L’attesa infinita. Migranti venezuelani (in Guatemala)


Vivono per le strade della capitale guatemalteca aspettando di trovare i soldi o l’opportunità per tentare (o ritentare) l’entrata negli Stati Uniti. Sono i migranti venezuelani le cui storie vengono raccontate in queste pagine.

Città del Guatemala. Josué cammina lentamente tra un semaforo e l’altro dell’incrocio tra la sesta e la decima avenida, nella zona pedonale del centro storico della capitale guatemalteca. Sta lì tutto il giorno e, quando il sole picchia forte nelle ore più calde cerca un po’ di riparo all’ombra di qualche edificio.

Ha 22 anni e la sua maglietta rossa, gialla e blu, con otto stelle sulla manica, non lascia spazio a dubbi sulle sue radici venezuelane. Sulla schiena, a caratteri cubitali, c’è scritto il suo nome. «Josuè» spicca sul tessuto come una tacita affermazione di identità che il giovane non intende nascondere.

I suoi occhi chiari tra le folte ciglia fissano la terra per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto, quando allunga la mano verso qualche passante, Josué solleva il volto mostrando uno sguardo un po’ imbarazzato.

Il ragazzo trascorre le sue giornate a chiedere l’elemosina. Ogni tanto qualcuno gli dà un quetzal (circa undici centesimi di euro), ma la maggior parte dei passanti lo evita, spesso con espressioni disgustate sul volto.

Josue, che non nasconde né il proprio nome né la provenienza, è uno dei protagonisti di questo reportage; qui tiene in braccio il figlioletto davanti alla vetrina di Burger King, a Città del Guatemala. Foto Simona Carnino.

Il wi-fi di Burger King

Carolina ha 18 anni da poco ed è la moglie di Josué. Ogni tanto gli dà il cambio all’incrocio della strada, ma per la maggior parte del tempo si ripara dal sole seduta sul gradino della vetrina di un Burger King della sesta avenida con il loro bambino di un anno e mezzo seduto sulle gambe.

È impegnata a intercettare il wi-fi gratuito della grande catena di fast food perché è tanto che non parla con sua madre e vorrebbe salutarla e raccontarle come sta.

A pochi metri di distanza ci sono Alonso, 29 anni, ex grafico, e Jona, 27 anni, ex studente di ingegneria petrolifera. Parlano della loro vita al passato remoto e aggiungono il prefisso «ex» prima di tutti i lavori e gli studi che hanno fatto, come se le esperienze precedenti, che dovrebbero essere la base per costruire il loro futuro, non esistessero più.

Poco più avanti, una ragazza che ha deciso di non parlare della sua storia, è in piedi all’angolo tra la sesta e la nona avenida e regge un cartello in mano che dice così: «Ho bisogno di aiuto per tornare in Venezuela».

Un mondo nella valigia

Da Josué a Carolina, passando per Alonso e la ragazza con il cartello, tutti condividono lo stesso destino.

Sono giovani migranti venezuelani, bloccati in Guatemala perché senza soldi per continuare il viaggio verso gli Stati Uniti o, eventualmente, tornare a sud, in Venezuela o in altri paesi dell’America Latina.

Dopo mesi trascorsi a viaggiare per raggiungere la meta si fermano per racimolare le risorse economiche necessarie ad andare avanti, o, come la ragazza che non ha più le forze né fisiche né mentali, per tornare indietro.

Sono senza permesso di soggiorno, senza casa e di solito viaggiano con una valigia a testa in cui racchiudono tutto il loro mondo.

Nella situazione di irregolarità migratoria, non hanno la possibilità di ottenere un lavoro né regolare né decorosamente pagato, per cui alcuni provano a vendere caramelle, accendini, braccialetti e bevande in strada, ma la maggior parte di loro chiede l’elemosina in varie parti della città, sul sagrato delle chiese o di fronte alle stazioni dei bus che portano fino alla frontiera con il Messico. Sperano di raccogliere abbastanza denaro per continuare il loro viaggio, perché l’idea di chiedere asilo in Guatemala, uno dei paesi da cui parte il maggior numero di migranti verso gli Stati Uniti, non li sfiora nemmeno.

«Viviamo per strada, ma una volta a settimana ci concediamo una notte in una piccola pensione, qui in centro. Chiedendo l’elemosina riusciamo a fare circa 100 quetzales al giorno (11 euro, ndr) e non bastano per l’alloggio, il cibo, i pannolini per il bambino o per pagare il coyote per passare la frontiera tra Guatemala e il Messico – spiega Josué -. Attraversare il fiume al confine con il Guatemala costa 50 dollari a persona e ne servono molti di più per arrivarci. Siamo qui da un mese e abbiamo appena messo da parte i primi 50 dollari. Ne mancano altri 100».

Josué e Carolina si sono conosciuti in Ecuador, quando dal loro punto di vista non c’erano più motivi per restare in Venezuela. «I nostri genitori non riuscivano a mantenere la famiglia – racconta Josué -. E io stesso non andavo né a scuola né riuscivo a trovare un lavoro che mi permettesse di guadagnare a sufficienza. L’inflazione là è altissima e anche se lavori, ti sembra di non guadagnare nulla».

Più di 7,7 milioni di venezuelani sono fuggiti dal loro paese negli ultimi anni a causa dell’instabilità economica e politica che, di fatto, ha costretto molte persone in una spirale di povertà estrema. La maggior parte dei migranti si è rifugiata in Colombia, Perù, Ecuador o Cile, ma negli ultimi anni, a causa della pandemia e della crisi economica che ha colpito anche questi paesi, molti venezuelani hanno deciso di lasciarsi alle spalle la vita precaria che conducevano nei paesi latinoamericani per provare la fortuna negli Stati Uniti (riquadro a pag. 54).

Carolina mostra sul cellulare la foto della propria famiglia dopo l’attraversamento della foresta del Darién. Foto Simona Carnino.

Il ricordo del Darién

Improvvisamente Carolina intercetta il segnale wi-fi del Burger King e mostra con orgoglio la foto che si sono scattati all’uscire vivi dalla giungla del Darién dopo giorni di cammino tra fango e burroni.

Quel punto del percorso migratorio è tra i più pericolosi di tutto il viaggio, a causa sia delle difficoltà naturali come le paludi, che rendono faticoso e spesso mortale il cammino, sia della presenza di bande criminali che assaltano i migranti derubandoli di tutti i loro averi.

Carolina ora sorride perché, proprio ricordando l’interminabile fatica che hanno vissuto sulla propria pelle nel Darién, è convinta che la parte più difficile del loro viaggio sia passata.

Non hanno più soldi né forze, ma nessuno è riuscito a privarli della speranza.

Sono partiti dall’Ecuador nel dicembre 2022, hanno attraversato la Colombia, la giungla del Darién, Panama, Costa Rica (dove sono rimasti alcuni mesi a lavorare), Nicaragua, Honduras e alla fine sono arrivati in Guatemala a maggio del 2023.

«Abbiamo visto persone annegare nel fango del Darién perché non avevano più forze per andare avanti, altre sono scivolate nei dirupi e sono sparite per sempre. Noi siamo stati fortunati e siamo sopravvissuti – racconta Carolina -. So che il Messico è pericoloso, perché i narcos e la polizia cercano sempre di derubarti, ma sono sicura che noi riusciremo ad arrivare negli Stati Uniti».

I muri da superare

Carolina parla con l’entusiasmo di chi forse non sa che il Guatemala, così come il Messico, gioca il ruolo di muro per i migranti diretti negli Stati Uniti senza visto, via terra. Da molti anni, il Messico viene considerato un’estensione della frontiera degli Stati Uniti, e le oltre cinquanta stazioni migratorie sparse sul territorio nazionale sono un ostacolo che i migranti conoscono bene e provano a evitare. Si avventurano in percorsi più precari dove spesso vengono intercettati da gruppi criminali che li derubano o li sequestrano.

Il Guatemala, invece, era stato elevato a «terzo paese sicuro» da un accordo firmato nel 2019 tra l’ex presidente Trump e l’ex presidente guatemalteco Jimmy Morales.

L’accordo permetteva di deportare nel paese centroamericano le persone salvadoregne e honduregne che si presentavano alla frontiera degli Stati Uniti e che non avevano richiesto asilo politico in Guatemala, considerato – appunto – abbastanza sicuro per accogliere richiedenti asilo. Di fatto l’accordo estendeva ancora di più le frontiere degli Stati Uniti che, in questo modo, riuscivano a delegare al Guatemala la gestione di un immenso numero di migranti, creando un enorme primo posto di blocco.

L’accordo è stato revocato nel 2021, ma il Guatemala continua a gestire una politica migratoria di contenimento.

Nel 2022, il paese centroamericano ha respinto 15.593 venezuelani e 2.555 nicaraguensi, cubani e haitiani. Ogni giorno la polizia nazionale guatemalteca detiene ed espelle decine di migranti, per lo più venezuelani.

Deportazioni

Muro dopo muro, deportazione dopo deportazione, gli Stati Uniti sono diventati un miraggio per Alonso e Jona che condividono l’incrocio tra la sesta avenida e la decima strada con la famiglia di Carolina e Josué. «Ho perso il conto di quante volte siamo stati deportati – ridono nervosamente Alonso e Jona -.

Un anno e mezzo fa abbiamo lasciato il Cile dove stavamo vivendo da alcuni anni. Arrivati fino alla frontiera Usa, la polizia statunitense ci ha beccati e deportati a Panama. Da lì siamo andati in Costa Rica e abbiamo provato a lavorare, ma non guadagnavamo abbastanza, così abbiamo deciso di migrare nuovamente. La polizia guatemalteca ci ha intercettato una prima volta e portati in Honduras. È la seconda volta che siamo qui e speriamo che non ci deportino di nuovo. Tornare in Venezuela è fuori discussione, per cui, se tutto va bene, resteremo in Guatemala finché non riusciremo a racimolare i soldi che ci servono per andare avanti».

La Casa del migrante

Dall’altra parte del centro storico, Leidy (nome di fantasia), 41 anni e madre single di un bambino di otto anni con disabilità mentale, è appena arrivata alla «Casa del migrante» dei missionari scalabriniani. Prevede di attraversare il Messico in poche ore. Lei ha ancora qualche soldo per finanziare il viaggio verso il Nord America e non pensa di rimanere in Guatemala neanche un giorno in più.

«Appena arriveremo alla frontiera degli Stati Uniti, farò richiesta per entrare nel programma di accoglienza speciale dedicato alle persone venezuelane», dice Leidy, dimenticandosi, o forse ignorando, che non ha i requisiti necessari per fare domanda.

Infatti, l’iscrizione al programma di accoglienza rivolto ai nicaraguensi, haitiani, cubani e venezuelani è aperto solamente a trentamila persone al mese che hanno negli Stati Uniti uno sponsor in grado di garantire loro un lavoro, una volta raggiunto il Paese per via aerea.

Non sono ammessi al programma coloro che si presentano alla frontiera terrestre, né tantomeno chi viene sorpreso dalla Border patrol (la polizia di frontiera statunitense), mentre cerca di attraversare il confine in modo irregolare.

«Non ho uno sponsor negli Stati Uniti, ma mio figlio è malato e sono certa che ci accetteranno», dice Leidy, che per mesi ha attraversato una frontiera dopo l’altra a piedi, a volte con l’aiuto di un coyote pagato ad alto prezzo, ma di certo mai con un regolare visto d’ingresso.

«Il Venezuela è bellissimo»

Come Leidy, centinaia di venezuelani, soprattutto famiglie, arrivano a Città del Guatemala di sera. Molti chiedono di poter avere un pasto caldo e un letto alla Casa del migrante.

Alcuni arrivano con evidenti ferite ai piedi e vesciche, altri con la febbre e la bronchite, tutti hanno bisogno dei servizi dell’infermeria del rifugio.

All’alba svaniscono come un sogno. Perché vogliono proseguire il viaggio; con i bambini che possono camminare al loro fianco e i più piccoli avvolti in una coperta legata sulla schiena.

«Il flusso migratorio in transito proviene principalmente dal Venezuela – spiega Elena Zamin, volontaria della Casa del migrante -. Riceviamo una media di tremila persone al mese e il 75% di loro sono venezuelane, ma questa è solo una piccola percentuale di tutti quelli che arrivano giornalmente a Città del Guatemala. Molti dormono per strada, vicino al mercato La Terminal. La maggior parte di loro è senza soldi perché, prima di arrivare qui, sono stati assaliti numerose volte anche dalla polizia guatemalteca».

Più di 250mila persone hanno attraversato il Darién tra gennaio e luglio 2023, un numero superiore a quello dell’intero 2022. Il 55% di loro sono venezuelani diretti negli Stati Uniti per i quali l’America Centrale e il Guatemala sono un passaggio obbligato.

Intanto, mentre Leidy si assicura che il suo bambino riposi tranquillamente in un letto della Casa del migrante prima di riprendere il viaggio all’alba, Josué abbraccia suo figlio e si siede vicino a Carolina davanti Burger King.  Poco più avanti, Alonso tiene la bandiera venezuelana sulle spalle, con l’aria fiera di chi, nonostante tutto, non riesce ad abbandonare l’orgoglio nazionale: «Il Venezuela è bellissimo. Ci sono spiagge, le Ande, Maracaibo e il páramo. Non siamo scappati da questo, ma da chi ci ha governato o ci vuole governare. Queste persone ci hanno condannato alla fame ed è questo il motivo per cui ora siamo qui in strada in un paese straniero».

Poi ci lascia il suo numero di telefono guatemalteco per metterci in contatto con lui prima di legarsi la bandiera e scompare dietro un angolo.

Diventare invisibili

Settimane dopo il telefono di Alonso suona a vuoto. Sembra sparito o, forse, ha semplicemente lasciato il Guatemala, dopo aver risparmiato i soldi sufficienti a pagarsi un bus verso la frontiera con il Messico e un coyote per attraversare il fiume. O forse, come nei suoi peggiori incubi, è stato deportato nuovamente verso sud. L’unica cosa certa è che, nell’invisibilità in cui sono costretti i migranti in tutto il mondo, di lui, così come di Carolina e tutti gli altri, non c’è più traccia.

Simona Carnino


Stati Uniti / Migranti sul confine meridionale

Pressione continua, soluzioni difficili

Nel solo mese di settembre, sul confine sud degli Stati Uniti, sono stati oltre 210mila i migranti senza permesso fermati dalle autorità statunitensi. Per comprendere meglio il dato e avere un termine di paragone: in più di dieci mesi (da gennaio al 9 novembre), gli sbarchi di migranti in Italia sono stati pari a 144.889 persone. Tra quei 210mila si sono contati oltre 50mila venezuelani. In precedenza, questi preferivano trovare riparo nei paesi più vicini (Colombia, Perù, Ecuador, Brasile), anche per evitare il pericoloso attraversamento del Darién. D’altra parte, la fuga dal Venezuela ha assunto connotati biblici: secondo R4V (una piattaforma di coordinamento), sarebbero addirittura 7,7 milioni le persone espatriate (rifugiati, migranti e richiedenti asilo).

La condizione dei migranti venezuelani è particolare, a causa della mancanza dal 2019 di relazioni diplomatiche ufficiali tra il governo di Caracas e quello di Washington. Pertanto, mentre gli Stati Uniti possono rimpatriare migranti illegali (300mila tra maggio e ottobre 2023, secondo fonti ufficiali) verso paesi dell’America Centrale e di altre parti del mondo, il Venezuela non accettava deportazioni ufficiali. La situazione è cambiata dallo scorso ottobre, dopo un accordo tra i governi dei due paesi. In base ad esso, il 18 dello stesso mese dal piccolo aeroporto di Harlingen, in Texas, è partito per Caracas un primo aereo con a bordo 131 venezuelani espulsi dagli Stati Uniti.

A settembre, per alleggerire la pressione sulle casse delle città che accolgono i migranti (New York, Chicago e Denver, in primis), il presidente Biden aveva offerto lo status di protezione temporanea (Temporary protected status, Tps) a circa 472mila venezuelani negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali entrata dal confine meridionale. La mossa consentirà ai venezuelani arrivati prima del 31 luglio di richiedere permessi di lavoro e protezione contro l’espulsione.

Peraltro, il governo di Nicolás Maduro rifiuta la definizione di «rifugiati» per i migranti venezuelani, come ha spiegato in una riunione della Unhcr il viceministro Rubén Dario Molina. I venezuelani usciti dal paese lo hanno fatto per cause economiche e queste sono state prodotte dalle oltre 900 misure coercitive unilaterali adottate contro il Venezuela. La questione dei migranti non può essere utilizzata per fini politici e mediatici (Correo del Orinoco, 10 ottobre 2023). Anche le cifre sono molto diverse: secondo il governo latinoamericano, i venezuelani emigrati (per ragioni economiche) sarebbero due milioni e di questi la metà sarebbe già rientrata usufruendo del programma Vuelta a la patria («Ritorno in patria»).

Per quanto riguarda gli Usa, nel corso del 2023 sono state anche ampliate le funzioni di una app per cellulari sviluppata dalle autorità della Customs and border protection (Cbp) e denominata «Cbp One» attraverso la quale i migranti senza documenti d’entrata negli Usa possono ottenere informazioni e soprattutto chiedere un appuntamento con le autorità statunitensi presso posti di frontiera prestabiliti sul confine meridionale. Sul sistema sono piovute svariate critiche, non ultima quella secondo la quale gli appuntamenti sono appannaggio di coloro che hanno i telefoni migliori o una connessione adeguata.

Al momento la cosa certa è che l’arrivo in massa di migranti dal confine sud del paese sta mettendo in gravi difficoltà Joe Biden, che su questo tema si giocherà la possibile rielezione nel novembre del 2024.

Paolo Moiola

Con la bandiera venezuelana sulle spalle, Alonso chiede l’elemosina per continuare il suo viaggio.. Foto Simona Carnino.




Dai gabbiani ai maiali


L’influenza colpisce anche gli animali, in particolare con il virus di tipo «A». Le più diffuse sono l’influenza aviaria e quella suina. In queste pagine, cerchiamo di capire le modalità di trasmissione del virus e le conseguenze sull’uomo.

Da oltre un anno si è avuta in tutto il mondo una recrudescenza dell’influenza aviaria, una malattia degli uccelli causata da un virus dell’influenza di tipo A (vedi sotto: H1N1 versus H5N1). Può essere a bassa (Lpai) o ad alta patogenicità (Hpai).

L’influenza aviaria può contagiare praticamente tutte le specie di uccelli, ma le manife-

stazioni possono essere molto diverse: dalle forme leggere a quelle altamente patogene e contagiose, capaci di causare rapidamente epidemie acute. Se la malattia è causata da una forma virale altamente patogena, può insorgere in modo improvviso e portare rapidamente a morte quasi il 100% degli animali colpiti.

Nel pollame

Tra l’estate e l’autunno 2022 in Italia si è osservato il prolungamento dell’epidemia iniziata nell’autunno 2021, che ha coinvolto diverse colonie di uccelli selvatici marini appartenenti all’ordine dei suliformi (uccelli acquatici). Il 22 settembre 2022, il Centro di referenza nazionale (Crn) per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle ha confermato la prima positività del secondo semestre per virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità (Hpai, sottotipo H5N1) nel pollame e questo ha portato a un’aumento delle misure di controllo generali e specifiche.

In tutta Europa sono stati confermati nuovi casi di influenza aviaria ad alta patogenicità tra dicembre 2022 e marzo 2023, per un totale di 522 casi nei domestici e 1.138 nei selvatici.

Particolarmente rilevante è stata l’epidemia di influenza aviaria che ha colpito il gabbiano comune nel Nordest dell’Italia, in Belgio, Francia e Olanda.

Il virus responsabile di questi casi è sempre stato il sottotipo H5N1 e le analisi genetiche virali effettuate in Italia su uccelli selvatici hanno dimostrato che esso sta circolando anche nelle nostre specie stanziali. Da settembre 2022 ad aprile 2023, in Italia sono stati confermati quaranta focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nei domestici, riguardanti in parte gli allevamenti rurali di piccole dimensioni.

Il virus H5N1, attualmente circolante tra i volatili selvatici e domestici, si è dimostrato capace di attaccare anche i mammiferi.

Tra gennaio e febbraio 2022 si sono verificati numerosi episodi di mortalità nelle colonie di leoni marini in Perù. Un focolaio è stato confermato nell’ottobre 2022 in un allevamento di visoni in Spagna, mentre in Italia, nell’aprile 2023, sono stati confermati due casi nelle volpi, dovuti probabilmente all’ingestione di volatili morti per influenza aviaria e, inoltre, cinque cani e un gatto sono stati contagiati all’interno di un allevamento avicolo rurale.

Sorveglianza aumentata

Per tale motivo, il ministero della Salute quest’anno, oltre il mantenimento della sorveglianza sugli uccelli selvatici, ha disposto la sorveglianza anche sui carnivori selvatici.

Il dispositivo del ministero prevede il rafforzamento della biosicurezza negli allevamenti avicoli nazionali, con rilevamento precoce dei casi sospetti di Hpai, che necessitano approfondimenti rapidi in laboratori ufficiali, per effettuare diagnosi differenziali nei confronti di virus influenzali. Inoltre, in caso di accertata circolazione di virus Hpai nell’avifauna, le regioni devono mettere in atto piani di sorveglianza attiva riguardanti gli uccelli acquatici presenti in aree di particolare rilevanza epidemiologica, come i siti di raduno dei volatili lungo le principali rotte migratorie.

La sorveglianza attiva prevede l’effettuazione di controlli sanitari regolari, mediante tamponi tracheali e cloacali su campioni significativi dell’avifauna acquatica per gli esami virologici o, in alternativa, mediante il prelievo di campioni di feci (dal momento che questo virus si annida nell’intestino dei volatili, ad esempio in quello delle oche).

Zoonosi e mutazioni

Perché l’influenza aviaria, che finora ha colpito prevalentemente gli uccelli e sporadicamente gli umani, è fonte di grande preoccupazione?

Perché un virus influenzale A originatosi in un volatile potrebbe trasformarsi in un agente infettivo capace di passare da una persona all’altra, dopo un eventuale passaggio in una terza specie, il maiale.

I suini, infatti, possono funzionare da serbatoio per una ricombinazione tra i virus propri, quelli aviari e quelli umani, creando dei virus ibridi capaci di passare da persona a persona. Se poi nell’essere umano, tali ibridi dovessero subire ulteriori e casuali modifiche potrebbe sempre originarsi un nuovo ceppo virale, potenzialmente potente e letale.

L’attuale influenza aviaria, data dal virus A H5N1, si è originata nel 2003 nel Sudest asiatico. Successivamente ha invaso tutta l’Asia da cui si è propagata al resto del mondo. Finora ha colpito oltre 150 milioni di volatili e si sono contate decine di vittime umane, per lo più tra gli addetti agli allevamenti e al commercio di pollame. Sebbene attualmente l’influenza aviaria sia diffusa soprattutto tra gli uccelli e solo poche decine di persone ne siano state colpite per passaggio diretto, senza una trasmissione da persona a persona, tuttavia la circolazione continua di alcuni virus dell’influenza A (H5) e A(H7) nel pollame è preoccupante per la sanità pubblica. Questi virus non solo causano forme gravi di malattia, ma hanno il potenziale di mutare e di aumentare la trasmissibilità tra le persone.

Le mutazioni del virus

La capacità di mutare è una caratteristica peculiare di tutti i virus influenzali e in particolare degli A. Essa è strettamente legata alle caratteristiche del loro genoma, costituito da Rna segmentato e suddiviso in otto frammenti. Ciò comporta la possibilità che si verifichi, in due virus che abbiano infettato contemporaneamente la stessa cellula, il fenomeno noto come riassortimento antigenico (antigenic shift), dovuto all’associazione in nuove combinazioni dei segmenti genomici di Rna appartenenti a due ceppi virali geneticamente distinti. Da questi processi di riassorbimento prendono origine i «virioni» che presentano un corredo proteico di superficie significativamente diverso da quello di entrambi i virus parentali.

Anticorpi (sistema immunitario e vaccinazione)

Gli anticorpi sono grandi proteine (a forma di Y) che aiutano a difendere le cellule dell’organismo dall’intromissione di corpi estranei come batteri e virus.

Le proteine di superficie virali sono il principale bersaglio degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario durante un’infezione naturale o a seguito di un’immunizzazione artificiale (cioè di una vaccinazione). Gli anticorpi preesistenti nell’organismo nulla possono contro le nuove forme virali.

Oltre al riassortimento antigenico, i virus dell’influenza sono caratterizzati anche dalla deriva genetica (antigenic drift) dovuta alle frequenti mutazioni nei geni che codificano per emoagglutinina (HA) e neuroaminidasi (NA). Le alterazioni delle proprietà di superficie dei virus influenzali rendono, pertanto, necessaria la produzione di nuovi anticorpi ad hoc. Questo spiega la necessità di produrre nuovi vaccini antinfluenzali ogni anno.

Nel caso dell’influenza aviaria, attualmente non esiste un vaccino specifico per uso umano. La raccomandazione è di effettuare la vaccinazione contro l’influenza stagionale, in modo da non correre il rischio di stressare oltremodo l’organismo a seguito di una coinfezione da parte di entrambi i virus. Inoltre, la riduzione delle coinfezioni riduce la probabilità che i virus possano acquisire la capacità di diffondersi da persona a persona.

Per quanto riguarda i farmaci attualmente a disposizione per il trattamento dell’influenza aviaria, alcuni farmaci antivirali (come gli inibitori della neuroaminidasi) si sono dimostrati efficaci nel ridurre la durata della replicazione virale, con miglioramento delle prospettive di sopravvivenza. Purtroppo è stata segnalata l’insorgenza di resistenza da parte dei virus ad alcuni di essi.

Carne e uova

Nell’Ue, i focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità nel pollame, causati dai sottotipi H5 e H7, prevedono l’attuazione di strette misure di controllo che comportano l’abbattimento e la distruzione dei volatili negli allevamenti colpiti, nonché l’istituzione di zone di controllo intorno ai focolai, dove la movimentazione è consentita solo a seguito di rigidi controlli sanitari che abbiano dato esito favorevole.

Come regola generale, inoltre, i volatili inviati al macello sono sottoposti a visita prima e dopo la macellazione, in modo da assicurare l’eliminazione dalla catena alimentare dei casi sospetti.

Tanti potrebbero chiedersi se è sicuro consumare carne e uova provenienti da aree con focolai di influenza aviaria.

Innanzitutto, va precisato che il virus dell’influenza aviaria viene inattivato dal calore. Quindi, dopo adeguata cottura, i prodotti a base di carne e le uova possono essere consumati. Del resto, il consumo di carne e uova crude o non completamente cotte dovrebbe essere sempre evitato, per potere escludere contaminazioni di qualsiasi genere.

Rosanna Novara Topino


H1N1 versus H5N1:

Le conseguenze sull’uomo

Le malattie causate da virus dell’influenza suina (H1N1) e aviaria (H5N1)  possono essere di lieve entità, con interessamento delle vie respiratorie superiori (febbre, tosse) oppure presentare una rapida progressione fino alla polmonite grave, alla sindrome da distress respiratorio acuto, allo shock e alla morte. Possono essere presenti sindromi intestinali come nausea, vomito e diarrea, soprattutto durante le infezioni da influenza A H5N1, così come congiuntivite. Le caratteristiche della malattia come il periodo d’incubazione, la gravità dei sintomi e il quadro clinico variano a seconda del virus, che ha causato l’infezione, con una netta prevalenza dei sintomi respiratori. Si è visto che i pazienti con virus dell’influenza A (H5) o A (H7N9) presentano un decorso clinico più aggressivo. Inizialmente essi presentano febbre alta (>38°C) e tosse, a cui fa seguito l’interessamento da dispnea delle basse vie respiratorie. Mal di gola o raffreddore, in questi casi sono meno comuni. In alcuni pazienti sono stati riportati anche altri sintomi come quelli intestinali, sanguinamento dal naso o dalle gengive, encefalite e dolore toracico.

RNT


I virus influenzali A, B, C e D

Le quattro tipologie

  • I virus influenzali A – alla cui categoria appartiene quello dell’aviaria – infettano l’uomo e diversi animali. La comparsa di un nuovo virus influenzale di tipo A capace d’infettare le persone e con trasmissione da persona a persona può causare una pandemia influenzale.
  • I virus influenzali B sono suddivisi in due linee, cioè il B/Yamagata e il B/Victoria; essi sono presenti solo nell’uomo, sono meno temibili degli A e sono responsabili delle epidemie stagionali.
  • I virus influenzali C possono infettare sia le persone che i suini e solitamente danno un’infezione asintomatica o una forma lieve di malattia simile a un comune raffreddore.
  • I virus influenzali D sono di recente identificazione e sono stati isolati solo nei bovini e nei suini. Al momento non è chiaro se possano infettare anche l’essere umano.

I virus influenzali di tipo A sono particolarmente importanti per la sanità pubblica per via del loro potenziale zoonosico, cioè la trasmissione dagli animali all’uomo. Data l’elevata trasmissibilità che li caratterizza, se fossero in grado di trasmettersi da uomo a uomo, essi potrebbero scatenare una pandemia influenzale (spillover o salto di specie). Questi virus sono classificati in sottotipi in base alle diverse combinazioni di due glicoproteine di superficie del virus, cioè l’emoagglutinina (HA) e la neuroaminidasi (NA). Allo stato attuale, solo i virus influenzali che presentano in superficie le molecole H1, H2, o H3 e N1 o N2 possono passare da persona a persona. Soltanto alcune combinazioni possono passare da persona a persona. Tutte le altre possono contagiare le persone, ma non trasmettersi da una all’altra.

I virus influenzali responsabili delle grandi pandemie o epidemie del passato sono stati quello della «spagnola», quello dell’«asiatica» e di «Hong Kong». Il primo, l’H1N1, l’agente eziologico della «spagnola», nel 1918-19 causò da 20 a 50 milioni di morti in tutto il mondo, con un’elevata mortalità tra i giovani adulti sani (quasi la metà dei deceduti) e con il decesso che sopraggiungeva nei primi giorni dall’inizio della sintomatologia o per complicanze. Il secondo, l’H2N2, virus responsabile dell’«asiatica», fu inizialmente identificato in Cina nel febbraio 1957 e si diffuse in tutto il mondo tra il 1957-58. In Italia provocò 70mila decessi. Questo ceppo subì una serie di modifiche genetiche a partire dal 1960 che lo portarono a produrre le epidemie periodiche fino alla sua scomparsa dopo una decina di anni. Fu sostituito con l’H3N2, che, nel 1968, diede origine alla pandemia influenzale «Hong Kong», che lì si originò per raggiungere gli Stati Uniti nell’arco di un anno. Quest’ultimo virus è tuttora presente e provoca epidemie stagionali, ma attualmente è possibile prevenirlo con il vaccino antinfluenzale. Peraltro la mortalità sia dell’«asiatica» che della «Hong Kong» è stata inferiore rispetto a quella della «spagnola» non solo grazie alla produzione di vaccini, ma anche grazie all’avvento degli antibiotici (la penicillina fu scoperta da Fleming nel 1928).

Nel 2009 comparve un nuovo sottotipo del virus A H1N1 (quello della «spagnola»), che diede origine, a partire dal Messico e poi in diversi paesi del mondo, all’influenza «suina» che causò tra i 100mila e i 400mila morti solo nel primo anno, soprattutto tra bambini e giovani. Del resto, una caratteristica dei virus pandemici è quella di colpire soprattutto persone giovani, o comunque al di sotto dei 65 anni, risparmiando gli anziani, che sono più facilmente colpiti dai virus stagionali.

RNT

Accortezze in cucina

Anche in cucina vanno adottati alcuni accorgimenti. Innanzitutto bisogna sapere che il congelamento lento intorno a -18/-20°C dei congelatori domestici non è in grado di debellare il virus dell’influenza aviaria eventualmente presente nei prodotti alimentari.

Per evitare contaminazioni, bisogna sempre separare la carne cruda e le uova dai cibi cotti o pronti da consumare.

Non si devono mai utilizzare lo stesso tagliere e lo stesso coltello usati per la carne cruda anche per altri alimenti, e la carne, una volta cotta, non va messa nello stesso piatto dove era stata posta prima della cottura.

È buona norma lavarsi sempre accuratamente le mani con acqua e sapone, sia prima che dopo avere maneggiato la carne cruda.

Lavare accuratamente tutte le superfici e gli utensili che sono stati a contatto con carne cruda.

RNT

 




Biogas, istruzione e salute: il 2023 di Mco


L’anno che sta per concludersi ha visto la realizzazione di diversi progetti, sia nei settori tradizionali per i Missionari della Consolata – cioè la sanità e l’istruzione – sia in settori nuovi, come la promozione di energia pulita. E l’Africa, anche quest’anno, è stata la grande protagonista.

Lo scorso settembre, durante il vertice del G20 a Nuova Dehli, India, diciannove paesi e dodici organizzazioni internazionali hanno lanciato la Global biofuel alliance (alleanza globale per i biocarburanti). L’obiettivo dell’alleanza, di cui fanno parte fra gli altri anche l’Italia, gli Usa, l’India e, fra le organizzazioni, il World economic forum, la Banca mondiale e la Banca asiatica di sviluppo, ha l’obiettivo di promuovere l’uso dei biocarburanti sostenibili@.

I biocarburanti sono un tipo di bioenergia; quest’ultima, si legge nella sintesi del rapporto 2011 sulle fonti energetiche rinnovabili del «Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico», può essere prodotta da una varietà di materie prime di biomassa, cioè materia organica, come i residui forestali, agricoli e zootecnici, alcune colture, la parte organica dei rifiuti urbani, eccetera. Queste materie prime, attraverso vari processi e tecnologie, possono essere utilizzate direttamente per produrre elettricità e calore, oppure per ricavare combustibili gassosi, liquidi o solidi@.

Vecchie delusioni, nuove prospettive

La bioenergia, spiega sul suo sito l’«Agenzia internazionale dell’energia» (Iea, nell’acronimo inglese), rappresenta il 55% dell’energia rinnovabile a livello globale e oltre il 6% della fornitura energetica complessiva.

La moderna bioenergia, riporta ancora la Iea, è un combustibile a emissioni quasi zero, perché – per dirla in modo molto semplificato – l’anidride carbonica che si libera durante la combustione della biomassa si compensa in larga parte con quella che le piante coltivate per creare la biomassa assorbono con la fotosintesi.

All’inizio di questo secolo, i biocarburanti – ad esempio il biodiesel – avevano già ricevuto grandi attenzioni e generato aspettative che si erano però rivelate troppo ottimistiche@.

Le emissioni di anidride carbonica imputabili ai biocarburanti, infatti, non erano poi così basse, considerando la quantità di terra, acqua ed energia necessarie a produrre le piante per formare le biomasse di base. Inoltre, queste piante spesso rimpiazzavano le coltivazioni destinate alla produzione di cibo, provocando aumenti significativi dei prezzi dei prodotti agricoli. Da qui il dibattito, tuttora in corso, sintetizzato dall’espressione food vs. fuel, cibo contro carburante. Si parla oggi quindi di bioenergia moderna e biocarburanti sostenibili proprio in contrapposizione a queste prime esperienze di vent’anni fa e al loro parziale insuccesso.

Biogas e biometano

Anche il biogas rientra fra le bioenergie. Esso, spiega la Iea in un rapporto del 2020, è una miscela di metano, anidride carbonica e piccole quantità di altri gas prodotta dalla digestione anaerobica di materia organica in un ambiente privo di ossigeno.

Una delle tecnologie in grado di produrre biogas utilizza i biodigestori, cioè contenitori o cisterne ermetici nei quali il materiale organico, diluito in acqua, viene scomposto da microrganismi presenti in natura. Altri modi di produzione includono poi la «cattura» del biogas che si forma per la decomposizione dei rifiuti solidi urbani nelle discariche e il recupero dei fanghi di depurazione degli impianti di trattamento delle acque reflue. I fanghi, infatti, possono contenere materia organica e sostanze come azoto e fosforo e, con un ulteriore trattamento, possono essere utilizzati come base per produrre biogas in un digestore anaerobico@.

Il biogas può poi essere trasformato in biometano attraverso un ulteriore processo che rimuove l’anidride carbonica e le impurità. Il 90% del biometano prodotto oggi nel mondo si ottiene con questo metodo, detto upgrading, traducibile con miglioramento, passaggio alla categoria superiore.

Il biogas a Kimbiji

Secondo la Iea, 2,7 miliardi di persone nel mondo non dispongono di energia pulita per cucinare e usano biomassa solida: legna da ardere, carbone, sterco bruciato all’aperto, oppure cherosene. Circa un terzo di queste persone vive nell’Africa subsahariana.

Se fossero raggiunti tutti gli obiettivi di sviluppo sostenibile, nel 2040 il biogas potrebbe fornire energia pulita per cucinare a ulteriori 200 milioni di persone, metà delle quali in Africa, riducendo così l’inquinamento domestico causato da fornelli inefficienti e inquinanti che, secondo i dati del 2018, è direttamente collegato a circa mezzo milione di morti premature annuali nell’Africa subsahariana e a 2,5 milioni a livello globale.

Anche a Kimbiji, villaggio a circa quaranta chilometri a sud di Dar Es Salaam, in Tanzania, i missionari della Consolata registrano questa mancanza di alternative al carbone e alla legna da ardere come combustibili per cucinare. Per questo, padre Domnick Otieno, missionario di origine
keniana che lavora a Kimbiji da quasi tre anni, ha proposto di realizzare un biodigestore da alimentare con gli scarti generati dalla piccola porcilaia realizzata nel 2022 con il contributo della Caritas italiana. Questa ne ha sostenuto la costruzione per permettere a un gruppo di giovani locali di avviare un’attività generatrice di reddito.

«Siamo consapevoli», scriveva padre Domnick lo scorso marzo, «che una parrocchia dovrebbe essere un luogo di trasformazione nella società, un luogo in cui le persone imparano anche a prendersi cura dell’ambiente. L’installazione del biogas nella missione ci permetterà di avere sufficiente gas per l’uso domestico e potremo abbassare la retta per l’asilo, così i genitori dei nostri ottantasei alunni non dovranno più portare legna e carbone per pagare la parte di retta che non possono coprire in denaro. Il sistema a biogas offrirà inoltre a coloro che verranno alla missione la grande opportunità di conoscere l’importanza di questa fonte per ridurre l’inquinamento».

Scuola ad Alaba

Etiopia, istruzione in affanno

L’Etiopia, riporta il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), ha fatto progressi significativi verso l’istruzione primaria universale, con l’88,7% dei bambini iscritti nell’anno 2021/2022@.

Ma alcuni studi del ministero dell’Istruzione etiope e i risultati degli esami per l’accesso all’università di quest’anno costringono a ridimensionare questo dato incoraggiante.

Secondo Africanews, il sito di notizie legato alla rete televisiva Euronews, solo il 3% degli studenti etiopi di scuola secondaria ha passato l’esame di ammissione all’università@, mentre il ministero fa sapere che l’85,9% delle scuole elementari e medie e il 70,9% delle scuole superiori in Etiopia sono «completamente al di sotto degli standard@».

«I risultati peggiori», riferisce padre Marco Marini, missionario della Consolata in Etiopia, «sono spesso nelle scuole private, anche se le scuole cattoliche continuano a mantenere un buon livello e quindi un buon nome».

Ad Alaba, 250 chilometri a sud della capitale Addis Abeba, i missionari della Consolata gestiscono una scuola con 730 alunni, seguiti da quattordici maestri; ci sono poi otto persone che svolgono altri servizi, dalla segreteria alla sicurezza. Le classi vanno dall’asilo alla quinta, ma i missionari intendono attivarne altre, fino all’ottava (equivalente alla nostra terza media, ndr), che è l’ultima del ciclo primario.

L’intervento realizzato ad Alaba ha permesso di fornire alla scuola quarantacinque banchi necessari per avviare la sesta classe e per sostituire quelli danneggiati nelle classi già esistenti. «In Etiopia – spiega padre Marco -, i banchi per la scuola sono pensati per tre studenti e hanno una struttura in ferro su cui sono poggiati i ripiani in legno che servono per scrivere e sedersi. I nuovi banchi possono quindi accomodare un totale di 135 studenti. Li ha realizzati la falegnameria della missione di Shashemane, a sessanta chilometri da Alaba».

Studenti in cortile della nuova scuola di Alaba

Kenya, la sanità fra riforme e vecchi problemi

Secondo i dati dell’Organizzione mondiale della sanità (Oms), il Kenya ha oggi un’aspettativa di vita di 66,1 anni, circa 7 anni sotto la media globale, ma 12,2 anni in più rispetto all’anno 2000@. Tuttavia, si legge nel rapporto 2022 dell’ufficio dell’Unicef in Kenya@, la povertà rimane alta e interessa 16 milioni di persone, cioè un keniano su tre. La metà della popolazione – 23,4 milioni di persone (o addirittura quasi 29 oggi, ndr), di cui 11,7 milioni sono bambini – non ha accesso a servizi di base come assistenza sanitaria, acqua potabile, servizi igienicosanitari, nutrizione e alloggio.

Il Kenya, continua il rapporto, si è impegnato a porre fine alla diffusione dell’Hiv/Aids, che è una minaccia sempre attuale per la salute pubblica, e alle gravidanze delle adolescenti entro il 2030. Se gli sforzi per garantire agli adulti l’accesso alle terapie per il trattamento dell’Hiv sono stati efficaci, tante infezioni nelle persone più giovani non vengono rilevate né trattate. Si stima che quasi 38mila bambini e adolescenti affetti da Hiv non siano in terapia.

Inoltre, secondo il ministero della salute keniano, come riportava lo scorso anno il giornale The Nation, una su cinque adolescenti fra i 15 e i 19 anni è madre o è incinta.

Uno studio pubblicato su Health economic review, rivista del gruppo anglo-tedesco Springer nature, rivela che solo un quinto dei keniani è coperto da una qualche forma di assicurazione sanitaria@ privata o pubblica (il Nhif, National health insurance fund del ministero della Salute, iniziato nel 1966, però collassato a causa della corrotta amministrazione di questi ultimi anni, ndr). Diverse testimonianze dirette da parte di missionari della Consolata, oltre a confermare sul campo questo dato, riportano che, di fatto, soltanto pagando è possibile ottenere cure adeguate.

Recentemente, il governo@ ha lanciato una riforma del fondo che però sembra peggiorare la situazione. Prima della riforma, i keniani pagavano dal loro stipendio o in forma volontaria cifre che andavano da 150 a 1.700 scellini keniani al mese (da poco meno di un euro a circa 11 euro) per il Nhif. Il nuovo fondo prevede un contributo minimo pari al doppio e, per i lavoratori dipendenti, un maggior prelievo percentuale sulla retribuzione.

Troppe persone oggi non hanno un lavoro regolare che dia loro diritto al Nhif o permetta loro di acquisirlo in forma volontaria e, tantomeno, di accedere alle cure sanitarie a pagamento.

Timbwani, la nuova clinica

Una delle zone in cui la povertà è più diffusa è la periferia di Mombasa, grande città portuale sull’Oceano Indiano, dove i missio-
nari della Consolata sono presenti a Likoni e a Timbwani, sulla costa sud oltre lo stretto che separa dalla città antica. Proprio a Timbwani, i missionari hanno di recente completato la costruzione di una nuova struttura sanitaria.

L’aiuto richiesto a Missioni Consolata Onlus dal responsabile, padre Joseph Waithaka, riguarda l’acquisto e installazione di mobilio e attrezzatura per la sala consultazioni, per il triage, per la sala delle cure prenatali e di materiale per le consultazioni pediatriche. La clinica di Timbwani lavorerà di concerto con il dispensario di Likoni, di cui è di fatto un’estensione, e avrà un bacino di utenza di circa 10mila persone. «Chi vive nella zona di Timbwani», scriveva lo scorso marzo padre Waithaka, «deve prendere il traghetto e attraversare lo stretto per raggiungere la struttura sanitaria pubblica più vicina. Questo nuovo centro sanitario ci permetterà di offrire assistenza ai malati e programmi di consulenza ai giovani tossicodipendenti e alcolisti». Mombasa si trova, infatti, su una delle nuove rotte del traffico mondiale di eroina e questo ha reso il Kenya un paese non solo di transito, ma anche di consumo@.

Chiara Giovetti




Da Oriente a Occidente


Per ricordare il viaggio di papa Francesco in Mongolia, il polo culturale (Cam) dei Missionari della Consolata ha allestito a Torino una mostra multimediale. In una piazza della città è stata anche montata una tenda tradizionale mongola. Nei prossimi mesi la mostra sarà ospitata in diverse altre località.

Vent’anni fa, alcuni missionari e missionarie della Consolata partivano per un’avventura di cui conoscevano poco o nulla. Sul volo verso Ulaanbaatar, sentendo parlare le hostess in mongolo, si chiedevano l’un l’altra: «Chissà se un giorno riusciremo a capirci qualcosa». Oggi, dopo vent’anni, la visita del papa (dal 31 agosto al 4 settembre) è venuta a suggellare il lavoro fatto e a dare nuovo slancio ai tanti missionari e missionarie, non solo della Consolata, che si prendono cura del piccolo gregge dei cristiani mongoli. Fin dagli inizi l’impegno profuso nel raccontare la fatica e la bellezza della scoperta delle steppe sconfinate, della caotica capitale, dell’incontro con donne e uomini forti e accoglienti, della gioia provata di fronte alla freschezza di chi sceglie di diventare cristiano, hanno appassionato molti altri all’annuncio del Vangelo in terra asiatica.

Il papa in Mongolia

Il viaggio, fortemente voluto da papa Francesco, è stato un’occasione per far conoscere la Mongolia a molti che ne erano digiuni. Quando ha visto atterrare l’aereo papale sulla pista di Ulaanbaatar, il cardinale Giorgio Marengo ha gioito profondamente: un sogno si stava realizzando. Negli ambienti governativi c’erano molti interrogativi riguardo alla venuta del papa che il presidente e i suoi consiglieri avevano voluto e richiesto: «Come verrà accolta questa presenza? Gli altri leader vedranno di buon occhio la visita del responsabile ultimo della Chiesa cattolica?». Dopo il primo discorso in diretta streaming, i social media mongoli registravano approvazione: la semplicità di papa Francesco, il suo accostarsi in punta di piedi apprezzando la cultura e la forza del popolo mongolo avevano colto nel segno.

Visita di papa Francesco in Mongolia (foto Apostolic Prefecture of Ulaanbaatar)

La mostra e la «gher»

Come Cam, Cultures and mission, abbiamo così pensato di realizzare una mostra sulla Mongolia che potesse fare da cassa di risonanza per il viaggio del papa e i vent’anni della nostra presenza in quel Paese. Pensavamo a come avvicinarci in qualche modo allo spirito e alla bellezza dei popoli delle steppe e abbiamo cercato una gher, la tenda caratteristica dei nomadi mongoli. Ci è venuta in aiuto Paola Giacomini che nel 2018 aveva compiuto un viaggio di pace a cavallo dall’antica capitale mongola Karakorum, fino a Cracovia e poi a Torino. Abbiamo montato la gher il 30 settembre in piazza Bernini, vicino al Cam, e in essa sono avvenuti incontri toccanti e inaspettati. Molte persone si fermavano per guardare, entrare, chiedere, confidarsi, o per scoprire un pezzo di oriente tra i palazzi di Torino. Suor Lucia Bortolomasi, superiora delle missionarie della Consolata, Paola Giacomini e Raima, una giovane mongola che abita in città, ci hanno aiutati a volare con la fantasia e a scoprire come la gher sia un luogo accogliente, sempre aperto a chi si trova di passaggio nella steppa.

La tenda è stata smontata il giorno dopo, ma la mostra, è rimasta aperta fino al 10 novembre. È poi stata esposta in altri luoghi e sarà ancora visitabile anche nei prossimi mesi.
Ascoltare i movimenti profondi di un popolo allarga il respiro e ci fa sentire cittadini del mondo, desiderosi di amicizia e di pace.

Piero Demaria

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Il volto svelato


È arrivato il tempo, ed è ora, nel quale il veleno della morte
si tramuta in una bevanda dolce.
Il velo che copriva il volto dell’umanità, di ogni popolo,
di ogni famiglia, di ogni singolo è strappato.
Anch’esso tramutato in fragrante pane saporito.
Il mio volto illuminato dal Tuo.
Il Tuo volto di bambino che porta
a compimento la promessa.
Quella fatta fin dal primo giorno di vita sulla Terra:
«Eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 6-10).
È arrivato il tempo in cui le lacrime del lutto
sono accarezzate via dalle dita dell’Amato,
dalla Parola dell’Amante, dal soffio dell’Amore.

Buon Avvento e buon Natale
perché sia il tempo nel quale svelare
il nostro volto autentico
da amico.

Luca Lorusso


Goditi Amico in anteprima attraverso le immagini.
Per gustarlo fino in fondo, accedi al sito amico.rivistamissioniconsolata.it

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Il profeta senza nome


Il nostro percorso alla scoperta di personaggi biblici la cui fede esemplare e affascinante può insegnare qualcosa anche a noi, è iniziato a gennaio con Abramo, il più noto dei patriarchi benché la sua precisa esistenza storica non sia al di sopra di ogni dubbio. Lo concludiamo con un personaggio che, all’opposto, è sicuramente esistito, ma che ha cercato in tutti i modi di nascondersi, tanto che, in effetti, non ne conosciamo neppure il nome, anche se ci ha lasciato alcune delle pagine più luminose e toccanti di tutta la Bibbia: parliamo dell’autore dei capitoli 40-55 del libro del profeta Isaia.

Lo sfondo letterario

Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Gerusalemme e la Giudea avevano vissuto un momento di crisi e di gloria. Di crisi perché nella regione era arrivata la potenza terribile del nuovo impero assiro che aveva avuto ragione dei ben più agguerriti regni di Damasco e di Samaria. Quest’ultima, il regno di Israele del Nord, era stata conquistata e distrutta nel 721 a.C. con la conseguente deportazione della sua classe dirigente e di tutti coloro che, per abitudine o cultura, avrebbero potuto eventualmente guidare una rivolta.

Un gruppo di sacerdoti, probabilmente, si era rifugiato da Samaria a Gerusalemme portando con sé le proprie tradizioni religiose e profetiche, forse già in parte scritte. Essi, quindi, avevano contribuito alla gloria di quegli anni, perché da loro Gerusalemme era stata come rivitalizzata, prima che arrivasse anche su di lei l’ondata conquistatrice degli Assiri. Questi l’avevano sì assediata ma, distratti forse da disordini in patria o, più probabilmenti, delusi dalla povertà che comunque vedevano nella città (per cui lo scarso bottino non avrebbe giustificato l’enorme sforzo per conquistarla), avevano deciso di abbandonare l’assedio prima di dare l’assalto finale (701 a.C.).

In quegli anni operava a Gerusalemme un profeta dallo stile limpido e bellissimo, sicuro di sé e deciso, che esortava i giudei a confidare non in alleanze umane, ma solo in Dio. E, in effetti, si sarebbe potuto dire che, alla fine, la storia gli aveva dato ragione. Egli continuava a ripetere che «tempio del Signore è questo» e Dio non lo avrebbe lasciato conquistare mai. Questo suo ritornello negli anni si era conservato ed era stato rinfacciato, più di un secolo dopo, a Geremia, il quale invece sosteneva che, nel suo tempo, per fidarsi di Dio occorreva lasciare che i nemici conquistassero la città santa (Ger 7,4): infatti, mantenersi sulle vie del Signore non significava fare sempre le stesse scelte.

Un contesto nuovo

La storia poi darà ragione anche a Geremia.

A metà del vii secolo l’impero assiro va in crisi, e il suo posto viene preso da un altro impero, quello babilonese, che ricomincia a percorrere la strada di conquista e sopraffazione già nota, anche se con uno stile lievemente più mite.

Durante la conquista babilonese, Gerusalemme viene presa e la parte più capace e colta dei suoi abitanti deportata a Babilonia.

In quel periodo, o forse appena dopo, inizia a predicare un profeta nuovo, di cui non conosciamo né il nome, né la vita, né il motivo per il quale decide di fare ciò per cui ancora oggi restiamo ammirati.

Sarebbe infatti bello sapere se quello che noi oggi leggiamo lo abbia anche predicato, ma non possiamo fare altro che immaginare e fantasticare. Ciò che sappiamo è che prende il libro di Isaia, chiuso più di un secolo prima, e decide di proseguirlo.

L’autore del libro di Isaia cambia dal capitolo 40 in poi, perché cambiano lo stile, i temi, lo sfondo (si capisce benissimo che chi scrive è in esilio e scrive a esiliati). Ma lui decide di non iniziare un nuovo rotolo, di non dichiarare chi è. Si «limita» a proseguire uno scritto altrui. Così facendo, inevitabilmente, suggerisce la sua continuità con il «primo» Isaia (in realtà, l’unico di cui abbiamo il nome).

Questi, come abbiamo ricordato, aveva invitato a confidare in Dio, che avrebbe difeso il suo popolo anche politicamente e militarmente. Chi prende quel libro in mano e decide di proseguirlo, vuole invece suggerire che, anche se il popolo è stato sconfitto ed esiliato, Dio continua a essere al suo fianco, a essere affidabile. E già un messaggio del genere è sorprendente.

Avrebbe potuto decidere di nascondere e dimenticare il rotolo di Isaia, o dire che aveva parlato del passato, invece, dal fondo dell’abisso, dice che Dio è sempre lo stesso, continua ad assistere il suo popolo, continua a esserci e a sostenere i suoi.

Le parole nuove

«Consolate, consolate il mio popolo, parlate al cuore di Gerusalemme» (Is 40,1-2).

Le parole dei profeti, almeno in superficie, sono sempre state dure, di giudizio e castigo, anche quando poi, in fondo, parlavano di amore e misericordia. Il «secondo» Isaia, invece, non salva neanche la forma: Dio è un padre innamorato che corre in aiuto di sua figlia, ne giustifica persino gli errori, la abbraccia, la rincuora.

Se parole di giudizio ci sono, sono contro le nazioni intorno, che hanno esagerato nel punire Israele. Ma per il resto si parla di un Dio che vuole far sorridere d’affetto gli esiliati, che li accarezza, che li vuole riconfortare.

Certo, soprattutto a quel tempo, sarebbe stato facile contestare queste affermazioni: come è possibile dire che Dio vuole il bene di Israele che, invece, si ritrova battuto, umiliato e deportato dopo aver visto bruciare il suo tempio, «il luogo scelto da Dio per porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,15, tra i tanti esempi)?

Per il mondo semitico, nel quale nasce anche questo testo, gli dèi difendono un luogo appartenente a loro popolo perché lo considerano proprio: se quel luogo viene conquistato è segno che quegli stessi dèi sono stati sconfitti. Dunque, qui si pone la questione: il Dio d’Israele ha abbandonato il suo popolo, oppure non è stato capace di difenderlo ed è stato sconfitto. Di fronte a questo dilemma verrebbe spontaneo abbandonare un simile Dio.

No, risponde il nostro profeta. E, per la prima volta con chiarezza assoluta, afferma quello che per il popolo ebraico diventerà il cuore della fede: Dio non è stato sconfitto e può decidere di non abbandonare il suo popolo, perché è l’unico Dio di tutta la terra, non uno dio tra i molti dèi. Egli  gestisce tutto come vuole, e ha vissuto la prova del suo popolo con angoscia, e non vuole più che soffra, come un padre che ha lasciato sbagliare suo figlio, ma ha vissuto con più dolore di lui le piaghe conseguenti ai suoi errori.

E siccome Dio è l’unico dio della terra, anche i salvatori che arriveranno per il suo popolo, come il re dei Persiani, Ciro, sono in realtà scelti e voluti e chiamati da lui, anche se loro non lo conoscono (Is 45,1.4). Addirittura, il nostro profeta dice che Ciro è il «suo pastore» (44,28) e il «suo messia» (45,1), con un coraggio che a volte persino le nostre traduzioni moderne faticano a seguire, preferendo renderlo con il «suo eletto» o il «suo unto».

E Dio può serenamente sognare e promettere, a questo punto, non che tutti i popoli saranno vinti e soggiogati, ma anzi che tutti verranno a Gerusalemme per rendere onore al Dio d’Israele (45,22-24). E può invitare il suo popolo amato a violare, apparentemente, la legge dell’Esodo e del Deuteronomio, smettendo di ricordare le imprese del passato: «Ecco, faccio una cosa nuova, proprio adesso germoglia, non ve ne accorgete?» (43,19). Il nostro anonimo profeta, che potrebbe piangere la propria sorte, invita a vedere Dio presente, operante, attivo nella vita degli esiliati.

La sofferenza

Tutto bello? Tutto buono? Come poteva un profeta simile farsi accogliere da gente che soffriva? Non si accorge di che cosa ha intorno, questo ingenuo?

Se ne accorge, sì, ma coglie che c’è altro. Che Dio è presente anche nella sofferenza. Anzi, che se c’è un sofferente che patisce con mitezza per gli altri, non solo Dio approva, ma è lì, con lui, al suo fianco. E se anche nessuno apprezzasse quella sofferenza, Dio non la trascura, ma la vede e valorizza, dicendo che proprio colui che patisce è «il giusto mio servo» (Is 53,11).

È così che nascono alcune tra le pagine più spiazzanti della Bibbia, che i cristiani leggeranno forse con la pelle d’oca, perché non potranno che pensare: «Ma qui parla della passione di Gesù».

Quasi come fossero inserti inutili o fuori tema, compaiono dei «cantici» che lodano un «servo del Signore» che porta pace e risanamento a Israele (42,1-9), procurando peraltro luce e salvezza non solo a quel popolo, ma a tutte le nazioni (49,1-6), benché sembri non vincente, ma oppresso e sconfitto, con la barba strappata, deriso, insultato. E infine, addirittura, mortificato, ucciso, svergognato (52,13-53,12), eppure sicuro di essere dalla parte di Dio (50,4-9).

È l’intuizione che chi è dalla parte del giusto, di Dio, non può essere confuso, anche se agli occhi del mondo sembra esserlo. È la novità di uno sguardo che non punta alle conseguenze, agli esiti, ma al senso, a ciò che c’è a monte. Perché Dio non guarda ai risultati, ma al cuore.

È l’intuizione abissale che un Dio che difende gli umili e gli oppressi, si farà umile e oppresso come loro, con loro.

Il messaggio del profeta sconosciuto

Quale può essere il messaggio interiore, profondo, di un personaggio che neppure possiamo vedere, immaginare, chiamare per nome?

Il «secondo Isaia» (così è passato alla storia per i biblisti) intuisce che un Dio impegnato in un rapporto personale e intimo con l’essere umano non può abandonarlo, soprattutto quando è umiliato, vinto, disperso. Il secondo Isaia intuisce che Dio è presente, c’è, non si ritira soprattutto dove l’umanità ha perso.

Solo uno sguardo amante capisce che, quando la storia sembra dire che sei stato sconfitto e devi arrenderti e rinunciare, chi ama resta sempre presente. E Dio è colui che ama l’umanità a prescindere da ogni altra cosa, come ha lasciato capire in tanti secoli e in tanti personaggi e, per noi, in tanti libri biblici.

Anche quando tutto sembra perduto, anzi, soprattutto in quel momento, Dio è lì, è accanto, sorride, consola, abbraccia, rialza.

Questo profeta ci mostra uno sguardo che prova a penetrare nel pensiero di Dio, e scopre qualcosa di inaudito, di impensabile. Scopre che Dio è tanto interiore all’umanità da non poter fare a meno di farsi debole anche lui, fragile, oppresso e ucciso. Senza che questo gli tolga la capacità di salvare. Ma donandogli la possibilità di «saper prendere parte alle nostre debolezze, perché è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).

Il «secondo Isaia» non trova questo volto di Dio descritto da nessuna parte, ma lo intuisce guardando a ciò che il suo Signore ha fatto nella storia, cogliendone la logica, le modalità di comportamento. Il suo è lo sguardo fiducioso che non si aggrappa ai testi o alle argomentazioni (che forse non gli darebbero ragione), ma si affida a una relazione personale che (il profeta lo sa, lo intuisce, se ne fida) non verrà meno, mai.

Angelo Fracchia
(Camminatori 10 – fine)




La solidarietà degli immigrati

 

A Palermo, i membri dell’associazione Stra Vox, giovani tra i 16 e i 30 anni provenienti dall’Africa occidentale, dal 2019 sostengono le persone in difficoltà, immigrate e italiane, distribuendo pasti caldi, beni di prima necessità e giocattoli per bambini.
Ogni anno svolgono attività di raccolta fondi tramite il «Ramadan solidale», distribuendo circa 900 pasti caldi nella zona di Ballarò, e tramite il «Natale solidale», acquistando giocattoli da regalare a centri aggregativi, parrocchie e famiglie.

A Jesi, in provincia di Ancona, i volontari del Centro culturale islamico Al Huda (che unisce musulmani di Tunisia, Marocco, Algeria, Bangladesh, Pakistan, Albania e Senegal) nel 2020 hanno donato al Comune 2.500 euro per contribuire ai bisogni emersi durante la pandemia, inoltre si dedicano a periodiche iniziative ambientali, ripulendo le principali zone della città.

A Venezia, negli ultimi anni, i bangladesi della Venice Bangla School, con sede a Mestre, hanno effettuato donazioni in denaro al Comune e alla protezione civile, e hanno regalato 100 tute protettive anti-Covid alla polizia di Stato, 100 alla polizia municipale e 300 all’ospedale locale.

Sono alcuni degli esempi virtuosi presentati nella ricerca Partecipo quindi dono. L’impegno solidale delle persone di origine immigrata oltre la pandemia, realizzata dal Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo in collaborazione con Csvnet (associazione nazionale dei Centri Servizio Volontariato), per esaminare le pratiche di dono e aiuto messe in atto dalle persone di origine straniera a partire da due emergenze: la pandemia da Covid-19 e l’accoglienza di profughi del conflitto russo-ucraino.

L’indagine, realizzata in diverse regioni italiane attraverso 330 questionari, 64 interviste narrative e l’analisi di sette realtà associative, rovescia lo stereotipo dell’immigrato destinatario passivo degli aiuti descrivendolo come protagonista attivo della solidarietà.

Ma qual è l’identikit dei cittadini stranieri con propensione al dono?
«Al 59% sono donne, che mostrano maggiore sensibilità e dispongono di tempo libero dal lavoro fuori casa», spiega la sociologa Deborah Erminio dell’Università di Genova, una delle curatrici della ricerca.
Si tratta, inoltre, di persone con titoli di studio medio alti (il 52% laureati), con occupazioni dignitose anche se non sempre stabili (42%), residenti in Italia da molti anni (in media più di 20), nelle regioni più sviluppate (quasi il 90% tra Nord e Centro) e che vivono nel nostro Paese con la propria famiglia (64%). «Ciò dimostra che la maggiore stabilità socio-economica e giuridica consente di liberare energie a favore degli altri: l’integrazione mette in circolo la solidarietà».

L’attitudine solidaristica, a favore sia dei propri connazionali sia della società e delle istituzioni italiane, è stata analizzata in tre ambiti: dono di beni materiali (raccolte fondi, collette alimentari, giocattoli), dono di tempo (visite a persone malate, babysitteraggio occasionale, aiuto ad altri stranieri per le pratiche burocratiche), volontariato vero e proprio (nel quale emerge un senso di solidarietà universalmente orientata).

La maggior parte degli intervistati, 8 su 10, dedicano il proprio aiuto alle persone bisognose che vivono in Italia, indipendentemente dalla loro origine, per cui prevale un orientamento universalistico seppure in una dimensione di prossimità fisica. «I cittadini d’origine straniera sentono la responsabilità sociale verso il nostro Paese: spesso, anche quando aiutano gli altri immigrati, lo fanno non con spirito di parte ma perché li vedono come categoria povera e vulnerabile. Il criterio è: si aiuta chi ha bisogno», nota Deborah Erminio.

Circa il 55% del campione considerato è anche impegnato nella solidarietà transnazionale con i territori d’origine, sia nella forma di rimesse inviate regolarmente a familiari o ad associazioni e centri religiosi, sia in occasione di emergenze (terremoti, incendi, conflitti). Accanto all’esigenza di integrarsi nel nostro Paese, rimane dunque il desiderio di mantenere i legami con la propria società di origine.

In tutti i casi, «la solidarietà è contagiosa: tende ad aiutare di più chi a sua volta ha ricevuto aiuto, per cui si crea un circuito virtuoso di responsabilità sociale», spiega Deborah Erminio. Lo confermano le parole di El Anouar El Miloudi, presidente del Centro culturale islamico Al Huda: «Abbiamo deciso di fare qualcosa di bello per aiutare il Comune di Jesi, perché loro sono sempre con noi e quando bussiamo hanno sempre la porta aperta. Durante il Covid, ci hanno dato un terreno dove seppellire i nostri morti. Il Comune ci ha fatto un grande favore, in quel periodo non c’era il cimitero e hanno concesso un terreno per la comunità islamica».

L’indagine evidenzia la capacità degli immigrati – inclusi i neocittadini italiani e le nuove generazioni cresciute nel nostro Paese – di aggregarsi in forme più o meno organizzate (associazioni, comunità religiose, gruppi di connazionali) per attivarsi e prestare aiuto. Emerge così «l’esistenza di una classe media di origine immigrata che durante la pandemia ha fatto da tramite tra le istituzioni italiane e la popolazione straniera, tutelando la salute di tutti. Pensiamo ad esempio ai migranti irregolari, a lungo esclusi dalle vaccinazioni anti-Covid», osserva Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano, altro curatore di Partecipo quindi dono.

La pratica del dono manifesta anche una dimensione politica, è un modo per sentirsi parte della società italiana a pieno titolo, cittadini a tutti gli effetti. «Accanto all’idea di una restituzione simbolica nei confronti del Paese ospitante, c’è una domanda di riconoscimento sociale. L’altruismo è una forma di cittadinanza dal basso, che rivendica più ascolto e apertura in sede politica», dice Ambrosini. «Del resto, gli immigrati trovano più spazio nell’associazionismo che nel mondo del lavoro o della politica. Come spesso avviene, la sfera del volontariato è un passo avanti».

Stefania Garini




Addio Yacouba Sawadogo, argine al deserto

 

Il 3 dicembre scorso, all’età di 77 anni, è morto Yacouba Sawadogo. Agricoltore burkinabè, Sawadogo è diventato famoso per avere applicato alcuni metodi di lotta contro la desertificazione a partire dagli anni Ottanta.

Nella provincia Yatenga, nel nord del Burkina Faso, gli effetti dell’avanzata del deserto e dell’inaridimento dei suoli costringono, ancora oggi, i contadini a lasciare i campi.

Una grande siccità tra il 1980 e l’83 aveva colpito duro, e fatto migrare molte persone verso sud. Yacouba Sawadogo decise di attaccare il problema. Recuperando tecniche ancestrali, come lo zai e le dighette anti erosive, migliorandole e lavorando duramente, è riuscito, in alcuni decenni, a ricreare una foresta di circa 40 ettari. Quest’area si trova a Gourga, il suo villaggio, non lontano da Ouahigouya, capoluogo della provincia.

Iniziò a intervenire per la preservazione del suolo contro l’erosione, e per produrre cibo (miglio e sorgo sono i cereali coltivati in queste zone). In seguito piantò alberi, e favorì la presenza di uccelli e piccoli animali, creando così un polo di biodiversità del Sahel.

Contadino del Burkina Faso intento a realizzare una coltivazione con la tecnica zai. Foto Marco Bello

Yacouba decise poi di curare le persone, utilizzando essenze ed erbe da lui coltivate, e fu riconosciuto come curatore tradizionale dal ministero della Sanità del Burkina Faso.

Scoperto da una Ong, il suo lavoro è stato presentato negli Usa, e in seguito, nel 2010, Mark Dodd ne ha fatto un documentario: «L’uomo che fermò il deserto».

Yacouba ha vinto il «Right livelihood award», noto come il premio Nobel alternativo, nel 2018, e, poco dopo, l’Onu lo ha insignito del premio «Campioni della terra».

Al di là delle onorificenze , Yacouba si è preoccupato di fare in modo che il suo lavoro non venga perso. Per questo ha formato uno dei suoi figli e ne ha fatto studiare un altro.

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Yacouba Sawadogo nel 2016, e raccontare la sua storia in questo articolo su MC.

Con Yacouba Sawadogo se ne va un grande uomo, che senza proclami altisonanti, ha reso migliore il pianeta.

Marco Bello




Francesco: «Il 2024 segni la svolta»

Per motivi di salute, Francesco – il papa ambientalista, il papa della casa comune – non ha presenziato alla Conferenza delle parti (Cop28) in corso a Dubai fino al 12 dicembre. Tuttavia, non ha fatto mancare il suo messaggio, letto davanti all’assemblea sabato 2 dicembre dal cardinale Pietro Parolin. In esso il pontefice ha usato un tono accorato, ma non ha rinunciato al suo pensiero critico rispetto alla questione climatica.

In primo luogo, ha ribadito le cause del cambiamento climatico: «È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema». Poi, ha scagionato i paesi del Sud dall’accusa di essere inquinatori: «Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti».

È il concetto di «debito ecologico» confermato anche a livello scientifico (The Lancet, settembre 2020): in quanto responsabili di gran parte dell’inquinamento, le nazioni ricche – Stati Uniti, paesi dell’Unione europea, Cina, Russia e Giappone – dovrebbero risarcire e aiutare quelle povere per una transizione ecologica che non li penalizzi ulteriormente.

Quindi, Francesco ha fatto la sua proposta mettendo insieme i due temi a lui più cari: la cura della casa comune e la pace. «Sono le tematiche più urgenti e sono collegate – ha scritto nel suo messaggio -. Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame […] e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico».

Lo scioglimento dei ghiaccai è una delle conseguenze dell’innalzamento delle temperature. (Foto Noaa – Unsplash)

Il messaggio papale ha poi toccato il tema del multilateralismo: «Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica».

Infine, Francesco ha assicurato l’impegno della Chiesa cattolica «nell’educazione e nel sensibilizzare alla partecipazione comune, così come nella promozione degli stili di vita, perché la responsabilità è di tutti e quella di ciascuno è fondamentale».

«Qui si tratta di non rimandare più, di attuare, non solo di auspicare. […] Il 2024 segni la svolta» ha chiosato Francesco nella parte finale del messaggio. Poche ore dopo la lettura dell’intervento papale, Sultan Al Jaber, presidente della Cop28 e amministratore delegato della compagnia petrolifera Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), ha detto che nessun responso della scienza indica che sia necessaria l’eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. A dimostrazione che la speranza del papa non sarà di facile realizzazione.

Paolo Moiola




AIDS. Un morto al minuto

 

Dagli anni Novanta l’Aids ha smesso di terrorizzare l’Occidente industrializzato, però continua a mietere vittime nel resto del mondo.

Secondo i dati diffusi da Unaids, il Programma delle Nazioni Unite per l’Hiv e l’Aids, sono state, infatti, 630mila le persone morte per malattie legate all’Aids nel 2022, 1,3 milioni quelle recentemente infettate dal virus dell’Hiv e 39 milioni quelle totali che nel mondo hanno vissuto con il virus nel corso dello scorso anno. Di queste ultime, più di nove milioni sono ancora prive di cure, tra cui il 43% dei bambini che hanno contratto l’Hiv.

Malgrado ciò, i finanziamenti globali per il controllo del virus sono in costante calo, arrivando nel 2022 a 20,8 miliardi di dollari, gli stessi livelli del 2013.
Una situazione, denuncia Unaids, in contrasto con gli Obiettivi di sviluppo del Millennio che puntano a debellare l’Aids entro il 2030, insieme ad altre gravi malattie come tubercolosi, epatiti virali, malaria.

Eppure, «la fine dell’Aids è possibile, è alla nostra portata, a patto che siano le comunità a condurre il processo», dichiara Winnie Byanyima, direttrice esecutiva di Unaids.

Let Communities Lead (Lasciamo che siano le comunità a guidare) è appunto il titolo del Rapporto con cui Unaids ha lanciato questo Primo dicembre la Giornata mondiale di lotta all’Aids, istituita nel 1988 dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per informare e sensibilizzare sui rischi del virus.

La copertina del rapporto di Unaids

Come si legge nel Rapporto, le persone con Hiv o esposte al rischio di contrarlo, le loro famiglie e i loro gruppi sociali possono essere in prima linea nel fronteggiare l’infezione, a patto di non venire boicottate «dalla carenza di finanziamenti, da ostacoli politici e normativi, dalla negazione dei diritti umani di queste stesse comunità».

Nella lotta all’Aids i progressi più significativi si sono raggiunti proprio in quei Paesi e in quei territori – come l’Africa orientale e meridionale – dove si è investito di più, e dove sono state abolite leggi discriminatorie nei confronti di determinate categorie sociali: omosessuali, consumatori di droghe, sex workers, donne.

Esemplari in tal senso alcuni Stati caraibici (Antigua e Barbuda, Barbados, Saint Kitts e Nevis), le Isole Cook in Oceania, e Singapore, dove le relazioni omosessuali sono state depenalizzate.

Male invece per l’Europa orientale e l’Asia centrale, dove le infezioni sono aumentate del 49% in circa dieci anni, e per il Medio Oriente e il Nord Africa, dove si è registrato un più 61% di infezioni dal 2010 al 2022.

Occorre dunque promuovere la leadership delle comunità – sostenute nella lotta all’Aids da associazioni, Ong e realtà missionarie – favorendo la partecipazione della società civile ai processi decisionali, garantendo la tutela dei diritti umani e un apporto finanziario adeguato, perché «non eliminare l’Aids costa di più che sconfiggerlo», afferma il Rapporto Unaid.

Adesso l’attenzione è puntata sul «target 95-95-95», uno degli obiettivi intermedi indicati dall’Onu per il 2025. Si tratta di arrivare ai seguenti risultati: fare in modo che il 95% di sieropositivi siano consapevoli del proprio stato sierologico, che il 95% abbia accesso ai trattamenti antiretrovirali, che il 95% raggiunga lo stato di soppressione virologica, cioè non trasmetta più l’Hiv.

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021 si è quasi arrivati al 95-95-93 (dati dell’Istituto Superiore di Sanità). La nota dolente rimane quella delle diagnosi tardive, circa il 60 per cento del totale, dovute alla scarsa percezione del rischio e al timore dello stigma.

Restano dunque fondamentali la prevenzione e l’accesso tempestivo alle cure, da cui l’importanza delle Giornate indette per diffondere le conoscenze sul virus.
In Italia, per tutto il fine settimana, la Lila – Lega italiana per la lotta contro l’Aids sarà presente nelle piazze, nelle scuole e nelle università per fornire informazioni e mettere a disposizione test rapidi.

Stefania Garini