In tempi di campagna elettorale, a Taiwan ci sono dei luoghi che sono costantemente affollati: i templi buddhisti e taoisti. Può sembrare strano, ma da quando i partiti ufficializzano i loro candidati parte immancabile la «processione».
Ogni giorno, quando i team delle campagne elettorali rilasciano l’agenda del giorno successivo, è un fatto acclarato: i candidati si presentano almeno in un tempio. Tanto per avere un’idea: nella campagna per le elezioni presidenziali del gennaio 2020, la presidente uscente Tsai Ing-wen ha visitato circa 180 templi per ottenere la conferma a un secondo mandato. Lo stesso sta accadendo in questa occasione. Tutti e tre i candidati alle elezioni di sabato 13 gennaio sono apparsi in templi in tutti gli angoli dell’isola principale di Taiwan, persino a quelli delle isole minori.
Il motivo? L’influenza di questi luoghi, che non sono solo un posto dedicato alla preghiera ma anche un polo di attrazione sociale fondamentale per le città e i villaggi di Taiwan, sfocia da quella religiosa e spirituale a quella politica. Anche perché sono praticamente ovunque: 33mila su tutto il territorio, in media quasi uno per ogni chilometro quadrato.
I candidati arrivano e stringono decine, centinaia di mani. Fanno decine, centinaia di selfie. Accendono l’incenso e pregano per la salute, la sicurezza e la pace di Taiwan. Lasciano offerte sugli altari dedicati agli dei locali. Infatti, ce ne sono tanti diversi, nella tradizione taoista, che a Taiwan si è profondamente intrecciata con quella buddhista tanto che alle volte diventa complicato capire dove stanno i confini tra l’una e l’altra. In cambio ricevono spesso grandi mazzi di germogli d’aglio. In dialetto taiwanese questo dono suona come «venire eletto», slogan ripetuto a lungo durante tutti i comizi.
In candidati, in maniera implicita, mirano al favore dei leader dei templi. Si tratta di figure molto spesso coinvolte nella politica locale, ma hanno anche una rilevanza economica. I templi sono infatti un grande ricettacolo di donazioni, fondi e spesso anche interessi economici. Tutti ingredienti che fanno immancabilmente gola a una campagna elettorale e a un candidato che punta a diventare presidente.
C’è anche una valenza simbolica: per la maggior parte dei taiwanesi recarsi al tempio è più una prassi sociale o un rituale, piuttosto che un modo per esprimere la propria fede. Mostrarsi nei templi, circondati dagli abitanti di quel villaggio o di quel quartiere di una città più grande, significa mostrarsi vicini alla gente comune.
Terry Gou, boss del colosso tecnologico Foxconn (principale fornitore di iPhone per Apple con enormi interessi anche in Cina continentale), ha visitato più volte i templi di Cihui e Jieyun a Banqiao, Nuova Taipei, per «chiedere agli dei» di dare un segno sulla sua candidatura. Segnale evidentemente positivo, visto che Gou alla fine si è candidato da indipendente salvo poi ritirarsi in seguito all’apertura di un’indagine fiscale sulla sua azienda da parte di Pechino.
I templi sono stati spesso considerati anche un canale di promozione dei rapporti con la Repubblica popolare. Le autorità continentali consentono e incoraggiano i gruppi religiosi taiwanesi a viaggiare oltre lo Stretto. Pechino ritiene infatti che mantenere legami sul fronte religioso e rituale possa contribuire a rallentare la recisione dei rapporti con Taiwan, rafforzando il senso di appartenenza della sua popolazione alla «sfera culturale» cinese. Non a caso, lo scorso settembre, Song Tao (direttore dell’Ufficio cinese per gli affari di Taiwan) ha chiesto di estendere gli scambi religiosi e ha incontrato Zheng Mingkun, presidente dell’associazione taiwanese dedicata a Mazu, la dea dei mari della mitologia cinese amata soprattutto tra Fujian (Repubblica popolare), Kinmen e Matsu (isole di Taiwan).
Secondo alcune indiscrezioni, diversi templi e organizzazioni religiose riceverebbero fondi da Pechino. Accuse difficili da dimostrare, vista l’opacità dei rendiconti finanziari di questi luoghi, coi partiti che raramente osano sollevare il problema, temendo di mettersi contro una fetta non trascurabile di cittadini, dunque elettori. In passato ci sono state alcune controversie anche sulla Fo Guang Shan, grande organizzazione buddhista con un immenso centro nei pressi della città meridionale di Kaohsiung. Quando lo scorso febbraio il suo fondatore, Hsing Yun, è morto, diverse autorità continentali hanno espresso il desiderio di recarsi in visita a Taiwan.
Verrebbe da pensare che il candidato del Partito progressista democratico (Dpp), inviso a Pechino, si tenga alla larga dai templi. Non è così. Lai Ching-te ne ha visitati a decine, tanto quanto i rivali Hou Yu-ih del Kuomintang e Ko Wen-je del Partito popolare. Nessuno fa lo schizzinoso, quando si tratta d’imbracciare qualche mazzo di germogli d’aglio.
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Lorenzo Lamperti, da Taipei