5 per mille 2022, più firme e più esclusi


Nel 2022, 16,5 milioni di contribuenti hanno destinato il loro 5 per mille generando un totale di 510 milioni di euro da distribuire fra enti di interesse sociale e comuni. Ci sono stati tanti esclusi, oltre 8mila, e secondo alcuni osservatori c’entrano gli effetti e i ritardi legati alla riforma del Terzo settore.

Si conclude con il mese di novembre il periodo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi e, quindi, per la destinazione del 5 per mille, la quota di imposta Irpef che ogni contribuente ha facoltà di donare a enti che svolgono attività di interesse sociale o alle attività sociali del proprio comune di residenza.

Nel 2022, su un totale di 41,5 milioni di contribuenti in Italia, a destinare il proprio 5 per mille sono stati 16,5 milioni, circa il 40%. Benché le firme siano 193mila in più rispetto all’anno precedente, le persone che non donano ad alcun ente restano comunque sei su dieci. Le quote non assegnate rimangono a disposizione dello Stato, che le riceve con le imposte ma non deve poi distribuirle agli enti o ai comuni.

Il totale distribuito, riportava il comunicato stampa@ dell’Agenzia delle entrate lo scorso giugno, sarà intorno ai 510 milioni di euro: 324 milioni, cioè il 64%, andranno agli Enti del terzo settore e alle Onlus, quasi 81 milioni alla ricerca sanitaria, 68 milioni a quella scientifica. I comuni riceveranno 16 milioni di euro, le associazioni sportive dilettantistiche 17,4 milioni, gli enti per la tutela dei beni culturali e paesaggistici 2,3 milioni e gli enti gestori delle aree protette 814mila euro.

Il valore medio del contributo, riportava Sara De Carli sul periodico Vita.it lo scorso giugno, è di 31,69 euro@. A che reddito corrisponde questa quota di 5 per mille? I conti in realtà non sono semplici, perché nel determinare l’imposta netta Irpef (su cui si calcola il valore della donazione) concorrono diversi fattori, ad esempio le detrazioni a cui il contribuente ha diritto. Tuttavia, alcune organizzazioni, anche per invogliare le persone a donare aiutandole a farsi un’idea di che cosa sarà possibile fare con il loro contributo, hanno messo sui loro siti schemi o calcolatori automatici, specificando che si tratta comunque di approssimazioni. Usando il calcolatore automatico di Fondazione Airc@, ad esempio, una quota di 31,69 euro corrisponde a un reddito da lavoro dipendente pari a 25.700 euro. Nello schema proposto da Medici senza frontiere@, un reddito di 28mila lordi genera un 5 per mille pari a 33 euro.

Chi sono i beneficiari

A dividersi i 510 milioni di euro, riporta ancora il comunicato stampa, sono 71.674 soggetti: per il 70% (oltre 50 mila) sono enti del Terzo settore e Onlus, seguiti da 13mila associazioni sportive dilettantistiche, da quasi 8mila comuni e poco più di 700 fra enti impegnati nella ricerca scientifica, nel settore della sanità, nella salvaguardia dei beni culturali e paesaggistici e nella gestione delle aree protette.

Nella lista dei primi dieci beneficiari@ non ci sono grandi cambiamenti rispetto all’anno scorso: la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro – Airc ha ricevuto quasi 1 milione e 600mila preferenze e un totale di 70 milioni di euro. La seconda della lista è la Fondazione piemontese per la ricerca sul cancro, con oltre 262mila firme e totali 12,4 milioni di euro, mentre Emergency, l’associazione fondata da Gino Strada, si conferma al terzo posto con più di 306mila firme e 12 milioni di euro. Seguono, con importi decrescenti da 9 a 5,4 milioni di euro, Lega del filo d’oro, Istituto europeo di oncologia, Medici senza frontiere, Associazione italiana contro le leucemie, Save the children Italia, la Fondazione italiana sclerosi multipla e la Fondazione dell’ospedale pediatrico Anna Meyer. Questi primi dieci enti raccolgono insieme oltre un quarto dei fondi e un quinto delle firme dei contribuenti.

Dal lato opposto della lista dei beneficiari ammessi, ci sono più di 9.600 organizzazioni – il grosso dei quali sono Enti del terzo settore e Onlus oppure associazioni sportive dilettantistiche – che non hanno ottenuto contributi. Fra questi enti, un po’ meno di metà non hanno ricevuto firme, mentre gli altri avrebbero ottenuto importi inferiori ai 100 euro che però, dal 2020, non vengono più liquidati ma «rimessi in palio» per essere ridistribuiti fra chi ad almeno 100 euro ci è arrivato. Un altro meccanismo di ridistribuzione è poi legato alle scelte generiche: se un contribuente mette la propria firma, poniamo, nella casella della ricerca sanitaria ma non indica un ente preciso scrivendone il codice fiscale, allora il suo contributo si sommerà alle altre scelte generiche, che verranno poi ridistribuite fra tutti gli enti di ricerca sanitaria in proporzione alle scelte dei contribuenti che invece hanno selezionato un ente specifico. Come se il contribuente dicesse: a me interessa aiutare la ricerca sanitaria, ma lascio scegliere agli altri contribuenti a quali enti andrà di più o di meno all’interno di quel settore.

Molte esclusioni, cause da chiarire

Ma il dato che colpisce di più, rilevava ancora De Carli nell’articolo su Vita citato sopra, è quello degli esclusi: 8.291 enti hanno ricevuto complessive 413mila firme per un totale di quasi 14 milioni di euro, ma non li riceveranno perché sono stati esclusi, né i fondi saranno distribuiti agli enti ammessi: resteranno a disposizione dello Stato. Le esclusioni ci sono ogni anno e le cause possono essere varie, ad esempio i ritardi delle organizzazioni negli adempimenti amministrativi. Ma nel 2021 i casi erano stati poco più di 1.600, un quinto.

Mario Consorti, presidente dell’azienda di servizi per il Terzo settore Np Solutions, scriveva su Vita lo scorso luglio@ che molte organizzazioni stanno ancora valutando la possibilità di diventare Enti del terzo settore (Ets) come richiesto dalla riforma avviata nel 2016, e per questo non si sono ancora iscritti al Runts, il Registro unico nazionale del terzo settore. L’iscrizione però è necessaria per poter partecipare alla ripartizione del 5 per mille: gli enti, quindi, hanno rinunciato al contributo ma, nel contempo, non hanno fatto una campagna per informare i donatori di questa rinuncia, in modo da non disperdere il bacino di firme che avevano costruito. Perché, sottolinea ancora Consorti, l’idea che sembra prevalente nell’orientare le scelte dei contribuenti è «fai come l’anno scorso»: per gli enti beneficiari, dunque, comunicare ai sostenitori un’interruzione, per quanto temporanea, della possibilità di donare loro il 5 per mille rischia di tradursi in firme perse poi molto difficili da recuperare. A proposito degli effetti della riforma@, il sito Cantiere terzo settore riportava lo scorso settembre che al Registro stanno ancora aspettando di iscriversi anche 22mila onlus, «in attesa che si definisca il quadro fiscale per scegliere se entrare o meno nel Runts». E questo quadro fiscale dipende anche dall’autorizzazione della Commissione europea, per ottenere la quale il governo guidato da Mario Draghi, nel 2022, aveva già riformato l’impianto normativo, semplificandolo@. A differenza degli enti esclusi, nel 2022 le Onlus erano state ammesse al 5 per mille con una proroga nella scadenza per l’iscrizione al Registro: proroga motivata, appunto, da questa attesa dei chiarimenti degli aspetti fiscali.

Breve storia del 5 per mille

Il 5 per mille fu istituito nel 2006, con la legge finanziaria per il 2007, e fu promosso dall’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel governo Berlusconi III. In un’intervista a Nicola Saldutti su Corriere buone notizie, lo spazio del Corriere della sera dedicato al Terzo settore, nel dicembre 2020 Tremonti spiegava che l’idea alla base era quella di rompere la dicotomia Stato-individuo, per cui «i cittadini votano e lo Stato decide come spendere le entrate fiscali. Dal basso verso l’alto il voto, dall’alto verso il basso le decisioni su come utilizzare i soldi. C’era lo schema Thatcher: non esiste la società, esistono gli individui. Con il 5 per mille andammo all’opposto di questi due modelli: l’individuo può decidere, ha potere di scelta sulla destinazione delle imposte, in settori considerati meritevoli dalla legge».

Nel 2017 Gabriella Meroni su Vita@ ripercorreva la storia del 5 per mille a dieci anni dalla sua nascita: all’inizio, la misura doveva essere inserita nella finanziaria anno per anno e a volte i governi non lo facevano, oppure stanziavano somme insufficienti per finanziarla. Fra il 2010 e il 2013, poi, i governi imposero limiti di raccolta a causa dei quali vennero «persi 310 milioni». Nel 2014, il 5 per mille venne stabilizzato: la legge di stabilità del 2015, fatta dal governo Renzi, stabilì che le disposizioni «relative al riparto della quota del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in base alla scelta del contribuente, si applicano anche relativamente all’esercizio finanziario 2015 e ai successivi». Il governo, inoltre, autorizza la spesa di 500 milioni di euro per liquidare il contributo.

Dopo il 2017, fra i cambiamenti più rilevanti ci sono stati l’ulteriore innalzamento del tetto di spesa a fino agli attuali 525 milioni, e nel 2020, durante la pandemia, la liquidazione di due annate di contributo invece di una. In questo modo, oggi gli enti ricevono il 5 per mille raccolto l’anno fiscale precedente, mentre con le regole passate veniva loro liquidato quello di due anni prima, rendendo molto più complesso, ad esempio, valutare e calibrare le campagne organizzate per invogliare i contribuenti a firmare.

Gli omologhi all’estero

Esiste il 5 per mille negli altri Paesi? Secondo uno studio del 2020 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dal titolo Tassazione e filantropia@, la risposta è sì: anche Slovenia, Portogallo, Ungheria, Lituania, Romania e Slovacchia hanno metodi simili, che il rapporto chiama «sistemi di assegnazione» e che permettono ai contribuenti di indicare alle autorità fiscali a quali enti o cause filantropiche deve essere destinata una determinata percentuale della loro imposta sul reddito. Questi sistemi, dice il rapporto, decentralizzano la decisione affidandola ai contribuenti stessi.

Di gran lunga più diffusa come incentivo fiscale alla donazione per le persone fisiche è la deduzione, cioè la possibilità di sottrarre l’importo di una donazione dal totale del reddito su cui verrà calcolata l’imposta. La deduzione è presente in 22 paesi sui 39 considerati nel rapporto, mentre 12 Paesi utilizzano invece il credito d’imposta, del quale è un esempio il social bonus in Italia@ che è l’unico paese ad avere tutte e tre queste forme di incentivo a donare.

Vi è poi un quarto metodo, denominato matching nel rapporto, che prevede un’aggiunta percentuale da parte dello Stato per ogni donazione fatta da un contribuente. Ad esempio, nel programma Gift Aid del Regno Unito per ogni sterlina donata dal contribuente le organizzazioni beneficiarie possono reclamare ulteriori 25 pence che vengono aggiunti dallo Stato. Inoltre, i contribuenti che pagano l’imposta con l’aliquota più elevata – il 40% – possono richiedere uno sgravio fiscale pari al 20% dell’importo della donazione finale, compresa la parte aggiunta dallo Stato.

Chiara Giovetti

Com’è andata per MCO

Nel 2022, Missioni Consolata Onlus ha raccolto 84.624,67 euro grazie alle firme di 1.905 donatori. È stato il primo anno di crescita dei fondi ricevuti (+4.388,99 euro) dopo quattro di calo. Le firme invece sono diminuite di 88 unità.
La quota media è di circa 38 euro.


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Acqua e luce per gli alunni della Nomads children’s school di Camp Garba – Isiolo – Kenya

È la scuola dei figli dei pastori nomadi (Samburu, Turkana, Borana e altri) che, fuggiti dalle aree  ancestrali per scontri tribali, siccità e fame, gravitano attorno alla missione.

La scuola ha bisogno di installare pannelli solari che producano l’energia elettrica necessaria per:

  • far funzionare la pompa del vecchio pozzo e avere così acqua a sufficienza per i bisogni di circa 700 allievi e per irrigare l’orto della missione che fornisce cibo alla scuola;
  • dare luce alle aule scolastiche soprattutto per gli studi serali;
  • garantire illuminazione notturna del perimetro della scuola per una maggior sicurezza anche contro intrusione di animali selvaggi (iene, elefanti e simili).

È un progetto da 12mila euro per il quale si sono impegnati gli Amici Missioni Consolata.

Vuoi dare una mano a realizzare questo bel sogno?

Manda il tuo aiuto per «Amc – pannelli solari Camp Garba» attraverso Missioni Consolata Onlus

È un progetto sostenuto dagli Amici Missioni Consolata.

 




Venezuela. Una distrazione chiamata Esequibo

L’oggetto del contendere si chiama Esequibo. È un territorio di 159mila chilometri quadrati ricchi di risorse naturali e forestali. Scarsamente abitato (125mila persone), ospita vari gruppi indigeni: Sarao, Arawako, Kariña, Patamuná, Arekuna, Akawaio, Wapishana, Makushi, Wai Wai e Warao. Costituisce due terzi della superficie della Guyana, paese che è stato una colonia britannica fino al 1966. Il Venezuela reclama l’Esequibo come proprio e per questo ha indetto un referendum consultivo per il prossimo 3 dicembre.

Un’immagine dell’Esequibo (oggi appartenente alla Guyana), grande territorio con risorse naturali (sopra e sotto), abitato da popoli indigeni. Il Venezuela lo reclama come proprio. Giusta rivendicazione o furba distrazione? (Immagine da cuatrof.net)

Quella dell’Esequibo è una disputa vecchia di quasi due secoli. Tuttavia, la sua recrudescenza proprio in questo periodo di grave crisi – economica, sociale, politica – per il paese venezuelano induce a ritenere che la questione sia utilizzata dal governo di Nicolás Maduro come «arma di distrazione di massa». Anche se gli ultimi eventi hanno aperto – o parevano aver aperto – piccoli ma significativi squarci di ottimismo nella complicata vicenda venezuelana.

Nicolás Maduro conduce un proprio programma – «Con Maduro+» – sulla televisione statale. (foto Prensa presidencial – Correo del Orinoco)

Infatti, lo scorso 17 ottobre, a Barbados e sotto gli auspici della Norvegia, governo di Caracas e opposizione hanno raggiunto un accordo sul percorso per garantire che le elezioni presidenziali del 2024 siano libere e democratiche. In risposta a questo passo, l’amministrazione Biden ha immediatamente allentato le sanzioni sul settore petrolifero venezuelano autorizzando il paese, membro dell’Opec, a produrre ed esportare petrolio nei mercati prescelti per i prossimi sei mesi e senza limitazioni. Una potenziale, enorme boccata d’ossigeno per le esangui casse pubbliche di Caracas.

Il 22 ottobre si sono poi tenute le primarie dell’opposizione, alle quali – secondo i dati degli organizzatori – avrebbero partecipato 2,5 milioni di venezuelani. Ne è risultata vincitrice la dama de hierro (la signora di ferro) Maria Corina Machado (56 anni, tre figli, ex deputata di destra, ingegnere) con quasi il 93 per cento dei voti.

Maria Corina Machado, vincitrice delle primarie dell’opposizione tenute lo scorso 22 ottobre. (Foto da diarioelregionaldelzulia.com)

Le cose si sono però subito complicate: prima con la conferma di una sentenza di inabilitazione per la Machado a ricoprire cariche pubbliche per 15 anni e la conseguente esclusione dalle elezioni del 2024 e poi (il 30 ottobre) con la sospensione del risultato delle primarie da parte del Supremo tribunale del Venezuela per violazioni elettorali, crimini finanziari e cospirazione. In questo quadro generale già confuso, è arrivata la deflagrazione della contesa con la Guyana per l’Esequibo.

I media venezuelani stanno dando molto rilievo alla questione Esequibo.

Come avviene per quasi tutte le questioni internazionali in questa difficile epoca storica, anche in Venezuela le situazioni paiono cristallizzate. Lo confermano anche le risposte ricevute da alcuni nostri interlocutori di Caracas, vicini al governo Maduro: «La vicenda della Guyana – ci hanno spiegato – è molto semplice: il territorio è nostro, però gli Occidentali se lo vogliono rubare (come hanno fatto in tutta la storia degli ultimi 600 anni). Le primarie dell’opposizione sono state annullate per un sacco di dati falsi. È realmente triste che questa gente sia tanto disonesta. Infine, con riferimento a Maria Corina Machado non può essere candidata alle elezioni presidenziali semplicemente perché è stata inabilitata a rivestire cariche pubbliche da una precedente sentenza».

Paolo Moiola




Poveri assoluti: nel mondo uno ogni dodici

 

Una persona ogni 12 nel mondo oggi vive con meno di 2,15 dollari al giorno.

Secondo gli ultimi dati del 2023 raccolti dalla Banca mondiale e resi pubblici nella Poverty and inequality platform sono, infatti, 690 milioni le persone che stentano sotto la soglia della povertà assoluta, l’8,61% della popolazione mondiale.

Un numero enorme che si moltiplica se alziamo anche di poco la soglia: 1,846 miliardi di persone vivono con meno di 3,65 dollari al giorno, il 23% del totale; 3,682 miliardi con meno di 6,85 dollari quotidiani: il 45,9%, quasi una ogni due.

Vale la pena, avendo un po’ di tempo e pazienza, andare a consultare i dati messi a disposizione dalla Banca mondiale.

Si può mettere in relazione, ad esempio, il dato che riguarda la povertà odierna con quello di dieci anni fa o venti o trenta. Nella home page del portale, infatti, un grafico mostra la forte riduzione della povertà nel mondo a partire dal 1990, quando i poveri assoluti, quelli sotto la soglia dei 2,15 dollari, erano 2 miliardi su una popolazione totale di 5,3 miliardi, il 37,7%, uno ogni 2,6 persone.

Si può conoscere, poi, la situazione della povertà e delle diseguaglianze per aree geografiche e per i singoli paesi. In questa prospettiva è interessante notare la riduzione drastica dei poveri negli ultimi 30 anni nell’area del Sud Est asiatico – da 1 miliardo nel ’90 a 26 milioni nel 2020, soprattutto grazie alla diminuzione dei poveri assoluti in Cina, passati da 816 milioni nel 1990 a 1,56 milioni nel 2020 – e, allo stesso tempo, l’aumento del numero di poveri assoluti in Africa subsahariana: da 277,9 milioni nel 1990 a 397 milioni nel 2019 (ultimo dato disponibile).

Altro dato interessante è quello che mostra quanta povertà ha generato la pandemia: i poveri assoluti, infatti, sono aumentati nel 2020 in tutto il mondo.

I dati raccolti dalla Banca mondiale attraverso le agenzie statistiche governative e i dipartimenti nazionali della stessa, per quanto debbano essere letti con una certa cautela (pensiamo ad esempio a quelli riguardanti paesi certo non trasparenti come la Cina) sono utili, tuttavia, per misurare i progressi compiuti verso l’obiettivo dell’eliminazione totale della povertà assoluta formulato dall’Onu nell’Agenda 2030.

Di certo la lotta alla povertà globale nei decenni sta portando a risultati positivi. È altrettanto certo che la strada da fare è ancora molto, troppo lunga.

Luca Lorusso




Haiti, vicini alla catastrofe umanitaria

 

Da metà agosto a oggi, almeno 200mila haitiani sono sfollati, dei quali 40mila nella sola capitale Port-au-Prince, secondo una nota del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite. Il forte movimento della popolazione, che si è intensificato nella seconda metà del 2023, è dovuto alla recrudescenza degli attacchi delle bande armate, che controllano vaste zone del territorio del paese e circa metà dei quartieri della capitale.

Lo spostamento in massa della popolazione accresce la problematica dell’insicurezza alimentare. La gente scappa a causa di scontri tra bande rivali o attacchi diretti, portando con sé solo i vestiti che ha addosso. Intanto i banditi danno alle fiamme negozi e magazzini, oltre alle case, privando centinaia di persone del proprio reddito. Per il Pam, circa la metà della popolazione (la proiezione parla di 4,35 milioni di haitiane e haitiani) vivrà in uno stato di insicurezza alimentare acuta nei prossimi mesi.

Secondo l’esperto indipendente delle Nazioni Unite per i diritti umani, lo statunitense William O’Neill, la situazione ad Haiti è catastrofica: «Sono allarmato per la situazione preoccupante che si estende rapidamente ad altri dipartimenti, come l’Artibonite e il Nord Ouest. Gli assassinii, i ferimenti e i rapimenti sono oramai il quotidiano della popolazione». Si sono verificati tremila omicidi e millecinquecento rapimenti da gennaio a settembre, secondo un rapporto delle Nazioni Unite.

Molti degli sfollati si trovano in condizioni di vita disumane, senza l’accesso ai servizi di base, e accampati in rifugi di fortuna: «Bambini e anziani dormono a terra, vicini a montagne di immondizia e senza avere accesso ad acqua potabile. Ho anche ascoltato testimonianze di donne e ragazze che sono vittime di violenza a ripetizione, senza poi avere cure mediche. La violenza sessuale verso donne e bambine è endemica e non è stato fatto nessun progresso rispetto a garantire servizi della giustizia alle sopravvissute», continua O’Neill. «Una grande sfida è data dal fatto che molti membri delle bande armate sono bambini. Sono necessari programmi di riabilitazione e reinserzione sociale». Si consideri che oltre 500mila ragazzi in età scolare non hanno accesso all’educazione e questo diventa un vasto serbatoio di mano d’opera per le gang.

Lo scorso 2 ottobre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione, presentata dagli Usa, con la quale si autorizza per Haiti una missione internazionale definita «Missione multinazionale di sostegno alla sicurezza», che non sarà però sotto l’egida dell’Onu. Di fatto, dovrebbe essere una missione di appoggio alla polizia haitiana. Il Kenya si era già detto disponibile a guidarla, con l’apporto di mille uomini, e altre stati, come Giamaica, Bahamas, potrebbero partecipare. Gli Stati Uniti, visti i pregressi e il particolare momento storico, non vogliono essere coinvolti direttamente, ma finanzieranno in larga parte l’operazione (promessi 120 milioni di dollari), che potrebbe partire a gennaio. Restano tuttavia molti dubbi che una missione di questo tipo possa portare a un effettivo miglioramento.

Papa Francesco risponde alla domanda di un piccolo haitiano, durante l’incontro con i bambini di 84 paesi, il 6 novembre. Foto Ileana Joseph.

Oggi, 6 novembre, il Papa incontrerà anche alcuni bambini haitiani, nell’ambito dell’evento patrocinato dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione che vedrà la partecipazione di settemila bambini di 84 paesi. Evento durante il quale papa Francesco risponderà ad alcune domande dei piccoli. Per l’occasione sarà pubblicata L’Enciclica dei bambini. 

Marco Bello




Alba ricorda padre Paolo Tablino

Sabato 28 Ottobre 2023 inaugurato presso l’Area Verde don Paolo Tablino ad Alba dell’opera d’arte permanente «Marsabit», di Samuel Di Blasi.

Il sindaco e alcuni consiglieri, il vescovo di Alba mons. Marco Brunetti e don Gino Chiesa, direttore dell’ufficio missionario di Alba, si sono alternati a rievocare l’avventura missionaria della diocesi di Alba iniziata nel 1958-59 con don Venturino e don Paolo Tablino (i primi due sacerdoti Fidei donum di tutta Italia) e proseguita con una presenza rilevante di sacerdoti e laici di Alba che hanno dato un contributo unico alla nascita e primo sviluppo della diocesi di Marsabit. Il monumento è situato in una spaziosa area verde, che già porta il nome di don Tablino, ove le persone possono venire a incontrarsi, a riposarsi e a godere la natura. L’artista Samuel Di Blasi ha scoperto il monumento in metallo di colore argentato, a forma di albero i cui vari rami richiamano la vitalità e la crescita del seme. Ai piedi del monumento Patrizia Manzone (missionaria laica in Kenya dal 2008 al 2022) con l’aiuto di uno dei suoi figli ha seppellito una manciata di terra proveniente da Marsabit. Presente anche una bella delegazione di missionari della Consolata, tra cui il vescovo emerito di Maralal, mons. Virgilio Pante, con il quale padre Paolo Tablino ha svolto il suo servizio missionario una volta diventato missionario della Consolata. Infine mons. Brunetti e mons. Pante hanno dato la benedizione al nuovo monumento.

Padre Paolo Tablino a Maralal, il giorno in cui ha emesso i voti come missionario della Consolata

Una scheggia di bellezza

Ad Alba, in provincia di Torino, è stata presentata una scultura in ricordo di don Tablino, una vita trascorsa tra i nomadi del Kenya.

Marsabit è l’opera inaugurata il 28 ottobre ad Alba per ricordare il percorso umano e spirituale di don Paolo Tablino, fidei donum diocesano prima e successivamente padre missionario della Consolata inviato nei primi anni Sessanta nella diocesi di Marsabit in Kenya con un compito di prima evangelizzazione.

La realizzazione della scultura è stata affidata dal Comitato promotore a Samuel di Blasi, artista nato e cresciuto nel quartiere che ospita la posa. Di Blasi ha potuto lavorare con libertà, andando oltre gli schemi dell’opera commemorativa. Ha così realizzato un’installazione iconica ma senza astrattismi che riesce a mettersi in dialogo diretto con il giardino in cui è posta: una fusto metallico che si slancia verso il cielo richiamando, nella trama, lo slancio degli alberi circostanti.  Un richiamo quasi immediato è all’immagine del Vangelo come seme gettato, molto cara a Tablino:  «Il deserto è diventato terra buona». Così descriveva la sua esperienza con i nomadi Gabra e Borana, abitanti dei deserti keniani. Una vicinanza che Tablino condivideva con gli altri missionari albesi e con il vescovo Carlo Cavallera, anch’egli missionario della Consolata. Insieme avevano elaborato un metodo pastorale che li vedeva alternarsi nella presenza in parrocchia e a fianco delle tribù non stanziali. Un approccio della missione che è diventato oggetto di ricerche antropologiche come quella di Erika Grasso, esposta nel volume Incontri con l’altro. Missionari «in cammino» tra i Gabra del Kenya.

Alla sommità la scultura acquista una maggior tridimensionalità e la sottile colonna di appoggio continua lo slancio verso l’alto allargandosi in una sorta di abbraccio. Una circolarità che sta quasi a ricordare il legame ancora fortissimo tra Alba e Marsabit, concretizzato oggi in alcuni progetti tra cui la scuola Father John Asteggiano, il sostegno ai giovani con le borse di studio e la Montessori pre school, prima scuola ad indirizzo Montessori della zona. Esso è però soprattutto reso vivo dalla comunione tra laici, consacrati, preti delle due diocesi. Gli esempi più recenti sono il rientro di Patrizia Manzone, fidei donum laica ad Alba con la sua famiglia italo-keniana e la visita, in estate, di padre Ibrahim Racho, vicario generale di Marsabit, che ha trascorso diversi mesi ad Alba, i viaggi missionari dei giovani del cuneese.

Samuel di Blasi nel descrivere l’opera ha scritto che «vuole rappresentare una riflessione sul tema dell’effimero e del transitorio, […] una tematica che mi sta particolarmente a cuore e ci invita spesso a riflettere sulla natura dell’esistenza umana, e sull’importanza di cogliere ogni istante della nostra vita con consapevolezza e gratitudine.»

La presenza di questa scheggia di bellezza «germogliata» in un piccolo parco cittadino ha trasformato questo spazio da luogo di passaggio a luogo pubblico di riflessione. Importante, sotto questo punto di vista, l’adesione all’iniziativa delle istituzioni cittadine che hanno riconosciuto il significato civile e non solo spirituale all’opera missionaria di Tablino. Una trasformazione dunque, non solo artistica ma anche sociale, culturale, spirituale.

Emanuela Costa

Inaugurazione dell’opera d’arte permanente dedicata a Don Paolo Tablino ad Alba

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Iran. Dopo Masha, Armita

Nel Medio Oriente in fiamme per colpa di Hamas e dell’eccesso di difesa da parte del governo israeliano guidato dal Benjamin Netanyahu, agisce anche l’Iran degli ayatollah sciiti.

Sabato 28 ottobre è stata annunciata la morte di Armita Geravand, la ragazza di neppure 17 anni picchiata nella metro di Teheran dalla polizia morale (Gasht-e Ershad) per non indossare lo hijab, il velo islamico. Secondo l’agenzia governativa Irna (the Islamic republic news agency), la ragazza avrebbe invece avuto un mancamento (a causa di un abbassamento della pressione) mentre saliva sulla metro sbattendo a terra la testa.

Alla cerimonia funebre di domenica 29 ottobre, numerosi partecipanti – tra cui Nasrin Sotoudeh, nota avvocata dei diritti umani (già condannata a molti anni di carcere) – sarebbero stati picchiati e arrestati.

La giovanissima Armita Geravand è morta dopo alcune settimane di coma. Le autorità iraniane negano che sia stata picchiata nella metro da agenti della «polizia morale».

La vicenda di Armita ricorda quella di Masha Amini, la giovane curda di 22 anni uccisa in circostanze analoghe il 16 settembre 2022. Da allora le donne iraniane lottano contro il regime oscurantista, maschilista e violento di Ali Khamenei, la «guida suprema» del paese. Protestano sotto lo slogan «Donna, vita, libertà» (Zan, zendegi, azadi). O cantando in lingua farsi Bella ciao, la canzone per eccellenza della resistenza italiana.

Un ritratto di Masha Amini, uccisa dalla «polizia morale» iraniana il 16 settembre 2022. (Immagine da jornada.com)

La protesta è molto costosa in termini personali: si rischia la vita o la prigione. Le ultime a sperimentarlo sono state Nilufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, due giornaliste iraniane che, all’epoca, fecero conoscere la tragedia di Masha Amini. Dopo essere state incarcerate, il 22 ottobre (guarda caso proprio nei giorni in cui Armita era in coma in ospedale) sono state condannate a sette e sei anni di carcere. Secondo Iran Human Rights (gruppo con sede a Oslo), nel 2023 in Iran sono state giustiziate – per impiccagione o lapidazione – almeno 589 persone (tra cui 14 donne), molte per l’accusa di moharebeh (in farsi, «fare la guerra a Dio» e, per estensione, all’ordine costituito, cioè alle autorità islamiche al potere), alcune per blasfemia, (ovvero per insulti al profeta Maometto o al Corano).

Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica dell’Iran dal 2021. (Foto da irna.ir)

Per capire meglio le connessioni geopolitiche (e giudicare con cognizione di causa), vale la pena di ricordare tre fatti riguardanti la teocrazia sciita. Il primo: da tempo la Cina di Xi Jinping è il primo partner commerciale dell’Iran: nel 2022, il commercio tra i due paesi è cresciuto del 7%, secondo fonti cinesi. Il secondo: lo scorso 26 ottobre, il viceministro degli esteri iraniano Ali Bagheri Kani è volato a Mosca per un incontro con omologhi russi e una delegazione di Hamas. Infine, non va dimenticato che Teheran dovrebbe essere un nuovo membro dei Brics, l’associazione economica di alcuni paesi del Sud alternativa a quella dell’Occidente, un’alternativa guidata dalle dittature di Cina e Russia. Tutti fatti che evidenziano un similia similibus, un’attrazione tra simili.

Paolo Moiola




La guerra civile in Sudan

 

C’è un’altra guerra, ma è lontana dai media mondiali. È in Africa e, in questo momento, è la più cruenta e con gli effetti più devastanti per il numero degli sfollati e la condizione dell’infanzia.

Scoppiata il 15 aprile scorso vede opporsi l’esercito regolare del Sudan, comandato dal generale Abdel Fattah Al Burhane, e la fazione ribelle, le Forze di supporto rapido (Fsr) comandate dal suo ex vice, Mohamed Hmadane Daglo (detto Hemedti).

Le Fsr controllano attualmente i tre quarti della capitale, mentre il generale Al Burhane è stato costretto a trasferire il suo quartier generale a Port Sudan, a est, sul Mar Rosso.

Secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), il conflitto in corso ha causato il più alto numero di sfollati interni al mondo tra la popolazione civile. Sarebbero 7,1 milioni di persone, di cui 3 milioni solo dalla capitale Khartum. La direttrice generale dell’Oim, Amy Pope, ha dichiarato: «La situazione umanitaria in Sudan è catastrofica, senza uscita in vista, e sono i civili che ne pagano il prezzo».

Si contano anche 1,2 milioni di sudanesi che sono scappati oltre confine nei paesi vicini, in particolare nel già povero Ciad.

Un altro campanello d’allarme è quello dell’incaricata speciale dell’Onu per il traffico delle persone, Siobhan Mullaly, che il 16 ottobre scorso, a Ginevra, ha denunciato che bambini sudanesi sono sequestrati e poi reclutati forzatamente dai diversi gruppi armati in conflitto.

Il Paese è diviso in due: le forze armate sudanesi controllano il nord, l’est e il sud, mentre i ribelli sono all’ovest in particolare nelle provincie Darfur, dove si sono concentrati i principali combattimenti al di fuori della capitale.

Nelle ultime settimane si sono aperti nuovi fronti, nelle province del Sud Kordofan e Nord Kordofan, anche in aree dove sono già presenti numerosi sfollati. Le Fsr hanno recentemente conquistato la strategica stazione di pompaggio di greggio nella regione di al-Aylafun, ad alcune decine di chilometri da Khartoum.

Il rischio, rivelano alcuni analisti, è che il paese permanga diviso per molto tempo e che nascano due governi contrapposti, in una situazione tipo quella libica. In alternativa, le Fir potrebbero conquistare l’intera capitale e puntare così a controllare il Paese. Rimarrebbero, comunque, delle sacche di resistenza della compagine governativa.

Marco Bello




Brasile. «Marco temporal»: il pericolo incombe

I sostenitori della legge anti indigena non si fermano né davanti alla bocciatura del massimo organo giudiziario del Brasile né davanti al veto (parziale) del presidente Lula.

Ammettiamolo: quella dello scorso 21 di settembre è stata una vittoria di Pirro. La decisione del Supremo tribunale federale (Stf) contro il marco temporal (è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione brasiliana) non è stata né storica né decisiva.

Dopo la Camera, il 27 settembre anche il Senato ha approvato il progetto di legge n. 2903 che rivede l’articolo 231 della Costituzione in merito a riconoscimento, delimitazione, uso e gestione delle terre indigene. Insomma, il marco temporal è più vivo che mai.

Il 20 ottobre il presidente Lula ha posto il veto sulla legge. In particolare, sugli articoli 4 (tempistica), 9 (indennizzo degli occupanti), 28 (popoli indigeni isolati) e 30 (coltivazioni Ogm). Tuttavia, non si è trattato di un veto integrale, ma parziale. Sono rimasti in essere gli articoli 20 e 26 che lasciano aperta la possibilità di uno sfruttamento economico delle terre indigene. Inoltre, il Fronte parlamentare agrario (Fpa, noto anche come «bancada ruralista»), che afferma di essere composto da 303 deputati federali (su 513) e 50 senatori (su 81), ha immediatamente rilasciato un comunicato ufficiale di aperta sfida al presidente e al Tribunale supremo. In esso si afferma che il Fronte non rimarrà con le braccia incrociate e farà di tutto per sovvertire i veti presidenziali. Il Fronte sostiene di agire per garantire la sicurezza giuridica, la pace nelle campagne e la dignità delle migliaia di famiglie responsabili della produzione alimentare per il Brasile e per il mondo. Non una parola viene detta sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni e dell’ambiente.

Il sogno dei «fazendeiros» è un Brasile di vacche e soia. (Immagine da globalskybusiness.com)

Il giorno seguente (21 ottobre), l’agenzia dello stesso Fronte parlamentare ha lamentato «la mancanza di rispetto per il Congresso nazionale e per la volontà popolare» e ribadito, con toni da battaglia, la propria volontà di «garantire il diritto di proprietà» (purché – aggiungiamo noi – esso non sia in capo ai popoli indigeni).

Lapidario è il commento di fratel Carlo Zacquini, grande conoscitore della tematica indigena brasiliana: «La questione è che il veto, in ogni modo, sarà analizzato ancora dai parlamentari e ciò potrà portare a situazioni anche più pericolose. In Brasile chi comanda è il capitale, e questo non è alleato degli indigeni».

Paolo Moiola




Frontiere: i falsi adulti

Oulx. Morsel allaccia le stringhe delle scarpe, si butta la giacca sulla spalla e si siede a cavalcioni di una panca, insieme ad altri due ragazzi sudanesi come lui, partiti da Kartoum in direzione Parigi oltre un mese fa.

Morsel ha sedici anni, così come il suo amico Majob, mentre Abubakl ne ha appena compiuti diciassette. Seduti nel piazzale davanti al rifugio Massi che da anni fornisce un letto, un pasto caldo, cure mediche e orientamento legale ai migranti in transito verso la frontiera del Monginevro, suonano la chitarra e ridono guardando un video su Youtube. Poi diventano seri, attivano il Gps dello smartphone e studiano qual è il sentiero migliore per attraversare la frontiera sulla montagna che divide Claviere, ultimo comune italiano (in provincia di Torino), da Briançon, primo comune francese.

La sera prima avevano già provato, ma la Police aux Frontières li ha visti, fermati e respinti in Italia, come fa con il 99% delle persone che provano a oltrepassare l’invisibile linea di frontiera, senza un documento valido per transitare in Unione europea. Durante il fermo e le ore trascorse in alcuni container alle spalle della caserma di frontiera condivisa da francesi e italiani, i ragazzi si sono resi conto di avere qualcosa in comune oltre alle origini. Tutti e tre minorenni, sono stati respinti dalla gendarmerie in Italia come se fossero maggiorenni.

Rifugio di Massi a Oulx, un migrante entra nel magazzino dei vestiti. Foto Simona Carnino.

«Ho detto ai poliziotti francesi che ho 16 anni, ma loro mi hanno risposto che dal controllo delle impronte digitali che mi hanno preso a Messina viene fuori che ho 23 anni», spiega arrabbiato Morsel. Stessa cosa è successa Abubakl e Majob che, al loro arrivo in barca da Sfax, Tunisia, sono stati registrati rispettivamente a Catania e Lampedusa come due diciannovenni.

Mentre Morsel racconta la sua storia, altri ragazzi si avvicinano. Comincia a tradurre dall’inglese all’arabo e viceversa. Chiede loro l’età e se sono stati registrati con la data di nascita corretta in Italia. Tutti scuotono la testa. Poi indica due ragazzi e ci dice: «A lui hanno cambiato la data di nascita a Lampedusa e a lui a Catania. Non ti ascoltano, anche se dici che sei minorenne».

La secchiata d’acqua fredda arriva proprio quando la gendarmerie ferma i ragazzi all’uscita dei confini italiani. In quel caso, i funzionari francesi non fanno che certificare l’età attribuita in Italia, per cui li respingono come maggiorenni, contravvenendo al diritto del minore di essere accolto e protetto secondo la Convenzione sui diritti del fanciullo.

E mentre l’Italia tuona contro i cosiddetti falsi minori con l’approvazione il 5 ottobre da parte del Consiglio dei ministri del decreto 133 che prova a screditare la presunzione di minore età, richiedendo accertamenti antropometrici o sanitari, in caso di dubbio, nell’invisibilità istituzionale cresce il fenomeno dei falsi adulti.

Rifugio di Massi a Oulx: coda per il pranzo. Foto Simona Carnino.

Medici per i Diritti Umani e Rainbow for Africa a Oulx -. Ogni giorno si presentano davanti all’ambulatorio del rifugio Massi 20-30 ragazzi in questa situazione. È un fenomeno sistemico che stiamo denunciando da tempo e che comporta che i ragazzi vengano respinti sulla frontiera francese come adulti, invece di essere protetti e accolti in forza della loro minore età».

Ed effettivamente non è scontato risalire al proprio certificato di nascita soprattutto per chi nasce, ad esempio, in un villaggio in Darfur o in una piccola comunità rurale del Niger. Inoltre, la maggior parte dei minori registrati come adulti non ha interesse a richiedere una rivalutazione del proprio caso in Italia, perché questo significherebbe fermarsi in un paese di transito e dilatare il tempo che li separa dalla propria meta finale spesso in Francia o in Gran Bretagna.

Anche se è difficile dimostrarlo con documenti alla mano, il disallineamento tra l’età reale del minore migrante e quella registrata per mano dei funzionari dei diversi centri di prima accoglienza è un fenomeno esistente, a detta dei ragazzi incontrati sulle frontiere in uscita dall’Italia e degli operatori medici e legali delle associazioni che ne vedono passare a decine ogni giorno.

Oulx. Prima della partenza per la Francia. Foto Simona Carnino.

Lo stesso fenomeno è stato registrato anche a Ventimiglia così come abbiamo scritto in precedenza (Refus d’entrée e A qualsiasi costo).

Consorzio italiano di solidarietà -. Si tratta di un’elusione generalizzata della legge. È come se i minori stranieri non accompagnati non ci fossero».

E di fatto è così. Morsel, Abubakl e Majob non esistono. Almeno non con i loro 16 e 17 anni. Esistono come maggiorenni, con un’identità appiccicatagli da qualche funzionario dello stato italiano.

È sera al rifugio Massi quando i tre ragazzi decidono di mettersi in cammino a piedi verso Claviere. Se fossero minori potrebbero prendere un bus e presentarsi in frontiera francese per chiedere protezione internazionale, ma non è così. Dovranno scalare una montagna di notte e di nascosto, provando a non scivolare.

Alle spalle lasciano il rifugio con i suoi operatori e volontari, una piccola umanità operosa che nelle ultime settimane ha sfamato, vestito e dato un letto per dormire quotidianamente a circa 150 persone, con picchi di 300 persone al giorno.

«Registration in Italy was a big lie (la registrazione in Italia è una bugia). Quella persona di 23 anni non sono io», dice Morsel mentre si frega le mani per il freddo, seduto su una panchina di Claviere verso le 10 di sera, poco prima di provare a superare la frontiera dal lato più irto della montagna.

Simona Carnino

Bus Cesana-Clavier, verso la Francia. Foto Simona Carnino.




Israele-Palestina. «Dov’è l’uomo?»

 

Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.

Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.

Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.

Una via della città vecchia di Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.

Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.

«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.

La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.

Gerusalemme, il giorno prima degli attentati di Hamas. ©Manuela Tulli

Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.

Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».

La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.

Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».

Manuela Tulli

Aeroporto di Tel Aviv. 9 ottobre 2023. ©Manuela Tulli