«Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). È la preghiera, quasi lo sfogo, di Filippo, uno dei Dodici discepoli, rivolta a Gesù. Dopo aver tanto sentito parlare del Padre, sembra quasi che il discepolo si spazientisca e chieda al suo Signore una risposta chiara e definitiva. Non è una preghiera molto diversa da quella di Mosè: «Mostrami la tua gloria!» (Es 33,18), ossia il volto di Dio (Es 33,20).
È una richiesta comprensibile: passiamo un’intera vita a cercare di cogliere il senso profondo di ciò che facciamo, viviamo, patiamo. I fedeli hanno creduto alla promessa che quel senso sta in una persona. Una persona che però non vedono, benché sappiano che sta loro di fronte, a fianco, alle spalle, come un sostegno (cfr. Salmo 139). E si può comprendere che, soprattutto in momenti di maggiore tensione (Mosè ha appena punito il popolo reo di essersi costruito un vitello d’oro, Filippo ha appena vissuto l’ultima cena con Gesù), si voglia avere una sentenza definitiva, uno sguardo ultimo, una risposta. La risposta di Dio a Mosè è parzialmente negativa: «Non puoi vedere il mio volto senza essere morto, ma passerò davanti a te e vedrai le mie spalle» (Es 33,20-23). Quella di Gesù a Filippo è apparentemente molto più positiva, benché in forma di domanda: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).
Guardare a Gesù
Anche noi vogliamo vedere il volto di Dio, dobbiamo, allora, lasciarci condurre da Gesù che ci invita a guardare a lui. Senza fretta però. Ci predisponiamo ad accogliere l’invito avendo presente una domanda sempre più viva: in questi tempi confusi, duri, troppo spesso pessimisti, come possiamo vedere il volto di Dio, il senso di ciò che facciamo e subiamo?
Se Gesù ci invita a guardare a lui, noi proveremo a farlo in un percorso non breve, ma probabilmente affascinante, tramite il Vangelo di Giovanni, quello in cui con più costanza si parla del Padre, di cui il Figlio è l’immagine. Attraverso le parole e l’esempio di Gesù, secondo Giovanni, impareremo quindi, a scoprire e amare il vero volto di Dio Padre.
«Dio nessuno lo hai mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Il Battista
Sappiamo che gli esseri umani sono capaci di imprese straordinarie, eroiche, se soltanto capiscono che queste sono utili, servono a qualcosa, hanno senso. Abbiamo bisogno di un senso quando guardiamo al nostro futuro, e abbiamo bisogno di sciogliere i nodi irrisolti, se guardiamo al nostro passato. Altrimenti non viviamo più, ma ci limitiamo a sopravvivere comodamente.
Le religioni si concentrano spesso su questo aspetto: sulla risoluzione della disarmonia che l’uomo sente con la propria vita, con le persone, con ciò che lo circonda, con l’orizzonte ultimo della sua vita che fatica a cogliere.
Anche il Battista si concentra su questo. Egli è venuto ad annunciare un battesimo per il perdono dei peccati. La saggezza religiosa ebraica aveva colto un aspetto psicologico profondo esprimendolo in termini rituali e simbolici. Aveva capito che una persona può anche essere pentita dei propri errori, averne chiesto e ottenuto il perdono, ma sentire che questo non basta, che il nodo resta e il peso non svanisce.
Nella tradizione e liturgia ebraica per sciogliere quel nodo, per espiare i peccati, era necessario un sacrificio nel tempio, un rito per dire che non poteva bastare il pentimento, pur indispensabile, ma era necessario un intervento divino.
Un incontro oltre i riti
Giovanni il Battista viene ad annunciare un modo diverso di ottenere quell’espiazione, non con i riti ben codificati e sanciti dalla Parola di Dio e dalle tradizioni rabbiniche, ma con un gesto nuovo, antico nell’aspetto (le abluzioni erano ben note nel mondo ebraico) ma originale nel senso. Un rito che il Battista non può giustificare con testi biblici, ma solo, profeticamente, con la sua intuizione della volontà divina. Le persone che vanno a farsi battezzare, così, incontrano un Dio fuori dagli schemi, dalle sicurezze legali, dai riti consolidati. Un incontro giocato tutto sulla fiducia: in Dio, ma anche nel profeta, e nell’affidabilità dell’intenzione.
Che si tratti di una strada promettente e sensata lo attestano tutti i vangeli: Gesù va a farsi battezzare da lui (Mt 3,1-6), lo dichiara il più grande tra «i nati da donna» (Lc 7,28) e, stando al vangelo di Giovanni, inizia a battezzare anche lui, o almeno i suoi discepoli (Gv 4,1-2). In linea molto generale, l’intuizione del Battista sarà una parte dell’orientamento suggerito da Gesù stesso, che si mostra sempre più attento al rapporto intimo e personale con Dio che alle norme e ai riti.
È un primo tocco di pennello sul ritratto del Padre, che, all’inizio, è dipinto non direttamente da Gesù (che pure lo confermerà) ma dal Battista: il Padre ama farsi trovare fuori dagli schemi, fuori dai percorsi già segnati e delineati, sicuri, garantiti.
Il Battista, però, sa anche con certezza di non essere lui la parola definitiva di Dio. «Io battezzo con acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,26-27). È una tentazione totalmente umana, presente persino in tutti i fondatori di grandi movimenti, quello di richiamare l’attenzione su di sé. Il Battista sa di dover resistere, e lo dice da subito: lui è (solo) un dito che indica il regno, non è il regno.
L’agnello di Dio (Gv 1,29-36)
È passato solo un giorno dal battesimo di Gesù per mano del Battista, ci dice il Vangelo (Gv 1,29), quando Giovanni vede passare Gesù e lo indica: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo».
Il sacrificio di un agnello, animale mite e docile, promessa di lana e di carne per il futuro, era sempre parso, e non solo al mondo ebraico, l’offerta più gradita a Dio, più trasparente e generosa. Non era l’unico animale che si poteva offrire per ottenere l’espiazione dei peccati, ma era quello più utilizzato, più significativo e legato peraltro alla festa di Pasqua.
L’accenno del Battista è simbolico, poetico, ma chiarissimo. L’espiazione piena dei peccati passa non da lui o dal battesimo, ma da Gesù. Giovanni indica il Signore come colui di cui ha detto che è più importante di lui (Gv 1,30-31), rimarca di aver visto lo Spirito Santo posarsi come una colomba su di lui (1,32-33) e addirittura lo definisce, in modo solenne, il «figlio di Dio» (1,34).
Dai figli ai genitori
La nostra cultura sottolinea l’importanza delle scelte e delle esperienze dei singoli e prova a sganciarsi dall’idea che i figli siano i continuatori dell’opera dei padri. Anche nel nostro mondo, però, chi nasce da un re sa già, fin da quando comincia a capire qualcosa, che sarà destinato a succedergli, e continuiamo spontaneamente a pensare che i figli riprendano la sensibilità e le attitudini dei genitori. Di certo, siamo consapevoli che quel legame non può essere sciolto mai, neppure se lo si rinnega.
Il mondo antico legava ancora di più genitori e figli, i quali non potevano immaginarsi su strade diverse da quelle del loro padre senza una grave crisi. Il mondo arcaico, addirittura, pensava che un figlio che non corrispondesse al padre potesse subire la pena di morte (Dt 21,18-21).
Additare Gesù come figlio di Dio, non implica descrivere con precisione che cosa possa fare, ma lo segnala come colui che potrà proseguire l’opera del Padre, anche nell’espiazione dei peccati, come è suggerito dalla vicinanza con la formula di «agnello di Dio».
Gesù, però, è innanzitutto un essere umano. E l’indicazione del Battista, tramite il battesimo di Gesù e le parole dette a suo riguardo, ci fa intuire qualcosa sul Padre: Egli non si lascia incontrare direttamente, in estasi mistiche o in rituali astrusi, ma vuole essere conosciuto e accolto tramite altri.
Il Padre ci invita a coglierlo così, nella nostra vita ordinaria, senza l’eccezionalità di un’esperienza stupefacente e unica. Ci stimola a cogliere lo straordinario nel quotidiano. Proprio perché il volto del Padre potrebbe svelarsi nel volto di chiunque incontriamo, siamo chiamati a mantenerci attenti, aperti, disponibili a farci da lui stupire. Come sono stupiti i primi discepoli di Gesù, così sono già stati discepoli del Battista.
Venite e vedrete (Gv 1,37-39)
Due dei discepoli del Battista, infatti, sono presenti quando Giovanni vede di nuovo passare Gesù e lo indica come «agnello di Dio» (1,37), allora si avvicinano a Gesù e, forse per l’imbarazzo, alla sua richiesta di chiarimenti, rispondono con una delle domande più superficiali e fuori luogo che potevano immaginare: «Dove abiti?» (1,38). Gesù aveva opportunamente chiesto loro che cosa cercassero, e questa non è la risposta corretta. Ma anche di fronte a questa reazione, colui che è stato salutato come «rabbì», ossia come «maestro», sa a che cosa chiamarli: «Venite e vedrete».
Non dà loro indicazioni teoriche, non suggerisce che cosa dovrebbero indagare o meditare. Li invita invece a mettersi in gioco, a entrare in relazione, a giudicare in prima persona.
È un’altra delle prime caratteristiche del Padre che il vangelo di Giovanni ci fa scoprire tramite Gesù e, in questo inizio, anche attraverso il Battista: il Padre si fa incontrare fuori dagli schemi, per mezzo di persone inserite nel mondo e, coerentemente, chiede di entrare in una relazione personale. I nostri rapporti significativi non nascono in un momento né senza fatica. Anche il «colpo di fulmine», se esiste, è soltanto il primo istante di un percorso di crescita, di conoscenza reciproca, di approfondimento, di scoperta, che, nelle cose umane, ha bisogno di un’apertura progressiva, di imparare a capirsi, ad ascoltarsi, ad accogliersi.
Il Padre non si muove fuori dalle dinamiche umane più profonde. Non chiede di fare delle cose, di sapere delle formule, ma di conoscerlo, gradualmente, progressivamente, come facciamo con tutte le persone per noi più significative. Chiede di stare con lui, per imparare come ragiona, come pensa, come ama, come soffre. Ci domanda di lasciarci coinvolgere, di tirare noi le conclusioni, di interpretarne noi il volto.
E quel Figlio, che mostra il Padre anche a noi oggi, non suggerisce di comportarci in un certo modo (con ascesi, esercizi o discipline iniziatiche speciali) o di credere certe verità (conosciute tramite iniziazione), ma di conoscerlo: «Vieni e vedi».
Angelo Fracchia
(Il volto di Dio 01 – continua)
Un cammino di due anni
- √ marzo 2024, Gv 2, 1-11,
Il Padre amante della gioia - √ aprile 2024, Gv 2, 13-25,
Il Padre autentico - √ maggio 2024, Gv 3,
Il Padre datore della vita - √ giugno 2024, Gv 4,
Il Padre che disseta - √ luglio 2024, Gv 5,
Il Padre che fa vivere - √ ago-sett 2024, Gv 6, 1-59,
Il Padre che sfama - √ ottobre 2024, Gv 6, 60-71,
Il Padre che dona senso - √ novembre 2024, Gv 7,
Il Padre che è casa - √ dicembre 2024, Gv 8, 12-59,
Il Padre che genera - √ gen-feb 2025, Gv 9,
Il Padre che è libertà - √ marzo 2025, Gv 10, 1-21,
Il Padre signore del gregge - √ aprile 2025, Gv 10, 22-42,
Il Padre che opera il bene - √ maggio 2025, Gv 11,
Il Padre che riporta in vita - √ giugno 2025, Gv 12,
Il Padre che glorifica il Figlio - √ luglio 2025, Gv 13,
Il Padre che dona l’amato - √ ago-sett 2025, Gv 14,
Il Padre ospite - √ ottobre 2025, Gv 15,
Il Padre vignaiolo - √ novembre 2025, Gv 16,
Il Padre che accoglie - √ dicembre 2025, Gv 17,
Il Padre (s)conosciuto