Profumo di banane

T-shirt bianca, capelli corti, faccia pulita. Dice: «Oggi abbiamo fatto la storia, le famiglie ecuadoriane hanno scelto il nuovo Ecuador, hanno scelto un paese con sicurezza e lavoro. […] Andiamo verso un paese di realtà dove le promesse non rimangono nella campagna elettorale e la corruzione viene punita». Un discorso per nulla sorprendente: più o meno, le parole sono quelle che dicono tutti i candidati subito dopo aver saputo della loro vittoria. Sorprendente è invece l’oratore, vincitore non previsto alla vigilia delle elezioni.

Luisa González, candidata dell’ex presidente Rafael Correa, è la grande sconfitta delle elezioni del 15 ottobre. (Immagine tratta da luisapresidenta.com)

Con i suoi 35 anni, Daniel Noboa, imprenditore e politico di centrodestra, sarà il più giovane presidente dell’America latina, battendo anche il cileno Gabriel Boric (37). È figlio di Álvaro Noboa, l’uomo più ricco dell’Ecuador, a capo di un impero di banane e cioccolato (marchio «Bonita») e di oltre cento imprese, per cinque volte candidato alla presidenza del paese. Daniel è sposato con Lavinia Valbonesi, giovane influencer di padre italiano. Al secondo turno delle elezioni (domenica 15 ottobre), Daniel Noboa ha sconfitto Luisa González, candidata di centrosinistra sponsorizzata da Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017, oggi esiliato in Belgio. Il neoeletto, che succede al banchiere Guillermo Lasso, si troverà a governare un paese in gravi difficoltà.

Sotto il marchio «Bonita», il gruppo Noboa produce anche tavolette di cioccolato.

Fino a poco tempo fa, l’Ecuador – 17 milioni di abitanti (con il 7,7% di indigeni) – era una regione (relativamente) tranquilla dell’America Latina, continente noto per ospitare i paesi con i più alti tassi di omicidio al mondo (El Salvador, Venezuela, Guatemala, Haiti). Da cinque anni la situazione è radicalmente mutata. Stretto tra Perù e Colombia, i due maggiori produttori mondiali di coca, l’Ecuador è diventato crocevia del narcotraffico, affare gigantesco gestito da gruppi internazionali e bande locali.

Secondo l’ultimo censimento, gli indigeni dell’Ecuador sono il 7,7% della popolazione totale. (Foto Azzedine Rouichi – Unsplash)

L’esplosione di violenza è stata di tale portata da spingere decine di migliaia di ecuadoriani a lasciare il paese e tentare di emigrare negli Stati Uniti, formando parte di un’ondata migratoria che sta mettendo in gravi difficoltà l’amministrazione Biden. Alla criminalità organizzata si deve, tra l’altro, l’assassinio – avvenuto a Quito lo scorso 9 agosto – di Fernando Villavicencio, giornalista investigativo e autorevole candidato alla presidenza.

Fernando Villavicencio, giornalista investigativo e candidato presidente, è stato assassinato il 9 agosto in piena campagna elettorale. (Foto da Facebook)

Due giorni prima delle elezioni avevamo chiamato Quito per raccogliere un commento di José Ignacio López Vigil, fondatore e responsabile di Radialistas Apasionadas y Apasionados, associazione senza scopo di lucro che produce programmi radiofonici per molte emittenti popolari dell’America Latina. E il nostro interlocutore era stato esplicito e molto duro. «Entrambi i candidati – ci aveva spiegato – sono pessimi. L’unico per il quale valeva la pena votare, Fernando Villavicencio, è stato assassinato dalla mafia e dai narcotrafficanti. Luisa González è un’evangelica pro-vita, un burattino di Correa. Il suo progetto è l’amnistia per l’ex presidente e la ricandidatura di questo farabutto nel 2026. Daniel Noboa è il figlio di un papà miliardario. Neoliberista. Non serve al paese. Detto questo, tra i due preferisco quest’ultimo».

Paolo Moiola




La rivoluzione pacifica (o quasi)

Da una settimana il Guatemala è in sciopero. Lo sono gli studenti, i docenti universitari, il personale sanitario, i commercianti, i popoli indigeni e, a partire da lunedì 9 ottobre, anche i venditori ambulanti dei mercati comunitari. Le strade e i ponti che conducono al centro di Ciudad de Guatemala sono bloccati così come oltre 50 strade che dalla capitale portano in provincia. A guidare una rivoluzione, che nelle ultime ore ha visto l’inizio di tensioni per le strade, ci sono i popoli indigeni organizzati e in particolare l’organizzazione indigena dei 48 Cantoni del dipartimento di Totonicapán che chiede, a voce e con presenza fisica, le dimissioni della procuratrice generale Consuelo Porras e la destituzione immediata di Rafael Curruchiche, attuale direttore della Fiscalia Especial contra la Impunidad (organo della giustizia che dovrebbe indagare sui crimini di corruzione), e con loro tutti i giudici che hanno contribuito al tentativo di annullare il risultato delle elezioni democratiche dello scorso 28 agosto.

All’indomani della vittoria del candidato di sinistra Bernardo Arévalo, Consuelo Porras, che insieme a Curruchiche è stata segnalata nella lista di persone straniere «impegnate in azioni che minano processi o istituzioni democratiche, in atti di significativa corruzione o di ostruzione delle indagini su di essi» dal Dipartimento di stato degli Stati Uniti, ha ordinato il ricalcolo delle schede e ha accusato il partito vincitore Movimiento Semilla di irregolarità nella raccolta delle firme all’atto di costituzione. Al rifiuto del Tribunale elettorale supremo di eseguire l’ordine, in quanto le elezioni sono state ritenute regolari, Porras ha risposto disponendo l’occupazione dell’istituzione da parte della polizia, di fatto orchestrando un colpo di stato soft, più procedurale che militare ma ugualmente illegittimo, contro il neoeletto presidente Bernardo Arévalo.

Il leader progressista del Movimento Semilla rappresenta infatti una spina nel fianco per l’élite di oligarchica di destra, di cui Porras e Curruchiche sono parte e strumento, che da quattro decenni governa il Paese a suo uso e consumo perpetrando un sistema di disuguaglianza e di povertà in cui vive oltre il 50% della popolazione.

Proprio in quest’ultima settimana in Guatemala si respira un’aria nuova e pare che la voglia di cambiamento che da anni si sentiva ribollire nelle fasce più escluse della società sia matura. Per la prima volta nella storia vede un’alleanza tra la minoranza intellettuale di sinistra blanco mestiza (bianca e meticcia) composta da docenti universitari, studenti e piccoli imprenditori e la maggioranza indigena rappresentata da 22 popoli maya, il popolo Garifuna e Xincá. Sono infatti proprio i popoli originari a guidare la protesta stufi di essere esclusi dalle scelte politiche di un paese che per oltre il 60% è indigeno. Se fino a lunedì le manifestazioni sono state pacifiche, da martedì si è verificata un’escalation di tensione culminata in scontri tra manifestanti e polizia, distruzione di vetri e incendi a esercizi commerciali. Le responsabilità non sono state ancora chiarite, nonostante si vociferi che il gruppo di persone incappucciate che hanno dato inizio ai disordini potrebbero essere degli infiltrati assoldati per minare le manifestazioni pacifiche e far ricadere le responsabilità sui popoli indigeni.

Manifestazione a Città del Guatemala. Scritta: Lotta per la democrazia. Foto di Liliana Villatoro.

Nonostante la violenza che in questo momento ha preso piede in città, i tempi sembrano maturi per un cambio di sistema politico e di giustizia che invece negli anni ha mietuto teste e voci democratiche. Sono oltre 20 gli operatori di giustizia del pool anticorruzione rifugiatisi all’estero per evitare una persecuzione politica e giudiziaria a cui si aggiungono decine di giornalisti che hanno dovuto lasciare il paese per le loro dichiarazioni scomode o sono incarcerate, come il sessantaseienne Chepe Zamora, storico direttore del quotidiano el Periódico che a maggio scorso ha dovuto chiudere i battenti per il collasso economico causato dalla persecuzione politica portata del governo di destra del presidente uscente Alejandro Giammattei, oggetto di numerosi scandali per corruzione.

Migliaia di persone indigene che dormono in giacigli precari per la strada e che ricordano, non a caso, le proteste dei popoli indigeni aymara e quechua del Perù dell’inverno scorso, quando manifestavano per la stessa cosa: il diritto di essere ascoltati e di vivere in uno stato basato su un sistema di giustizia trasparente dove anche le loro istanze siano incluse nel dibattito politico.

Mentre il Guatemala si risveglia dal suo settimo giorno di proteste, Porras ha dichiarato che non si dimetterà. Dall’altra parte migliaia di persone dicono che non lasceranno libere le strade fino alle dimissioni della procuratrice generale.

In questo tira e molla tra democrazia e oligarchia, tra il grido identitario dei popoli indigeni e uno status quo che vorrebbe escluderli, i prossimi giorni saranno decisivi.

Simona Carnino




Il clima secondo Francesco

«Settembre 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato a livello globale, con una temperatura media dell’aria superficiale di 16,38°C, 0,93°C al di sopra della media di settembre del periodo 1991-2020 e 0,5°C al di sopra della temperatura del settembre più caldo precedente, nel 2020. […] Settembre 2023 è stato anche il settembre più caldo mai registrato per il continente europeo, con 2,51°C in più rispetto alla media del periodo 1991-2020 e 1,1°C in più rispetto al 2020, il precedente settembre più caldo». Così scrive il bollettino di Copernicus, l’organizzazione scientifica di monitoraggio della Terra dell’Unione europea, uscito lo scorso 5 ottobre.

Il grafico elaborato da Copernicus evidenzia il progressivo aumento della temperatura media del mese di settembre a livello globale.

Nei giorni in cui Copernicus rilasciava il suo drammatico rapporto, papa Francesco presentava la Laudate Deum, l’esportazione apostolica che può essere vista come una prosecuzione ideale dell’enciclica Laudato si’ del 2015. Si tratta di un testo – 73 punti divisi in 6 capitoli – in cui il pontefice non solo esterna le sue preoccupazioni sulla crisi climatica, ma sferza il comportamento dell’uomo. Scrive Francesco al punto 2: «Con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Anche la distruzione delle foreste non accenna a ridursi. (Foto Matt Palmer – Unsplash)

L’esortazione non dimentica il Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop 28), in programma a Dubai (Emirati arabi uniti) dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. «Se c’è – si legge al punto 58 – un sincero interesse a far sì che la Cop 28 diventi storica, che ci onori e ci nobiliti come esseri umani, allora possiamo solo aspettarci delle forme vincolanti di transizione energetica».

Il papa esorta i potenti senza fare sconti. «Speriamo – scrive al punto 60 – che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda». E alla società nel suo insieme dice: «Non ci sono – scrive al punto 70 – cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali, senza una maturazione del modo di vivere e delle convinzioni sociali, e non ci sono cambiamenti culturali senza cambiamenti nelle persone». Ma non dimentica chi sta muovendosi nella direzione giusta. «Gli sforzi delle famiglie per inquinare meno – dice al punto 71 -, ridurre gli sprechi, consumare in modo oculato, stanno creando una nuova cultura. Il semplice fatto di cambiare le abitudini personali, familiari e comunitarie alimenta la preoccupazione per le responsabilità non assolte da parte dei settori politici e l’indignazione per il disinteresse dei potenti».

Non tutti concordano con le riflessioni del papa. Ad esempio, lo scorso 5 ottobre il quotidiano La Verità riportava in prima pagina questo titolo a cinque colonne: «L’esortazione del Papa pare scritta da Greta». Secondo i due articolisti, l’esortazione apostolica di Francesco è «un manifesto green che trasforma in dogma la tesi dell’origine antropica dei cambiamenti climatici». Il giorno seguente, sullo stesso giornale e sempre in prima pagina, Franco Battaglia, professore noto (in Italia) per il suo negazionismo nei confronti dell’emergenza climatica, scriveva: «La Laudate Deum è una collezione di errori». E sabato 7 ottobre La Verità svelava: «La Laudate Deum crea sconcerto nella Segreteria di Stato vaticana».

Ennesima conferma che, assieme alla temperatura della terra, cresce anche la presunzione dei negazionisti.

Paolo Moiola

L’anidride carbonica è il principale tra i cosiddetti gas ad effetto serra. (Foto Geralt – Pixabay)




Con la resistenza civile


Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati».

«Di fronte a un’aggressione come quella della Russia nei confronti dell’Ucraina, l’unica resistenza possibile è quella armata».

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa narrazione, anche da parte di chi non guarda alla nonviolenza con sospetto e rifiuto preconcetto. E quante volte i pacifisti si sono trovati in difficoltà nel rispondere, opponendo petizioni di principio più che fatti?

Il libro di Erica Chenoweth nasce proprio per contestare queste obiezioni con i fatti della storia.

È interessante che la stessa autrice nella prefazione confessa che inizialmente era molto critica sulle possibilità della resistenza nonviolenta.

Nel 2006, con Maria Stephan, iniziò studi sui movimenti sociali contemporanei, catalogandoli tra «prevalentemente violenti» e «nonviolenti», al fine di valutarne, in modo sistematico ed empirico, i tassi di successo.

Ne è venuto fuori un database, aggiornato di anno in anno, formato da 623 casi storici, il cui elenco si trova in appendice al libro. Esso dimostra che le rivolte nonviolente hanno avuto successo nel 50% dei casi, contro un 25% delle rivolte armate.

Il database è disponibile online al sito del progetto Navco (Nonviolent and violent campaigns and outcomes).

Azioni, lotte, movimenti

Da quegli studi nasce il libro Come risolvere i conflitti.

L’edizione americana è del 2021 e ha un titolo diverso, a mio parere più incisivo: Civil resistance: what everyone needs to know (La resistenza civile. Ciò che ognuno dovrebbe conoscere).

È questo, resistenza civile, il nome che Erica Chenoweth dà a quel complesso di azioni, lotte, movimenti che altri chiamano lotta nonviolenta, che Gandhi chiamava Satyagraha, forza della verità. E mette subito in chiaro che si tratta di un metodo di lotta contro il potere costituito, giacché in un mondo e in situazioni ingiuste, i conflitti vanno innanzitutto suscitati, e solo dopo risolti, mentre il nemico peggiore è l’assuefazione a quella che Johan Galtung chiama «violenza strutturale».

La nonviolenza funziona?

Il libro è organizzato in domande, che costituiscono i titoli dei paragrafi, questi a loro volta raggruppati in cinque capitoli: le basi, come funziona la resistenza civile, la violenza interna, la violenza contro il movimento, il futuro della resistenza civile.

La domanda principale che sottende tutto il volume è: la resistenza civile funziona per ottenere giustizia e difendere i diritti umani? In quali circostanze?

Il metodo di lavoro usato astrae dall’ideologia e dalla concezione morale per concentrarsi prevalentemente sul tema dell’efficacia della lotta, cosa non sempre gradita ai nonviolenti, soprattutto qui da noi. È l’approccio di Gene Sharp (1928-2018), filosofo e politologo americano, definito il «Macchiavelli della nonviolenza», che si cimentò sin dagli anni Settanta (Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi pubblicati da Edizioni Gruppo Abele) a dimostrare che il metodo nonviolento era più efficace della lotta armata. Fu fondatore, nel 1983, dell’Albert Einstein institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». La Chenoweth si definisce una sua allieva.

I successi di un metodo

Corsi di formazione, libretti sulle metodologie, contatti con attivisti di tutto il mondo, servirono a spronare diverse campagne nonviolente, anzi, vere e proprie rivoluzioni, molte delle quali ottennero significativi successi.

Ricordiamo la lunga lotta nonviolenta del popolo polacco che fu all’origine del tracollo dell’impero sovietico, a cui seguirono la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, la lotta per la democrazia in Germania Est, ma pure il caso delle Filippine con la caduta del dittatore Marcos nel 1986.

Grazie a questi successi il metodo della resistenza civile ebbe ulteriore diffusione, in particolare con la stagione delle «rivoluzioni colorate» degli anni Novanta e Duemila nei paesi ex comunisti dell’Est Europa, contro la corruzione e per la democrazia. E qui molti ci vedono l’intervento del dipartimento di Stato Usa.

Ci sono tuttora discussioni tra gli attivisti e gli studiosi su questo approccio: se la nonviolenza è «solo una metodologia», può essere usata per fini buoni o cattivi, da socialisti o democratici, da fautori dell’ordoliberismo, da progressisti o reazionari.

Anche questo è un tema dibattuto dalla Chenoweth, titolo di uno dei cento paragrafi.

Fatti e conclusioni

Tornando al libro, esso si basa su uno studio statistico: l’autrice, per rispondere alle domande, osserva come le varie resistenze civili hanno lavorato. Sia quelle che hanno avuto successo, sia le altre. Dunque, le risposte non sono mai teoriche, o ideologiche, ma sempre basate sui fatti.

Si viene dunque a conoscenza di un gran numero di lotte nonviolente, della loro evoluzione, delle problematiche affrontate. Come uno scienziato, l’autrice cerca di estrarre da esse delle leggi generali, ma sempre con l’avvertenza «salvo smentite», e con l’invito a continuare lo studio.

Alcune conclusioni generali vengono indicate alla fine del volume, e qui le riassumo.

  • Fare resistenza civile significa ribellarsi al potere costituito attraverso metodi più inclusivi della violenza.
  • La resistenza civile non si limita a «toccare il cuore» dell’avversario, è lotta, e vince quando riesce a generare defezioni nel suo potere.
  • Non si esaurisce nelle manifestazioni e nelle marce, include metodi di non cooperazione, costruzione di poteri alternativi, coinvolgendo una vasta parte di popolo e costruendo alleanze.
  • Negli ultimi cento anni, la resistenza civile si è dimostrata più efficace della lotta armata.
  • Non sempre ha successo ma funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori non affermino e, soprattutto, anche quando perde, è decisamente meno letale.

Un insegnamento molto utile oggi, mentre è in atto una corsa generalizzata alla guerra vista come unica soluzione contro autocrati e dittatori.

La domanda «ma agli ucraini servirebbe la nonviolenza?», non la troverete in questo libro, chiuso in stampa nel 2021.

Possiamo solo dire che non siamo in grado di capire se la nonviolenza sarebbe stata efficace o meno, essendo una possibilità scartata fin dal principio, e che, di certo, vediamo cosa sta facendo la guerra oggi.

Paolo Candelari

Centro studi Sereno Regis




Somalia. Sognando la normalità


Uno Stato debole ma che c’è, e ha promesso di sconfiggere i fondamentalisti entro un anno. Occorre rilanciare l’economia piegata da tre decadi di guerra. Forse questo sarà un anno di svolta. Intanto cresce l’influenza della Turchia. E l’Italia che fa?

I fucili mitragliatori a tracolla pronti a essere utilizzati. Addosso elmetti e giubbotti antiproiettili in kevlar. Gli sguardi sempre puntati intorno, verso possibili minacce. Gli agenti della scorta sono all’erta. Hanno l’adrenalina al massimo anche se, per loro, questa è una missione come un’altra in una delle città più pericolose del mondo: Mogadiscio, la capitale della Somalia. Sono una decina sul pick-up che ci precede. Un’altra ventina sui due mezzi che ci seguono. Tra noi e loro il fuoristrada del comandante della scorta, un sudafricano alto due metri e massiccio come una roccia. «Qualsiasi cosa succeda – dice prima di partire -, non scendete dal fuoristrada se non ve lo ordino io. E, una volta a terra, continuate a seguire le mie indicazioni». Questo è quanto attende un europeo che voglia lasciare il compound dell’aeroporto di Mogadiscio per avventurarsi in città.

Lo scalo, costruito dagli italiani e ristrutturato dai turchi, è una sorta di città fortezza dove c’è di tutto: alberghi, negozi, aziende. La struttura è protetta da mura solide sormontate da chilometri di filo spinato. Rinunciare alla scorta è impossibile: militari, contractors o uomini di compagnie di sicurezza devono accompagnare qualsiasi convoglio sia all’interno dell’aeroporto sia all’esterno.

Appena fuori dall’hotel, troviamo un primo posto di blocco con sbarre, gestito da soldati ugandesi armati con Ak-47. Poi un altro, sempre composto da soldati ugandesi. A fianco delle sbarre un mezzo dell’Unione africana simile agli Iveco Lince in dotazione delle forze armate italiane. Più avanti un altro blocco. Questa volta la colonna è costretta, da una fila di jersey in cemento a rallentare drasticamente e a fare una serpentina. Si entra in città.

African Union Mission to Somalia (AMISOM) soldiers carry the wreckage of a vehicle at the scene of suicide bombing that targeted AMISOM forces in Mogadishu, Somalia, on November 11, 2021. (Photo by AFP)

Mogadiscio è viva

L’immagine che avevamo prima di arrivarci era quella di una metropoli spaventata, chiusa in sé, con poco traffico e poca gente. Invece le strade sono piene di uomini, donne, animali (soprattutto capre e asini). Ai bordi, piccoli mercati, negozi, locali affollati. C’è un continuo viavai di piccoli taxi apecar. Mogadiscio è viva. C’è fermento.

Certo le strade sono malridotte, sporche (anzi, sporchissime), il traffico è caotico, ma non è una metropoli spenta. Nell’aria, però, c’è una tensione palpabile. Ogni volta che il nostro convoglio rallenta o si ferma, gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e controllano intorno. Raggiunta la nostra meta, un’altra scena di guerra. Tutti gli uomini della scorta saltano giù dai mezzi e bloccano la via. La nostra jeep entra nel compound e, solo dopo che i nostri uomini hanno accertato che le condizioni sono buone, possiamo scendere.

La portiera del mezzo pesa moltissimo. Si fa fatica ad aprirla, la blindatura è consistente. Dopo una breve sosta, dobbiamo andare verso un’altra meta.

Passiamo il Km4, rotonda già teatro di attentati di al-Shabaab. Poco più in là. Due camion ostacolano la strada. Li superiamo. Poi, uno, due, tre colpi di arma da fuoco. La colonna prosegue, ma arriva l’ordine: «Rientrare!». Più avanti, ci viene detto, c’è una manifestazione di studenti. La polizia ha sparato per disperdere i manifestanti. La colonna fa dietro front. Ci aspettano ancora i posti di blocco. Rientriamo nella nostra bolla di sicurezza.

(Photo by Hassan Ali ELMI / AFP)

Sconfiggere al-Shabaab

La Somalia vive ancora nell’insicurezza. Nonostante il governo guidato dal presidente Hassan Sheikh Mohamud, sostenuto da Usa, Unione africana, Unione europea e Turchia, abbia lanciato un’offensiva a tutto campo contro al-Shabaab, le milizie fondamentaliste legate ad al-Qaeda hanno ancora molte basi nell’entroterra. Covi dai quali lanciano continuamente attacchi contro le istituzioni e le caserme federali.

«Nell’arco di un anno – ha detto il capo dello Stato – sconfiggeremo gli islamisti». Un ottimismo forse eccessivo, ma al quale la popolazione vuole dare credito. «Il nostro presidente ha detto che al-Shabaab sarà sconfitto nell’arco di un anno. Io penso che ce ne vorranno almeno due per eliminare le milizie fondamentaliste». Non ha dubbi Jamila, giovane insegnante somala. Secondo lei il destino della filiale locale di al-Qaeda è segnato.

Al-Shabaab arruola giovani poveri, non istruiti, con nessuna formazione professionale né lavoro. Al-Shabaab ha promesso loro una vita migliore e loro ci vedono un’opportunità.

Sono ragazzi vittime di anni in cui la Somalia era uno Stato senza autorità, senza legge, senza servizi per la popolazione. «Oggi – continua Jamila – le cose stanno cambiando. Lo Stato c’è, anche se è debole. Le scuole hanno riaperto. I ragazzi e le ragazze possono studiare. Persone istruite e con un lavoro non hanno interesse ad aderire a una formazione estremista che offre, ora lo sappiamo, un’unica prospettiva, quella della morte, della violenza e della distruzione».

I militari hanno ottenuto numerosi successi sul campo. La vera incognita è se riusciranno da soli a respingere l’offensiva di al-Shabaab. Le forze Atmis (African union transition mission in Somalia, è la missione dell’Unione africana che ha sostituito la precedente, Amison nell’aprile 2022, ndr) hanno infatti annunciato che, gradualmente, si ritireranno lasciando la sicurezza interamente in mano ai somali. «Gli attentati, anche nella capitale, sono sempre dietro l’angolo – conclude l’insegnante -. Il futuro però è segnato. I fondamentalisti saranno sconfitti nei fatti e noi potremo tornare a essere un Paese normale che si gioca il suo futuro sui binari della pace e dello sviluppo. A partire dai giovani».

Sicurezza ed economia

Se la sicurezza è una priorità del governo somalo, il rilancio dell’economia è altrettanto fondamentale. Più di trent’anni di guerra civile hanno messo al tappeto un sistema economico già fragile. Eppure le risorse per il rilancio non mancano. Il Paese può contare su un mare pescoso, su un allevamento di animali (cammelli soprattutto) molto forte, su risorse naturali (petrolio), terreni fertili (vicino ai principali corsi dei fiumi).

Il 2023 potrebbe poi essere un anno di svolta per la Somalia anche per il riconoscimento internazionale della ristrutturazione del suo debito estero. «La Somalia potrà tornare sul mercato internazionale per ottenere fondi – osserva Ygor Scarcia, responsabile a Mogadiscio di Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale -. Si tratta di un segno importante per l’intero Paese. Mogadiscio dovrà però essere capace di investire questi fondi secondo priorità precise evitando gli errori del passato. Un passaggio nel quale la Somalia dovrà dimostrare serietà e nel quale la comunità internazionale dovrà accompagnare le autorità locali».

(Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)

Presenza turca

A lavorare attivamente in Somalia c’è la Turchia. Ankara ha scommesso sul Paese quando era ancora quasi interamente in mano ad al-Shabaab.

Era il 19 agosto 2011, in pieno Ramadan, quando Recep Tayyp Erdogan atterrava nella capitale somala, accompagnato da moglie e figlia, dai suoi ministri e dalle loro famiglie, portando con sé una parte dei 250 milioni di dollari raccolti in Turchia da privati cittadini a sostegno dell’appello contro la carestia.

Un gesto che fece scalpore e fu seguito da altre azioni di soft power come la concessione di borse di studio, la possibilità offerta ai giovani somali di studiare in università turche, aiuti alle regioni più svantaggiate economicamente, ecc.

Alla Turchia si sono aperte le porte della Somalia. Le aziende di Ankara hanno ristrutturato l’aeroporto e il porto di Mogadiscio. Molti nuovi quartieri della capitale sono stati ricostruiti da imprese edili turche.

E l’Italia? L’ex potenza coloniale quale ruolo può avere nel rilancio della Somalia? «L’Italia – ha detto Hamza Abdi Barre, premier somalo, intervenuto al forum Somalia economic conference che si è svolto Mogadiscio il 30 e il 31 maggio – in passato ha sostenuto l’agricoltura somala e ha permesso al nostro Paese di godere di maggiore sicurezza alimentare. L’Italia deve continuare su questa strada per garantire stabilità e sviluppo».

Il governo somalo spera che l’Italia diventi il principale investitore nel Paese. «Stiamo lavorando per garantire stabilità e sicurezza combattendo al-Shabaab – ha osservato -. Questa conferenza può e deve essere un punto di partenza per rafforzare i legami tra i nostri Paesi».

Gli ha fatto eco Abdirizak Osman Giurile, consigliere del presidente somalo per la democratizzazione e il buon governo e incaricato di sostenere il capo dello Stato nelle relazioni con il nostro paese. «Il rapporto con l’Italia – ha detto all’agenzia InfoMundi – negli ultimi trent’anni ha avuto alti e bassi. Ora non va male. L’incontro dei vertici italiani e somali a febbraio a Roma è stato un momento importante».

Il funzionario ha però lamentato uno scarso impegno economico italiano. «Uno stanziamento di 20 milioni è troppo basso. Lo ha riconosciuto lo stesso ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani. L’Italia deve fare di più e sostenerci nei settori di punta della nostra economia».

Anche sotto il profilo culturale i somali chiedono un maggiore intervento italiano. «Chiediamo – ha sottolineato ancora Giurile – che l’Italia riattivi e riattualizzi l’accordo del 1973 che prevedeva un sostegno economico importante per aiutare la nostra università, finanziando gli stipendi dei professori e le attrezzature per le facoltà. Il Governo di Roma ha detto che lo farà. Stiamo aspettando».

Phil Moore/IRIN

L’Italia tornerà?

Da parte italiana c’è stata un’apertura. Alberto Vecchi, ambasciatore d’Italia in Somalia, ha dichiarato sempre all’agenzia InfoMundi: «Questa conferenza è il frutto di un impegno che il presidente somalo ha preso nel corso della sua visita a Roma. Sono felice che siamo riusciti a dare seguito a quell’impegno. La Somalia ha relazioni speciali con il nostro Paese che affondano le radici nella storia, e che sono proseguite nel tempo».

Il paese africano, secondo il diplomatico, è unico per la sua posizione particolare e per le sue grandi risorse naturali: «Vogliamo contribuire a dare alla Somalia la possibilità di sfruttare queste risorse e diventare un importante punto di riferimento per la regione».

«L’Italia ci ha lasciato, perché? Perché da trent’anni non investe più da noi? I legami antichi sono spariti?», così parla un vecchio professore somalo che insegna italiano all’università di Mogadiscio. Nelle sue parole c’è il rimpianto per una vecchia amicizia che c’era un tempo e che oggi sembra appannata.

«Ve ne siete andati – osserva – e ora il vostro posto è stato preso da altri. I turchi soprattutto. In Somalia c’erano molte imprese italiane, ma adesso è tabula rasa. Non c’è più nulla. Eppure le opportunità ci sono. La comunità somala in Italia è grande e può fare da ponte tra le due nazioni. L’amore per l’Italia non è svanito».

Se gli si fa notare che la Somalia è un Paese instabile in cui molte regioni sono ancora sotto il giogo dei fondamentalisti islamici, lui risponde duro: «I turchi sono venuti qui nel periodo peggiore. Non c’era sicurezza, né possibilità economica. Ma loro c’erano, voi siete spariti. Tornerete? Me lo auguro. La nostra storia è la vostra e viceversa. Non possiamo dimenticarlo».

Enrico Casale

Somalia’s President Hassan Sheikh Mohamud (Photo by Hassan Ali Elmi / AFP)




Piccoli soldati crescono


Le scuole italiane aprono le porte alle Forze armate. La società civile si organizza per reclamare la priorità del valore della pace e della nonviolenza come colonna portante del percorso formativo dei minori.

L’Osservatorio, nato solo pochi mesi fa, raccoglie e  diffonde informazioni su questa pericolosa deriva.

Pochi giorni prima della chiusura delle scuole, il 5 giugno scorso, 200 studenti di Messina, di età compresa tra i 9 e i 16 anni, hanno partecipato alla festa dell’Arma dei Carabinieri nella locale base della Marina militare.

Ne hanno dato notizia con entusiasmo diverse testate locali: «La cerimonia – scrive, ad esempio, messinamagazine.it – ha visto la presenza […] del vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri […], affiancato dal sottocapo di stato maggiore della Marina militare, […], nonché del presidente della regione Calabria, dei prefetti delle province di Sicilia e di Calabria e delle più alte cariche istituzionali, civili, militari e religiose delle due Regioni. […] Anche quest’anno – aggiunge l’articolista -, particolare attenzione è stata rivolta ai giovani […] simbolo del legame e della condivisione dei valori tra l’Arma di oggi e le nuove generazioni». L’uscita didattica aveva come motivazione ufficiale l’educazione alla legalità.

L’8 giugno, più a nord, in provincia di Siena, durante la festa di fine anno della scuola dell’infanzia Walt Disney di Barontoli, frazione di Sovicille, i bambini si sono esibiti in canti e balli in presenza delle loro famiglie, del comandante del reggimento paracadutisti della Folgore di Siena e del sottoufficiale di corpo del 186° reggimento. «Accompagnare i più piccoli alla cittadinanza attiva – recita un post della pagina Facebook dell’istituto comprensivo Lorenzetti – significa soprattutto porre le fondamenta in ambito democratico […]. La scuola dell’infanzia è il primo gradino d’ingresso nella società e i piccoli alunni hanno trascorso un momento di festa condivisa insieme alle famiglie, alle autorità celebrando con la cerimonia dell’alzabandiera istituzionale il ritorno alla normalità».

Militarizzazione martellante

Gli esempi appena citati di presenza delle Forze armate nel percorso scolastico delle nuove generazioni, sono solo due dei moltissimi che si potrebbero elencare e che vengono raccolti quotidianamente dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole, nato nei primi mesi del 2023 dall’iniziativa di alcune sedi del sindacato dei Cobas scuola (Confederazione dei comitati di base della scuola) in collaborazione con le rispettive sedi del Cesp (Centro studi per la scuola pubblica) e con l’adesione di Pax Christi e «Mosaico di pace».

Da alcuni anni, infatti, denuncia l’Osservatorio, si registra una «progressiva e martellante militarizzazione della società civile, a partire dalla scuola».

In questo contesto può capitare, allora, che studenti di Caltagirone facciano la propria gita scolastica di cinque giorni nelle basi militari pugliesi, accompagnati da ufficiali e sottufficiali istruttori. O che bambini di una scuola dell’infanzia di Scordia e Gravina di Catania festeggino Halloween in compagnia dei piloti del gruppo Antisom VP-26.

Dall’infanzia all’università, la scuola ha aperto le braccia alle mimetiche per delegare loro parte della formazione o esperienze di alternanza scuola-lavoro – oggi chiamate Pcto, Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento – allo scopo di promuovere la carriera militare come possibile professione futura.

Le tecnologie avanzate usate dall’Esercito, le visite nelle basi aeronautiche o della Marina, la partecipazione a parate, i corsi di vela o gli incontri in aula sugli argomenti più vari, dal bullismo alle dipendenze, alla violenza di genere, all’insegnamento dell’inglese da parte di soldati Usa provenienti dalle basi Nato, sono i portoni d’ingresso dei militari negli edifici scolastici. Suscitando fascino nei giovanissimi (complici «war games» e serie Tv), confermano l’idea che «armi-è-bello», che la guerra è «normale», che marines è cool.

Osservare per denunciare

Per chi, come noi, è cresciuto all’ombra del Papa buono, ben prima che fosse «promosso», ahinoi, a «patrono dell’Esercito», e di don Lorenzo Milani, i tempi attuali sono preoccupanti.

Gradatamente, in ogni ambito, vediamo avanzare le mimetiche.

Continuiamo a sentire chiamare «missioni di pace» quelle che sarebbe più corretto chiamare «missioni militari in zone di guerra»; vediamo ogni anno celebrare con parate militari, Frecce tricolori, carri armati e aerei da guerra, la festa della nostra Repubblica, nata dalle macerie di un conflitto mondiale dal quale i padri costituenti avevano preso le distanze, ripartendo dal lavoro, dalla pari dignità di tutti e dal ripudio della guerra.

La militarizzazione è sistemica. È culturale. Lo è nei linguaggi così come nella silenziosa delega della sicurezza alle Forze armate. E lo è anche nella scuola.

Papa Francesco può anche continuare a ripetere che «viviamo in una terza guerra mondiale a pezzi» o che la guerra è crudele, assurda, folle. Le nostre orecchie e i nostri cuori sono assuefatti, silenti e accondiscendenti.

La pandemia poi ha accelerato questo processo: non solo le uniche fabbriche rimaste aperte nel periodo di lockdown sono state quelle di armi, ma gli hub vaccinali o i centri per i tamponi sono stati spesso allestiti in tende militari. Il linguaggio, tramite metafore belliche, ha fatto la sua parte: «Siamo in trincea», «mascherine come munizioni», «è una guerra». Il servizio d’ordine è stato affidato alle forze armate alle quali è stato chiesto di vigilare sul rispetto delle regole, degli ingressi limitati nei luoghi d’arte o dinanzi alle scuole.

Per questo è stato costituito l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole: per raccogliere dati e monitorare le attività formative delegate dalle scuole ai militari e per – come recita l’appello dei fondatori – «una decisa e costante attività di denuncia».

Le campagne di Pax Christi

La connessione tra scuola e mondo militare era stata già oggetto della campagna «Scuole smilitarizzate», promossa nel 2013 e ripresa nel 2020 da Pax Christi Italia, in collaborazione con Mir Italia e Sos diritti.

La campagna nasceva dalla consapevolezza che la scuola è un luogo privilegiato di educazione al rispetto, alla solidarietà e ai diritti e al rifiuto di ogni forma di violenza, compresa, quindi, la guerra. Si chiedeva «ai collegi dei docenti e ai consigli di istituto, così come ad ogni singola/o insegnante, […] [di] valorizzare e promuovere l’educazione alla pace e alla nonviolenza […] [ed] escludere dall’offerta formativa qualsiasi progetto, iniziativa e materiale finalizzati alla divulgazione, promozione e celebrazione della guerra, del militarismo e delle attività connesse, quali, ad esempio, la produzione e la vendita di armi».

Intese per militarizzare

La collaborazione tra scuole e mondo militare non nasce dal nulla o all’insaputa dei vertici delle due istituzioni. Tra i molti documenti e protocolli d’intesa firmati da diversi organi istituzionali, possiamo citare, ad esempio, quello del 14 dicembre 2017, intitolato «Rafforzare il rapporto tra scuola e mondo del lavoro», siglato dal Miur (l’allora ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), dal ministero delle Politiche sociali e del Lavoro e dal ministero della Difesa allo scopo di diffondere nel mondo scolastico, accademico e scientifico i «valori etico-sociali, della storia delle tradizioni militari, con un focus sulla funzione centrale che la cultura della difesa ha svolto e continua a svolgere a favore della crescita sociale, politica, economica e democratica del Paese».

Scuola a mano armata

Mentre noi abbiamo la convinzione che la scuola può e deve essere laboratorio di pace, oggi le frequenti occasioni in cui gli studenti vedono militari in veste di formatori contribuiscono a radicare in loro la convinzione che la pace possa essere portata dalle armi (o addirittura che le armi siano l’unico strumento per conquistarla). Che la sicurezza sia un bene da garantire a mano armata e non piuttosto il frutto di un welfare efficace, di servizi pubblici per tutti, di lavoro, di sanità e di scuola pubblica.

Vediamo marines che insegnano inglese (come accaduto a Nissoria, Gravina di Catania, Lentini, Bronte), studenti che svolgono i loro Pcto presso la base militare Usa-Nato di Sigonella (come in alcune scuole tra Catania, Ragusa, Messina e Caltanissetta).

Nell’ottobre 2022, la brigata Folgore di Pisa ha ospitato alcune scuole presso il centro di addestramento paracadutisti, per celebrare l’80° anniversario della battaglia di El Alamein, combattuta al fianco del regime nazista, reo di un inenarrabile genocidio. Si è proposto uno «scambio culturale» tra studenti e paracadutisti, con una conferenza e un vero e proprio open day presso la caserma Gamerra.

 

Tenere alta l’attenzione

Nel settembre 2022, dopo la concessione a un ente privato dell’utilizzo della palestra dell’Istituto comprensivo Fucini di Pisa per svolgere lezioni di prova di ginnastica dinamica militare, il gruppo Una città in comune del consiglio comunale ha denunciato: «Decine di persone, vestite rigorosamente allo stesso modo, che si muovono all’unisono, rispondendo a comandi volutamente urlati e violenti come qualche esercito nel secolo scorso al passo dell’oca o, per restare a pratiche a noi più familiari, a quanto veniva imposto ai preadolescenti per tutta la giornata del sabato nelle scuole italiane. L’obiettivo, neanche troppo nascosto è evidentemente una militarizzazione del sistema prima educativo e poi scolastico italiano. Allenando all’obbedienza più che ai principi sportivi».

Il collegio dei docenti dell’istituto ha così espresso il proprio dissenso, perché l’utilizzo di una palestra scolastica per quella pratica sportiva è diseducativo. Del resto anche la normativa in vigore prevede che le strutture scolastiche prestate ad attività fuori dall’orario di lezione debbano rispondere «a finalità di promozione culturale, sociale e civile», e in questa definizione non rientra quella che il collegio docenti ha definito «una ginnastica a corpo libero programmaticamente dura e vocata all’aggressività in cui vi è una conduzione dell’allenamento da parte dell’istruttore con comandi in stile militare».

Costituzione e ripudio della guerra

Perché la scuola da ente educativo diviene luogo di attività performative e di addestramento?

Perché non tenere al centro l’educazione alla cittadinanza attiva fondata sulla Costituzione e sul ripudio della guerra? Perché demandare alle Forze armate la formazione dei nostri ragazzi?

Sovviene don Milani con il suo noto «Non discuterò qui l’idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri». E «le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto». Aggiungiamoci pure la cultura, quella che libera e che restituisce la parola a chi non ce l’ha. Perché la parola libera. Sempre. Libera i sogni, dà ai giovani le ali per costruire una comunità umana nuova, solidale, fraterna, equa.

Rosa Siciliano
direttore editoriale di «Mosaico di Pace»


L’Appello dell’Osservatorio

Di fronte al costante incremento delle spese militari e della circolazione di armi in un contesto internazionale nel quale la guerra nucleare si profila purtroppo come possibile nefasto orizzonte, ci prefiggiamo da oggi una decisa e costante attività di denuncia di quel processo di militarizzazione delle nostre istituzioni scolastiche già in atto da molto, troppo tempo.

Le scuole stanno sempre più diventando terreno di conquista di una ideologia bellicista e di controllo securitario che si fa spazio attraverso l’intervento diretto delle forze armate (in particolare italiane e statunitensi) declinato in una miriade di iniziative tese a promuovere la carriera militare in Italia e all’estero, e a presentare le forze armate e le forze di sicurezza come risolutive di problematiche della società civile.

Questa invasione di campo vede come protagonisti rappresentanti delle forze militari addirittura in qualità di «docenti» che tengono lezioni su vari argomenti (dall’inglese affidato a personale Nato a tematiche inerenti la legalità e la Costituzione) e arriva a coinvolgere persino i percorsi di alternanza scuola-lavoro (Pcto) attraverso l’organizzazione di visite a basi militari o caserme. Il tutto suffragato da protocolli di intesa firmati da rappresentanti dell’Esercito con il ministero dell’Istruzione, gli Uffici scolastici regionali e provinciali e le singole scuole.

Riteniamo molto grave che tali attività vengano presentate mascherando quella che è la vera natura della forza militare, nel tentativo di creare consenso attraverso un utilizzo improprio e fuorviante di valori quali «coraggio», «orgoglio» e «forza» o di idee astratte quali «difesa della patria» e «missioni di pace».

È oltremodo preoccupante il livello di collaborazione che molti atenei italiani intrattengono con l’industria bellica attraverso cospicui finanziamenti alla ricerca o la sottoscrizione di protocolli tra università pubbliche e forze armate. L’intreccio è talmente forte che nel comitato scientifico della fondazione di Leonardo Medor troviamo ben sedici rettori delle università italiane.

Il ruolo che la scuola riveste non è in alcun modo compatibile con l’ideologia brutale che sta alla base di ogni guerra: questo processo di militarizzazione promuove pratiche antitetiche a qualsiasi effettivo e sano processo educativo.

«Smilitarizzare» le scuole e l’educazione vuol dire rendere gli spazi scolastici veri luoghi di pace e di accoglienza, opporsi al razzismo e al sessismo di cui sono portatori i linguaggi e le pratiche belliche, allontanare dai processi educativi le derive nazionaliste, i modelli di forza e di violenza, l’irrazionale paura di un «nemico» (interno ed esterno ai confini nazionali) creato ad hoc come capro espiatorio. «Smilitarizzare» la scuola vuol dire restituirle il ruolo sociale previsto dalla Costituzione italiana. Crediamo nel ruolo fondamentale della scuola come laboratorio dove costruire insieme a bambine/i e ragazze/i una società di pace e di diritti per tutte/i, e pertanto chiediamo a dirigenti scolastici, insegnanti, educatori/educatrici, studenti/esse, intellettuali, cittadine/i di aderire all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole firmando questo appello e dichiarando la propria scuola luogo di pace, accoglienza e rispetto.

Chiediamo anche di farsi parte attiva nella denuncia che porteremo avanti, territorio per territorio, di ogni intervento nelle scuole da parte delle forze militari e di sicurezza e di ogni uso improprio delle strutture scolastiche. Chiediamo di partecipare a un’azione coerente di informazione e di mobilitazione per estromettere la cultura della guerra dal mondo della scuola.

Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole

 

Sito: https://osservatorionomilscuola.com/

Per sottoscrivere l’appello e aderire all’Ocms:

Adesioni e Contatti

Per contattare l’Osservatorio, segnalare la presenza nelle scuole di forze armate, comunicare iniziative di contrasto alla militarizzazione, scrivere a osservatorionomili@gmail.com

Il 9 marzo 2023 è stato presentato presso la sala stampa della Camera dei deputati il primo dossier dell’Osservatorio, scaricabile in pdf dal sito.




Perderci e ritrovarci


Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa.

Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21).

Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.

Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.

Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.

Mi sono perso in me, allora, e non ti ho più riconosciuto. A chi mi domandava se fossi tuo amico, rispondevo di no. E non mentivo: davvero ti guardavo nel cortile di Anna e stentavo a dire di te che tu mi amavi e che io ti amavo.

Ti ho perso mentre venivi innalzato e io rifiutavo di vederti così lontano, diverso, distinto da me, così altro. Totalmente te.

Mi avevi chiamato a una prossimità intima. Ora mi chiamavi a un distacco, a una distanza che ti rivelava per ciò che sei, che mi svelava per ciò che sono.

Una distanza ancora più intima che suggerisce quanto non sia automatico, necessario o inesorabile che io e te ci amiamo.

Una trascendenza che ci chiede di sceglierci. Di nuovo. Ancora.

Lo capisco ora, masticando questo pesce arrostito.

Meraviglia!

Mentre tu sei totalmente tu e io sono totalmente io, mi chiedi se ti scelgo, mi dici che mi scegli. «Pasci le mie pecore» e, come il primo giorno, «seguimi», perché mi prendi con te e dove tu sei sarò anche io.

Buon mese missionario, in intima prossimità e alterità con Lui, da amico

Luca Lorusso

 




Argentina, contro le diseguaglianze

 


Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.

Il 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda@.

A queste elezioni, l’Argentina è arrivata con un risultato a sorpresa dalle primarie del 13 agosto scorso che hanno visto affermarsi il candidato di Libertad Avanza, Javier Milei, con il 30% dei voti, pari a oltre 7 milioni di preferenze sui 34,4 milioni di aventi diritto. Milei è un politico ed economista che sostiene ricette economiche ispirate al liberismo radicale: ha dichiarato di voler eliminare la banca centrale argentina e abbandonare il peso per introdurre il dollaro americano. È contrario all’aborto, favorevole alla vendita di organi e alla diffusione delle armi, dice che sopprimerebbe l’istruzione obbligatoria e gran parte della sanità pubblica e definisce il riscaldamento globale «un’altra menzogna del socialismo».

Secondo il giornalista e scrittore Martín Caparrós@ c’è una lezione da trarre dalla vittoria di Milei, e cioè che milioni di argentini si sentono esclusi dal sistema democratico instaurato nel paese 40 anni fa e cercano disperatamente qualcuno che dia loro uno spazio. Gli elettori di Milei, continua Caparrós, «non cercano una critica razionale, un tentativo di cambiamento, un progetto; vogliono qualcuno che gridi che sta per saltare in aria tutto».

Lo scrittore azzarda una previsione: le elezioni porteranno a un ballottaggio tra una candidata di destra, Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza del governo di Mauricio Macri (in carica dal 2015 al 2019), e un candidato di estrema destra, Milei, appunto. «Uniti dal rifiuto verso la falsa sinistra che governa, dall’intenzione di usare il “pugno di ferro” con criminali e manifestanti e, soprattutto, dal loro antistatalismo. Qui sta il nocciolo della questione», secondo Caparrós.

Dopo il risultato delle primarie, il peso si era svalutato di 18,3 punti percentuali rispetto al dollaro americano, passando da 298,5 pesos per un dollaro del venerdì 11 agosto ai 365,5 del lunedì successivo. Secondo diversi economisti, la ricaduta sui prezzi di questa svalutazione è stata praticamente immediata e, riportava ad agosto il quotidiano Clarín, le banche e le società di consulenza hanno corretto al rialzo le stime dell’inflazione su base annua, collocandola in un intervallo compreso tra il 180 e il 190%@.

La presenza Imc

«In questo momento i missionari sono preoccupati per la crisi economica del Paese», scriveva lo scorso agosto padre Marcos Sang Hun Im, sacerdote di origine coreana e superiore dei Missionari della Consolata in Argentina. «Poiché le nostre presenze sono nelle periferie urbane, succede spesso di incontrare situazioni estreme, che offendono l’umanità. Attraverso la Caritas o altri gruppi parrocchiali aiutiamo chi ha bisogno, ma non riusciamo a raggiungere tutti».

La presenza della Consolata in Argentina, racconta padre Marcos, comincia nell’Ottocento con i migranti piemontesi che arrivavano qui portando con loro la propria cultura e la devozione alla loro Madonna, la Consolata. Secondo gli archivi dell’istituto, il fondatore Giuseppe Allamano inviava la rivista Missioni Consolata ai suoi compaesani in Argentina. Fu poi negli anni Quaranta del Novecento che la presenza dei missionari divenne stabile con lo scopo di accompagnare i piemontesi nella loro fede e raccogliere donazioni per le altre missioni.

«Essere presenti e accompagnare è ancora oggi il carattere principale della nostra missione qui, soprattutto nelle periferie urbane e nelle situazioni di emarginazione. In qualche parrocchia i missionari hanno cominciato a seguire persone affette da dipendenze, un problema che tutte le presenze rilevano.

Negli ultimi anni, inoltre, c’è stato un aumento dei suicidi, soprattutto tra i giovani, e le comunità parrocchiali stanno cominciando a organizzare attività di contrasto coordinandosi con professionisti della prevenzione».

Tre poli di presenza

Le presenze in Argentina, spiega il superiore, si dividono in tre nuclei collocati nella capitale Buenos Aires, nella regione di Cuyo e nel Nord.

A Buenos Aires ci sono due comunità: la casa regionale, che si trova in città, e la parrocchia di Santo Cura Brochero, nell’area metropolitana della capitale e già sul territorio della diocesi di Merlo-Moreno.

Mentre la prima comunità ha funzioni organizzative e di accoglienza, compresa l’assistenza ai missionari anziani, la seconda si trova in una periferia con una forte presenza di migranti boliviani e paraguaiani e ospita il Caf, cioè la comunità di formazione per nuovi missionari, affinché il percorso formativo «non si limiti agli studi teologici ma si estenda all’esperienza vissuta con la gente del quartiere» che affronta ogni giorno le difficoltà tipiche di una periferia come la violenza, le dipendenze, la povertà.

Al Nord si trovano due comunità, quella di Alto Comedero, «zona molto popolata e dalla cultura e religiosità andina», e quella di Yuto, zona rurale e con popolazione di creoli e indigeni. In quest’ultima zona, Missioni Consolata onlus, grazie all’aiuto di diversi donatori, nel quinquennio scorso ha sostenuto  una serie di interventi: la risposta all’emergenza abitativa di nove famiglie, per le quali è stato possibile costruire altrettante case in legno, e il sostegno a giovani madri del popolo Guaraní a El Bananal@. Infine, il nucleo nella regione del Cuyo, nella parte centro occidentale del Paese, conta due comunità, una a Mendoza – nella zona di Las Heras, nota per l’insicurezza e la violenza – e una a La Bebida@, ultima cittadina suburbana di San Juan, circa 170 chilometri più a nord di Mendoza.

Terra e acqua pulita per gli Huarpe

Proprio a Mendoza, che con oltre un milione di abitanti è la provincia più popolosa della regione del Cuyo, lavora oggi padre Giuseppe Auletta, originario della provincia di Matera, uno dei missionari più impegnati ed esperti nella difesa dei diritti dei popoli indigeni@. Padre José ha passato 17 anni di lavoro con il popolo Tobas, nella regione nordorientale del Chaco, 13 anni a Oran a fianco dei popoli Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri, a nord ovest. Oggi sta ora lavorando con undici comunità del popolo Huarpe nel territorio del cosiddetto Secano lavallino, un’area di 780 chilometri quadrati nella zona delle lagune di Huanacache.

Padre José con leader indigeno con il cappello con la banda rosso: un rappresentante indigeno di Mendoza per una manifestazione contro una decisione del governo provinciale che non riconosce la preesistenza del popolo Mapuche in Argentina.

La prima delle lotte portate avanti dagli Huarpe riguarda il diritto alla terra: dall’agosto del 2001, la legge provinciale 6.920 riconosce la preesistenza@ etnica e culturale del popolo Huarpe, che viveva nel territorio di Huanacache già molti secoli prima dell’arrivo dei colonizzatori europei nelle Americhe, e sancisce il suo diritto a ottenere il titolo di proprietà comunitaria su quella terra. Ma la legge non è mai stata davvero applicata.

Vi è poi una lotta che riguarda l’ambiente e in particolare la disponibilità di acqua pulita: «Un tempo», racconta padre Auletta, «quello di Huanacache era un sistema idrologico composto da 25 lagune ed estensioni lacustri comunicanti, con molte isole, circondate da terra fertile su un’area di circa 2.500 chilometri quadrati. Dalla fine del XIX secolo, l’uso esagerato delle acque dei fiumi Mendoza e San Juan, la costruzione di dighe e le politiche discriminatorie hanno gradualmente prosciugato le lagune, che riappaiono solo in epoche di grandi disgeli che aumentano la portata dei fiumi».

L’irrigazione destinata alle grandi coltivazioni (vigneti, orticoltura e frutteti) e lo sfruttamento minerario, sottolinea il rappresentante di una delle comunità, Ramón Tello, contaminano le falde acquifere.

Esiste un acquedotto che serve 5.500 persone, ma la sua acqua non è adatta per il consumo umano. Le percentuali di arsenico, boro, manganese e altri metalli pesanti rilevate nell’acqua, infatti, espongono chi la consuma a gravi rischi per la salute. Ecco perché, spiega padre Giuseppe, si sta lavorando alla formulazione di un progetto per l’installazione di un depuratore a osmosi inversa@ che permetta a queste comunità di disporre di acqua pulita.

Anche la narrazione dei luoghi, e gli sforzi per correggerla, fanno parte del lavoro di difesa dei diritti dei popoli indigeni: «Per molti, a cominciare dai decisori che determinano le politiche pubbliche, questa terra è solo “deserto”: luogo senza vita, dove non c’è nessuno, privo di risorse e di utilità, dotato di valore solo per chi si occupa di speculazioni finanziarie legate alla compravendita di terreni. Ma per il popolo Huarpe questa è la terra ancestrale, il luogo dove si svolge la vita quotidiana, la sorgente della sua cosmogonia, e si chiama il “campo”», scrive padre Auletta.

La Bebida, periferia da nutrire e curare

San Juan è la seconda città della regione del Cuyo per numero di abitanti: circa 818mila secondo il censimento 2022. Qui, Javier Milei ha ottenuto il 34,17% dei voti alle primarie, quattro punti in più del suo dato nazionale.

I Missionari della Consolata sono presenti a La Bebida, un quartiere nella zona occidentale della città, nella parrocchia di Nuestra Señora del Rosario di Andacollo.

«È una parrocchia di periferia», spiega padre Daniel Bertea, missionario della Consolata originario della provincia di Córdoba, nella parte centro settentrionale dell’Argentina. «Una parte della popolazione vive lì da tanti anni, ma molte persone sono arrivate da altre zone periferiche di San Juan. All’inizio, chi arrivava si costruiva case di mattoni in argilla, poi il governo ha iniziato a costruire case popolari, in parte per eliminare gli insediamenti spontanei, in parte per risolvere le emergenze abitative, anche in risposta agli effetti dei terremoti, dal momento che questa è zona sismica».

La popolazione totale è di circa 30mila abitanti, per la maggior parte bambini e adolescenti, giovani coppie. Le attività economiche prevalenti sono stagionali, legate alla raccolta dell’uva, delle olive, dei pomodori. Molte persone lavorano nelle fornaci di mattoni, nell’edilizia, alcuni trovano impieghi nel settore minerario e altri hanno piccole attività in proprio, come forni o piccoli ristoranti.

«Con una popolazione proveniente da luoghi diversi e arrivate nella zona nel corso di molti anni è più difficile creare un senso di appartenenza, dove tutti si sentano parte di una stessa comunità che si interessa di loro».

A La Bebida il problema dei suicidi è particolarmente grave: nel 2022, 15 giovani si sono tolti la vita. Sono numeri elevati, se si considera che il più recente dato nazionale ufficiale disponibile@ era di 8,7 suicidi per 100mila abitanti nel 2021 e che il dato complessivo per San Juan arrivava a 10 ogni 100mila.

«Quello della salute mentale è certamente uno degli ambiti su cui vorremmo concentrarci nei prossimi mesi, collaborando con esperti del settore – psicologi, psichiatri, istituzioni sanitarie – che possano aiutarci a formulare interventi adeguati».

Altre iniziative che padre Daniel ha in mente per rispondere ai bisogni dei giovani di La Bebida riguardano il sostegno economico e l’orientamento per una decina di studenti, universitari o frequentanti scuole professionali, e l’aiuto a circa trenta giovani donne o adolescenti, incinte o già madri, spesso sole, che hanno difficoltà sia economiche che psicologiche nell’affrontare la gravidanza o la maternità.

Quanto ai bambini, l’idea sarebbe quella di portare avanti il lavoro dei cosiddetti merenderos, cioè gli spazi che forniscono assistenza alimentare gratuita a persone vulnerabili. «Spesso questi bambini hanno una dieta inadeguata, che non genera malnutrizione vera e propria ma comunque pregiudica il loro sviluppo. Per questo vorremmo continuare a sostenere i merenderos che già aiutiamo presso altre strutture e, in prospettiva, valutare l’avvio di uno nostro».

Chiara Giovetti

Immagini da La Bebida

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I capitoli generali della famiglia Consolata, in un cambiamento d’epoca


Indice


Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.

Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi.

Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.

In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori.

Ma.Bel.

Padre Stefano Camerlengo, superiore uscente, con il neo eletto superiore generale Imc, padre James Bhola Lengarin


Essere fuoco che accende

Il nuovo superiore generale dei Missionari della Consolata.

Padre James Lengarin è nato a Maralal, in Kenya. È il nono successore di Giuseppe Allamano. Forte di un’esperienza come formatore in Italia e nel suo paese, negli ultimi sei anni è stato vice di padre Stefano Camerlengo, generale per due mandati. Abbiamo raccolto le sue prime impressioni.

Decimo superiore generale dei Missionari della Consolata, eletto il 14 giugno scorso, padre James Bhola Lengarin è nato nel 1971 a Maralal (Kenya). È il primo generale di origine africana.

Padre James, lei è stato per sei anni vice superiore generale. Che cosa si porta dietro da questa esperienza?

«Quando entriamo nell’istituto pensiamo di conoscerlo, però in questi sei anni ho visto davvero la realtà dell’Imc, visitando tantissime missioni, in diversi paesi. Ho constatato che in ogni paese la missione ha il suo approccio. Ho incontrato tanti missionari che non conoscevo. Ci si incontra con le persone, si scambiano le impressioni e le esperienze, e questo ci fa innamorare ancora di più del carisma. Come diceva Giuseppe Allamano, lo spirito di famiglia è una cosa reale e concreta. Si condivide, si pensa, si sogna insieme.

Anche l’incontro con i popoli che accolgono i miei confratelli è stato importante. Lavorano e pregano con loro, iniziano a prendersi delle responsabilità nella chiesa, e sono stimolati a conoscere la nostra famiglia missionaria. E questo ti fa innamorare del genere umano».

Viviamo in un cambiamento di epoca. Quali sono le novità principali decise nel capitolo per affrontare i prossimi anni?

«Ci sono cambiamenti a tutti i livelli. Abbiamo fatto un’analisi delle sfide del mondo di oggi, sia quello esterno che quello interno all’istituto. Abbiamo deciso che è importante accettare di rinnovarci, e per farlo occorre una formazione continua. È una dimensione che ognuno di noi deve avere e che tocca tutto l’arco della vita. La formazione ci serve per non vivere di rendita. È come una rinascita che possiamo vivere anche andando a cercare nel nostro carisma delle novità. Il carisma è sempre lo stesso, ma il modo di applicarlo e viverlo deve essere diverso a seconda dei tempi e delle generazioni.

Un altro aspetto che ci fa riflettere è quello dei cambiamenti di vocazione: ci sono alcuni missionari che escono dall’istituto: possiamo imparare dalle loro motivazioni, e capire cosa non sta funzionando. Le nostre costituzioni sono attuali per questi tempi o c’è qualcosa da cambiare?

Nel 2026 saranno cento anni dalla morte del nostro fondatore. Al capitolo ci siamo detti che oltre a celebrare, dobbiamo riflettere e rispondere a delle domande: chi era questo papà? Cosa ci dice oggi? Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo fatto bene, cosa resta da fare?

Quale può essere il ruolo dei laici nel futuro dell’istituto?

«Abbiamo riflettuto sul coinvolgimento dei laici nella nostra vita quotidiana. Ne parliamo solo come appendice o sono parte integrante del nostro istituto? Sono la terza pietra (missionari, missionarie e laici), facendo riferimento al focolare tradizionale africano? Abbiamo analizzato quali sono le problematiche che emergono a vivere con loro.

Abbiamo previsto di fare un incontro internazionale dei laici, nel quale si parlerà delle esperienze che abbiamo avuto e di come valorizzarle e, in condivisione con loro, si rifletterà su come dare un’identità chiara e ufficiale ai laici della Consolata. Porteremo avanti questo processo nei prossimi sei anni.

Penso anche alla componente Imc rappresentata dai fratelli missionari della Consolata. La loro importanza e il fatto che oggi sono solo trentuno è un richiamo per noi a essere più attenti a promuovere la loro vocazione».

E quale collaborazione con le missionarie?

«Attualmente ci sono due incontri all’anno tra le direzioni generali per organizzare alcune attività da svolgere insieme. Ad esempio, alcuni momenti di condivisione sul nostro comune carisma. Poi è un fatto che la loro presenza è diminuita dove siamo attivi noi e viceversa.

Al di là di questo, si è parlato anche della necessaria collaborazione con altre congregazioni religiose. Importante in questo mondo che cambia».

Come vede la missione in Europa?

«In Europa è cambiata la nostra missione. Il continente è stato la terra di animazione missionaria e vocazionale, fin dall’inizio. Si presentava la missione al popolo, anche per ottenere aiuti spirituali e materiali. Adesso l’Europa è diventata terra di missione ad gentes. Anche la rivista è cambiata: parlava del mondo della missione alle persone in Italia. Ora di cosa parlate? Anche della missione qui. Inoltre il mondo è cambiato e ha bisogno di altri modi di comunicare, messaggi veloci e corti.

Un altro grande cambiamento è l’attenzione a non avere più strutture pesanti, perché non abbiamo più persone che le riempiono».

Ci dica, secondo lei, qual è un punto di forza e uno di debolezza dei Missionari della Consolata oggi.

«Come punto di forza direi che abbiamo un istituto stabile, che rispecchia quello che il fondatore voleva che fosse.

Dal 1960 siamo rimasti in modo costante a circa 900 missionari.

È forte perché, oltre agli anziani, abbiamo più del 50% che sono giovani. Infatti, i confratelli di origine africana sono 520, e sono in maggioranza giovani. È dal 1970 che si sono iniziate a cercare vocazioni in Africa, e c’è stato un boom. Abbiamo, inoltre, una grande diversità culturale. Dall’età di 22 anni, i nostri giovani nelle comunità formative stanno insieme ad altri giovani provenienti da tutto il mondo. L’interculturalità è un valore importante nella nostra società.

Come punto di debolezza, invece, direi l’accompagnamento dei missionari. Negli anni passati essi erano formati in Italia e conoscevano bene carisma e gli insegnamenti del fondatore, e dunque li trasmettevano bene a noi studenti africani. In seguito, la formazione è stata presa in mano da confratelli di altre culture, ed è mancato qualcosa nel passaggio delle conoscenze. Dal 2011 anche la leadership è cambiata, i primi africani hanno cominciato ad essere superiori regionali o delegati, e anche in questo forse è venuto a mancare qualcosa dello stile originario.

Un altro aspetto che vedo è questo: siamo in tante missioni che non sono più di ad gentes. Abbiamo presenze belle, di accompagnamento delle persone nella vita quotidiana, ma nel nostro carisma parliamo di andare verso i non cristiani. Dobbiamo allora definire bene cos’è l’ad gentes per noi. Prima si sapeva bene dove erano i non cristiani.

Le sfide che il mondo ci propone possono diventare opportunità per dei missionari che sognano e che offrono la loro vita per dare una risposta giusta».

Si aspettava di essere eletto superiore generale?

«Non ero pronto a questo. La prima cosa che ho fatto è stata cinque minuti di silenzio ma anche di pianto. Mi sono trovato in difficoltà quando mi hanno chiesto se avrei accettato.

Mi sono detto, faccio la mia parte, non sono da solo, ci sono i confratelli. Niente è impossibile, ci vuole il tempo affinché l’impossibile diventi possibile.

Io vengo da una etnia che non ha un re, ma ha capifamiglia che formano un consiglio degli anziani.

Secondo me per tutte le cose è necessario coinvolgere gli altri missionari nelle loro responsabilità, così tutti i membri dell’istituto partecipano con la loro vita e diventiamo un fuoco che accende gli altri fuochi (Lc 2,49)».

Marco Bello


Un’esperienza che ti cambia

Il XIV capitolo generale dei missionari della consolata

Innanzitutto, un richiamo alla memoria della storia, poi l’ascolto della presenza nei quattro continenti, una riflessione sul futuro, infine l’elezione della nuova direzione generale. Il tutto passando attraverso due giorni di riunione di «famiglia» con le sorelle e i laici. Il racconto di un giovane padre capitolare.

Dal 22 maggio al 24 giugno scorsi, come Missionari della Consolata ci siamo riuniti a Roma per il nostro quattordicesimo capitolo generale.

Già prima di arrivare in casa generalizia sentivamo di avere ricevuto una grazia a partecipare a un evento speciale, che, in qualche modo, avrebbe dato un orientamento al futuro del nostro istituto. Grati per la fiducia riposta in noi da coloro che ci avevano indicati come delegati per quest’importante assemblea, percepivamo anche la responsabilità del lavoro che ci accingevamo a compiere.

Uno dei primi atti del capitolo è stato la firma, da parte di ogni missionario, della dichiarazione con la quale ci si impegnava a far sì che ogni intervento, decisione e azione fossero orientati unicamente al bene dell’istituto.

Il pensiero andava ai capitoli precedenti, a partire da quello del 1922 nel quale, per la prima volta, dodici missionari si erano riuniti per eleggere il superiore generale. Undici voti erano per per Giuseppe Allamano e uno per Filippo Perlo. Il Fondatore aveva replicato: «Non è possibile, bisogna rifare, io sono ormai anziano e ci vuole un giovane per guidare l’istituto», ma padre Tommaso Gays era intervenuto: «Padre, possiamo ripetere quante volte vogliamo la votazione, il risultato non cambierà». Tali e tanti erano l’affetto, la stima, la riconoscenza dei missionari nei confronti del Fondatore che rieleggerlo come superiore generale era qualcosa di naturale e prorompente.

Il capitolo del 1969 fu uno dei più significativi di tutta la nostra storia, perché aveva il non facile compito di ripensare la missione a partire dai documenti e dallo spirito del Concilio Vaticano II. La realtà e la responsabilità del «popolo di Dio» diventavano sempre più importanti e suggerivano nuovi cammini di inculturazione e di vicinanza ai percorsi di lotta per l’indipendenza, sia civile che religiosa, che molti Paesi avevano appena compiuto o si trovavano ad affrontare.

A confronto con la storia

Di fronte alla grandezza dei missionari che ci hanno preceduto, a confronto con le loro iniziative e realizzazioni, veniva da pensare: «Chi siamo noi?». Ci siamo fatti coraggio sentendo che, da un lato, provenivamo da una storia di dedizione e di amore ai popoli e alla missione e che, dall’altro, il tratto di cammino che ci trovavamo a percorrere era affidato proprio a noi, con i nostri limiti e talenti.

Il momento attuale è infatti di grande delicatezza e importanza, dato che, come ricorda papa Francesco, non ci troviamo tanto di fronte a un’epoca di cambiamento, quanto a un cambiamento d’epoca. Le sfide sono numerose e impegnative, ma dalla capacità di affrontarle e di trovare una qualche soluzione dipende niente meno che la sopravvivenza della nostra specie sulla faccia della Terra. Noi capitolari sentivamo quindi più che mai necessario dare il meglio di noi, nella fraternità e semplicità.

La straordinarietà del momento era percepibile anche dai tanti messaggi di vicinanza, affetto e preghiera che provenivano dai missionari e dalle missionarie, dai laici, dagli amici, persino dal papa. Il clima tra di noi è stato subito d’intesa e di gioiosa collaborazione, per cui le paure di contrasti, difficoltà, momenti di stallo, sono presto svanite. I capitolari rappresentano in qualche modo l’intero istituto ed era dunque naturale che la maggioranza avesse origine africana. Nei momenti di preghiera, durante il canto, si sentiva la forza delle tradizioni che hanno sempre dato importanza alla musica e al canto corale, fatto di varie voci che, con potenza, si fondono in armonia.

In ascolto

I primi giorni del capitolo sono stati dedicati all’ascolto delle sfide del mondo, tramite l’intervento di alcuni esperti, e della nostra realtà d’istituto, attraverso le relazioni dei superiori e degli amministratori. Un capitolo dovrebbe aiutare a capire come rispondere alle esigenze che emergono dalla realtà sociale contemporanea e provare a dare alcune risposte ai problemi e alle difficoltà che l’istituto si trova ad affrontare.

Ci siamo resi conto che era necessario provare a riflettere su cosa sia l’ad gentes oggi, cioè come portare la «Buona notizia» a quelle persone e realtà che ne sono distanti. La salvaguardia del creato, la promozione di mentalità e atteggiamenti di pace, l’accoglienza della sensibilità delle donne, la vicinanza alla strada dei tanti migranti, l’ascolto dei giovani, la collaborazione con le chiese locali sono realtà in cui siamo chiamati a essere presenti e a portare una parola e un’azione capaci di costruire relazioni e condivisione.

Abbiamo trovato un istituto vivo e appassionato, che ha ancora voglia di camminare insieme ai popoli, ma qualche volta stanco, un po’ disilluso e incapace di continuare a immergersi in quegli ambienti sfidanti che costituiscono le frontiere della missione.

Accanto al desiderio di trovare nuovi stili di missione adatti all’oggi, abbiamo trovato anche nostalgia per il passato e resistenza al cambiamento, in contrasto con l’apertura alla novità caratteristica del nostro Fondatore. Lo studio della nostra storia, il ritorno al carisma, il contagio da parte della passione missionaria di tanti uomini e donne che ci hanno preceduto deve aiutarci a riprendere con rinnovato slancio la voglia di consumare la vita per costruire comunità e per aiutare altri a condurre con dignità il loro percorso esistenziale.

La multiculturalità che caratterizza l’istituto è sicuramente una ricchezza, ma necessita di cammini che trasformino «l’essere insieme» in un desiderio di collaborazione, di accettazione e valorizzazione delle diversità, di un impegno a vivere e lavorare in cordata. Siamo, infatti, chiamati a costruire un istituto che sia un vero riflesso del Regno di Dio, dove genti di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9) possano vivere e lavorare in armonia e fratellanza.

La Parola

Il testo biblico che ci ha ispirati durante i lavori capitolari è stato l’incontro di Filippo con l’Etiope funzionario della regina Candace (At 8,26-40).  «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”».

Filippo non inizia a predicare, prima di tutto si fa compagno di viaggio e si mette in ascolto, poi fa una domanda e di conseguenza è invitato a salire sul carro e a spiegare il passo.

Ogni testo della Scrittura diventa significativo quando incontra la nostra realtà, quando lo sentiamo valido e vitale per la nostra condizione attuale. La domanda dell’Etiope mira proprio a questo: il testo biblico parla di un servo sofferente che è stato umiliato, ma al quale è promessa una grande discendenza, e anche l’Etiope, reso eunuco da chi l’ha voluto al servizio della regina Candace, vorrebbe con tutto se stesso essere fecondo, poter avere in qualche modo una discendenza. Filippo, parlandogli di Gesù, gli annuncia una speranza.

E noi? Riusciamo come singoli e come comunità a lasciarci plasmare dalla Scrittura e a «raccontarla» in modo che sia significativa per chi l’ascolta? «L’episodio dell’annuncio di Filippo all’eunuco ci incoraggia ad un cambiamento di direzione: dall’attesa all’uscita che porta ad ascoltare, a correre, a servire, a stare lungo la strada sporcandosi le mani e camminando con le persone. Anche noi siamo chiamati a essere Chiesa in uscita, a “sederci accanto”, ad accompagnare e poi a lasciar andare perché il Vangelo genera libertà».

Incontro introduttivo per ambientare i capitolari alla strumentazione per il capitolo

Family workshop

Uno dei momenti più intensi di tutto il percorso capitolare è stato senza dubbio il fine settimana insieme alle suore e agli altri missionari, missionarie e laici collegati online. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi professori alla Cattolica di Milano, ci hanno presentato alcune riflessioni sugli atteggiamenti missionari più importanti per raggiungere i giovani che desiderano una Chiesa più aperta, autentica e accogliente; il cardinale Luis Antonio Tagle ci ha offerto un intervento appassionato e ricco di esperienze personali suggerendoci di lasciar perdere le «strategie» per preferire «l’alleanza» con la Parola, ma anche con le persone, che quando si sentono capite, accolte e valorizzate, danno il meglio di sé. I laici hanno fatto sentire con forza la loro voce e il loro desiderio di pensare, sognare e realizzare la missione insieme a noi.

Vicinanza nella distanza dunque, ma anche incontri, sorrisi, parole scambiate con un sentimento di reale fratellanza e sorellanza e con la voglia di pensare a un cammino congiunto da portare avanti insieme ai giovani, a un coinvolgimento più profondo nel mondo del digitale, insieme al desiderio di mettersi in ascolto del grido che i popoli e il pianeta fanno sentire, per tentare di abbozzare qualche riposta.

Da qualche tempo a questa parte si è inaugurato un modo nuovo di collaborazione tra missionari, missionarie e laici, in cui ci si interroga, alla pari, su come affrontare le sfide che la realtà pone e si prova a individuare, con l’apporto delle diverse sensibilità e competenze, alcune strade percorribili.

Molto è ancora il cammino da fare, perché non sempre si è preparati a questo tipo di collaborazioni, eppure è più che mai necessario procedere insieme se si desidera ancora essere significativi nella realtà contemporanea.

 

Votazioni

Uno dei tempi più attesi e preparati di tutto il capitolo è stato senza dubbio l’elezione del superiore generale e del suo consiglio. Fin dall’inizio e ancor prima, ci si interrogava su chi sarebbe potuta essere la persona più adatta per questa importante responsabilità. I lavori di gruppo, il pellegrinaggio ad Assisi, i momenti informali, oltre alle sessioni in plenaria, sono stati occasione per conoscersi nel modo di pensare, di lavorare, di affrontare i problemi e per confrontarsi sulla scelta da fare.

Il giorno antecedente alle elezioni è stato interamente dedicato alla preghiera e al discernimento, guidati dal preposito (superiore, ndr) generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. Al termine del ritiro ci sono state le cosiddette mormorationes, momenti di dialogo a due in cui, con rispetto e realismo, ci siamo confrontati sull’opportunità di eleggere un dato missionario.

Questo capitolo ci ha riservato una sorpresa che tra l’altro era la cosa più naturale per la realtà di oggi: il primo superiore africano dell’istituto. Chissà se il Fondatore si era mai immaginato che qualcuno di coloro che avrebbero ricevuto l’annuncio, magari un pastore samburu sensibile, attento, intelligente, un giorno sarebbe diventato non solo cristiano e poi missionario e formatore, ma anche, dopo un lungo cammino, il superiore generale del suo istituto?

Alle radici

È stato significativo il viaggio a Torino che ci ha portati a contatto con la Casa Madre, con i nostri confratelli di Alpignano che, pur nell’anzianità e a volte nella sofferenza, portano nel cuore le persone, i popoli, i paesaggi in cui hanno speso i loro anni di missione e continuano ad accompagnarli con il pensiero e la preghiera. Incontrare missionari con cui si è lavorato o che sono stati di esempio per noi e stimolo nella missione è sempre un momento di grande intensità. Vederli così fragili e a volte sofferenti tocca nel profondo.

Spontanea scaturisce la riconoscenza per la loro vita spesa a servizio della missione e anche il proposito di recarsi qualche volta in più a trovarli, per farli sentire meno soli, ma anche per essere contagiati dalla passione per la missione che li ha portati fino a lì.

Il capitolo ha deciso che le famiglie dei missionari devono essere accompagnate di più, in modo particolare nei momenti di maggiore difficoltà.

Immancabile la celebrazione dell’eucarestia al Santuario della Consolata che è la culla in cui il nostro istituto è stato pensato, sognato e diretto per tanti anni da Giuseppe Allamano e dal suo fedele collaboratore Giacomo Camisassa.

Dopo un mese di lavori intensi, il capitolo è terminato. Quale sintesi? Innanzitutto è stato un tempo speciale che ci ha posti a contatto gli uni con gli altri e con le realtà più stimolanti e più problematiche della nostra famiglia consolatina e del mondo. Il documento conclusivo non propone nuove ricette missionarie, ma vuole aprire alcuni cammini che coinvolgano missionari, missionarie e laici e che ci portino ad approfondire il nostro ad gentes oggi e a pensare una formazione che prepari i giovani e poi accompagni i missionari a sentirsi in sintonia con le persone e le realtà all’interno delle quali siamo chiamati a offrire il nostro umile, ma significativo contributo.

Il sogno, che deve tramutarsi in realtà, è quello di un istituto che provi a fare di tutto per essere una comunità interculturale dove le differenze di pensiero e di stile non costituiscano occasione di divisione, ma di ricchezza, e che rinnovi la passione e l’impegno per offrire qualche proposta significativa a una realtà che, in mezzo a tante difficoltà, non smette di sentire il fascino della bellezza, anche spirituale.

Un primo frutto delle fatiche capitolari è senza dubbio l’amicizia che si è creata tra di noi e il cambiamento che la conoscenza delle realtà del nostro tempo e della nostra famiglia missionaria ci spinge a realizzare nelle nostre vite e nella
missione.

Piero Demaria

Direzione generale IMC 2023-2029 eletta il 13 giugno 2023. – SupGen: Jamaes Bhola Lengarin. ViceSuP: Michelangelo Piovano. Consiglieri: Mathews Odhiambo Owuor, Juan Pablo De los Ríos Ramírez e Erasto Colnel Mgalama


Vivere la missione in comunione

La nuova Madre generale delle Missionarie della Consolata

Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa (To). Ha fatto parte del primo gruppo che ha aperto in Mongolia nel 2003, mentre negli ultimi sei anni è stata nella direzione generale. È consapevole dei limiti del suo istituto, ma anche dei suoi punti di forza. Ci parla di carisma, di giovani e dell’importanza della «famiglia» della Consolata.

Suor Lucia Bortolomasi è nata nel 1965 a Susa, in provincia di Torino. È entrata nelle Missionarie della Consolata nel 1987 ed è partita per la missione in Mongolia nel 2003, nel primo gruppo, e vi è rimasta 14 anni. Negli ultimi sei anni è stata consigliera generale. Il 28 maggio scorso, durante il XII capitolo generale, è stata eletta superiora del suo istituto.

Suor Lucia, in un cambiamento di epoca, quale sono le nuove sfide per le Missionarie della Consolata e come affrontarle?

«Per noi il Capitolo è stato una benedizione e una grazia. Ci siamo trovate come famiglia, anche se stiamo diminuendo di numero, ma questo non ci ferma, perché abbiamo nel cuore la passione per la missione.

È stato un momento in cui abbiamo ripreso tutto il nostro cammino, abbiamo visto la presenza dell’oggi, dove siamo, come viviamo, con che stile, per proiettarci verso il futuro. C’è stata una riflessione sui tre temi: la missione, il carisma e le presenze.

Durante gli ultimi sei anni è stato elaborato il documento della Ratio missionis, approvato al capitolo. È un documento che ci ha dato una prospettiva ed è frutto di un lavoro collettivo. A partire da una bozza iniziale tutte le sorelle hanno potuto dare il loro apporto.

Il secondo tema trattava del tesoro del nostro carisma. Abbiamo discusso e approfondito su come ravvivare il carisma, datoci da Giuseppe Allamano.

Il terzo tema prevedeva il ridisegnare le presenze. In sintesi vuol dire chiudere dove c’è già la chiesa locale che può camminare, e non c’è più bisogno di una nostra presenza, e proiettarci invece su luoghi e in ambiti dove non c’è presenza di chiesa.

Durante il Capitolo abbiamo sentito un richiamo forte a vivere la grazia della piccolezza, una chimata che lo Spirito dirige a noi come istituto, oggi: un cammino che ci aiuta a non porre l’attenzione sulle nostre capacità, ma sulla fiducia in Dio. Non siamo nate per le grandi strutture o le grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a prenderci cura della persona ad ascoltarla e annunciare l’amore di Dio.

Oltre a tutto questo, in maniera trasversale, abbiamo parlato molto di comunicazione. Ormai vediamo che è un aspetto importante, è come una missione. L’ambito della comunicazione è diventato una missione ad gentes, nel quale puoi raggiungere tante persone.

Abbiamo dunque deciso di realizzare un ufficio centrale della comunicazione. Esso raccoglierà tutti i nostri sforzi in questo ambito, e sarà come una presenza nel continente del mondo digitale».

Quante siete attualmente e che prospettive avete?

«Siamo circa 500, presenti in diciotto paesi. Le giovani in formazione provengono in maggioranza dall’Africa, qualcuna dall’America Latina, in questo momento ci sono 19 novizie.

Una delle priorità dell’istituto è la cura delle sorelle anziane e malate, che dopo anni dedicati alla missione, quando le forze vengono a mancare per età o salute, continuano a servirla nella preghiera, nell’adorazione eucaristica, nell’offerta della sofferenza, unendosi più intimamente all’opera redentrice di Cristo. Un’altra priorità è quella delle giovani generazioni, due realtà che in questo momento hanno bisogno di attenzione particolare per la vitalità della nostra famiglia. Sono le radici e i germogli. Siamo un’istituto in diminuzione numerica, un piccolo gruppo di sorelle, con una grande passione per Dio e per la missione nel cuore».

Incontro tra i due capitoli generali, IMC e MdC

Come interessare il mondo dei giovani alla missione?

«Non lo so, però credo fortemente che se siamo fedeli al nostro carisma e viviamo con radicalità il Vangelo e lo testimoniamo con la nostra vita, sicuramente i giovani si porranno delle domande.

Anche durante il capitolo si è parlato del bisogno dei giovani, della loro sete di cose vere. Ci sono tante situazioni di fragilità, dove noi dobbiamo essere presenti per donare speranza».

Come vede la collaborazione tra uomini e donne della famiglia Consolata? E il ruolo dei laici?

«È un segno dei tempi, sorelle e fratelli che insieme testimoniano che è bello credere in un Dio che ama. Questo richiede rispetto e un grande desiderio di vivere la missione come famiglia unite ai nostri missionari e ai laici. Penso che ci sia la volontà di condividere e vivere la missione assieme. Un esempio è la Mongolia, un’apertura missionaria pensata e voluta dai due istituti generali, e poi vissuta insieme. La missione in Mongolia non sarebbe quello che è adesso se non fossimo stati insieme, se non avessimo, pensato, riflettuto, pregato e vissuto l’apostolato. È bello pensare a una missione vissuta in comunione e arricchita dalla presenza dei laici, di famiglie, che condividono lo stesso carisma. Il fondatore è unico, il carisma è unico, che cosa ci impedisce di sederci e riflettere per vivere la missione? La comunione sempre arricchisce.

Un’animazione missionaria fatta con femminile e maschile sarebbe una ricchezza. Più efficace. Spero che si possa andare avanti su questa strada, perché le possibilità ci sono e anche il desiderio».

La missione in Europa è diventata ad gentes?

«Per il nostro Istituto, l’Italia è la culla dove siamo nate: in Europa ci sono i luoghi della nostra spiritualità, il cuore del carisma, le radici dell’istituto. Sono luoghi sacri, un dono per tutti. Siamo chiamate a mantenerli vivi, a valorizzarne il significato.

L’Europa ci interpella anche a trovare nuove forme e stili nuovi di essere e fare missione oggi. Alcune presenze sono divenute spazi di consolazione e vicinanza per i migranti, le donne che vogliono spezzare le catene della tratta. Da poco abbiamo iniziato una presenza missionaria a Ruffano, in Puglia. Siamo in una parrocchia dove cerchiamo di sensibilizzare la Chiesa alla missione e ad avere un’attenzione particolari ai giovani e a chi ha bisogno di consolazione.

Vorrei sottolineare però che noi come Istituto, per rispondere al nostro carisma, siamo chiamate ad andare dove non c’è una presenza di Chiesa o dove ci sono popoli che ancora non hanno sentito parlare del Vangelo, di Gesù. Qui in Europa c’è una presenza di Chiesa molto valida, che può servire e donare; invece, ci sono parti del mondo che sono dimenticate, è lì il nostro posto».

Marco Bello

Grupo della capitolari MdC


Il fuoco della missione

Reportage dal capitolo delle missionarie della consolata

Ventotto sorelle dai quattro continenti si sono riunite per un mese nella casa di Nepi (Viterbo). Hanno analizzato la presenza dell’istituto nel mondo e riflettuto sulle sfide della missione del futuro. Dal 1910, anno della fondazione, questo è il dodicesimo capitolo generale. Il racconto di una testimone d’eccezione.

Dall’8 maggio all’8 giugno 2023 si è svolto il XII Capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata dal titolo: «Il fuoco della missione».

Un fuoco in un braciere: questa immagine viva e scoppiettante ha accompagnato la preghiera iniziale della nostra assemblea capitolare, ed è rimasta impressa nei nostri occhi e cuori durante tutto il capitolo. Nei primi giorni il tema del fuoco è stato abbordato da diverse angolature: dal punto di vista biblico e spirituale ha alimentato la nostra preghiera personale e comunitaria. Ma perché questo simbolo?

La metafora del fuoco era usata dallo stesso nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che affermava energicamente: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Fuoco come passione per Cristo e per l’umanità. E questa eredità carismatica ha letteralmente scaldato i cuori dell’incontro capitolare, che ha riaffermato la missione ad gentes come senso del nostro esistere nel mondo e nella Chiesa.

Lo spirito di corpo

Ventotto sorelle, di nove nazionalità e diverse generazioni, provenienti da quattro continenti: quello che a prima vista può sembrare un gruppo estremamente variegato, in realtà ha vissuto una profonda unione di cuore e di mente.

Lo «spirito di corpo» additato dal beato Allamano come ideale e modello di vita per la nostra famiglia missionaria, è stato percepito dalle capitolari come una realtà di corpo piccolo e unito, attorno al fuoco della missione, che è anche il fuoco del carisma. Una tale esperienza non può che essere un dono di Dio e dello Spirito Santo.

«Il capitolo è stato una benedizione – ricorda suor Getenesh, missionaria della Consolata etiope, formatrice delle giovani aspiranti missionarie in Etiopia – è stato un’esperienza bella di condivisione e di ascolto. Giunte da diversi continenti, e con esperienze molto differenti, tutte siamo arrivate a un’armonia e intesa particolari. Il capitolo è stato un’esperienza dello Spirito Vivente. Porto nel cuore tanta gratitudine a Dio, alla Consolata e al padre fondatore».

Per questo, in tutte noi sorelle, ricordando il capitolo appena vissuto, il cuore si colma di molta gratitudine e commozione.

Messa del 29 gennaio 2023, a Ulaanbaatar (Mongolia) per l’anniversario della fondazione degli istituti.

I temi del capitolo

Il capitolo è un’assemblea che si tiene ogni sei anni, nella quale si valutano i cammini realizzati e si proiettano i cammini futuri. Inoltre, si elegge la nuova direzione generale dell’istituto.

Sono stati due i grandi temi in agenda, dai quali sono scaturite le linee guida e le priorità per il sessennio che inizia: l’approvazione della Ratio missionis, documento del diritto proprio dell’istituto, e il «Tesoro del carisma», sviluppato dall’intercapitolo (assemblea di preparazione del capitolo). Alla luce di questi due temi, si è riflettuto quindi sulle nostre presenze. La redazione di una Ratio missionis era stata indicata dal precedente capitolo 2017 come uno degli impegni del sessennio. La finalità di questo documento era raccogliere la ricchezza carismatica e i cammini compiuti nel primo secolo di vita della congregazione, e pensare alle linee guida della missione nell’oggi e nel futuro. Nel 2018 si è costituita un’equipe di cinque sorelle con diverse esperienze missionarie e competenze. Confrontandosi con esperti e rileggendo il vasto materiale prodotto sul tema della missione, l’équipe ha redatto una prima bozza, che è stata mandata a tutte le sorelle e a persone esterne, competenti sul tema. Gli apporti di grande qualità giunti all’équipe sono stati integrati in una seconda bozza, che è stata presentata all’assemblea capitolare 2023.

Nella Ratio missionis sono presentati i fondamenti della missione ad gentes, a livello biblico, teologico, ecclesiale, e carismatico. Segue una riflessione sugli elementi carismatici missionari che nel tempo si sono sviluppati nell’istituto, per poi tracciare linee guida per la missione del futuro.

Si tratta di un documento importante sia nella formazione delle nuove generazioni di Missionarie della Consolata, sia nella vita di ogni comunità e nello stile di missione che vogliamo vivere e assumere. Per questo, il sessennio che inizia avrà come uno dei suoi punti centrali il processo di appropriazione di questo documento.

Nelle motivazioni date dall’Assemblea capitolare sull’importanza di questo documento, troviamo che la Ratio missionis promuove una visione e una prassi comune di missione, per una sempre più profonda unità di intenti. Aiuta ad approfondire l’oggi e il futuro della missione, e a favorire un «cambio di rotta», dove necessario.

Il tesoro del carisma

L’altro grande tema del capitolo è stato il «Tesoro del carisma», che ha coinvolto tutte le Missionarie della Consolata in un percorso di riflessione e preghiera, e che ha avuto un momento centrale e significativo nell’intercapitolo del 2022. L’assemblea avrebbe dovuto riunirsi a metà sessennio, cioè nel 2020, per vivere un approccio/immersione nel carisma a livello esperienziale, storico ed ermeneutico. La pandemia e il lockdown mondiale hanno fatto rimandare in più occasioni questo incontro, che si è tenuto infine nei mesi di febbraio e marzo 2022.

Dall’Intercapitolo sono emersi elementi fondamentali del carisma, come raggi luminosi che scaturiscono da un nucleo carismatico. Più volte nel tempo del capitolo si è fatta memoria di questo evento molto forte, sia a livello personale, sia a livello di gruppo. Per il poco tempo intercorso tra i due momenti di istituto, non si è potuto realizzare un cammino che coinvolgesse tutta la congregazione, per questo motivo il Capitolo ha indicato il sessennio entrante come il «sessennio del carisma», un tempo benedetto da Dio per continuare ad approfondire e immergersi nel dono carismatico.

Ricorrenze importanti

Naturalmente, l’appropriazione della Ratio missionis e l’immersione nel carisma non sono elementi separati, bensì dimensioni intimamente intrecciate, a cui si uniscono anniversari importanti per la famiglia consolatina: a metà del sessennio, nel 2026, ricorrono i cento anni dalla morte del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei due istituti missionari della Consolata. Sarà un tempo propizio per cammini che coinvolgano tutta la famiglia: padri, fratelli, suore, laici e laiche, identificati con il carisma donato a noi e alla Chiesa dal beato Giuseppe Allamano. D’altra parte, non si tratta di un’iniziativa estemporanea, ma fa parte di un cammino iniziato da alcuni anni, come l’ evento di Murang’a 2 (cfr. MC ottobre 2022), vissuto in tempo di quarantena nel 2022, grazie alla tecnologia odierna, a cui hanno partecipato membri della famiglia consolatina da tutto il mondo, come pure il lavoro delle commissioni congiunte sul carisma, che hanno lavorato per diversi anni sia a livello generale, che a livello continentale.

Riflessione in famiglia

Il 3 e il 4 giugno, le due assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si sono ritrovate a Roma per un momento di riflessione comune. Chiaramente si è ribadito il desiderio di cammini in comunione sia nello studio che nell’approfondimento del carisma che ci unisce. Non c’è occasione migliore per realizzarli: il centenario della morte del fondatore e (speriamo con tutto il cuore) la sua prossima canonizzazione, per la quale tutti stiamo pregando. I suggerimenti di iniziative sono numerosi, adesso spetta a ciascuno di noi trovare i modi e i tempi per realizzarli insieme.

Il carisma, la missione ad gentes: sono fuoco che arde nel cuore di ogni Missionaria della Consolata, non importa l’età, la provenienza o la missione che sta compiendo. Di questo non c’è dubbio, si percepisce forte nei momenti di condivisione e negli apporti dati da tutta la famiglia durante questi anni. Il capitolo ha riconosciuto questa vitalità, ma allo stesso tempo ha preso in mano la realtà attuale della congregazione: si tratta di una famiglia religiosa piccola e in diminuzione, dove le sorelle anziane sono numerose, ma dove fioriscono anche nuove vocazioni, specialmente nel continente africano.

I processi per ridisegnare le nostre presenze sono in corso già da molti anni, tenendo conto della realtà concreta delle comunità: nel sessennio concluso si sono costituite le Regioni Africa e America, unificando le circoscrizioni di ciascun continente, e ci siamo aperte alla missione nell’Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan, ma il cammino non è ancora terminato. La riflessione sulle nostre presenze, sul ridisegnare la geografia delle nostre comunità, è stato un tema toccato dal capitolo per un lungo tempo.

Il fuoco della missione, unito alla realtà attuale della congregazione, esigono un discernimento e scelte concrete.

Sorge nel cuore molta riconoscenza per le vite donate di tante sorelle, che adesso vivono la missione nell’offerta e consegna della loro vita e sofferenza, e sorge pure molta speranza per i «germogli» che spuntano sulla vite centenaria, che è il nostro istituto.

Continuiamo a vibrare per la chiamata della missione ad gentes. Ma come vivere questo tempo così particolare? La risposta data (o meglio, da darsi passo dopo passo) è accogliere e vivere la piccolezza.

La piccolezza: non è solo una realtà storica che stiamo vivendo oggi, è la risposta che, come famiglia religiosa, vogliamo dare e vivere in questo tempo. Una piccolezza che inizia dal cuore di ciascuna in relazione con Dio, che passa per la semplicità e l’umiltà. Una piccolezza che è uno stile di vita e di missione, dove la vicinanza alla gente e la relazione a tu per tu costituiscono il cuore dell’incontro e dell’evangelizzazione.

All’udienza con papa Francesco

Piazza San Pietro: mercoledì 7 giugno 2023. Arriviamo presto e ci mettiamo in fila, vicino al colonnato, per poter accedere ai posti riservati per l’udienza generale di papa Francesco. Si uniscono a noi anche i confratelli capitolari, e come gruppo ci presenteremo al Santo padre per un saluto. Dopo i dovuti controlli della polizia, ci rechiamo sul sagrato della basilica di San Pietro, e aspettiamo pazientemente – ma anche con molta emozione – l’arrivo del pontefice. Scorgiamo, vicino alla sedia del Papa, un’urna di legno. Alcune di noi la riconoscono: è l’urna che contiene le reliquie di Santa Teresina di Lisieux. Scopriamo che di fianco c’è anche un’altra teca, contenente i resti dei genitori di Santa Teresina, riconosciuti beati dalla Chiesa Cattolica.

Papa Francesco arriva in papamobile, saluta lungamente i pellegrini presenti in piazza, quindi, avvicinandosi alla sua postazione, si ferma alcuni istanti in preghiera. E poi inizia la sua catechesi con queste parole: «Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù bambino, patrona universale delle missioni. È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico. Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina. È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”».

Potete immaginare la nostra emozione e come queste parole sono arrivate dritte ai nostri cuori. Pura coincidenza? Non pensiamo. Il ricordo della via della piccolezza da parte del Papa è una chiara conferma dei cammini che il capitolo, in discernimento, indica a tutta la famiglia delle Missionarie della Consolata.

Una famiglia religiosa, per molti aspetti vulnerabile e fragile: la via della piccolezza è quella intuita ed intrapresa da Santa Teresina di Lisieux, e ricordata da papa Francesco nell’Udienza generale a cui abbiamo partecipato come capitolari Imc e Mc. Il Signore non solo conosce i nostri cammini, Lui li guida. E a Lui, alla Consolata e al padre Fondatore ci affidiamo per poter seguire unite, piccolo corpo, sulla strada della missione, e con il fuoco della missione dentro.

Stefania Raspo


Hanno firmato il dossier:

 Stefania Raspo, suora missionaria della Consolata dal 2001, in Bolivia dal 2013. È anche redattrice della rivista Andare alla genti. È stata eletta consigliera generale nel capitolo.

 Piero Demaria, missionario della Consolata dal 2003. Dopo aver lavorato in Mozambico e a Taiwan, si occupa ora di animazione missionaria in Italia. È stato uno dei delegati per l’Europa del XIV capitolo.

A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.

Si ringrazia Suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, per la collaborazione.

I membri del XIV capitolo generale attorno alla tomba del Beato Allamano

 




L’avidità si paga


Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

L’impronta sul calendario

L’overshoot day prende spunto dall’«impronta ecologica», l’indicatore che misura la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi. E se, d’istinto, siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici in essa sono molto più ampi.

Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla mobilia fatta di legno, agli edifici e le strade che occupano suolo, ai medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto (in apparenza) più sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare in automobile o per accendere una lampadina.

Troppo spesso dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo del motore, emettiamo anidride carbonica (CO2), un veleno di cui non ci diamo pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercelo di mezzo grazie all’attività delle piante. Ma non in maniera infinita. Sicuramente non abbastanza da poter assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dalla combustione dei 16 miliardi di litri di petrolio che consumiamo giornalmente a livello mondiale. Basti dire che per sbarazzarci della CO2 che produciamo bruciando un solo litro servono cinque metri quadrati di foresta.

A livello planetario la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre arabili, ammonta a poco più di 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità ne richiedono all’incirca 22. Un deficit di dieci miliardi di ettari che l’overshoot day rappresenta per mezzo del calendario.

Attestato che ogni giorno ci servono 58 milioni di ettari di terra fertile, l’overshoot day ci indica il giorno dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che ogni anno raggiungiamo qualche giorno prima. Nel 1987 l’overshoot day arrivò il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre, nel 2023 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intera annata. Parola dell’istituto ambientalista americano Global footprint network.

La terra disponibile e quella consumata

Come si possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto di prodotti naturali. Ma, paradossalmente, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che, da vari decenni, emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno 37 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in grado di assorbirne solo 20, un bilancio negativo annuale di 17 miliardi di tonnellate che, accumulandosi in atmosfera, fa aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima.

Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ognuno di noi ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile.

Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà, i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa: quasi il doppio della quantità disponibile.

Ma, se possibile, la realtà è ancora peggiore, perché le medie non danno mai il vero quadro della situazione.

Analizzando le elaborazioni effettuate dalla Footprint data foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale.

Peso e colpe dei paesi

Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) e India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9. Per l’Italia l’impronta è pari a 4,3: questo significa che, nel 2023, abbiamo raggiunto la data di esaurimento delle risorse con oltre due mesi d’anticipo rispetto a quella mondiale, il 15 maggio.

Invocando la responsabilità collettiva, i paesi ricchi sostengono che è compito di tutti risolvere la crisi ambientale che abbiamo provocato. I numeri ci dicono però che il problema non è stato creato da tutti, ma solo dalla parte più ricca, per cui tocca a lei porvi rimedio, accettando di ridurre la propria impronta ecologica. Non solo per una questione di sostenibilità, ma anche di equità. Perché i poveri potranno salire solo se i ricchi accettano di scendere. È la legge dei vasi comunicanti.

Come italiani, ad esempio, dobbiamo ridurre la nostra impronta di quasi due terzi per riportarla nel perimetro della sostenibilità. Per capire dove intervenire, dobbiamo analizzare come è composta, ossia per quali ragioni utilizziamo terra fertile. Se togliamo le esigenze legate al legname (11%) e all’edificazione (1%), rimangono l’alimentazione, che contribuisce per il 28%, e l’assorbimento di anidride carbonica che contribuisce per il 60%. Dunque, è principalmente su questi due ultimi fronti che dobbiamo intervenire.

Il peso del cibo (e quello della carne)

Rispetto al cibo, la sfida è l’eliminazione degli sprechi intesi sotto due profili: ciò che buttiamo per le nostre negligenze e ciò che buttiamo per i nostri cattivi stili di vita.

Secondo la Fao, ogni anno, a livello mondiale si perde il 31% della produzione agricola: per il 14% a causa delle inefficienze e il 17% a causa delle nostre disattenzioni. Le inefficienze riguardano le perdite che avvengono nelle fasi di raccolta, di stoccaggio, di trasporto e di lavorazione delle derrate agricole: prodotti perduti perché mal conservati, mal trasportati, mal lavorati. Secondo il Wwf, in Italia le inefficienze, comprendenti anche ciò che è buttato dai supermercati, provocano la perdita di 4 milioni di tonnellate di cibo all’anno. A cui va aggiunto ciò che buttiamo nelle nostre case. Dalle indagini condotte dal gruppo di ricerca Waste watcher, risulta che, ogni anno, fra le mura domestiche vengono gettati 27 chili e mezzo di cibo a testa. Dato che, riportato a livello nazionale, da qualcosa come 1,6 milioni di tonnellate di cibo gettato nella pattumiera.

In parte perché scaduto a causa del fatto che gestiamo male i nostri acquisti; in parte perché non mangiato a causa del fatto che non gradiamo consumare gli avanzi dei pasti precedenti. La conclusione è che, in Italia, il solo spreco domestico corrisponde ogni anno a un milione e mezzo di ettari di terra agricola. Ettari che potrebbero essere risparmiati con una gestione più accorta della nostra spesa, del nostro frigo, della nostra cucina. Molto altro terreno potrebbe essere risparmiato scegliendo di mangiare sobrio. Soprattutto riducendo il consumo di carne, in modo da recuperare cereali e leguminose per l’alimentazione umana diretta. Oggi, a livello mondiale, il 40% dei cereali e l’80% della soia sono dati in pasto agli animali. Se ci aggiungiamo i pascoli, scopriamo che l’allevamento animale utilizza quasi l’80% delle terre agricole mentre fornisce solo il 20% delle calorie consumate dall’intera umanità. In conclusione, secondo i calcoli effettuati da Our World in data, se l’umanità adottasse una dieta solo a base di vegetali, potrebbe utilizzare il 75% di terra agricola in meno rispetto a oggi.

Il peso della CO2

Veniamo ora all’aspetto più ingombrante dell’impronta ecologica, l’eccessiva produzione di anidride carbonica. Tutti concordano che la soluzione è la transizione energetica. Ossia il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma sulle politiche da seguire ci sono due linee di pensiero. Quella del potere costituito secondo il quale il problema è solo tecnologico e quella dei critici secondo i quali il problema è anche di misura. La parola d’ordine del pensiero dominante è cambiare tecnologia e continuare a vivere nel consumismo. La parola d’ordine dei critici è cambiare tecnologia e, al tempo stesso, ridurre i consumi. Una posizione, quest’ultima, derivante da una constatazione e una convinzione.

La constatazione che i limiti del pianeta non riguardano solo la terra fertile, ma anche l’acqua e i minerali. La convinzione che a questo mondo non esistiamo solo noi opulenti ma anche una sterminata umanità che ha diritto a vivere meglio e una vasta progenie che ha diritto a ereditare una terra vivibile.

Due diritti che possono essere garantiti solo se gli opulenti smettono di dedicarsi al saccheggio in un pianeta dai contorni molto fragili.

Le strade da intraprendere

Di qui la necessità di passare non solo dai fossili alle rinnovabili, ma anche dallo spreco alla sobrietà. Obiettivo che si raggiunge in parte convertendosi al riciclo e al recupero, ma anche limitando i nostri consumi e cambiando modo di soddisfare i bisogni.

Parlando di mobilità, ad esempio, se da una parte dovremo accettare di muoverci di meno con andatura più lenta, dall’altra dovremo rinunciare al mezzo privato, anche se elettrico, e sviluppare al contrario una forte rete di mezzi pubblici.

Fino ad ora la discussione è stata fra sviluppo sostenibile e insostenibile e ne abbiamo fatto solo una questione di tecnologia. Ma la vera scelta è fra sviluppo egoistico e sviluppo altruistico ed è anche una questione di quantità.

Francesco Gesualdi