alimentare è gravissima – ci fa notare Teresa -. Molta gente, nel suo cuore, vorrebbe tornare a dedicarsi alla pastorizia e alla vita che ha sempre fatto. Le comunità hanno chiesto alle autorità della contea di risarcirle del bestiame morto a causa della siccità, ma per ora hanno ricevuto solo promesse».

Qui, sul lago Turkana – come un po’ ovunque in Kenya – ci sono molto malcontento e molta disillusione rispetto alla classe politica locale e nazionale. Tante promesse, appunto, e pochissimi fatti concreti. Tutto il Paese è afflitto da una grave crisi economica acuita dall’innalzamento dei prezzi. Una situazione che ha un impatto ancora più drammatico in regioni poverissime, isolate e abbandonate come quelle del nord.

Lo scorso 25 novembre, il presidente William Ruto ha voluto dare un segno di solidarietà alle popolazioni del lago, recandosi personalmente a Loyangalani in occasione del tradizionale Festival culturale che si è svolto nonostante le difficoltà logistiche. Il presidente, arrivato in elicottero, ha lanciato un piano d’azione (2023-2027) per contrastare il cambiamento climatico con la partecipazione delle comunità locali, piegate da una crisi senza precedenti. Ma poi è volato via. E molti temono che, con lui, si siano involate anche le sue promesse.

Anna Pozzi

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Canada. Acero di fuoco


Sommario

La sommità della torre di Calgary, simbolo della ricca città dell’Alberta che, nel 1988, ospitò le Olimpiadi invernali. Foto Paolo Moiola.

L’ambiente. Anche in «paradiso» fa troppo caldo

Nel paese nordamericano, abitato da 37 milioni di persone, ci sono ottomila alberi per abitante. Tuttavia, i problemi ambientali non mancano. Dal rapido innalzamento delle temperature allo scioglimento dei ghiacciai, dagli incendi (oltre 18 milioni di ettari di foreste distrutti nel 2023) fino all’invadenza delle compagnie minerarie nazionali, che spesso non godono di una buona reputazione.

Calgary (Alberta). Dalla sommità della torre il panorama lascia senza fiato. Le incredibili vetrate consentono una visione a 360 gradi della città dell’Alberta, nata come centro di allevatori (ancora oggi è soprannominata «Cowtown», città delle vacche) ma poi arricchitasi con il petrolio. Davanti e sotto di noi (ci sono vetrate anche a terra, formando un suggestivo pavimento trasparente) l’avveniristica Downtown, il fiume Bow, la rete ferroviaria e anche lo Saddledome, l’arena con tetto a forma di sella inaugurata pochi anni prima che Calgary ospitasse le Olimpiadi invernali del 1988. In lontananza, il panorama è meno chiaro: la catena delle Montagne Rocciose non si vede, nonostante la giornata sia favorevole.

Accanto a noi c’è un visitatore con un elegante turbante (essendo – con molta probabilità – uno dei tanti sikh residenti nel paese). «Nelle scorse settimane – ci dice – tutta l’area qui attorno era oscurata dal fumo degli incendi».

Purtroppo, dobbiamo credergli. Da maggio 2023 (cioè molto presto) e fino all’autunno (cioè molto tardi), il paese è stato devastato da un numero impressionante di incendi: 6.517. Alla fine di ottobre, avevano bruciato 18,5 milioni di ettari (185mila chilometri quadrati, cioè più della metà della superficie dell’Italia), circa il 5% dell’intera area forestale del paese e più di dieci volte la quantità dell’anno scorso. A parte all’estremo nord (dove non ci sono alberi), tutto il Canada è stato colpito e, in particolare, la British Columbia, i Northwest Territories, lo Yukon, l’Alberta e l’Ontario. Decine di migliaia di persone sono state costrette a evacuare (come anche noi avremo modo di constatare nel corso del viaggio).

Doug Prentice, ambientalista di «Extinction rebellion», in una strada di Victoria.. Foto Paolo Moiola.

Incendi e indigeni sfollati

In Canada, il problema degli incendi pare aggravarsi di anno in anno. L’innalzarsi delle temperature e i lunghi periodi siccitosi aumentano i rischi. Secondo gli esperti, la maggior parte degli incendi (77 per cento) sono stati provocati da fulmini1. A loro volta, gli incendi immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra2 che aggravano il cambiamento climatico.

I boschi devastati sono cimiteri di alberi scheletriti e anneriti: vederli produce una fitta al cuore. Ma anche le conseguenze a livello umano sono tangibili. In varie piccole cittadine lungo il nostro tragitto automobilistico notiamo molte persone dai tratti indigeni riunite attorno a (piccole) strutture alberghiere. «Non abbiamo stanze perché sono arrivate famiglie indigene evacuate dai loro villaggi a causa degli incendi», ci spiega la gerente di un piccolo motel di Hay River, cittadina nei Territori del Nordovest (Northwest Territories).

Veniamo così a scoprire che, tra le migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, ci sono molti indigeni che abitano in zone remote dove un eventuale incendio viene subito dichiarato fuori controllo dalle autorità nazionali.

Chiediamo i nomi delle etnie ospitate, ma la donna non è sicura e va a informarsi. Torna poco dopo con la risposta. Si chiamano: K’atl’Odeeche e West Point. Si tratta di due delle 634 popolazioni appartenenti al grande gruppo indigeno noto come First nations.

Mappa con le dieci province e i tre territori che compongono il Canada; questo dossier si concentra su British Columbia, Alberta, Northwest Territories e Yukon.

A Victoria qualcuno si ribella

Molto critico verso le politiche del proprio governo è Doug Prentice, un ambientalista (noto con il nome di battaglia di Captain Painfully Obvius) che conosciamo a Victoria, città posta sull’isola di Vancouver e capitale della provincia della Columbia Britannica. Alto, baffi bianchi legati a treccia, bombetta nera in testa, lo incontriamo mentre è seduto nel suo «ufficio» in una via a traffico ridotto del centro cittadino. È circondato da cartelloni ecologisti homemade. A lato è parcheggiata la sua auto elettrica con appiccicati, in bella vista, alcuni adesivi con il logo di Extinction rebellion, il combattivo movimento ambientalista di cui Doug fa parte.

Lui è un fiume in piena. Due sono i progetti più contestati, ma ormai in dirittura d’arrivo: il gasdotto noto come Coastal gaslink pipeline che attraversa vari territori indigeni e i tagli di alberi secolari nella foresta pluviale di Fairy Creek nel territorio indigeno della Pacheedaht first nation, sull’isola di Vancouver. Per il gasdotto la compagnia TC Energy afferma di essersi ormai accordata con quasi tutte le comunità indigene coinvolte.

Quanto alle proteste di Fairy Creek, esse sono iniziate nell’agosto 2020 dopo il permesso di disboscamento concesso alla Teal cedar products. Gli ambientalisti hanno allestito i loro campi nella foresta iniziando un logorante confronto con le forze dell’ordine. A giudicare dal numero di persone arrestate in due anni di lotte (oltre mille), la protesta di Fairy Creek – oggi molto debilitata – è stato il più grande atto di disobbedienza civile nella storia del Canada.

Il paese è il secondo per estensione al mondo, poco abitato e ricco di risorse. Ospita il 9 per cento delle foreste mondiali e ci sono ottomila alberi per ogni suo cittadino (contro una media mondiale di 422)3. Probabilmente questa condizione privilegiata ha condizionato le sue scelte in campo ambientale.

Su questo punto nuove conferme ci arriveranno addentrandoci nello Yukon e in British Columbia, verso il confine con l’Alaska. Tra metà Ottocento e inizio Novecento, queste regioni furono protagoniste della cosiddetta «corsa all’oro». A suo modo epica e – volendo – anche romantica.

Canalone del Salmon Glacier, ghiacciaio canadese sul confine di Hyder, Alaska. Foto Paolo Moiola.

Meno ghiacciai, più miniere

Watson Lake è una cittadina dello Yukon, situata al miglio 635 dell’Alaska Highway, vicino al confine con la Columbia Britannica. È stata un centro di servizi per l’industria mineraria, in particolare per l’amianto e il tungsteno. Vi pernottiamo prima di dirigerci a Stewart, a Sud ovest di Watson Lake.

Seicentocinquanta chilometri dopo, ecco Stewart. Se non fosse per l’asfaltatura la sua via centrale sembrerebbe la strada di un villaggio western. Le case ai lati – semplici costruzioni in legno colorato (molte delle quali chiuse) – danno quest’impressione. Stewart è stata una città mineraria, mentre oggi i suoi cinquecento abitanti ruotano soprattutto attorno al turismo.

Il suo periodo di auge fu tra il 1902 e il 1910. Le cronache dell’epoca raccontano che diecimila persone vivevano e lavoravano qui e nel vicino Triangolo dell’oro (Golden triangle). Stewart era essenziale per le comunicazioni visto che è cresciuta al culmine inferiore del Portland Canal, un fiordo lungo circa 114 chilometri che s’incunea tra l’Alaska (Stati Uniti) e la Columbia Britannica (Canada).

A pochi chilometri da Stewart, appena superato il confine statunitense (privo di controlli), c’è Hyder (già Portland City), per lungo tempo legata allo stesso destino minerario. Oggi è un villaggio fantasma dove quasi tutto pare abbandonato. Per questo, viaggiatori e turisti che non abbiano un camper o una tenda di solito si fermano a Stewart dove sopravvivono alcuni piccoli alberghi e servizi (posto di salute, ufficio postale, chiesa, anche un museo). Ultimamente, nella zona sono riprese le attività minerarie4, ma questa non è una buona notizia. Il ritiro dei ghiacciai come effetto del cambiamento climatico offre l’opportunità di estrarre dalla terra minerali che, per migliaia di anni, sono rimasti protetti sotto uno scudo impenetrabile di ghiaccio e neve.

L’industria mineraria è un settore importante dell’economia canadese. Secondo la Mining association of Canada (Mac), contribuisce con il 7,9% al Prodotto interno lordo nazionale ed è responsabile del 22% delle esportazioni nazionali totali del Canada. Il settore minerario canadese impiega – direttamente e indirettamente – 665mila persone in tutto il paese. L’industria – secondo la Mac – è in proporzione il più grande datore di lavoro del settore privato per le popolazioni indigene canadesi e uno dei principali clienti delle imprese di proprietà degli indigeni. È dato confermato che oltre mille compagnie minerarie canadesi operino in circa cento paesi, costituendo il 60-75 per cento delle società minerarie del mondo. È altrettanto confermato che circa il 34 per cento di esse siano accusate di violare i diritti ambientali e quelli umani, soprattutto in America Latina. Varie organizzazioni civili, tra cui Mining watch Canada e il Jcap (The justice and corporate accountability project), segnalano – ad esempio – gli abusi della Barrick gold corporation, la più grande società di estrazione dell’oro al mondo, della Nevsun resources, della Hudbay minerals, tanto per citarne alcune.

Risalendo la strada sterrata che da Hyder si snoda a lato del canyon del Salmon glacier (ghiacciaio del salmone), proprio a cavallo del confine, iniziamo a incontrare camion ed escavatori di enormi dimensioni. Sono i mezzi che lavorano all’apertura di una nuova miniera. Un’attività che ha già prodotto migliaia di alberi abbattuti e montagne sventrate: un ambiente e un panorama completamente stravolti. Come praticamente tutti i ghiacciai, in questi ultimi decenni anche il Salmon si è progressivamente ristretto perdendo lunghezza e volume. È certo che una nuova miniera non potrà che portare altre conseguenze negative. E i primi a risentirne saranno i salmoni che popolano il Salmon river (il fiume formato dalle acque di fusione dello stesso ghiacciaio) e gli orsi dei boschi.

Sbancamento per l’apertura di una miniera a fianco del ghiacciaio Salmon, come gli altri da tempo in ritirata. Foto Paolo Moiola.

La questione dell’estrattivismo

Nulla di nuovo – dunque – anche nel paese nordamericano: salvaguardia dell’ambiente ed estrattivismo rimangono in contrasto inconciliabile. Lo sta raccontando da anni Naomi Klein, probabilmente la più nota scrittrice canadese contemporanea e militante del movimento globale per il clima, oggi condirettore del Centro per la giustizia climatica dell’Università della Columbia britannica (Ubc), a Vancouver.

Intervistata sulla giustizia climatica per Ubc Faculty of Arts nel marzo scorso, con riferimento al proprio paese la Klein ha affermato: «La giustizia climatica è inseparabile dalle richieste degli indigeni per la restituzione della terra e per il risarcimento dei danni arrecati. Perché il motivo principale per cui la terra è stata occupata è l’estra-  zione, compresa l’estrazione di combustibili fossili. Un’estrazione e un furto che continuano ancora oggi».

Paolo Moiola

Note

  • (1) In «Nature», Extratropical forests increasingly at risk due to lightning fires, 9 novembre 2023.
  • (2) Gli incendi possono immettere nell’aria circa 200 composti (tra essi metano, idrocarburi, monossido e biossido di carbonio, ossidi di azoto e particolato). Queste sostanze derivano dai processi di combustione della cellulosa, della lignina, ma anche delle resine e olii presenti nella vegetazione e nel suolo.
  • (3) In «Nature», Mapping tree density at global scale, 2 settembre 2015.
  • (4) Attualmente, sono operative due compagnie minerarie, entrambe canadesi: la «Blackwolf copper and gold Ltd» e la «Ascot resources company».

Mosaico canadese: un’opera dell’artista Tim Van Hom, nell’ambito del «The Canadian Mosaic Project».

L’immigrazione

Il multiculturalismo e il mosaico canadese

Nel corso della sua storia, il Canada è passato dall’etnocentrismo europeo attuato ai danni delle popolazioni native a un multiculturalismo spinto e codificato dalla legge. I dati dell’ultimo censimento (del 2021) suggeriscono molte considerazioni. Con riferimento a una popolazione complessiva di 37 milioni di persone ci sono 8,3 milioni di immigrati, pari a quasi un quarto del totale (23 per cento, la percentuale più alta tra i paesi del G7). Per fare un raffronto, in Italia ci sono attualmente oltre cinque milioni di migranti (di cui 3,6 non comunitari), pari all’8,6 per cento della popolazione totale, ai quali vanno sommati poco più di 500mila migranti senza permesso (dati Istat, 2023). Fino agli anni Settanta la maggior parte dei migranti verso il Canada proveniva dai paesi europei. Da allora in poi, l’immigrazione è diventata asiatica (con gli indiani in testa). A differenza degli stati nazionali europei o dei confinanti Stati Uniti, la filosofia del Canada su come incorporare gli immigrati non è il melting pot (crogiolo) ma il mosaico: tessere diverse per etnia, cultura, religione e lingua inserite fianco a fianco nel tessuto nazionale.

Il multiculturalismo come fondamento giuridico del Canada si è affermato negli ultimi cinquant’anni. Nel 1971, il governo di Pierre Trudeau – padre di Justin, attuale primo ministro del paese – adottò una politica multiculturale (sicuramente anche per frenare il crescente nazionalismo francofono del Québec). Nel 1982, il multiculturalismo fu confermato nella sezione 27 della Charter of rights and freedoms (Carta dei diritti e delle libertà) in cui si afferma: «La presente Carta dovrà essere interpretata in modo coerente con la preservazione e la valorizzazione del patrimonio multiculturale dei canadesi». Infine, nel 1988, fu approvato il Canadian multiculturalism act, una legge unica al mondo con la quale veniva sancito l’impegno del governo federale a promuovere e mantenere una società diversificata e multiculturale. «Si dichiara – recita il primo comma dell’articolo 3 – che la politica del governo del Canada è quella di riconoscere e promuovere la consapevolezza che il multiculturalismo riflette la diversità culturale e razziale della società canadese e riconosce la libertà di tutti i membri della società canadese di preservare, valorizzare e condividere il proprio patrimonio culturale».

Pa.Mo.

Un orso nel Salmon river, corso d’acqua formato dalle acque di fusione del ghiacciaio Salmon, posto sul confine con l’Alaska. Foto Paolo Moiola.

I popoli indigeni
Una storia di totem e bufali

Particolari di un totem indigeno a Kitwanga, nella British Columbia. Foto Paolo Moiola.

Gli indigeni sono 1,8 milioni, pari al 5 per cento della popolazione. La Costituzione canadese del 1982 li distingue in tre gruppi: First nations, Métis e Inuit. Tra i simboli indigeni più noti ci sono i totem e i bufali. Entrambi sono testimonianza del difficile incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori europei.

Kitwanga – Gitwangak (British Columbia). A voler essere sinceri, il luogo lascia un po’ delusi. I totem – una decina – sono allineati lungo una stradina secondaria poco fuori il villaggio di Kitwanga. Tutt’attorno è un prato con poche casette in legno, alcune in stato di apparente abbandono. C’è posto anche per un solitario campanile, anch’esso in legno (che – scopriremo poi – essere appartenuto a una chiesa anglicana bruciata nel 2021). Smaltita la sorpresa per il luogo, ci avviciniamo ai pali totemici e veniamo subito rincuorati nello scoprire che essi sono finemente intagliati, vere miniere di arte e storia.

Vi si riconoscono grandi mani, occhi e bocche giganti, animali (rane, orsi, aquile). I totem sono sculture in legno (di cedro rosso, di solito) a forma di pali (alti fino a dieci metri), create dai popoli indigeni della costa nordoccidentale. Sono scolpite per raccontare storie: di una nazione, di una famiglia, di un individuo. All’epoca della conquista non piacquero ai colonizzatori europei. Nel loro progetto di assimilazione i totem non erano contemplati. Anche i missionari cristiani incoraggiarono l’eliminazione dei totem, che consideravano ostacoli alla conversione delle popolazioni indigene.

Kitwanga è sulla terra dei Gitxsan, popolo indigeno delle First nations che vive lungo il fiume Skeena. Mentre siamo intenti a fotografare il luogo nella luce incerta della giornata, notiamo un giovane che ci osserva dalla veranda di una modesta abitazione a lato della stradina. Ci avviciniamo e lui ci accoglie con un ampio sorriso.

«Il luogo verrà sistemato», ci spiega senza attendere domande. Dice di chiamarsi Justice Moore e di avere 27 anni. È un agricoltore. «No, io non parlo la lingua indigena. Come nemmeno la parlano i miei genitori, visto che hanno frequentato le scuole residenziali nelle quali l’idioma nativo era bandito».

Lo sterminio dei bufali

Se i totem sono simbolo delle popolazioni indigene delle coste nordoccidentali, i bufali (termine improprio ma popolare rispetto a quello corretto di bisonti) sono il simbolo degli indiani delle praterie, quelli stanziati ai piedi delle Montagne Rocciose.

Prima dell’arrivo degli europei, questi grandi mammiferi (appartenenti alla famiglia dei bovidi) fornivano ai popoli delle pianure ogni tipo di risorsa: carne per cibarsi, pelli per vestirsi e coprire le tende, corna e ossa per costruire strumenti di ogni sorta.

Banff, cittadina dell’Alberta che dà il nome al famoso parco nazionale, ospita il Buffalo nations museum, una piccola gemma multimediale che celebra l’animale e i nativi (Blackfoot, Tsuut’ina, Nakoda, Nëhiyaw-Cree) che regolavano le loro esistenze su quelle mandrie. Su una parete del museo, è esposta una pelle dipinta con figure di bufali e indiani. Sotto di essa una targa offre al visitatore una lunga spiegazione in cui, tra l’altro, si legge: «Per generazioni il bufalo è stato un nostro parente, il bufalo è parte di noi e noi siamo parte del bufalo culturalmente, materialmente e spiritualmente».

Con l’arrivo dei colonizzatori questi animali furono sterminati (soprattutto per le loro pelli), passando da milioni (trenta, secondo alcune stime) alla quasi estinzione di fine Ottocento. Oggi sono tornati a circa 350-400mila esemplari, divisi tra Canada e Stati Uniti.

Una mandria di bufali (bisonti) pascola liberamente ai bordi di una strada. Foto Paolo Moiolla.

Il peso della storia e della legge

Sia i totem che i bufali testimoniano quanto difficile e denso di conseguenze sia stato l’incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori venuti dall’Europa.

Prima dell’arrivo dei norvegesi (alla fine del X secolo) e, soprattutto, degli esploratori francesi e britannici (dal 1534 in poi), le popolazioni indigene erano le sole ad abitare il territorio che forma l’attuale Canada. Invasione e persecuzioni coloniali, malattie importate (vaiolo, tubercolosi, influenza), fame, confisca delle terre, genocidio culturale, ne ridussero grandemente il numero (le stime al riguardo non sono però univoche)1.

Dopo i danni prodotti dall’Indian act del 1876 (in seguito emendato nelle parti più discriminatorie), la Costituzione canadese del 1982, nella sezione 35, riconosce l’esistenza dei diritti indigeni (e dei relativi trattati)2 ma senza entrare nei dettagli: non si parla né di autodeterminazione (self determination) né di autogoverno (self government). Nella stessa sezione 35 si distinguono i popoli indigeni in Inuit e First nations (Prime nazioni), più un terzo gruppo rappresentato dai Métis (meticci, in francese), nati dall’incontro tra coloni europei e membri delle Prime nazioni.

Nel settembre del 2007, l’assemblea delle Nazioni Unite adotta la «Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni». I suoi 46 articoli parlano di autodeterminazione e autogoverno (art.3 e art.4), uguaglianza e non discriminazione, cultura, lingua e identità, terre (art.10), territori e risorse, istituzioni e sistemi giuridici indigeni. Il Canada la recepisce 14 anni dopo: il 21 giugno 2021. Dopo altri due anni, il 21 giugno 2023, viene pubblicato il Piano d’azione della stessa, dopo una consultazione con le First nations, gli Inuit e i Métis.

«L’attuazione del Piano d’azione e della Dichiarazione delle Nazioni Unite contribuirà – si legge sui siti governativi – ai continui sforzi del governo canadese per abbattere le barriere, combattere il razzismo e la discriminazione sistemici, colmare i divari socioeconomici e promuovere una maggiore uguaglianza e prosperità per le popolazioni indigene».

«L’indiano scomodo»

Bufalo Nations Museum: una donna indigena con il proprio piccolo in una foto esposta al «Buffalo Nations Luxton Museum» a Banff, Alberta.

In Canada, il numero dei nativi è, da tempo, in costante crescita, come confermano anche i numeri (tabella).

Stando all’ultimo censimento, la popolazione indigena è cresciuta dell’8 per cento tra il 2016 e il 2021, arrivando a oltre 1,8 milioni di persone. Le province con i numeri più alti sono, nell’ordine, Ontario, British Columbia e Alberta. Smentendo fantasie e luoghi comuni, la maggioranza degli indiani oggi vive in aree urbane, fuori cioè delle riserve, dove ne rimane soltanto circa un terzo.

Per esempio, a Calgary – secondo le cifre fornite dal governo cittadino – ci sono 35.195 indigeni (2,9 per cento della popolazione nel 2016), la gran parte appartenenti alle First nations.

Proprio in una libreria di questa città andiamo a cercare qualche testo sul tema indigeno. Una commessa ci accompagna al reparto dedicato. «Questo è il più venduto», ci dice prendendo da un ripiano The inconvenient indian, titolo traducibile – più o meno – con «L’indiano scomodo».

L’autore, Thomas King – un bianco californiano -, scrive un saggio dai toni ironici ma senza sconti sul trattamento riservato fin dal primo contatto dai bianchi ai nativi del Nord America (Canada e Stati Uniti). Scomodità e inconvenienti che – nota lo scrittore – iniziano dalla stessa definizione. I conquistatori (di ieri e di oggi) hanno – infatti – sempre faticato a trovare un termine collettivo per definire i conquistati. Dall’eterno «indiani» (legato all’errore di Colombo) ad aborigeni, nativi, prime popolazioni, prime nazioni, insistendo sempre su un termine collettivo invece che sul nome proprio del singolo gruppo: Cree, Blackfoot, Navajo, Lakota e centinaia di altri.

L’entrata del piccolo ma interessante museo di Banff. Foto Paolo Moiola.

Ultimi della classe

In Canada, le popolazioni indigene godono di una teorica autonomia ma, in generale, la strada da percorrere per una effettiva parità con le popolazioni non indigene è ancora molto lunga. Il divario esistente si può misurare. Infatti, tutti i parametri sociali ed economici dei popoli indigeni risultano deficitari: alimentazione, situazione abitativa, condizioni di salute e aspettativa di vita, situazione lavorativa, livello d’istruzione.

Inoltre, come spiega anche The canadian encyclopedia, «i tassi di suicidio tra i giovani delle Prime nazioni sono circa 5-6 volte superiori alla media nazionale, mentre i tassi tra i giovani Inuit sono circa 10 volte superiori alla media nazionale». Sempre secondo la stessa fonte, «nel sistema giudiziario penale le popolazioni indigene sono sovra rappresentate come delinquenti e detenuti, e sottorappresentate come funzionari, operatori giudiziari o avvocati», mentre «tra la popolazione indigena i tassi di incarcerazione continuano ad aumentare».

Tutte conferme che, anche nella possibile presenza di volontà politica e consenso sociale, riparare i danni della colonizzazione è un’impresa che richiede tempo, molto tempo, probabilmente generazioni. E tuttavia, la storica e vittoriosa ribellione sul tema delle scuole residenziali indigene (di cui parliamo nelle pagine successive) ci fa concordare con un’affermazione che si legge nelle pagine conclusive de The inconvenient indian: «In cinquecento anni di occupazione europea, le culture native hanno già dimostrato a se stesse di essere tenaci e resilienti».

Paolo Moiola

Note

  • (1) Le stime vanno da un minimo di 350mila a un massimo di 2 milioni di indigeni. Si veda: «International Journal of Environmental Research and Public Health», Canada’s Colonial Genocide of Indigenous Peoples: A Review of the Psychosocial and Neurobiological Processes Linking Trauma and Intergenerational Outcomes, giugno 2022.
  • (2) Sono vigenti 11 trattati numerati (The numbered treaties). Sono stati sottoscritti tra il 1871 e il 1921 da governo federale (formalmente Corona britannica) e alcuni popoli nativi per la cessione di terre indigene in cambio di benefici (spesso più teorici che reali).

La fila dei totem a Kitwanga, terra dei Gitxsan. Foto Paolo Moiola.

La Chiesa e i popoli indigeni.
Il lungo cammino verso il perdono

Tra Chiesa cattolica e popoli indigeni canadesi c’è una tappa storica dolorosa: quella delle cosiddette «scuole residenziali». Una ferita profonda che ha segnato le re- lazioni tra l’istituzione e gli indigeni. Ai popoli originari si rivolse papa Giovanni Paolo II in occasione delle sue due prime visite al paese nordamericano (nel 1984 e nel 1987). Tuttavia, è stato papa Francesco – nel suo viaggio del 2022 – a chiedere perdono per quel grave passo falso.

Fort Simpson (Northwest Territories). Sulla spianata verde spira un vento fresco. Pochi metri più in là ci sono un’ampia spiaggia di terriccio grigio e, da ultimo, il corso del fiume Mackenzie. Un cartello di colore giallo, in inglese e francese, avverte: «Attenzione. Orso in zona». Mentre stiamo scattando una foto alla segnalazione, un uomo (probabilmente uno dei 1.291 membri della comunità) ci passa accanto con un cane al guinzaglio e ci avvisa: «C’è un orso che si aggira. È un tipo tranquillo, abitudinario della zona, ma state comunque attenti».

Il luogo è il fulcro storico (conosciuto come Ehdaa) di Fort Simpson (Łíídlıı Kųę, in lingua indigena), piccolo villaggio posto su un’isoletta, porta d’ingresso al parco nazionale Nahanni, che ospita le famose cascate Virginia. Sulla spianata di Ehdaa ci sono una grande struttura a forma di tenda indigena (teepee) costruita con tronchi d’albero e, soprattutto, un piccolo anfiteatro circolare, tutto in legno, dove si tengono cerimonie, assemblee e manifestazioni dei Dene, il principale gruppo indigeno della zona.

Una stele spiega, in tre lingue, cosa sia Ehdaa. Nelle righe finali si legge che, in questo luogo, i Dene diedero il benvenuto a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita del 1987, una visita da lui fortemente voluta.

Fort Simpson 1987: si prepara la spianata per la visita di Giovanni Paolo II. Foto NWT Archives:Rene Fumoleau:N-1995-002-7619.

La cecità dei nuovi arrivati

Il pontefice sarebbe dovuto arrivare nel settembre del 1984, ma fu fermato dal maltempo. Allora, dall’aeroporto di Yellowknife, capoluogo dei Territori del Nordovest (Northwest Territories), mandò via radio un messaggio alle popolazioni autoctone, promettendo nel contempo che sarebbe tornato.

«La storia – disse nel corso del suo messaggio – ci documenta con chiarezza come nei secoli la vostra gente sia stata ripetutamente vittima dell’ingiustizia ad opera dei nuovi arrivati i quali, nella loro cecità, spesso considerarono inferiore la vostra cultura. Oggi, fortunatamente, questa situazione si è ampiamente ribaltata, e la gente sta imparando ad apprezzare la grande ricchezza che c’è nella vostra cultura, e a dimostrare nei vostri riguardi un grande rispetto. […] Voi siete chiamati a porre tutti i vostri talenti al servizio degli altri e a contribuire all’edificazione, per il bene comune del Canada, di una sempre più autentica civiltà della giustizia e dell’amore. Siete chiamati a un compito di grande responsabilità e ad essere un dinamico esempio dell’uso appropriato della natura, specialmente in un tempo in cui l’inquinamento e il deterioramento ambientale minacciano la terra».

Il papa tenne fede alla promessa fatta visitando Fort Simpson tre anni dopo, il 20 settembre del 1987. «Ancora una volta – disse sulla spianata di Fort Simpson – affermo il diritto a una giusta ed equa misura di autogoverno, assieme a un terreno proprio, e a risorse adeguate e necessarie per lo sviluppo di un’economia vitale, adeguata alle necessità della generazione presente e di quelle future».

In entrambe le occasioni, il papa parlò molto dei missionari. Nel 1984, disse: «Per quante colpe e per quante imperfezioni essi [i missionari] abbiano avuto, per quanti errori essi abbiano commesso, per quanti danni involontariamente abbiano provocato, si danno ora pena di riparare. […] I missionari rimangono tra i vostri migliori amici, dedicano la loro vita al vostro servizio […]. La meravigliosa rinascita della vostra cultura e delle vostre tradizioni che voi state sperimentando oggi deve molto agli sforzi continui e pionieristici dei missionari in campo linguistico, etnografico e antropologico». Nel 1987, nel corso della seconda visita, aggiunse: «[I missionari] hanno imparato ad amare voi e i tesori spirituali e culturali del vostro modo di vivere. Hanno mostrato rispetto per il vostro patrimonio, le vostre lingue e i vostri costumi».

In quelle due occasioni Giovanni Paolo II non toccò il tema più controverso, quello delle cosiddette «scuole residenziali» per i bambini dei popoli indigeni (Indian residential schools), anche perché la questione non era ancora deflagrata.

Scuole indigene residenziali: alunni indigeni della «Port Harrison School», Quebec. Foto H.J. Woodside – Library and Archives Canada.

Le scuole «per civilizzare»

Secondo The canadian encyclopedia, le scuole residenziali «erano scuole religiose, sponsorizzate dal governo, istituite per assimilare i bambini indigeni nella cultura euro canadese». Le Chiese coinvolte nella loro gestione furono soprattutto la Chiesa cattolica e, in misura più contenuta, quelle anglicana, presbiteriana e metodista.

Il sistema scolastico residenziale aveva il dichiarato obiettivo di «civilizzare» gli alunni indiani per assimilarli alla società dominante. «[Se] vogliamo fare qualcosa con l’indiano – si legge in un documento del 1879 -, dobbiamo prenderlo molto giovane. I bambini devono essere mantenuti costantemente nell’ambito delle condizioni civili». Gli alunni erano costretti ad abbandonare la loro lingua, le loro convinzioni culturali, il loro stile di vita e dovevano adottare le lingue europee (inglese o francese) e aderire al cristianesimo.

Le scuole residenziali sono state 139. Sono state attive dal 1884 (introdotte dall’Indian act) al 1996, ma i primi esempi risalgono al 1831. In totale, circa 150mila bambini dei popoli indigeni – Prime nazioni, Inuit e Métis – le hanno frequentate in un’età compresa tra i 4 e i 16 anni. Gli studenti risiedevano nelle scuole per almeno dieci mesi all’anno. Si stima che in esse siano morti – per svariate cause – tra i quattro e i seimila bambini. I ritrovamenti dei loro corpi sono aumentati in questi ultimi anni anche grazie all’utilizzo di moderne attrezzature di ricerca.

Uno dei casi più recenti e clamorosi è datato 25 giugno 2021. Quel giorno la Cowessess First nation ha annunciato il ritrovamento di 751 tombe senza nome in un cimitero vicino all’ex Marieval indian residential school. La scuola Marieval operò dal 1899 al 1997 e fu amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1968. Si trovava in un’area indigena a circa 140 chilometri a est di Regina, capoluogo della provincia del Saskatchewan.

Venuti alla luce gli abusi del sistema delle scuole residenziali, nei primi anni Duemila sono iniziate le azioni per arrivare alla verità, alla riconciliazione e alla compensazione delle vittime dei popoli indigeni. Nel 2001 è stato creato un ufficio per raccogliere e risolvere le denunce degli ex studenti, nel 2006 è stato approvato l’Accordo transattivo per le scuole residenziali indiane (Indian residential schools settlement agreement, Irssa), nel giugno del 2008 è stata lanciata la Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation commission, Trc), nel dicembre del 2015 la Trc ha rilasciato il suo rapporto finale (sei volumi).

Nel rapporto – molto pesante – si legge, tra l’altro: «[I bambini] hanno subito abusi, fisicamente e sessualmente, e sono morti nelle scuole in un numero che non sarebbe stato tollerato in nessun sistema scolastico […]». Le scuole residenziali non erano state progettate per educare i bambini indigeni, «ma soprattutto – è scritto – per spezzare il loro legame con la loro cultura e identità».

A fine giugno 2021, subito dopo il ritrovamento dei resti delle 751 sepolture anonime presso la Marieval school, il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato che i canadesi erano «inorriditi e pieni di vergogna».

Giovanni Paolo II stringe le mani a un capo indigeno durante la sua visita del 1987 a Fort Simpson. Foto Vatican News.

Le scuse di Francesco

Nel luglio del 2022, è toccato a papa Francesco affrontare il tema delle scuole residenziali nel corso del suo viaggio in Canada, da lui definito «pellegrinaggio penitenziale».

A Maskawacis, Alberta, nel territorio delle popolazioni Cree, non lontano dal luogo che, dal 1895 al 1975, ospitò la Ermineskin indian residential school,

la foto più significativa del papa non è stata quella in cui egli indossa un copricapo di piume. No. È stata quella che lo vede da solo, assorto in preghiera, davanti alle tombe del cimitero.

Il pontefice si è rivolto alle popolazioni indigene e ha chiesto scusa: «I am deeply sorry». «Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità – ha detto Francesco -; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. […] Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario. È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti».

Le scuse e la richiesta di perdono di papa Francesco sono state apprezzate dai più. Tuttavia, non sono mancate alcune critiche sia dal lato indigeno che da quello governativo. In particolare, è stato criticato il mancato riferimento agli abusi sessuali e l’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa cattolica intesa come istituzione.

Scuole indigene residenziali: alunni della «Red Deer School», Alberta. Foto United Church of Canada Archives.

Ricordando

Percorrendo la Mackenzie Highway (Waterfalls Route), all’incrocio stradale che porta alla cascate Lady Evelyn sul fiume Kakisa, notiamo sul prato un’installazione particolare.

È un cartellone con la scritta «Remembering the children» (Ricordando i bambini) e, accanto, la riproduzione di un cuore trafitto da una freccia con segnato un numero: 215. Tutt’attorno, appesi o posti a terra, decine di orsetti e bambolotti. Non è difficile trovare una spiegazione.

Quel numero indica i resti dei bambini indigeni trovati nell’ex Kamloops indian residential school, la più grande scuola residenziale del Canada, aperta nel 1890 e amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1969. La comunità indigena del luogo – Tk’emlúps te Secwépemc First nation, questo il suo nome – li ha portati alla luce nel maggio del 2021 e li ha voluti ricordare anche in questo modo.

Paolo Moiola

Un assorto papa Francesco davanti alle tombe senza nome del cimitero Ermineskin del popolo Cree a Maskwacis (già Hobbema), nell’Alberta, il 25 giugno del 2022, durante il suo viaggio «penitenziale» in Canada. Foto Vatican Media – AFP.

 




Vedere il Padre


«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).

È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).

Guardare a Gesù

Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?

Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.

«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Il Battista

Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.

Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.

Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.

Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.

Un incontro oltre i riti

Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.

Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.

È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.

Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.

L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)

È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».

Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.

L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).

Dai figli ai genitori

La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.

Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).

Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».

Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.

Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.

Venite e vedrete (Gv 1,37-39)

Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».

Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.

È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.

Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.

E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».

Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)


Un cammino di due anni

  • √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
    Il Padre amante della gioia
  • √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
    Il Padre autentico
  • √ maggio 2024, Gv 3,
      Il Padre datore della vita
  • √ giugno 2024, Gv 4,
      Il Padre che disseta
  • √ luglio 2024, Gv 5,
    Il Padre che fa vivere
  • √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
    Il Padre che sfama
  • √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
       Il Padre che dona senso
  • √ novembre 2024, Gv 7,
       Il Padre che è casa
  • √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
    Il Padre che genera
  • √ gen-feb 2025, Gv 9,
      Il Padre che è libertà
  • √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
    Il Padre signore del gregge
  • √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
      Il Padre che opera il bene
  • √ maggio 2025, Gv 11,
       Il Padre che riporta in vita
  • √ giugno 2025, Gv 12,
      Il Padre che glorifica il Figlio
  • √ luglio 2025, Gv 13,
    Il Padre che dona l’amato
  • √ ago-sett 2025, Gv 14,
      Il Padre ospite
  • √ ottobre 2025, Gv 15,
      Il Padre vignaiolo
  • √ novembre 2025, Gv 16,
       Il Padre che accoglie
  • √ dicembre 2025, Gv 17,
      Il Padre (s)conosciuto



La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Guatemaltechi trascinati a casa


Gli stranieri senza documenti validi fermati negli Usa sono immediatamente arrestati, e poi rimpatriati su voli speciali. Alcuni di loro sono presi subito alla frontiera, mentre altri dopo anni vissuti nel Paese. La loro vita cambia bruscamente e in poche ore si ritrovano nella terra di origine. Senza risorse.

Città del Guatemala. È mezzogiorno di un mercoledì qualsiasi davanti al cancello principale della Forza aerea guatemalteca, l’aeroporto militare della capitale, alle spalle di quello civile. Un gruppo di persone è seduto su alcune panchine e sta chiacchierando animatamente, mentre una musica ripetitiva e riconoscibile annuncia l’arrivo del carretto dei gelati. Un bambino implora la madre di dargli una moneta per comprarsi un ghiacciolo, intanto la sorella lo osserva seduta ai piedi della nonna, che le intreccia i capelli.

Bambini, anziani e donne si affollano sull’avenida Hincapié, una delle arterie principali che attraversano la capitale, in attesa del volo charter dell’Ice (Immigration and customs enforcement), l’agenzia statunitense di controllo delle frontiere e dell’immigrazione, con circa 120 persone guatemalteche appena espulse dagli Usa.

Improvvisamente la porta si apre e una folla si riversa nella strada con in mano un sacchetto contenente pochi effetti personali, tra cui scarpe, libri, acqua e snack. Vengono consegnati dagli agenti dei centri di detenzione per migranti il giorno dell’espulsione. Negli sguardi di chi esce si percepisce spaesamento, ma anche la mobilità di chi cerca di intercettare il sorriso di qualcuno conosciuto e amato. Risate e lacrime si mischiano e riflettono emozioni contrastanti, perché se la gioia di rivedersi dopo tanto tempo è palpabile, è altrettanto forte il dolore per un incontro non programmato ha poco a che fare con un ritorno volontario.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

«Ho fallito»

Un ragazzo appena deportato vede suo padre da lontano e gli si butta tra le braccia piangendo. «Perdonami. Ho fallito», gli dice con vergogna, mentre il padre gli asciuga le lacrime e risponde: «L’importante è che tu sia vivo. Ora vedremo cosa fare con il debito, ma prima ci prenderemo cura della tua salute per essere sicuri che tu stia bene». Poi attraversano la strada, salgono su un taxi e spariscono nel traffico, come quasi tutti gli altri, mentre la polizia guatemalteca fa salire su un pick-up gli ultimi quattro deportati, i quali a differenza degli altri, hanno crimini in sospeso nel Paese di origine che ora dovranno scontare.

Questa è una scena molto più che quotidiana. Infatti, ogni settimana atterrano in Guatemala tra gli otto e i nove voli di deportazione dagli Stati Uniti, per un totale di circa mille persone espulse. Dal primo gennaio al 13 di novembre sono state trasferite 45.022 persone in 386 voli, secondo l’Istituto guatemalteco per le migrazioni. Circa l’85% di esse è stato sorpreso dalla polizia statunitense quando provava ad attraversare il confine, mentre il restante 15% è costituito da guatemaltechi che avevano costruito una vita negli Stati Uniti dove vivevano da tempo, secondo i dati della «Casa del migrante», gestita dai missionari scalabriniani a Città del Guatemala, che fornisce assistenza alla popolazione mobile.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Giardiniere in Florida

Pedro (nome fittizio) è appena stato rimpatriato ed è in piedi di fronte al cancello della Forza aerea con lo sguardo fisso di fronte a sé. Sta aspettando che sua cugina lo vada a prendere per riportarlo nella comunità in cui è nato. Originario di San Marcos, nel sud ovest del Guatemala, Pedro ha 28 anni, otto dei quali trascorsi negli Stati Uniti: «In Florida lavoravo come giardiniere e questi che indosso oggi sono gli stivali che avevo quando la polizia mi ha fermato mentre tornavo a casa con un collega in macchina. Ci hanno chiesto i documenti e visto che non li avevo, mi hanno immediatamente portato in prigione, senza darmi neppure il permesso di andare a casa per cambiarmi. Dopo nove mesi, rinchiuso in carcere, sono stato espulso. Negli Stati Uniti avevo il mio lavoro, i miei amici e la mia ragazza. Cosa farò ora? Sono sotto shock. Non ho fatto nulla di male. Non me la sento di dire altro». Poi si gira, ritorna con lo sguardo verso un punto immaginario di fronte a sé e sprofonda in silenzio.

Secondo la Transactional records access clearinghouse dell’Università di Syracuse (stato di New York), il 62,2% delle persone detenute dall’Ice a luglio 2023 non aveva nessun tipo di precedente penale, proprio come Pedro. Questo significa che sono state espulse solamente per la mancanza del permesso di soggiorno. In realtà, in alcuni stati degli Usa questo è illegale, in quanto è necessario che la persona trovata senza documento abbia commesso un reato per avviare la pratica di deportazione. Il 37,8% delle restanti persone invece ha un crimine a suo carico, nella maggior parte considerato minore, come per esempio un’infrazione del codice della strada.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Straniero in patria

Proprio per il fatto di aver guidato senza patente, è stato espulso Bernabé Andrés Martin, 31 anni, di San Antonio Huista, Huehuetenango, Guatemala occidentale. Dopo il rimpatrio forzato, si è presentato alla Casa del migrante, dove chi come lui è stato appena espulso può ricevere assistenza medica, psicologica, materiale e orientamento per provare a reintegrarsi nel suo paese di origine. «Sono andato negli Stati Uniti a 18 anni. Prima vivevo in Messico, dove la mia famiglia mi ha portato quando avevo 2 anni. A 10 anni ho iniziato a lavorare vendendo cibo per la strada, mentre i miei genitori sono tornati in Guatemala dopo la morte di una delle mie sorelline. Sono emigrato negli Stati Uniti perché la mia famiglia era poverissima. I miei fratelli non avevano neppure le scarpe e io volevo aiutarli a studiare e vivere meglio – ricorda Bernabé – Se negli Stati Uniti inizi a lavorare a cottimo, nessuno ti chiede i documenti e riesci a guadagnare abbastanza. Io ho fatto un po’ di tutto, dal raccogliere di blueberries (mirtilli) al roofing (costruzione di tetti). So che non avrei dovuto guidare, ma le distanze negli Stati Uniti sono enormi e senza un’auto non riuscivo neanche ad andare al lavoro. Ho comprato un’auto per tremila dollari. Lì tutto è business e nessuno ti chiede la patente prima di vendertela».

Bernabé parla uno spagnolo tutto suo, mischiato a parole inglesi. Si sente più messicano che guatemalteco e, dopo una vita senza documenti, solamente ora, per la prima volta, ha la possibilità di richiederli.

«Quando la polizia statunitense mi ha portato in carcere, mi ha chiesto la nazionalità e mi ha deportato qui. Però anche le autorità guatemalteche hanno fatto fatica a trovarmi nel database dell’anagrafe perché io non ho mai vissuto in questo Paese. Ho appena richiesto la carta di identità e quando me l’avranno fatta, andrò a Huehuetenango da mia madre, dove sono nato, anche se non mi ricordo nulla di quella città. Per me è un luogo nuovo e sconosciuto», racconta Bernabé, disorientato.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Espulsioni di massa

Nella prima metà dell’anno fiscale 2023, il Dipartimento di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha espulso dai suoi confini nazionali oltre 1,2 milioni di persone straniere senza documenti regolari.

Bernabé e Pedro sono stati deportati secondo il «titolo 8» del codice degli Stati Uniti, così come tutte le persone espulse a partire dall’11 maggio, data in cui è stato abrogato il «titolo 42», una disposizione sanitaria reintrodotta dall’ex presidente Donald Trump nel marzo 2020 che autorizzava le espulsioni immediate dal confine in teoria per ridurre il contagio del covid 19, ma di fatto per non permettere ai richiedenti asilo di fare domanda nel Paese.

Da maggio, gli Stati Uniti sono ritornati ad applicare il titolo 8 che, da ben prima della pandemia, ha sempre normato la materia dell’immigrazione. Il titolo 8, pur consentendo le richieste di asilo politico, permette le famose «espulsioni express», che possono avvenire in appena 48 ore, e inasprisce le sanzioni penali verso chi prova ripetutamente ad attraversare il confine in maniera irregolare.

Lo sa bene Edwin Omar Rabanales Ochoa, 26 anni, originario di un villaggio della regione di Quetzaltenango, nella zona ovest del Guatemala. Seduto accanto a Bernabé, inizia a parlare: «Sono andato negli Stati Uniti a tredici anni con mio zio. Volevo raggiungere mia madre, che era già lì con i miei fratelli. Nel 2018 l’Ice mi ha fermato a causa di un incidente stradale in cui sono stato coinvolto. Il mio amico che guidava è scappato e quando è arrivata la polizia sono stato incolpato del reato. Sono stato in prigione due anni e l’ultimo giorno di detenzione mi hanno deportato. Sono tornato in Guatemala nel 2020 e ho lavorato nei campi con mia nonna, ma a fare questo lavoro non si guadagna davvero niente qui. Nel 2021 ho provato a tornare negli Stati Uniti, pagando circa 8mila dollari a un coyote. Ma la polizia mi ha arrestato mentre cercavo di superare la frontiera e mi ha condannato ad altri due anni di carcere, perché era la seconda volta che mi fermavano senza documenti. Ora mia madre vorrebbe che emigrassi di nuovo, ma se la polizia mi ferma, mi possono dare anche quattro anni di prigione, perché sarebbe la terza volta», conclude Edwin.

Secondo le nuove disposizioni del titolo 8 a partire da maggio 2023, attraversare irregolarmente la frontiera comporta un divieto di ingresso negli Stati Uniti per cinque anni. A questo veto si aggiunge la detenzione che un migrante dovrà sempre affrontare prima dell’espulsione, con una durata che varia da caso a caso. «Quando la polizia statunitense mi ha fermato in frontiera, mi ha portato in un luogo che chiamiamo la hielera (ghiacciaia). È una stanza fredda con l’aria condizionata al massimo dove bisogna aspettare prima delle pratiche di identificazione.  Lì dentro si muore di freddo e sembra una tortura. Anche la mia prima detenzione negli Stati Uniti è stata difficile. Ero in una enorme gabbia di metallo con altri prigionieri che avevano commesso ogni tipo di reato. In estate il caldo è terribile perché non c’è un buon sistema di ventilazione e mi sentivo soffocare».

«Stai zitto…»

Per chi vive negli Stati Uniti da molti anni senza documenti, essere catturati dalla polizia migratoria è un momento terribilmente drammatico, perché spesso avviene quando meno se lo aspetta, per esempio all’uscita dal lavoro, o mentre si guida per tornare a casa o si beve qualcosa in un bar. La vita cambia improvvisamente.

«Quando sono andato in tribunale, il giudice mi ha detto che avevo violato la legge statunitense e che sarei stato espulso. Il processo è durato circa un’ora e poi la polizia migratoria mi ha portato in prigione. Non sono mai tornato a casa. Ho lasciato tutto lì, vestiti, cibo, mobili. Chissà che fine avranno fatto – racconta Bernabé -. È tutto molto veloce, sono arrivato qui con gli stessi pantaloni che avevo il giorno del processo. Inoltre, le autorità di immigrazione ti maltrattano e ti insultano tutto il tempo. Ti dicono: “Stai zitto, messicano di merda [Cállate fucking mexican]”. Dopo un mese di detenzione, mi hanno messo le manette, caricato sull’aereo e deportato. Questa situazione mi ha ferito parecchio, perché mi sono sentito un criminale. La polizia ti toglie le manette cinque minuti prima di arrivare in Guatemala. Inoltre, ti prendono tutto. Sono arrivato qui senza telefono né soldi».

Il senso di fallimento, la paura provata durante la cattura, l’angoscia per dover ricominciare da capo, la depressione e la tristezza di fronte ai sogni non realizzati sono alcune delle emozioni riportate dalla maggior parte delle persone espulse dagli Stati Uniti.

Città del Guatemala. Arrivo di guatemaltechi all’aeroporto internazionale, con un volo charter di rimpatrio forzato dagli Usa. (Foto Simona Carnino)

Senza speranza

«L’esperienza della deportazione cancella la speranza – spiega Francisco Pellizzari, missionario scalabriniano e direttore della Casa del migrante -. E senza speranza, ricostruirsi un futuro è impossibile. Dopo aver vissuto 20 o 25 anni negli Stati Uniti, guadagnando tra i 20 e i 30 dollari all’ora, le persone deportate non vogliono stare in un Paese dove per lo stesso lavoro si viene pagati a malapena un dollaro all’ora. A volte hanno sulle proprie spalle anche il peso del debito con il coyote che ora si fa pagare 15mila dollari per un viaggio. Quindi, la maggior parte dei deportati in realtà aspetta un’opportunità per ritornare negli Stati Uniti».

Nel 2023, il salario minimo non agricolo in Guatemala è di 434 dollari al mese. Sebbene il Pil sia cresciuto del 4% nel 2022, il Paese presenta alcuni dei più alti livelli di disuguaglianza dell’America Latina. Il Guatemala sta vivendo una grave crisi istituzionale e un ritorno all’autoritarismo capitanato dai grandi interessi economici e dai partiti sostenuti dal potere militare che stanno provando a ostacolare in ogni modo il presidente Bernardo Arévalo del partito social democratico Semilla, eletto con una grande maggioranza di voti il 20 agosto e che dovrebbe iniziare il suo mandato il 14 gennaio 2024.

«Negli Stati Uniti guadagnavo tra i 300 e i 400 dollari a settimana. Ho lavorato duramente per dodici anni della mia vita e con i miei risparmi mia madre è riuscita a costruirsi una piccola casa. Se non guadagnerò abbastanza qui, dovrò ripartire», conclude Bernabé con tristezza.

Simona Carnino




Senegal. La democrazia può attendere


Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.

Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.

Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.

L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.

Il Senegal di Macky Sall

Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.

Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.

«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.

E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.

Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.

«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.

Senegal, agro-cooperative, CISV

Il sogno del benessere

Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.

Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.

«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.

Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».

Proteste del 19 agosto 2023. (Photo by Kiran RIDLEY / AFP)

L’oppositore

Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.

Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.

Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.

«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».

Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.

In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.

Repressione

Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».

A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.

Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.

Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.

Diritti in bilico

Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.

Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».

Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.

Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.

Marco Bello

Senegal, agro-cooperative, CISV


Il progetto

L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).

Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.

Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.

www.cisvto.org