Il cibo perso o sprecato continua a essere troppo mentre guerre e cambiamento climatico peggiorano la situazione. Ma qualcosa si sta facendo, sia nel Nord che nel Sud del mondo, per contrastare lo spreco. E anche le nostre missioni cercano di ideare soluzioni.
Il 13% del cibo prodotto a livello globale viene perso nella filiera produttiva, nelle fasi intermedie tra raccolto e commercializzazione, mentre un ulteriore 17% viene sprecato da famiglie, servizi di ristorazione e nella vendita al dettaglio: si tratta di una quantità di cibo che sarebbe sufficiente per nutrire oltre un miliardo di esseri umani@.
Secondo le ultime stime, nel mondo le persone affamate sono fra i 691 e i 783 milioni@.
Sono queste le più recenti statistiche fornite dalla Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, e l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Nella divisione del lavoro che le agenzie internazionali si sono date per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, la Fao è responsabile di misurare le perdite di cibo, mentre all’Unep spetta la misurazione dello spreco.
Misurare lo spreco
Si tratta infatti di due fenomeni diversi, il cui risultato è comunque quello di rendere non disponibile cibo che poteva esserlo.
La perdita avviene nella fase di produzione e trasformazione, mentre lo spreco si colloca nella fase della vendita e del consumo.
Se nelle pubblicazioni più recenti della Fao non si leggono dati che quantifichino i volumi di cibo perso, l’Unep si sbilancia un po’ di più, fornendo nel «Food and waste index report» del 2021 una stima del cibo sprecato, che sarebbe pari a 931 milioni di tonnellate, di cui 569 milioni a causa del consumo nelle famiglie, 244 nei servizi di ristorazione e 118 nella vendita@.
Se si cede alla tentazione di fare un calcolo piuttosto sbrigativo partendo dal presupposto che 931 milioni di tonnellate di cibo sprecato rappresentano il 17% del totale, allora il 13% – cioè il cibo perso – risulta pari a circa 712 milioni di tonnellate, per un totale di 1,6 miliardi fra cibo perso e sprecato. Un dato che trova conferma nelle rielaborazioni fatte dal Boston consulting group, una società di consulenze statunitense, che aggiunge: continuando ai ritmi attuali, nel 2030 arriveremmo a buttare via 2,1 miliardi di tonnellate, pari a un valore stimato di 1.500 miliardi di dollari, contro i 1.200 miliardi attuali@.
Si tratta di stime, ma negli ultimi dieci anni sono state comunque corrette al rialzo, se nel 2011 il cibo sprecato e perduto era quantificato in 1,3 miliardi di tonnellate totali.
La più aggiornata stima delle emissioni di gas serra imputabili a questo fenomeno non si discosta invece dalle precedenti: fra l’8% e il 10% dei gas serra globali sembrano legati al cibo che viene prodotto, trasformato e trasportato ma non consumato. Inoltre, gli alimenti gettati in una discarica e lasciati a decomporsi producono a loro volta metano che si aggiunge agli altri gas serra.
«Se la perdita e lo spreco di cibo fossero un Paese», scrive la direttrice di Unep, Inger Andersen, nella prefazione del Food and waste index report citato sopra, «sarebbe la terza fonte di emissioni di gas serra» del pianeta, dopo Cina e Stati Uniti, e prima dell’India@.
I disastri che «mangiano» il cibo
A far diminuire la disponibilità di cibo ci sono anche le catastrofi. Sempre la Fao, quest’anno, ha voluto dedicare particolare attenzione a questo aspetto con un rapporto dal titolo «The impact of disasters on agriculture and food security»@.
Le catastrofi sono definite come «gravi interruzioni del funzionamento di una comunità o di una società», e il rapporto si concentra su quelle connesse con cinque macrocategorie di rischi cui l’agricoltura è più esposta: rischi meteorologici e idrologici, fra cui siccità e inondazioni; rischi geologici, dai terremoti agli tsunami; rischi ambientali, come gli incendi, rischi biologici, ad esempio le infestazioni da locuste; e rischi sociali, principalmente i conflitti armati.
Gli eventi catastrofici, si legge nel rapporto, sono passati da circa 100 all’anno negli anni Settanta del secolo scorso ai 400 all’anno nel ventennio dal 2000 al 2021. A causa di questi eventi il mondo ha perso il 5% del Pil agricolo annuo globale per un totale di 3.800 miliardi di dollari. La perdita di Pil agricolo sale fino al 10-15% nei paesi a reddito medio basso e basso e al 7% nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo@, che si trovano principalmente nei Caraibi, nell’Oceano Indiano e nel Pacifico.
Esempi di disastri
Gli esempi recenti di catastrofi non mancano: lo scorso maggio Reliefweb, il servizio informazioni dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, riportava@ che il Corno d’Africa ha avuto cinque stagioni consecutive di piogge scarse o assenti, cioè un’ondata di siccità che ha superato negli effetti e nella durata quelle del 2016/2017 e del 2010/2011.
Più di 13,2 milioni di capi di bestiame erano già morti in tutta la regione, causando la perdita di oltre 180 milioni di litri di latte dall’inizio della siccità e privando 1,4 milioni di bambini sotto i 5 anni della possibilità di consumare un bicchiere di latte al giorno, con gravi conseguenze per il loro status nutrizionale.
A novembre 2023, la regione si preparava poi a possibili inondazioni dovute fra l’altro al previsto arrivo di El Niño, un fenomeno climatico ricorrente che interessa in misure diverse quasi tutto il globo e che nel Corno d’Africa tende a provocare precipitazioni più abbondanti fra marzo e maggio.
Quanto poi alle catastrofi legate ai conflitti, un’infografica sui siti del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea@ mostra come la guerra in Ucraina ha ridotto di un terzo la produzione di cereali nel paese e ha duramente colpito quella dell’olio di girasole, di cui l’Ucraina era il primo esportatore mondiale prima dell’invasione russa. «Le esportazioni ucraine, in particolare di frumento», si legge sul sito del Consiglio, «rivestono un’importanza cruciale per alcuni paesi asiatici e africani, che dal 2016 al 2021 hanno ricevuto il 92% del frumento ucraino».
Campagne, app e tecnologia contro lo spreco
Le iniziative per affrontare fame e cambiamento climatico stanno emergendo in tutto il mondo, scriveva nell’ottobre del 2022 Somini Sengupta sul New York Times in articolo dal titolo «Inside the global effort to keep perfectly good food out of the dump»@.
A Seoul, riportava Sengupta, i bidoni della spazzatura pesano automaticamente la quantità di cibo gettato nella spazzatura. A Londra, i negozi di alimentari non mettono più le etichette con la data di scadenza su frutta e verdura per evitare confusione su ciò che è ancora commestibile. La California impone ai supermercati di regalare il cibo invenduto ancora buono da mangiare invece di buttarlo.
E ancora: la Cina aveva lanciato nel 2020 la campagna «Piatto pulito» per ridurre lo spreco di cibo, incoraggiando le persone a evitare di ordinare di più di quello che consumano e invitando i video blogger che si riprendono mentre mangiano grandi quantità di cibo a non farlo più.
Esistono poi diverse applicazioni per cellulari che aiutano a limitare lo spreco: una di queste è Too good to go, azienda fondata in Danimarca nel 2015, che nel suo Impact report del 2022@ sostiene di aver impedito lo spreco di circa 79 milioni di pasti. L’app permette di vedere quali esercizi mettono a disposizione cibo avanzato a un prezzo molto più basso di quello iniziale ed è possibile prenotare il cibo per poi passarlo a ritirare nella fascia oraria indicata. A ottobre 2023, Too good to go ha lanciato la campagna «Salva il pianeta in ogni angolo di Roma» che ha permesso di recuperare nella capitale mezzo milione di pasti, come riferiva ai microfoni di Askanews Mirco Cerisola, il direttore per l’Italia dell’azienda di Copenaghen@.
Nei paesi in via di sviluppo
Anche nei paesi in via di sviluppo ci sono iniziative contro lo spreco e la perdita di cibo: in Kenya, riporta ancora l’articolo di Sengupta, un imprenditore ha costruito frigoriferi a energia solare per aiutare gli agricoltori a conservare i prodotti più a lungo. Si tratta di Dysmus Kisilu, trentunenne keniano che a 27 anni, dopo gli studi all’Università della California, a Davis ha fondato Solar Freeze, l’azienda che ora gestisce insieme a un team composto da una decina di coetanei.
Nel video per Fast Forward, un’organizzazione che promuove aziende startup capaci di combinare tecnologia e sostenibilità, Kisilu racconta che ha capito l’importanza di fornire ai piccoli agricoltori africani un sistema di refrigerazione sostenibile vedendo la nonna, contadina del Kenya orientale, perdere metà del raccolto prima ancora di raggiungere i banchi del mercato a causa della mancanza di un frigo dove conservare i prodotti@.
L’esperienza nelle missioni
Proprio nella capitale del Kenya, Nairobi, su un appezzamento di terreno di 21 acri (circa 8 ettari), i Missionari della Consolata gestiscono una fattoria, la Njathaini farm, che garantisce la sicurezza alimentare alla scuola che si trova sullo stesso terreno, alla casa per ragazzi di strada Familia ya Ufariji e alla comunità della zona.
Le attività agricole, riporta Naomi Nyaki, responsabile dell’ufficio progetti Imc a Nairobi, riguardano la coltivazione di mais, fagioli e diversi tipi di colture orticole come la belladonna africana, o managu in lingua locale, l’amaranto (terere) e una varietà di cavolo che nella lingua locale si chiama sukuma wiki, traducibile, in modo approssimativo, come «spingi settimana» (un cavolo di origine sudafricana che i missionari della Consolata hanno portato in Kenya di ritorno dagli anni di prigionia durante la Seconda guerra mondiale, ndr), cioè il cibo che serve per sopravvivere durante la settimana. Alla fattoria i missionari allevano anche capre, pecore e polli. «Alla Njathaini farm», prosegue Naomi, «le difficoltà principali riguardano lo stoccaggio dei prodotti agricoli dopo la raccolta, in particolare delle verdure deperibili, ma anche le possibili infestazioni da parassiti». A Familia ya Ufariji, invece, l’allevamento di vacche e maiali permette di garantire ai bambini ospitati – che possono arrivare fino a 90 – di avere una dieta adeguata.
Ma, spiega Naomi, stiamo cercando di creare un sistema più razionale per usare i prodotti dell’allevamento, «ad esempio comprando più frigoriferi che ci permettano di tenere separati latte e carne e di conservarli più a lungo. Anche fare lo yoghurt aiuterebbe a sfruttare meglio il latte, ma ancora non abbiamo una macchina a disposizione per produrlo in modo sistematico».
Anche in Tanzania i missionari cercano soluzioni per sfruttare al meglio il cibo. «Il problema qui riguarda più la perdita di cibo che lo spreco», scrive da Iringa Modesta Kagali, la responsabile dell’ufficio progetti dei Missionari della Consolata.
Nelle diverse case dei missionari, soprattutto in quelle che ospitano molte persone, come le case di formazione, si usano diversi modi per proteggere il cibo dal deterioramento: dalla conservazione del pesce sotto sale all’essiccazione, dall’uso del miele per isolare la carne dall’umidità all’utilizzo di celle frigorifere solari. Un metodo interessante è quello del refrigeratore fatto con il carbone (charcoal cooler). «La camera funziona senza bisogno di elettricità, secondo il principio del raffreddamento evaporativo. È costituita da un telaio in legno aperto con i lati riempiti di carbone trattenuto da reti metalliche. Il carbone viene costan- temente inumidito e quando l’aria calda e secca passa attraverso il carbone umido produce un notevole effetto rinfrescante. L’efficacia di conservazione dipende dal tipo di alimento: nel caso della verdura, questo refrigeratore ha mostrato di riuscire ad allungarne la conservazione di circa dieci giorni».
Chiara Giovetti